Franceschini è maturato da tanti anni in conclusioni molto vicine persino a quelle dell'ottimo Flamigni, dai cui lavori e dalla collaborazione è stato sperperato il suo eccellente lavoro di tanti anni nel purtroppo orrendo "Piazza delle Cinque Lune" del sempre pessimo e madornale Martinelli, che mi sembra Duca stavi citando. Franceschini era dentro seviziato e picchiato dai CC di Dalla Chiesa nei braccetti politici dei carceri come Pianosa, Trani, Bari, L'Asinara ecc., durante tutta l'ascesa dell'ala militare delle BR confluite poi nel PCC- Partito Comunista Combattente della Balzarani e di Senzani (conosciuto nell'ambito della sua professione pure lui, seppur meno). Curcio ebbe un trattamento -appena- migliore ma era dentro ovviamente anche lui e ha maturato ne sono certo lo ha fatto capire in tante occasioni, le stesse amare considerazioni e custodite verità su Moretti (la "sfinge Moretti" è un suo conìo), Morucci in particolare, Mulinaris e Simioni e il Superclan che difatti lo scaricò ben presto, tutta la sporca faccenda Moro, soltanto che comprensibilmente è ancora poco disposto se lo sarà mai più a questo punto, a preferire dichiarazioni polemiche e rivelatorie (anche se molte più o meno velate, ne ha fatte) ad un contrito e nel suo caso dignitoso silenzio, per cercare di difendere e preservare quel poco di storia delle BR di cui non dovere diventare rossi ma per le bugie, e che lui contribuì comunque determinantemente a fondare.
Per quanto riguarda la dinamica balistica della sparatoria di Via fani ti linko questo passo della pagina Wiki che ho contribuito recentemente a rifare rispetto alla precedente, e modestamente, adesso è molto migliore. Tante cose rilevate dallo stesso Flamigni sono vere, ma è anche vero che in realtà tutta questa grande perizia e bravura dello sparatore della maggior parte dei colpi e della stessa azione, è stata parecchio ingigantita dalla stampa e dalla narrazione carsica dell'evento che si è enormemente ingrossata nei decenni in senso quasi mitologico. In realtà non pare proprio essere stata quest'azione eccezionale dal punto di vista logistico-militare tutt'anzi, come del resto la stessa del sequestro di Hans Martin-Schleyer che la ispirò. Ma qui la forma e le conclusioni dalle diverse fonti raggiunte e raggruppate nella ricostruzione, in un passo decisivo e quasi finale:
"Analisi degli aspetti controversi della ricostruzione dell'agguato" e
"Mancata reazione della scorta"
Nei pochi minuti dell'agguato in via Fani, solo l'agente Iozzino riuscì, essendo seduto nel sedile posteriore destro dell'Alfetta e quindi nel punto più lontano rispetto ai quattro brigatisti travestiti da avieri, a uscire dall'auto e rispondere al fuoco con la sua pistola. Gli altri componenti della scorta furono tutti uccisi o feriti mortalmente all'interno delle auto e furono ritrovati accasciati sui sedili senza aver potuto neppure impugnare le loro armi che peraltro non erano a portata di mano; il maresciallo Leonardi teneva la sua pistola in un borsello riposto sotto il sedile anteriore. Questa mancata prontezza all'uso delle armi fu un errore gravissimo degli uomini della scorta[122]. Sono state analizzate le ragioni di questa mancanza di reazione della scorta. Si è parlato, senza giungere a conferme definitive, della possibile disattivazione da parte brigatista degli stop della Fiat 128 CD[122]; è stata ventilata perfino l'ipotesi che gli aggressori fossero persone conosciute dagli uomini della scorta, in particolare dal maresciallo Leonardi, che quindi in un primo tempo non ritennero di avere nulla da temere da costoro. Questa tesi è stata recisamente respinta da Valerio Morucci che ha affermato che in particolare il maresciallo Leonardi, trovandosi sul sedile anteriore destro, non avrebbe in ogni caso potuto vedere nulla, dato che a suo dire sul lato destro della strada non c'era alcun brigatista[123].
I cadaveri dell'appuntato Domenico Ricci e del maresciallo Oreste Leonardi.
In teoria gli agenti della scorta era addestrati ed esperti; Raffaele Iozzino era un tiratore scelto, il maresciallo Leonardi era un ex-paracadutista, Ricci era in servizio da molti anni come autista di Moro[124]; inoltre disponevano di armi moderne, le potenti pistole individuali Beretta 92 calibro 9 e tre pistole mitragliatrici Beretta M12. Sembra tuttavia dalle risultanze documentali e dalle testimonianze raccolte, che l'addestramento non fosse molto curato e che il personale incaricato della protezione dell'onorevole Moro non avesse la percezione di un imminente pericolo: durante il servizio le armi erano tenute con la sicura attivata mentre i mitra, la cui manutenzione era insufficiente, erano riposti nel bagagliaio[125]. Inoltre il 16 marzo 1978 la scorta sull'Alfetta era guidata per la prima volta dal vicebrigadiere Francesco Zizzi che, provenendo da incarichi amministrativi, non aveva esperienze precedenti come caposcorta. I due capiscorta che si alternavano nel servizio erano il brigadiere di Pubblica sicurezza Rocco Gentiluomo e il brigadiere di Pubblica sicurezza Ferdinando Pallante; in teoria il compito il 16 marzo sarebbe spettato al brigadiere Gentiluomo che però era in ferie e aveva richiesto il giorno precedente al vicebrigadiere Zizzi di sostituirlo per una settimana[126].
La pistola Beretta 92 era l'arma individuale a disposizione degli agenti della scorta.
Dal punto di vista operativo inoltre è stato rilevato come l'auto della scorta viaggiasse troppo vicino alla Fiat 130 dell'onorevole Moro, il che rese inevitabile il tamponamento tra gli autoveicoli e l'impossibilità di trovare spazio per svincolare le auto; secondo la moglie del presidente, Eleonora Moro, il maresciallo Leonardi aveva evidenziato ripetutamente la necessità di mantenere maggiori distanze tra le auto; si erano già in precedenza verificati incidenti durante i trasferimenti; apparentemente però le direttive fornite agli uomini della scorta richiedevano che la loro auto "tallonasse" la Fiat 130 del presidente[127]. Le disposizioni di servizio per le scorte non prevedevano che le armi d'ordinanza fossero impugnate durante il percorso; questo era previsto solo in caso di effettivo pericolo immediato; invece in caso di sosta prolungata delle auto per problemi del traffico, gli uomini della scorta sarebbero dovuti uscire immediatamente dall'auto e schierarsi armi in mano a protezione della macchina della personalità scortata. Di fatto gli agenti evidentemente non percepirono affatto una situazione di pericolo immediato allo stop di via Fani e furono quindi colti di sorpresa dai brigatisti "avieri"[128].
L'onorevole Moro non disponeva di un'auto blindata; a questo riguardo è stato evidenziato come il Ministero dell'Interno in quel periodo disponesse di 28 auto blindate che però erano state distribuite con criteri sorprendenti, assegnandole alcune a persone poco note non esposte a pericoli di attentati politici[129]. La moglie dell'appuntato Ricci testimoniò in sede processuale che il marito era a conoscenza di una richiesta presentata per disporre di un'auto blindata e che Ricci nel dicembre 1977 era in ansiosa attesa dell'arrivo di questo mezzo[130]. Peraltro deve essere rilevato che il 16 marzo 1978 neppure il Presidente del Consiglio Andreotti disponeva di un'auto blindata[131]
In sintesi quindi si può ritenere che la mancata reazione della scorta non sia riconducibile a motivazioni misteriose ma sia stata causata in primo luogo dall'effetto sorpresa dell'agguato brigatista che colse totalmente impreparati gli agenti ed in secondo luogo dalla loro insufficiente preparazione al compito assegnato[132]. Lo stesso maresciallo Leonardi, la persona da molti anni più vicina a Moro e uomo di grande esperienza militare, che pur avrebbe manifestato preoccupazioni per la sicurezza dell'uomo politico e per la mancanza di mezzi e le carenze di addestramento del personale, venne colto di sorpresa da un attacco di violenza e subitaneità completamente inattesa. Il maresciallo Leonardi infatti venne trovato accasciato, in parte voltato sul fianco, all'interno della Fiat 130 in posizione apparentemente naturale; egli non avrebbe tentato alcuna reazione; secondo Valerio Morucci egli si sarebbe unicamente preoccupato di salvaguardare la vita dell'onorevole Moro cercando di farlo abbassare[133].
Il nucleo di fuoco brigatista e perizie balistiche
Le impressionanti modalità e le circostanze reali dell'agguato fecero fin dall'inizio sorgere dubbi sull'identità degli effettivi esecutori[134]; l'apparente perfezione tecnica dell'azione indusse fin dalle prime ore alcune autorità dello stato ad enfatizzare l'abilità militare e la precisione dei terroristi[135]. Anche la prima perizia balistica di Ugolini, Jadevito e Lopez del 1978 scrisse di "studio topografico e balistico perfetto" e di attentato "da manuale"[136]. Le informazioni raccolte da alcuni testimoni oculari, in particolare di Pietro Lalli che si trovava in quei momenti accanto al benzinaio a circa 100 metri dal luogo dell'agguato, riferirono della presenza di almeno un terrorista apparentemente particolarmente addestrato e abile[137]. Altri testimoni affermarono inoltre che probabilmente "uno del commando parlava straniero"[138]; il che fece sorgere immediatamente il sospetto di possibili connessioni con i terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion autori nel settembre 1977 di un sanguinoso attentato contro l'industriale Hanns-Martin Schleyer simile nelle modalità di esecuzione[139]. Fin dall'epoca dei fatti e successivamente nel corso degli anni fu ventilata la possibile presenza in via Fani di uno specialista esterno alle Brigate Rosse; venne fatto il nome di Giustino De Vuono, ex soldato nella Legione Straniera e personaggio equivoco legato alla malavita e al crimine organizzato[140]; alcuni testimoni riferirono di averlo riconosciuto in via Fani[141]. Nel 1993 vennero svolte indagini sulla possibile presenza in via Fani di un altro criminale calabrese, Antonio Nirta; tutte queste ipotesi non hanno mai ottenuto alcun riscontro concreto[142]. Riguardo alla possibile presenza di terroristi tedeschi, in realtà l'unica testimone che parlò di una "lingua ignota" usata dai terroristi fu la signora De Andreis, mentre un'altra ventina di testimoni non confermarono o riferirono di aver sentito urla in italiano; inoltre la De Andreis parlò di lingua sconosciuta "né francese, né inglese, né tedesca"; la teste incorse in alcuni errori durante il suo racconto e nel complesso la sua testimonianza risultò di limitata attendibilità e non confermata da altre[143].
I quattro brigatisti rossi travestiti da avieri Alitalia in via Fani:
Valerio Morucci "Matteo"
Raffaele Fiore "Marcello"
Prospero Gallinari "Giuseppe"
Franco Bonisoli "Luigi"
Dalle testimonianze rese dai alcuni brigatisti, in particolare Moretti, Gallinari, Fiore, Bonisoli e Morucci, sembra che il loro addestramento militare fosse molto limitato; nel corso della fase preparatoria in pratica si sarebbero svolte solo modeste prove di fuoco sul litorale romano per migliorare la dimestichezza con i mitra[144]; ogni brigatista incaricato di sparare si preparò autonomamente e non ci furono vere simulazioni generali con le armi[145]. L'elemento più preparato dal punto di vista tecnico e dell'esperienza con le armi era Valerio Morucci[146].
Secondo Raffaele Fiore, per i brigatisti non era importante saper sparare a lunga distanza od acquisire capacità di mira e tecniche militari speciali; era richiesta invece elevata convinzione ideologica e politica, grande determinazione e capacità di arrivare a distanza ravvicinata dall'obiettivo, avvicinandosi il più possibile[147]. Inoltre nel corso dell'azione tutte e quattro le armi automatiche, delle quali tre erano modelli vecchi di provenienza dai residuati bellici ancora disponibili, si sarebbero successivamente inceppate[148][149]. Queste riferite, presunte carenze addestrative e tecniche dei terroristi hanno sollevato ulteriori dubbi sulla reale, esclusiva responsabilità delle Brigate Rosse nell'agguato. I risultati della prima perizia balistica di Ugolini, Jadevito e Lopez nel 1978 sembrarono accrescere le incertezze e i misteri.
Mitra FNAB-43, il tipo di arma usata in via Fani da Valerio Morucci e Franco Bonisoli
Mitra Beretta M12, l'arma usata da Raffaele Fiore
Mitra TZ45, l'arma usata da Prospero Gallinari.
La perizia stabilì che in via Fani avevano sparato sei armi dei brigatisti, quattro mitra e due pistole, oltre alla pistola d'ordinanza dell'agente Iozzino che esplose due colpi; le armi dei terroristi avrebbero esploso almeno 91 colpi di cui furono ritrovati i bossoli, mentre i proiettili ritrovati furono 68, e 23 risultarono dispersi[150]. Di questi 68 proiettili ritrovati, 61 raggiunsero i bersagli: 27 colpirono la Fiat 130 e 34 l'Alfetta di scorta. Di questi 61 quelli che colpirono effettivamente gli uomini della scorta furono 45, ovvero il 49% del totale di 91, mentre 23 non raggiunsero gli agenti e altri 23 non furono rintracciati. I 45 proiettili raggiunsero: l'appuntato Ricci, 8 colpi, il maresciallo Leonardi, 9 colpi, l'agente Rivera, 8 colpi, il vicebrigadiere Zizzi, 3 colpi, e l'agente Iozzino, 17 colpi[151].
La perizia Ugolini, Jadevito, Lopez cercò anche di attribuire i 91 bossoli repertati a precise armi e giunse alla sorprendente conclusione che 49 di essi sarebbero appartenuti ad un solo mitra, probabilmente di tipo FNAB-43 o Sten; altri 22 bossoli provenivano da un altro mitra FNAB-43; 5 bossoli da un mitra TZ45, 3 da una pistola mitragliatrice Beretta M12, 8 da una pistola Smith&Wesson 9 mm. parabellum e 4 da una pistola Beretta modello 51[152]. Sorse quindi il problema di chi fosse l'attentatore che avrebbe sparato 49 colpi sul totale di 91; in realtà una seconda perizia, Salza e Benedetti negli anni novanta, non confermò queste conclusioni e non fu in grado di attribuire tutti i 49 colpi allo stesso FNAB-43; è possibile, come affermato da Valerio Morucci, che essi appartenessero ad entrambi i mitra di questo tipo in possesso dei brigatisti[153]. Peraltro anche i periti del 1978 stabilirono che del mitra FNAB-43 che avrebbe sparato 49 colpi furono ritrovati solo 19 proiettili di cui appena 7 sul corpo dell'agente Iozzino e 4 all'interno dell'Alfetta, quindi 30 sarebbero andati fuori bersaglio, mentre del secondo FNAB-43 furono recuperati 15 proiettili di cui 4 sul corpo del maresciallo Leonardi e 8 all'interno della Fiat 130. In conclusione dalle percentuali di colpi a segno e dal numero di proiettili sparati non sembra che si possa evincere con certezza una particolare abilità e specializzazione tecnica degli aggressori; è possibile inoltre che i 49 colpi attribuiti presuntivamente ad un solo mitra, peraltro finiti in maggioranza fuori bersaglio, in realtà fossero da suddividere tra i due FNAB-43 a disposizione del gruppo e impiegati da Valerio Morucci contro la Fiat 130 e da Franco Bonisoli contro l'Alfetta[154].
Pistola Smith&Wesson 39, l'arma usata in via Fani da Prospero Gallinari
Pistola Smith&Wesson 39, l'arma usata in via Fani da Prospero Gallinari
Pistola Smith&Wesson 39, l'arma usata in via Fani da Prospero Gallinari
Pistola Beretta M51, l'arma usata da Franco Bonisoli.
I periti inoltre affermarono che verosimilmente gli agenti Rivera e Iozzino e l'appuntato Ricci sarebbero stati raggiunti anche da "colpi di grazia" a distanza ravvicinata; essi infine sottolinearono la capacità dimostrata dai brigatisti di annientare la scorta lasciando illeso l'onorevole Moro[155]. Queste conclusioni della perizia del 1978, che facevano propria in pratica la famosa definizione di Franco Piperno sulla cosiddetta "geometrica potenza" dimostrata dai brigatisti nell'agguato[156], sembra che non tengano nel dovuto conto le reali modalità operative adottate dai brigatisti del nucleo di fuoco.
Sbucando fuori dalle siepi del bar "Olivetti" i quattro brigatisti travestiti da avieri, Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli, percorsero in pochi attimi i circa cinque metri di carreggiata che li dividevano dalle auto dell'onorevole Moro, essendo via Fani larga in quel punto non più di dieci metri, e poterono quindi aprire il fuoco direttamente sui bersagli da una distanza ravvicinatissima che, secondo le valutazioni di Pietro Benedetti, autore insieme a Domenico Salza della perizia degli anni novanta, avrebbe consentito anche a persone non specialiste di colpire agevolmente con armi automatiche gli uomini della scorta senza mettere in pericolo la vita dell'uomo politico[157]. Adriana Faranda affermò davanti alla commissione Stragi che "a quella distanza era quasi impossibile sbagliare" e che con i mitra non era stato neppure necessario mirare[158]. Inoltre dalle perizie risulterebbero anche traiettorie intrasomatiche dall'alto in basso sui cadaveri di Ricci e Leonardi; il fatto dimostrerebbe che i brigatisti "avieri" Morucci e Fiore discesero lungo la leggera pendenza di via Fani e, proprio per evitare il rischio di colpire Moro, si portarono fino a pochi centimetri dalla Fiat 130, sparando all'in giù verso gli agenti[159]. I cosiddetti "colpi di grazia" riferiti da alcune ricostruzioni, non sarebbero altro quindi che colpi esplosi a distanza particolarmente ravvicinata dai brigatisti[136].
Componenti del gruppo brigatista e loro dislocazione in via Fani
Il numero reale dei componenti del gruppo brigatista in via Fani, la loro identità e la loro dislocazione sul luogo dell'azione sono stati fin dall'inizio elementi fortemente discussi e fonti di grandi diatribe e valutazioni ampiamente discordanti in sede processuale, pubblicistica e storica. I brigatisti, collaboranti o comunque interessati a descrivere i fatti di via Fani, hanno fornito nel corso del tempo informazioni spesso contraddittorie, non del tutto attendibili, ed hanno mostrato una notevole reticenza riguardo a questo argomento decisivo.
Inizialmente nessun brigatista direttamente partecipante agli eventi di via Fani collaborò con gli inquirenti e quindi il primo processo, nel 1982, sui fatti del sequestro Moro dovette basarsi su elementi indiziari e sulle testimonianze di alcuni "pentiti", tra cui Patrizio Peci, che non essendo stati coinvolti attivamente, riferirono solo informazioni non molto attendibili apprese in via indiretta. Il primo processo condannò dieci terroristi come responsabili materiali dell'agguato: Mario Moretti, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Raffaele Fiore, Valerio Morucci, Luca Nicolotti e Bruno Seghetti[160]. Fu Valerio Morucci che, a partire dalla sua testimonianza resa davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta del 1983, iniziò a raccontare dettagliatamente i particolari dell'agguato pur rifiutandosi inizialmente di fornire i nomi dei partecipanti. Egli in un primo momento disse che i terroristi coinvolti erano stati "poco più di dodici", quindi durante il processo d'appello del 1985 ridusse il numero a nove partecipanti. In quella sede egli ricostruì le fasi dell'agguato; escluse che Lauro Azzolini, Luca Nicolotti e Adriana Faranda avessero fatto parte del gruppo di via Fani e implicitamente invece confermò che gli altri condannati in primo grado avevano effettivamente concorso al fatto criminale; le sue affermazioni furono ritenute attendibili dalla corte[161].
Autorità e forze dell'ordine in via Fani poco dopo l'agguato.
Nel corso degli anni i brigatisti confermarono la presenza di Moretti, Bonisoli, Gallinari, Balzerani, Fiore, Morucci e Seghetti e diedero una loro parziale ricostruzione dei fatti e del ruolo dei principali partecipanti in via Fani; inoltre Morucci nel terzo processo sul caso Moro rivelò indirettamente che anche Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri erano stati parte del gruppo con il ruolo di copertura posteriore lungo via Fani[162]. Nel 1993 Mario Moretti nel suo libro di memorie descrisse la presenza di un decimo componente, una donna, identificata in un secondo tempo in Rita Algranati, che avrebbe avvistato per prima le auto del politico democristiano e segnalato l'arrivo del convoglio[163]; infine nel 1994 comparve anche il nome di Raimondo Etro di cui venne ritenuta probabile la presenza nella zona il 16 marzo con il compito di raccogliere dopo l'agguato le armi utilizzate dal gruppo di fuoco[164].
Tuttavia, sulla base delle risultanze processuali e dell'inchieste delle commissioni parlamentari, le versioni dei brigatisti, modificate numerose volte durante gli anni, non sono state ritenute del tutto esaurienti; in questa sede, ed anche a livello pubblicistico, si è continuato a ritenere che il numero dei partecipanti in via Fani sia stato più alto. In particolare, oltre ad ipotizzare la presenza di altre persone all'incrocio di via Stresa in appoggio della Balzerani e di un'altra persona già a bordo della Fiat 128 blu su cui sarebbero fuggiti Morucci, Balzerani e Bonisoli[165], è stato ritenuto soprattutto altamente probabile che almeno altri due terroristi fossero presenti a bordo di una moto Honda, come riferito fin dall'inizio da almeno tre testimoni tra cui l'ingegnere Alessandro Marini che, a bordo di un motorino all'incrocio di via Fani con via Stresa, avrebbe visto i due sulla moto, ricevendo anche dei colpi di mitra che colpirono il suo parabrezza[166]. Anche l'agente della Polizia stradale non in servizio Giovanni Intrevado che, con la sua Fiat 500, venne bloccato all'incrocio di via Stresa da una donna armata di mitra senza poter intervenire, riferì di aver visto una moto di "grossa cilindrata" con due uomini a bordo[167]. La presenza di altri militanti su una moto Honda è invece sempre stata smentita dai brigatisti[168][169].
Inoltre dal racconto di alcuni testimoni, tra cui lo stesso ingegnere Marini, e dalle risultanze delle perizie sui cadaveri, in sede processuale si sono raggiunte conclusioni parzialmente discordanti rispetto alla versione dei brigatisti sulla esatta modalità dell'agguato; queste ricostruzioni prevederebbero la presenza di un altro uomo a bordo della Fiat 128 CD accanto a Moretti[170]. Sarebbe stato quest'uomo, secondo la perizia del processo del 1993, che sarebbe sceso dal lato destro della Fiat 128 CD e avrebbe aperto il fuoco dalla destra della strada colpendo subito mortalmente il maresciallo Leonardi. Questa ricostruzione permetterebbe di spiegare le direzioni dei colpi rilevate dalle perizie sui corpi del maresciallo Leonardi, nove colpi rinvenuti con orientamento da destra a sinistra, dell'agente Rivera, cinque colpi da destra a sinistra, e forse dell'agente Iozzino e del vicebrigadiere Zizzi, su cui le perizie sono più incerte[171]. Sull'identità di questo ipotetico brigatista in azione sul lato destro della strada non si è giunti a conclusioni realmente attendibili anche se lo scrittore Manlio Castronuovo ritiene che egli fosse Riccardo Dura, brigatista genovese particolarmente determinato, morto nel 1980 nello scontro di via Fracchia a Genova[170].
I brigatisti hanno sempre escluso la presenza di loro militanti sul lato destro della strada e hanno evidenziato che essi aprirono il fuoco solo dalla sinistra per evitare gravissimi rischi di incidenti fortuiti con la possibilità di colpirsi tra loro per errore[172]. In effetti deve essere rilevato che la maggior parte dei testimoni oculari riferirono soltanto di aver visto un numero variabile di "avieri" sparare dal lato sinistro della strada contro le auto ferme[173]. Riguardo alla eventuale presenza di Riccardo Dura in via Fani, Valerio Morucci la escluse decisamente in sede processuale rivelando che il brigatista genovese effettivamente era stato in un primo tempo compreso nel gruppo con il ruolo di aiutare Barbara Balzerani all'incrocio di via Stresa, ed era anche giunto a Roma dove abitava nell'appartamento di quest'ultima[174], ma alcuni giorni prima dell'agguato si decise di rinunciare alla sua partecipazione[175].
La fuga dei brigatisti
Le circostanze della fuga dei brigatisti hanno suscitato dubbi, e le ricostruzioni fornite dai terroristi non hanno mancato di provocare incredulità e scetticismo negli inquirenti e negli storici e giornalisti. Secondo i racconti dei brigatisti, in via Bitossi sarebbe state parcheggiate preventivamente, senza occupanti a bordo, il furgone su cui era previsto il trasbordo dell'ostaggio e la Citroën Dyane; questo particolare è sembrato sorprendente perché proprio in via Bitossi stazionava sempre l'autoradio del Commissariato di Monte Mario che ogni giorno fungeva da scorta del magistrato Walter Celentano[176]. Inoltre i due agenti dell'autoradio, Nunzio Sapuppo e Marco Di Bernardino, dichiararono di non ricordare alcun furgone presente quella mattina in via Bitossi[177].
Posti di blocco della polizia durante il sequestro Moro; i tentativi di intercettare i terroristi non ebbero alcun successo.
Il 16 marzo 1978 la centrale operativa della Questura, dopo aver ricevuto il primo allarme, allertò per prima proprio questa autopattuglia che partì subito da via Bitossi e raggiunse in pochi minuti via Fani percorrendo però un percorso via Pietro Bernardini, Piazza Ennio, via della Camilluccia e via Stresa che impedì di incrociare le auto in fuga dei terroristi. Abbandonando via Bitossi, quindi gli agenti non poterono intercettare i brigatisti che furono liberi di salire sul furgone e la Dyane. Non è sembrato molto chiaro perché fosse stata allertata per prima proprio quell'autopattuglia in servizio di scorta, dato che, secondo la testimonianza di un agente della Polizia stradale non in servizio presente casualmente, Renato Di Leva, in via Stresa sarebbe stata presente un'altra auto di servizio, che viaggiava con i segnali di allarme accesi, e che avrebbe incrociato le auto dei brigatisti[178]. Non è stata mai chiarita l'effettiva presenza nella zona di una seconda auto della polizia nei primi minuti dopo il sequestro[179].
La testimonianza di Francesco Pannofino, presente vicino all'edicola in via Fani nei momenti dell'agguato, aggiunge ulteriori dubbi; egli riferì che dopo la fine della sparatoria vide un'Alfetta bianca (o un Alfa Romeo Alfasud) da cui scesero alcuni uomini in borghese con la paletta della polizia, che sarebbero arrivati nei primissimi minuti sul luogo e avrebbero dato segno di disperazione alla vista dei colleghi morenti. Dalla documentazione fotografica di quella mattina sembrerebbe di identificare un'auto Alfasud, parcheggiata sul lato sinistro di via Fani, con una targa del Ministero degli Interni. Non si hanno notizie precise neppure di questa circostanza, né sull'identità di questo personale in borghese che sarebbe giunto ancor prima dell'autopattuglia di Monte Mario[180].
Inoltre alcuni scrittori hanno messo in dubbio tutto il percorso di fuga riferito dai brigatisti nei loro racconti; soprattutto la decisiva deviazione su via Casale de Bustis che permise di far perdere le tracce. Inizialmente molti testimoni segnalarono le tre auto in fuga; addirittura un ex agente di polizia, Antonio Buttazzo, trovandosi vicino a via Fani, assistette al conflitto a fuoco e quindi seguì per un tratto con la sua auto la Fiat 132 dei terroristi con il sequestrato a bordo. Giunto in largo Cervinia, Buttazzo vide giungere un'auto della polizia a cui indicò la direzione di fuga dei terroristi, ma i poliziotti non riuscirono a riprendere l'inseguimento, apparentemente proprio perché i brigatisti deviarono bruscamente su via Belli-via Casale de Bustis[181].
In giallo è indicato il quartiere Portuense in Roma dove si trova via Camillo Montalcini.
Secondo Sergio Flamigni il racconto dei brigatisti non è credibile; secondo lui sarebbe inspiegabile la presenza di efflorescenze impigliate nella Fiat 132 che vennero repertate nell'auto rinvenuta in via Licinio Calvo; inoltre non ci sono testimonianze oculari da via Massimi in avanti. Una donna, Elsa Maria Stocco, che vide un'auto da cui discese un uomo in divisa d'aviere senza cappello (verosimilmente Valerio Morucci) con una valigetta in mano, riferì che in realtà nel furgone sarebbe stata già pronta un'altra persona alla guida. Il trasferimento del sequestrato all'aperto in Piazza Madonna del Cenacolo, come asserito dai brigatisti, apparentemente era molto rischioso, essendo presenti nell'area numerosi palazzi, locali pubblici e un forte traffico di veicoli[182].
Si è ritenuto anche poco credibile che durante tutta la lunga seconda parte della fuga, fino al parcheggio sotterraneo di Piazza dei Colli Portuensi, fossero presenti solo tre brigatisti, Moretti, Morucci e Seghetti, insieme al sequestrato nascosto nella cassa; in caso di complicazioni o posti di blocco, un numero così modesto di militanti non sarebbe stato in grado di proseguire l'azione. In precedenti sequestri le Brigate Rosse avevano impiegato un maggior numero di autoveicoli e di militanti per assicurare la riuscita dell'operazione[183].
Anche l'ultima parte del percorso di fuga, fino a via Montalcini 8, presenta alcuni punti oscuri. Dai racconti dei brigatisti risulta che ai Colli Portuensi era gia in attesa Prospero Gallinari; non è chiaro però come egli potesse essere già arrivato e con quali mezzi fosse giunto nel parcheggio sotterraneo da Piazza Madonna del Cenacolo dove il gruppo iniziale si era diviso. Ci sono contraddizione inoltre su chi fosse effettivamente presente ai Colli Portuensi, oltre a Gallinari, per il trasbordo finale di Moro sull'auto di Anna Laura Braghetti. Secondo Moretti nel parcheggio erano in attesa Gallinari e la stessa Braghetti; secondo quest'ultima invece fu Germano Maccari che si recò all'appuntamento mentre lei sarebbe rimasta in ansiosa attesa in casa; Maccari infine riferì che egli non si mosse dall'abitazione e che l'auto con il sequestrato fu condotta in via Montalcini solo da Moretti e Gallinari[184].
Infine è stato sollevata ancora un'altra questione: secondo il racconto dei brigatisti solo Mario Moretti e Prospero Gallinari conoscevano tutti i dettagli del piano di fuga e soprattutto l'ubicazione dell'appartamento dove sarebbe stato nascosto Aldo Moro. Nel caso in cui fossero sorti problemi durante l'azione in via Fani con il ferimento o la morte di questi due brigatisti non è sembrato chiaro come i militanti superstiti avrebbero potuto proseguire l'operazione. In realtà altri due brigatisti, Valerio Morucci e Bruno Seghetti, pur ignorando la base di via Montalcini, erano a conoscenza dell'ultimo appuntamento nel parcheggio dei Colli Portuensi dove sapevano che sarebbero stati in attesa i militanti destinati a custodire l'ostaggio[185]. Secondo la Braghetti in caso d'emergenza era anche stato previsto che questi due brigatisti avrebbero potuto momentaneamente trasferire il sequestrato in un altro luogo in attesa che un nuovo componente del Comitato Esecutivo scendesse dal nord per prendere la direzione dell'operazione al posto di Moretti[186].
Altre questioni materia di discussione
Indizi precedenti l'agguato
Dalle informazioni raccolte dopo i fatti e dalle testimonianze posteriori di una serie di personaggi, sembrerebbe che prima del 16 marzo 1978 fossero stati rilevati alcuni segni inquietanti per la sicurezza dell'onorevole Moro. Una moto e appostamenti sospetti furono notati nelle vicinanze dello studio dell'uomo politico[187], il maresciallo Leonardi sembra che avesse manifestato forti preoccupazioni, le minacce delle Brigate Rosse verso la Democrazia Cristiana erano ormai sempre più esplicite, nell'ambiente del Movimento e dell'estremismo di sinistra romano erano diffuse voci di un imminente, spettacolare, azione delle BR nella capitale; un equivoco studente russo, Sergeij Sokolov, risultato poi un agente del KGB, ebbe contatti con Moro nell'ambito universitario[188]. Un oscuro personaggio statunitense, Ronald Stark, avrebbe fornito ai carabinieri informazioni sul possibile sequestro di un importante uomo politico a Roma, apparentemente senza provocare alcun allarme.
Inoltre durante la stessa giornata del 16 marzo alcuni testimoni segnalarono che Renzo Rossellini avrebbe annunciato l'agguato ed il sequestro di Aldo Moro, dall'emittente radiofonica Radio Città Futura, intorno alle ore 08:15-08:20, quindi ancor prima dello svolgimento dei fatti; uno dei testimoni ricordò di aver ascoltato la frase: "forse rapiscono Moro"[189]. Rossellini ha sempre smentito questa circostanza ed ha affermato che egli effettivamente aveva parlato nelle sue trasmissioni, sulla base di considerazioni personali e di voci diffuse negli ambienti estremistici, solo di un prevedibile incremento dell'attività terroristica in corrispondenza con la nuova fase politica, senza fare alcun nome. Non essendo disponibili registrazioni della trasmissione di Radio Città Futura, non si è potuto giungere a conclusioni definitive[190].
Nel corso degli anni sono state svolte approfondite indagini su tutti questi fatti senza riscontrare alcun collegamento con gli eventi del sequestro e con le Brigate Rosse; risultò che Sokolov era stato anche controllato dai servizi segreti italiani ma senza riscontrare nulla. Stark invece era un personaggio torbido e la sua storia rimane di dubbia attendibilità. In pratica, tutti i cosiddetti "segnali premonitori" sul momento non sembrarono molto allarmanti, nel quadro della situazione reale italiana degli anni settanta, e solo a posteriori, dopo i tragici fatti, sono stati considerati potenzialmente importanti per prevenire l'attacco eversivo[191].
Possibili interferenze esterne
Alcune circostanze sorprendenti hanno favorito il sorgere di sospetti sulla possibile presenza in via Fani di componenti estranee alle Brigate Rosse e sull'eventualità che i servizi segreti italiani fossero a conoscenza in anticipo dell'agguato ed avessero evitato di intervenire per prevenirlo.
Nel 1990 l'agente del SISMI Pierluigi Ravasio rivelò per la prima volta che il suo superiore diretto all'interno del servizio segreto militare, colonnello Camillo Guglielmi, era stato presente in via Fani nel momento dell'agguato il 16 marzo 1978; dalle indagini subito espletate risultò in effetti che il colonnello Guglielmi quella mattina si stava recando in via Stresa 117 verso le ore 09:30. L'ufficiale peraltro disse di aver seguito vie laterali e di non essersi affatto accorto dell'agguato di cui avrebbe avuto notizia solo dopo essere arrivato a casa del collega, colonnello D'Ambrosio, da cui aveva ricevuto, a suo dire, un invito a pranzo. La circostanza della presenza di un ufficiale del SISMI nei pressi di via Fani il mattino del 16 marzo 1978 ha sollevato notevoli dubbi; alcuni hanno ritenuto che questo fatto confermasse che i servizi segreti erano preventivamente a conoscenza delle intenzioni dei brigatisti o addirittura che personale dei servizi fosse direttamente coinvolto. Si è inoltre affermato che Guglielmi avrebbe anche espletato il ruolo di addestratore del personale di Gladio a Capo Marrargiu in Sardegna[192][193].
In realtà non esistono elementi concreti di conferma ed inoltre deve essere rilevato che al momento dei fatti il colonnello Guglielmi non era ancora alle dipendenze del SISMI ma era a disposizione della Quarta brigata carabinieri e prestava servizio a Modena; lo stesso Ravasio all'epoca non era ancora un agente del SISMI né di Gladio[194]. Un altro elemento di sospetto è risultato dalla singolare vicenda di Bruno Barbaro, cognato del colonnello Fernando Pastore Stocchi, dirigente della base di Capo Marrargiu e collaboratore del generale Vito Miceli. Barbaro possedeva un ufficio nel palazzo ad angolo tra via Fani e via Stresa; poco prima del 16 marzo 1978 egli avrebbe ceduto questo locale a dei giovani non meglio identificati che vi sarebbero rimasti fino a dopo il sequestro; è stata ventilata l'ipotesi che si trattasse di personale dei servizi; peraltro non è stato trovato alcun riscontro documentale per avvalorare questi sospetti[195].
Esiste inoltre il sorprendente racconto di Antonino Arconte, ex agente della cosiddetta "Gladio delle centurie", struttura segreta denominata anche "SuperSID" all'interno dell'organizzazione Gladio, comandata dal generale Vito Miceli. Arconte ha rivelato che il 2 marzo 1978 ricevette l'ordine di recarsi in Libano per organizzare insieme ad un altro agente, colonnello Mario Ferraro, trattative segrete tramite i palestinesi, con le Brigate Rosse per favorire la liberazione di Aldo Moro. Il responsabile del progetto sarebbe stato il colonnello Stefano Giovannone, persona conosciuta anche dallo stesso Moro che lo citò nelle sue lettere dalla prigionia come possibile intermediario. Da questo racconto si evincerebbe quindi che quindici giorni prima di via Fani i servizi erano già a conoscenza delle intenzioni delle Brigate Rosse ma non avrebbero fatto nulla per bloccare il loro piano[196].
Deve tuttavia essere evidenziato che il racconto di Arconte, persona con condanne per calunnia e traffico di stupefacenti, presenta contraddizioni ed aspetti inattendibili. In primo luogo il colonnello Ferraro nel 1978 non era affatto presente in Libano, dove giunse solo nel 1986; la procedura che sarebbe stata adottata per eseguire la missione, viaggio in nave fino a Beirut, sembrerebbe molto lenta e poco pratica ai fini di un compito così urgente e importante; le disposizioni di segretezza dei documenti da consegnare, lettera scritta non in codice, sembrerebbero molto superficiali; l'autenticità dei documenti presentati da Arconte non è stata confermata con certezza; non esistono altre fonti che possano confermare il racconto[197].
I brigatisti "avieri"
I quattro brigatisti travestiti da avieri nella finzione cinematografica del film "Il caso Moro", regia di Giuseppe Ferrara.
I quattro brigatisti, "Matteo", "Marcello", "Giuseppe" e "Luigi", incaricati di eliminare gli uomini della scorta erano travestiti da avieri Alitalia con lunghi impermeabili azzurri e berretti con visiera dello stesso colore. Questa particolare circostanza fu subito rilevata da numerose persone presenti sul luogo dell'agguato e riferita nelle diverse testimonianze rese agli inquirenti; numerosi testimoni videro prima dell'agguato questi uomini vestiti con divise azzurre e berretti con visiera camminare nelle vie circostanti via Fani o ferme davanti al bar "Olivetti"[198].
Sul motivo di questa singolare travestimento sono sorte quindi discussioni e interpretazioni discordanti. Si è ritenuto che i quattro indossarono questo travestimento per riconoscersi tra loro, soprattutto perché qualcuno dei componenti sarebbe stato estraneo al gruppo brigatista e non appartenente all'organizzazione. I brigatisti invece hanno sempre sostenuto che le divise Alitalia servivano soprattutto ad evitare di insospettire gli abitanti della zona. Nel caso che si fosse dovuto rinviare più volte l'azione, la presenza ripetuta di alcuni sconosciuti nello stesso punto avrebbe potuto suscitare curiosità e segnalazioni alle forze del'ordine; al contrario presentandosi come dipendenti in uniforme dell'Alitalia, apparentemente in attesa del pulmino per recarsi sul luogo di lavoro, i quattro sarebbero certamente stati notati ma non avrebbero insospettito le persone sul posto[199].
La scelta di via Fani
Nel corso degli anni è stata spesso riproposta la questione della perfetta scelta da parte brigatista del luogo giusto per effettuare l'attentato, ventilando la possibilità che fossero stati favoriti da "poteri oscuri" che li informarono dell'esatto percorso delle auto del presidente. Alcuni scrittori hanno asserito che il percorso seguito dalle auto variava continuamente e che non era affatto prevedibile che quel 16 marzo l'onorevole Moro sarebbe transitato proprio in via Fani. In realtà le testimonianze degli uomini della scorta dell'uomo politico che erano in turno di riposo quel giorno e di alcuni suoi collaboratori non confermarono queste affermazioni e riferirono cose molto differenti[200].
Questi militari, i brigadieri Pallante e Gentiluomo, gli agenti Pampana e Lamberti e l'appuntato Riccioni, affermarono che l'onorevole Moro era molto metodico e nella maggior parte dei casi trascorreva la prima parte della mattinata secondo orari precisi e seguendo sempre le stesse attività; da circa quindici anni egli, quando non aveva impegni straordinari, usciva quasi sempre alle ore 09.00 dalla sua abitazione in via del Forte Trionfale e si faceva portare alla Chiesa di Santa Chiara. Il percorso seguito per raggiungere la chiesa era sempre lo stesso tranne in casi particolari legati a problemi di traffico; di regola seguiva via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Mario Fani, via Stresa, via della Camilluccia. Quindi i brigatisti, avendo svolto un'approfondita indagine preliminare sulle abitudini del presidente, furono in grado di prevedere con ragionevole certezza che in via Mario Fani si sarebbe presentata l'opportunità di organizzare l'agguato[201].
Il ritrovamento delle auto in via Licinio Calvo
Secondo le ricostruzioni fornite dai brigatisti, le tre auto impiegate per l'attacco di via Fani e il sequestro dell'onorevole Moro furono abbandonate tutte insieme nello stesso momento in via Licinio Calvo, una strada secondaria a senso unico nel quartiere Trionfale, dopo il completamento del trasbordo dell'ostaggio in Piazza Madonna del Cenacolo. Effettivamente la Fiat 132 blu venne rinvenuta lungo quella strada dalle forze dell'ordine fin dalle ore 09:23, ma le altre due non furono individuate subito: la Fiat 128 bianca venne ritrovata alle ore 04:10 del 17 marzo e la Fiat 128 blu solo alle ore 00:30 del 19 marzo, sempre in via Licinio Calvo[202].
Dalle indagini effettuate sembrerebbe che la versione dei brigatisti non sia veritiera; alcune testimonianze affermerebbero che le altre due auto non erano presenti nei primi minuti dopo il sequestro; da alcune riprese televisive sembra di poter escludere che le due Fiat 128 fossero sul posto al momento del ritrovamento della Fiat 132 blu. Secondo gli inquirenti, dopo il primo ritrovamento venne effettuato un accurato controllo di tutte le auto parcheggiate lungo la via e non fu trovata traccia delle altre macchine del sequestro[203]. Viene quindi ritenuto probabile che le due Fiat 128 furono abbandonate dai brigatisti in via Licinio Calvo solo in un secondo momento.
Rimane da chiarire se effettivamente gli inquirenti effettuarono tutti i controlli necessari lungo la strada dopo il ritrovamento della Fiat 132 blu e soprattutto il motivo per cui i brigatisti lasciarono tutte e tre le auto, verosimilmente in tempi diversi, nello stesso punto, correndo notevoli rischi di essere individuati. È stata ventilata l'ipotesi che i brigatisti disponessero di una base logistica nei pressi di via Licinio Calvo, dove le macchine sarebbero state nascoste dopo il sequestro e da dove sarebbero state spostate di notte lungo la strada[204].
Le foto mancanti
Non esistono fotografie o filmati effettuati durante l'agguato di via Fani, ma una persona, il carrozziere Gherardo Nucci, scattò una serie di fotografie immediatamente dopo lo scontro a fuoco. Rientrando alle ore 09:00 a casa, in via Fani 109, percorrendo via Stresa, quest'uomo arrivò sul luogo della strage, salì nella sua abitazione e dal quinto piano effettuò le riprese fotografiche. Il rullino con queste foto fu poi consegnato agli inquirenti che lo trattennero. Tuttavia tutte queste foto sono scomparse; il magistrato Infelisi affermò che, essendo di nessuna rilevanza, non furono acquisite agli atti per il processo e quindi furono riconsegnate a Nucci che peraltro ha invece sostenuto che gli furono restituite solo le foto professionali presenti nel rullino insieme a quelle di via Fani[205].
La scomparsa di queste foto ha fatto sorgere nuovi interrogativi; si è ritenuto che in queste immagini avrebbero potuto essere presenti indizi importanti per le indagini, che fossero riconoscibili personaggi, estranei alle Brigate Rosse, coinvolti nell'agguato. Si è parlato di un presunto interesse da parte di ambienti malavitosi calabresi per queste foto; infine alcuni hanno ritenuto che dalle foto sarebbe stato possibile individuare altri brigatisti di supporto, presenti in zona in funzione di osservatori, dopo l'attentato[206].
Le borse di Moro
Aldo Moro aveva nella Fiat 130 cinque borse, tra cui una, contenente apparentemente documenti di grande importanza, che egli portava sempre con sé; un'altra borsa conteneva medicinali, mentre nelle ultime tre c'erano tesi di laurea dei suoi studenti e bozze di lavoro. I brigatisti affermarono di aver sottratto due di queste cinque borse; Valerio Morucci le recuperò dall'auto e le caricò prima sulla Fiat 128 blu e quindi sul furgone; quindi queste borse, che, secondo i terroristi, contenevano medicinali e documenti dell'università, sarebbero finite in un primo tempo in via Montalcini, da dove Moretti le avrebbe poi fatte uscire per analizzare il materiale in sede di Comitato esecutivo. Il contenuto appantemente venne ritenuto di scarso rilievo e distrutto[207].
È sorto quindi il problema della sorte della borsa contenente, a dire anche della moglie del presidente, documenti di grande importanza, forse interessanti anche lo scandalo Lockheed. Dopo l'agguato gli inquirenti recuperarono prima due borse nei sedili posteriori della Fiat 130, la mattina del 16 marzo, e quindi una terza borsa, nel bagagliaio posteriore dell'auto, cinque giorni più tardi; tutte queste borse non contenevano documenti di rilievo. Non è chiaro quindi il destino della borsa, a cui lo stesso Moro fece riferimento in alcune delle sue lettere durante il sequestro, con i documenti più riservati. Dalle testimonianze oculari dell'agguato, in particolare quella di Pino Rauti, sembra che Moro avesse in mano una borsa quando fu fatto scendere dai brigatisti e trascinato nella Fiat 132 blu; è stato ritenuto possibile che fosse questa la borsa più importante e che sia caduta a terra durante il trasbordo dell'ostaggio. Un fotografo, giunto dopo circa quindici minuti dall'agguato, scattò un'immagine di una borsa di pelle nera a terra. Si è ventilata la possibilità che qualcuno, nella confusione dei primi minuti, abbia raccolto la borsa dal piano stradale facendola sparire inizialmente e ricomparire in un secondo momento, privata dei documenti più importanti[208].
La moglie del presidente, che osservò le auto e inizialmente non vide alcuna borsa, ha affermato di ritenere che qualcuno in un primo tempo si sarebbe impossessato della borsa con i documenti riservati e poi l'avrebbe rimessa all'interno della Fiat 130 poco prima dell'arrivo della polizia scientifica dopo aver sottratto i fogli più importanti[209].
Conclusioni
Per approfondire, vedi Caso Moro e Cronaca del sequestro Moro.
« Quel gruppo armato aveva compiuto una vera prodezza, un'azione militare perfetta, come non ne avevo mai viste prima »
(Affermazione di Steve Pieczenik, consulente statunitense del ministero degli Interni durante il sequestro Moro[210])
In sede di consuntivo permangono indubbiamente alcuni elementi poco chiari riguardo agli avvenimenti del 16 marzo 1978 anche se, nel complesso, la maggior parte dei particolari fondamentali dell'agguato è ormai stata accertata con buona approssimazione[211]. Secondo Andrea Colombo le dichiarazioni dei brigatisti sono sostanzialmente concordanti e in pratica non c'è alcun elemento per ritenere che "fatti sconosciuti" di rilievo esistano e possano modificare "la ricostruzione tecnica o la valutazione storico-politica" dell'agguato di via Fani[212]. Peraltro non mancano scrittori che invece continuano a considerare inattendibile l'intera ricostruzione giudiziaria dell'agguato di via Fani e screditano completamente le testimonianze dei brigatisti; Rita Di Giovacchino è giunta ad ipotizzare che in realtà Aldo Moro non sarebbe stato sequestrato in via Fani ma in un altro luogo in precedenza e che l'attentato cruento fu solo una montatura per sviare le indagini e le ricerche[213].
I dettagli più importanti che meriterebbero un chiarimento sono: l'eventuale presenza di una moto Honda sul luogo della strage e l'identità delle due persone a bordo; il numero effettivo dei componenti del gruppo brigatista presente in via Fani, è possibile infatti che il nucleo fosse più numeroso e che almeno altre tre persone fossero coinvolte, tra cui almeno una che avrebbe sparato da destra contro la Fiat 130 all'inizio dello scontro a fuoco; la questione delle borse di Moro e del loro effettivo contenuto; la scomparsa delle foto scattate da un abitante della zona subito dopo l'agguato e mai ritrovate; la dinamica esatta del trasbordo finale della cassa con Moro e del percorso compiuto dai brigatisti fino in via Montalcini 8[214]. Resterebbe inoltre da chiarire l'eventualità, che sembrerebbe di riscontrare da alcune circostanze singolari, che i servizi segreti fossero a conoscenza in anticipo dell'attacco brigatista[211].
Tuttavia nonostante la presenza di questi elementi ancora oscuri, in conclusione secondo il magistrato Carlo Nordio, consulente della Commissione Stragi, dal punto di vista tecnico, l'esito dell'agguato, con l'annientamento completo della scorta in pochi secondi, non presenta aspetti importanti inspiegabili ma derivò sostanzialmente dalla "sproporzione tra l'efficienza operativa del gruppo di fuoco brigatista e l'incauto dilettantismo della scorta e di chi l'aveva istruita"[215]. Alle stesse conclusioni erano già giunti i consulenti della Commissione Moro che sottolinearono l'importanza decisiva del fattore sorpresa, descrivevano le capacità tecnico-militari dei brigatisti come di "livello medio" e valutavano l'agguato come "abbastanza agevole anche per individui non addestrati in modo speciale". I consulenti evidenziarono soprattutto l'accurata pianificazione dei brigatisti e la loro approfondita conoscenza dei luoghi e delle abitudini dell'obiettivo; infine sottolinearono come la "criminale efficienza" dei brigatisti derivò dalla loro forte determinazione e dalla grande motivazione. Essi conclusero smentendo decisamente la tesi che, per le sue modalità e i suoi risultati, l'agguato di via Fani avrebbe richiesto il contributo di esperti militari e di particolari addestramenti specifici[216].
Dal punto di vista dei brigatisti, Valerio Morucci, che definisce gli uomini della scorta "vigili e pronti"[217], ha evidenziato come anche la fortuna aiutò i terroristi e come il mattino del 16 marzo non si verificarono imprevisti significativi, tranne "l'inevitabile inceppamento di alcune armi"[218]. Franco Bonisoli e Raffaele Fiore hanno parlato della grande coesione del gruppo dei brigatisti "superiore a quella di un normale commando"; Bonisoli in particolare, ha minimizzato le carenze degli agenti di scorta e ha evidenziato la rapidità di esecuzione della complessa operazione[219]. I brigatisti, la cui capacità militare non era superiore a quella degli agenti della scorta e che disponevano di armi antiquate, avevano studiato un piano efficace che, sfruttando l'effetto sorpresa e la velocità, raggiunse il pieno successo[220]. Nelle condizioni reali del 16 marzo 1978, nei pochi secondi dell'agguato di via Fani, fu quindi impossibile per gli uomini della scorta sopravvivere all'improvviso attacco.