L'IMPUTATO AVEVA CHIESTO ALL'HOTEL DI CANCELLARE LE PROVE DELLA SUA PRESENZA
Non pagare la prostituta è uno stupro
Sentenza della Cassazione: confermata la condanna per
violenza sessuale e privata ad un uomo di Sestri Levante
MILANO - Se la prostituta non viene pagata per la sua prestazione sessuale, il cliente può essere
condannato per violenza sessuale, ovvero per stupro. È quanto emerge da una sentenza con cui la
Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni di reclusione inflitta dalla Corte d'appello di Genova ad un
cinquantenne di Sestri Levante accusato, appunto, di violenza sessuale e violenza privata per avere avuto
con una lucciola un rapporto in un albergo senza il pagamento del corrispettivo precedentemente
concordato. L'imputato è stato condannato anche a risarcire i danni alla vittima con una provvisionale di
duemila euro.
LA RICOSTRUZIONE - Secondo la ricostruzione effettuata dai giudici, l'uomo non aveva pagato una
prostituta e quindi era finito sotto processo perché aveva voluto comunque consultare il rapporto. Il
cinquantenne aveva fatto ricorso dopo la sentenza sostenendo che i giudici del merito avevano ricondotto
tutto «al giudizio di assoluta attendibilità della teste, parte offesa, e di credibilità di quanto da essa
dichiarato in merito allo stato di soggezione che avrebbe causato nella donna una supina accettazione delle
iniziative sessuali del prevenuto». La Suprema Corte (terza sezione penale, sentenza n.8286), ha rigettato il
ricorso: «la vicenda non può inquadrarsi - spiegano gli "ermellini" - in quella fattispecie particolare nella
quale la donna risulta consenziente all'inizio del rapporto sessuale, per poi, manifestare il proprio dissenso
a continuarlo», visto che, nel caso in esame, la vittima aveva già manifestato all'imputato «di essere solo in
attesa del pagamento del dovuto, per l'attività dalla stessa prestata, come in origine concordato tra le
parti». Insomma, in mancanza di un pagamento in denaro la donna non aveva alcuna intenzione trascorrere
momenti di intimità con il cinquantenne.
«COSCIENTE DEL SOPRUSO» - Correttamente, scrive la Cassazione, i giudici di merito hanno
ritenuto che «non sussiste dubbio» che l'imputato avesse «piena coscienza e consapevolezza» del
«sopruso che stava consumando in danno della donna: il comportamento di costui - si legge nella sentenza
- ne costituisce prova, in occasione della richiesta al portiere dell'albergo di distruggere le schede di
permanenza nell'hotel» dove, evidentemente, era avvenuto l'incontro. Ciò, osserva la Supprema Corte,
evidenzia «il desiderio dell'imputato di non lasciare traccia della permanenza, circostanza spiegabile solo
con lo scopo di precostituirsi la possibilità di una futura negazione, che non avrebbe avuto senso se colà si
fossero consumati rapporti consensuali e non imposti».
Prove ippognubili. Uno che va a troire, deve lasciare nome, cognome e timbro