Non entro nel merito della bravura tedesca o del doppiogiochismo italiano.
Su questi temi Guareschi (mio idolo personale
) scrisse pezzi di critica sul comportamento italiano ma anche moltissimi pezzi di lode degli italiani, sosteneva che l' "italiano medio" è quello che se ne frega di come vanno le cose fino a che non è nella m... fino al collo. A quel punto tira fuori il massimo dell'intelligenza e dell'abilità (grassetto il riferimento)
Una delle storie più belle che fanno capo a questo filone è quello della Caterina, radio costruita dagli italiani prigionieri nel campo di concentramento (gli IMI, gli internati militari italiani, coloro che rifiutarono di fare il salto della quaglia e continuarono a prestare fedeltà al Re)
La ripubblico qua, anche se forse è off topic, con corredato un link di maggiore spiegazione.
"IL TRIONFO DELLA CATERINA- di G. Guareschi
Qualcuno dei miei ventitrè lettori mi ha domandato se questa mia animosità nei riguardi della RAI tragga origine da un fatto personale o da idiosincrasia. Posso rispondere che la stessa irritazione provavamo io e i miei amici quando l’Ente radiofonico di Stato si chiamava EIAR e si comportava come si comporta oggi la RAI. Quando cioè, ogni sera, al microfono della radio, c’era che ci spiegava che la guerra andava ogni giorno più vittoriosamente e ci insegnava come deve comportarsi un bravo italiano. Fino a quando nel febbraio del 1943, il settimanale Bertoldo, di cui ero redattore capo, sparava un violentissimo attacco contro il più autorevole e seccante dei commentatori radiofonici ufficiali. Era la prima volta che un giornale osava tanto sotto il Regime d’allora, e la cosa fece un chiasso maledetto e quel numero di Bertoldo diventò una rarità e raggiunse prezzi astronomici.
Nessun fatto personale, nessuna allergia nei riguardi della radio di Stato o della radio in generale. Anzi: ci fu un periodo in cui la radio rappresentò anche per me qualcosa di estremamente importante, di vitale, perché anche per me, sepolto assieme a seimila altri ufficiali dell’ex Regio Esercito Italiano in un Lager, la radio fu l’unico legame con il mondo dei vivi.
Si chiamava Caterina ed era figlia della disperazione e della genialità italiana. Genialità che, purtroppo, si manifesta soltanto quando gli italiani sono nei guai fino agli occhi. Quando le cose procedono normalmente e quando – come ora – l’anormalità diventa normale, gli italiani si adagiano sul “tira a campare” e assistono inerti, addirittura divertiti, alla loro rovina. Ma è difficile immaginare come gli italiani diventino intelligenti quando si trovano nei pasticci. Nessun popolo al mondo ha simili doti di recupero ed è tanto fermamente deciso a sopravvivere. Io avevo scritto sulla fiancata della mia cuccia: “Non muoio neanche se mi ammazzano”: in fondo questo puo’ essere il motto dell’italiano nei guai.
La Caterina era una trappoletta di centimetri 9x10x5. Nacque nel campo di concentramento di Sandbostel e, per quanto la Gestapo ne conoscesse l’esistenza e la cercasse rabbiosamente, non riuscì a scoprirla mai. Anzi, riuscì ad andarsene da quel campo per entrare in un altro e fece, infine, urlare d’entusiasmo il comandante americano arrivato con le truppe liberatrici: la voleva ad ogni costo, ma dovette accontentarsi di scattarle una quantità enorme di fotografie, perché la Caterina era troppo importante per chi l’avesse costruita e ne aveva fatto l’unica arma di difesa spirituale.
Nacque dal niente dicevo: dal niente in senso relativo, naturalmente. Come l’Eterno Padre, per costruire Eva, partì da una costola di Adamo, i costruttori di Caterina partirono da una piccola valvola. Questa valvolina “LQ5”, introdotta nel Lager Dio sa come, era l’unico pezzo non arrangiato di tutta la Caterina. Il resto fu costruito coi normali mezzi di cui puo’ disporre un uomo che si trovi nudo in mezzo a un prato di trifoglio.
Non occorre essere dei tecnici per comprendere che disporre d’una sola valvolina rappezzata con catrame tolto dalla copertura delle baracche e pretendere di cavarne un apparecchio radio ricevente è come disporre solo di uno spinterogeno e pretendere di cavarne un’automobile perfettamente funzionante.
Un certo arnese, detto “condensatore variabile di sintonia” venne, per esempio, costruito con la latta di un barattolo raccattato nell’immondizia e con pezzi di celluloide ritagliati da buste portatessera. L’altro essenziale arnese, chiamato “condensatore fisso” venne costruito con stagnola e cartine da sigarette, mentre la “resistenza fissa” ebbe, come materia prima, la carta nella quale era avvolta la margarina della razione, trattata con grafite di matita.
In un portasapone da barba, trovò posto il gruppo “Bobine, antenna, sintonia, variometro”. Il tutto costituito da filo isolato da bobina, cartone arrotolato a cilindro e cera di candela che funzionava a meraviglia perché tutti l’avevano abilmente illusa chiamandola “paraffina”. Qui, però, fu necessario l’aiuto del Grande Reich. Occorrevano filo isolato da bobina e dei magnetini per costruire la cuffia: come si possono trovare queste cose in un campo di concentramento?
Il trovarobe notò che il sergente addetto all’ufficio postale del campo,ogni giorno, lasciava per qualche ora la sua bicicletta appoggiata alla baracca. Studiò gli orari e, una mattina – lavorando a pochi metri dalla sentinella appostata sulla torretta – tolse la dinamo dal fanale. Poi, tolti filo e magnetini, la riavvitò alla bicicletta. L’impresa fu compiuta dall’ing. Carlo Martignago. Eravamo molto amici ma, adesso, non mi saluta più perché ho osato scrivere con una certa irriverenza un articolo sugli “alfisti” e lui è un “alfista”.
L’ing. Olivero, creatore della Caterina, stabilì a un certo momento che aveva bisogno di una batteria anodica: per costruirla si dovettero miracolosamente racimolare tra i seimila prigionieri venti vecchie monete di rame da dieci centesimi, poi ritagliare venti dischetti dalla copertura di zinco delle vasche di legno dei lavatoi e venti dischetti di panno da una coperta. Il tutto, disposto nell’astuccio di una vecchia pila tascabile, veniva posto in grado di fornire 20 volts teoretici corrispondenti a tre quarti d’ora di ricezione, con acido acetico ricavato dai pochi fortunati che ricevevano da casa qualche pacco rallegrato da scatolette di sottaceti.
Coi magnetini del sergente e altre cosette racimolate Dio sa come, più un barattolino di latta e un dischetto di cartone, venne costruita la cuffia con un solo auricolare.
Il congegno chiamato “comando della reazione” fu trovato, grazie al cielo, già bell’e pronto e si chiamava Olivero.
Mi spiego. Il Centro-radio aveva sede in una specie di magazzinaccio, una baracca piena di stracci pidocchiosi e di zoccoli spaiati e fangosi. Nella stamberga esisteva il castello semisfasciato d’uno di quegli orrendi pollai a sei posti che ci erano assegnati come letti. Il tenente Olivero si appollaiava su una traversa orizzontale del secondo ripiano, tenendo una gamba penzoloni nel vuoto. Cuffia all’orecchio, con la sinistra sorvegliava i comandi della Caterina, con la destra scriveva ricevendo in italiano, tedesco, francese e inglese. La gamba penzolante nel vuoto si alzava e si abbassava continuamente e questa era la “regolazione micrometrica del comando della reazione” in quanto, avvicinando e allontanando il piede dal pavimento di terra battuta preventivamente inumidito, variava la capacità d’antenna. Antenna che era rappresentata, a sua volta, dallo stesso corpo dell’operatore perché il tenente Olivero teneva fra i denti il filo che partiva dal “piede d’antenna”.
Questa insomma era la famigerata Caterina che la Gestapo cercava rabbiosamente coi tele goniometri, senza mai poterla trovare, perché, attorno alla nostra trappoletta, esisteva una colossale rete di protezione composta da 12.000 occhi, 12.000 orecchie e 6.000 cervelli. E, non appena qualcosa d’insolito veniva notato nel campo, la Caterina smetteva di ricevere e, nascosta dentro una gavetta da alpino, viaggiava per il campo passando di mano in mano.
Per noi, la Caterina era il miracolo. Era la vittoria dell’intelligenza contro la fame, il freddo, l’angoscia, la solitudine e il sopruso. Perché la Caterina funzionava meravigliosamente bene e riceveva tutte le più importanti emittenti europee. E solo attraverso la Caterina noi sapevamo cio’ che avveniva nel mondo. La Caterina tesseva per noi l’invisibile ma tenacissimo filo che legava migliaia di disperati al pilone della speranza.
Le notizie captate dalla Caterina, e immediatamente tradotte, circolavano scritte su brandelli di carta per tutto il campo. E, tradotte in francese, entravano anche nel campo dei prigionieri francesi.
C’era chi si era disegnata, un po’ a memoria e un po’ basandosi su cartine strappate a qualche Atlantino De Agostini sfuggito alle infinite perquisizioni, una carta del teatro di guerra, e, su di essa, si segnava – grazie sempre alla Caterina – l’avanzata delle truppe che dovevano venire a tirarci fuori dal reticolato. E quando nei primi giorni dell’aprile 1945 il cerchio si strinse intorno a noi, e la guerra si portò a ridosso del reticolato, e sopra le nostre teste incominciarono a fischiare i proiettili delle artiglierie, non fu una sorpresa. Fu il trionfo della Caterina".
http://www.radio-caterina.org/it/caterina13.php