Cinema, uomini, solitudini, e amicizia:
"L'Amico immaginario"
Drammatico, psicologico, Nico D'Alessandria, 1994, [Italia]
In ricordo del grande Victor Cavallo, e rimandando anche ad altro topic sul nostro "Volontè del riflusso" da definizione di Tullio Kezich.
Un cenno alla trama da Film Tv:
L'inadeguatezza della vita di Dino, un intellettuale di cinquant'anni, è evidente sia nei suoi rapporti con le donne che con il figlio. La morte di Daniele, un amico fraterno, dovrebbe aumentare la sua solitudine, ma, attraverso questa scomparsa, Dino coltiverà una nuova forma di presenza, dedicandosi a una figura immaginaria.
Bel ritratto, pieno di pudore, del dramma della solitudine. Aggiorna in qualche modo una vicenda raccontata da un bel film di François Truffaut, "La camera verde", nel quale l'ex giovane turco, oltre a fare il regista, interpreta appunto il ruolo di un uomo che perde la moglie e si dedica al ricordo di lei.
Dopo aver lasciato Gerry Sperandini vagare tra le rovine di una Roma degradata al ritmo di Rock nell’Imperatore di Roma, al suo secondo film Nico d’Alessandria, cineasta indipendente della capitale, ci consegna la storia sincera, minimale, ma densa di contenuti enunciati più che espressi al ritmo torpido di jazz intimista di Soldino Writer, un intellettuale romano, inadeguato e disincantato di fronte a questa vita e alle prese con una profonda crisi depressiva che lo paralizza e immobilizza entro le pareti domestiche o lo fa errare senza meta nelle pinete romane. Di fronte allo smacco esistenziale, alla desertificazione, qoelettizzazione e apocalitticizzazione della propria vita, l’unico rimedio contro una infelicità cosmica insanabile sembra essere il dormire. Il presente si è fermato, non ci sono più soluzioni da tentare, la quotidianità si tinge solo di banalità, di vuoto, di assenza di tutto (andare dall’ottico, portare ad aggiustare le scarpe, pagare le bollette), rimane solo il passato, che emerge alla coscienza dell’io narrante del protagonista come elenco, inventario dei propri fallimenti esistenziali, magari da raccontare di fronte allo psichiatra, delle confutazioni nichilistiche di qualsiasi progettualità positiva, non rimane che lo stato di sospensione, la solitudine, l’impossibilità di concretizzare il proprio diritto alla felicità. Siamo ben oltre l’al di là del principio di piacere di freudiana memoria e totalmente all’interno del pandemonismo, al male metafisico eracliteo/shopenhaueriano. Nessun Dio può essere giustificato di fronte a tale male, qualsiasi teodicea risulta inconsistente se non ridicola, rimane solo il buio pesto di kafkiana memoria che avvolge Savoldino Writer all’interno della chiesa e che il lumicino da lui acceso non riesce a penetrare. La vita sottostà all’abbraccio imperante della morte, della nientificazione, qualunque esperienza è destinata a finire, non si afferma che il lutto dei propri affetti, dei propri ricordi delle persone che ti sono state vicino, così che il vivere diventa l’esperienza della reiterazione del morire e insieme alla dipartita per infarto dell’amico prete o alla rottura con le proprie donne se ne va irreparabilmente anche una parte intima del protagonista. Resistono alla distruzione del tempo solo gli oggetti, gelosamente e feticisticamente conservati, a testimonianza di un passato dissoltosi, immaterializzatosi, tracce di un mondo scomparso e al contempo vivo solo nella coscienza di Savoldino. Eppure Savoldino riesce a superare il tempo della morte, entrando in una nuova dimensione riconciliata, ateisticamente pasquale (cfr. la scena della barba che sembra non crescere più, e la seguente affermazione che oggi è giorno di festa), che lo riconduce ad un vitalismo di Nietzschiana memoria (il ricominciare a correre nel parco) che è quello della regressione infantile psicotica schizofrenica, l’uomo nuovo che Nico d’ Alessandria ci propone è l’uomo che sprofonda compiaciuto nella follia. Il principio di realtà viene scardinato dall’immaginazione, in una sorta di simbiosi tra regista e protagonista così che il mondo viene reinventato, l’amico morto può essere risuscitato e continuare a vivere come fantasma gentile che guida il protagonista sostenendolo nella nullità del quotidiano, la possibile caduta sulla saponetta nella doccia si trasforma magicamente in un incidente evitato e così via. Di fronte alla iniziale lucida consapevolezza del trauma esistenziale Savoldino e con lui il regista rispondono rilanciando escapiscamente nello stupore taumatico platonico del Teeteto. Alla tentazione della folle e disperarata fuga all’interno dei mondi possibili dell’immaginazione svincolata dalle morse stritolanti, soffocanti, annichilenti del reale dell’amico immaginario mi è ancora più piaciuto di più il punk nichilista, violento espressionista del no future urlato a ritmo di rock esistenziale dell’imperatore di Roma, eticamente più sostenibile e disincantato
Suicide Is Painless with Marcojes
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