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Un libro che qui farebbero meglio a leggere, in molti:"Il Mestiere di vivere" -D

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Suicide Is Painless:
Un libro che qui farebbero meglio a leggere, in molti. Magari ci sarebbe appena un poco più di profondità, e comprensione delle cose:
"Il Mestiere di vivere -Diario 1935- 1950" (Prima Ed. 1952) di Cesare Pavese. Einaudi Tascabili, 2000

Aforismi sparsi tratti da "Il Mestiere di vivere":

027 - "Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre."

028 - "Che in amore chiodo cacci chiodo, sarà vero per le donne, per le quali il problema è appunto come trovare un altro chiodo da ficcarsi in cavità, ma per gli uomini che di chiodo non ne hanno che uno, è meno vero."

033 - "La grande, la tremenda verità è: soffrire non serve a niente."

034 - "La donna si dà come premio al debole e come appoggio al forte."

052 - "A una donna ripugna un uomo che pensi a lei giorno e notte ‒ per la ragione che lei non ci pensa."

065 - "Nessuna donna fa un matrimonio d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un milionario, d’innamorarsene."

072 - "Quando una donna si sposa appartiene a un altro; e quando appartiene a un altro non c’è più nulla da dirle."

081 - "Per le donne non esiste storia."

097 - "Una bella contadina, una bella prostituta, una bella mamma, tutte quelle donne in cui la bellezza non è l’occupazione artefatta di tutta la vita, hanno una dura impassibilità di scherno."

107 - "Morirà e tu sarai solo come un cane. C’è un rimedio?"

108 - "Proprio il contrario di quanto ci hanno insegnato. Da giovani si rimpiange una donna, da maturi la donna."

109 - "La donna che frega un altro per venire con te, fregherà te per andare con un altro."

110 - "Non c’è uomo che non abbia una donna, un corpo umano, una pace."

150 - "Stare in guardia da chi non è mai irritato."

168 - "Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli."












 Il mestiere di vivere è il diario fidato e l'intimo interlocutore di Cesare Pavese dal 1935, anno in cui lo scrittore viene confinato a Brancaleone Calabro, all'agosto 1950, mese in cui si suicida. Einaudi lo pubblica nel 1952, a cura di Italo Calvino, Natalia Ginzburg e Massimo Mila. In queste pagine Pavese sceglie di annotare pensieri e sensazioni, creando un vero e proprio percorso poetico e autobiografico, una sorta di confessione e autoanalisi cosciente e lucida della propria attività di poeta (da Lavorare stanca a La luna e di falò) e del proprio modo di approcciarsi ed interpretare il "mestiere di vivere", da cui Pavese sarà alla fine drammaticamente sconfitto.
 
La prima parte del diario pavesiano, composta mentre l'autore si trovava confinato in Calabria in quanto antifascista, intitolata Secretum professionale si concentra principalmente su una riflessione di ambito letterario e poetico, sulla scia di uno scritto precedente, il Mestiere di poeta (1934), inserito successivamente in Lavorare stanca. Già in questa sezione s'intravedono però quei tratti personali e intimi che si affermeranno con più decisione negli anni successivi.
Il tono espressivo del Mestiere di vivere è da un lato semplice e rapido (come spesso accade quando si dialoga con sé stessi), ma dall'altro contiene tutti i toni e le sfumature della poetica pavesiana. Le tematiche intersecano l'aspetto personale e privato (con particolare attenzione alla perpetua ricerca di un amore che risulta sempre fonte di sofferenza e frustrazione) e la riflessione letterario-culturale, che coinvolge il poeta e narratore in un serrato confronto con se stesso, tra analisi del personale processo creativo, note rapide su letteratura e fatti culturali, e letture personali in corso d'opera. La crisi esistenziale dell'autore e la sottile tensione verso la soluzione suicida scorrono allora parallele nelle pagine diaristiche del Mestiere di vivere; l'unica ragione che porta Pavese a resistere fino al 1950 è la sperimentazione poetica e letteraria, tanto che sarà proprio la cessazione di un rapporto attivo con la scrittura a convincere Pavese a compiere quell'ultimo gesto di totale disperazione.
E la frase che lo scrittore lasciò sul biglietto accanto al letto dell'hotel torinese in cui si tolse la vita il 27 agosto 1950 (“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi") risuona già nelle ultime righe di diario:
 

    Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio.
     
    Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
     
    Tutto questo fa schifo.
    Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

Da Wiki, con una bella pagina contenente un'analisi dell'opera e del suo contenuto:

"ll mestiere di vivere. Diario 1935-1950"

Il mestiere di vivere: diario 1935-1950 è un diario dello scrittore Cesare Pavese nel quale l'autore annota, sotto forma di appunti frammentari, i suoi pensieri e le sue sensazioni. Iniziato dall'autore mentre era al confino di Brancaleone Calabro e continuato fino alla sua morte costituisce la sua autobiografia. Pubblicato per la prima volta nel 1952 da Einaudi a cura di Massimo Mila, Italo Calvino e Natalia Ginzburg, è tra le più importanti opere postume dello scrittore.

Analisi dell'opera

Il diario venne iniziato da Pavese nell'ottobre del 1935 al confino di Brancaleone Calabro, dove era stato mandato nell'agosto di quell'anno a causa di una condanna del tribunale fascista e dove rimase fino al 1936. I pensieri, sempre piuttosto brevi ed incisivi, sono annotati con il giorno e il mese in cui sono stati scritti e si concludono con le note scritte il 18 agosto 1950, pochi giorni prima del suicidio che avvenne il 26 dello stesso mese. Il diario inizia con la sezione "Secretum professionale - Ott.- dic. 1935 e febbr. 1936, a Brancaleone" che chiarisce subito le intenzioni dell'autore e si collega con il discorso che aveva iniziato con il "Mestiere di poeta" del 1934 e pubblicato poi in Lavorare stanca. Rifacendosi al Secretum di Petrarca, l'opera autobiografica che l'autore iniziò nel 1342 strutturata sotto forma di dialogo tra il poeta e Sant'Agostino alla presenza di una donna che simboleggia la Verità, intende richiamarsi alla forma di esperienza adottata dall'autore classico, cioè quella appunto della discussione, che presto diventa discorso con sé stesso, e quindi colloquio interiore che mette in evidenza il rapporto esistente tra il mestiere di poeta e il mestiere di vivere.

Il diario, che ha come precedente nella letteratura italiana moderna solamente lo Zibaldone di Leopardi, segue la linea della tradizione baudelairiana del diario intimo che registra non solo gli avvenimenti, ma che diventa un vero laboratorio di riflessione sul proprio lavoro di letterato e, come scrive Marziano Guglielminetti,[1] "... si presenta come confessione esistenziale, ora sottilmente compiaciuta, ora crudamente impietosa, sino al punto in cui lo scrittore sembra tentare una sorta di psicoanalisi letteraria di se stesso".

In questa sua opera, come hanno evidenziato molti critici, si nota la contraddizione di Pavese che rimane in bilico tra la volontà di chiarezza e l'incapacità di superare quel romanticismo tipico di alcuni suoi atteggiamenti, come l'assillante richiamo al suicidio, il masochistico compiacimento di avvilirsi, il misoginismo, alcune ossessioni sessuali che, come scrive nel suo saggio Sergio Solmi[2], infondono a tutto il diario un accentuato "clima di solitudine esistenziale".

Con una scrittura ridotta all'essenziale e a volte molto cruda, tipica della sincerità che diventa confessione, si evidenziano nel diario i temi di tutta la sua opera, dalla disperata ricerca dell'amore alla tentazione del suicidio come ultima forma di controllo per porre fine ad una vita senza senso.

Nelle pagine di Pavese si è di fronte ad una forte aderenza alla realtà con al centro la quotidianità che contiene la solitudine
« Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia". »

Contenuto

Le prime pagine del diario, quelle del 1935, sembrano essere caratterizzate dalla riflessione teorica sul legame tra poesia e racconto, ma già nelle pagine del 1936 vengono resi precisi quei punti di forza che denotano una riflessione intima ma fortemente strutturata.

Nelle parti successive ritorna il senso liturgico della sofferenza, inteso in senso laico, che è sempre rappresentato da un incontro umano e concreto
« Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t'accompagna e ti fa vivere[3] »

che immancabilmente si risolve in una delusione. Nascono così, nelle pagine del suo diario, nel ripetersi crudele di questo schema, quel tratto misogino che gli fa usare spesso brillanti aforismi sulle donne. I suoi amori, pur nello slancio sia fisico che morale, sono amori impossibili perché si incontrano con quella sua forma di impotenza che lo fa soffrire e gli fa scrivere parole amare:
« Povera gente, i testicoli da cui siamo nati, sono ancora sempre la nostra sostanza. Immensamente più felice è lo scemo, il povero, il malvagio, di cui funzioni il membro, che non il genio, il ricco, l'evangelico, anormale là sotto"[4]. »

Nella visione che Pavese ha della realtà, assolutamente razionale e laica, non c'è possibilità quindi di via d'uscita perché il dolore non serve, come per Kierkegaard, a redimere e come scrive nel diario
« Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente[5]. »

Rimane quindi, per Pavese, la tattica della fuga nel tentativo di evitare un destino che non si può evitare
« C'è un'arte di ricevere in faccia le sferzate del dolore che bisogna imparare. Lasciare che ogni singolo assalto si esaurisca; un dolore fa sempre singoli assalti - lo fa per mordere più risoluto e concentrato. E tu, mentre ha i denti piantati in un punto e inietta qui il suo acido, ricordati di mostrargli un altro punto e fartici mordere - solleverai il primo. Un vero dolore è fatto di molti pensieri; ora, di pensieri se ne pensa uno solo alla volta; sappiti barcamenare tra i molti, e riposerai successivamente i settori indolenziti. »

Pavese, che esige la vita intesa come felicità, comprende che per rinunciarvi è necessaria la morte e il suicidio, inteso come ribellione, rimane l'unica possibilità di uscire, malgrado tutto, vincitore.
« Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte[6]. »

L'ultima, dolorosa nota del diario, conferma ogni sua disillusione nei confronti del mondo e dell'amore, e anticipa quel suicidio che diverrà concreto pochi giorni più tardi
« Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più. »

(in data 18 agosto)

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L'origine di tutti i mali: la bellezza femminile.

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Vicus:
Mi pare che nel mondo letterario e cinematografico, in cui il mito, la fiaba e il fantastico hanno un ruolo preminente, la laicità esista solo a parole.
Per quel che riguarda la felicità, ritengo sia qualcosa di impalpabile, di non riconducibile meccanicamente a beni e situazioni personali: si può avere un ottimo lavoro, una donna meravigliosa (come si sente dire spesso) e non essere felici, e viceversa.
Da notare anche che Pavese non conosce ideali o impegno civile. Una volta l'infelicità quasi non esisteva perché non esistevano i media (o la letteratura) che ci proponevano modelli, materiali ed esistenziali, irraggiungibili.

Duca:
Cavolo quanto l'ho letto da ragazzo il Mestiere, mi ricordo ancora a memoria diversi di quegli aforismi che hai postato nonostante non lo apra da allora, eh il Cesarino era un grande.

Suicide Is Painless:
Concordo. Ma oggi la sensibilità è una colpa.

Suicide Is Painless:

--- Citazione da: Vicus - Marzo 09, 2014, 12:16:48 pm ---Mi pare che nel mondo letterario e cinematografico, in cui il mito, la fiaba e il fantastico hanno un ruolo preminente, la laicità esista solo a parole.
Per quel che riguarda la felicità, ritengo sia qualcosa di impalpabile, di non riconducibile meccanicamente a beni e situazioni personali: si può avere un ottimo lavoro, una donna meravigliosa (come si sente dire spesso) e non essere felici, e viceversa.
Da notare anche che Pavese non conosce ideali o impegno civile. Una volta l'infelicità quasi non esisteva perché non esistevano i media (o la letteratura) che ci proponevano modelli, materiali ed esistenziali, irraggiungibili.

--- Termina citazione ---

L'arresto e la condanna per antifascismo
Cesare Pavese

Nel 1935 Pavese, intenzionato a proseguire nell'insegnamento, si dimise dall'incarico all'Einaudi e incominciò a prepararsi per affrontare il concorso di latino e greco ma, il 15 maggio, in seguito ad altri arresti di intellettuali aderenti a "Giustizia e Libertà", venne fatta una perquisizione nella casa di Pavese, sospettato di frequentare il gruppo di intellettuali a contatto con Ginzburg, e venne trovata, tra le sue carte, una lettera di Altiero Spinelli detenuto per motivi politici nel carcere romano. Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato e incarcerato dapprima alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli a Roma e, in seguito al processo, venne condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Ma Pavese, in realtà, era innocente, poiché la lettera trovata era rivolta a Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" della quale era innamorato. Tina era però politicamente impegnata e iscritta al Partito comunista d'Italia clandestino e continuava ad avere contatti epistolari con il precedente fidanzato, appunto lo Spinelli, e le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo.

Il 4 agosto 1935 Pavese giunse quindi in Calabria, a Brancaleone, e qui scrisse ad Augusto Monti[9] "Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un'inutile castità.

Nell'ottobre di quell'anno aveva iniziato a tenere quello che nella lettera al Lajolo definisce lo "zibaldone", cioè un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere e aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni.

Gli anni del dopoguerra (1945-1950)
L'iscrizione al Partito comunista e l'attività a "L'Unità"

Ritornato a Torino dopo la liberazione, venne subito a sapere che tanti amici erano morti: Giaime Pintor era stato dilaniato da una mina sul fronte dell'avanzata americana; Luigi Capriolo era stato impiccato a Torino dai fascisti e Gaspare Pajetta, un suo ex allievo di soli diciotto anni, era morto combattendo nella Val d'Ossola. Dapprima, colpito indubbiamente da un certo rimorso, che ben espresse in seguito nei versi del poemetto La terra e la morte e in tante pagine dei suoi romanzi, egli cercò di isolarsi dagli amici rimasti ma poco dopo decise di iscriversi al Partito comunista iniziando a collaborare al quotidiano l'Unità; ne darà notizia da Roma, dove era stato inviato alla fine di luglio per riorganizzare la filiale romana della Einaudi, il 10 novembre all'amico Massimo Mila: "Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI".

Come scrive l'amico Lajolo[12], "La sua iscrizione al partito comunista oltre ad un fatto di coscienza corrispose certamente anche all'esigenza che sentiva di rendersi degno in quel modo dell'eroismo di Gaspare e degli altri suoi amici che erano caduti. Come un cercare di tacitare i rimorsi e soprattutto di impegnarsi almeno ora in un lavoro che ne riscattasse la precedente assenza e lo ponesse quotidianamente a contatto con la gente... Tentava con quel legame anche disciplinare, di rompere l'isolamento, di collegarsi, di camminare assieme agli altri. Era l'ultima risorsa alla quale si aggrappava per imparare il mestiere di vivere".

Nei mesi trascorsi presso la redazione de L'Unità conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori e Silvio Micheli che era giunto a Torino nel giugno del 1945 per parlare con Pavese della pubblicazione del proprio romanzo Pane duro.

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