Autore Topic: Dott.Marco Vantaggiato: Violenza domestica: la fallacia dei paradigmi di genere.  (Letto 1926 volte)

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Fonte : http://it.avoiceformen.com/propaganda-femminista/violenza-domestica-la-fallacia-dei-paradigmi-di-genere/

Violenza domestica: la fallacia dei paradigmi di genere
August 2, 2014 By albertov 0 Comments

“Violenza domestica: la fallacia dei paradigmi di genere

Dott. Marco Vantaggiato

Il fenomeno della violenza domestica continua ad occupare sempre più spazio non solo all’ interno della cronaca locale e politica del nostro paese, ma vede un costante e progressivo spiegamento di forze (a livello europeo, nazionale e regionale) che si adoperano attraverso campagne di sensibilizzazione, iniziative di prevenzione e di recupero delle vittime, a contrastare e ad arginare un fenomeno che ormai è uscito dalla sfera privata ed è divenuto un vero e proprio crimine che coinvolge l’ intera comunità.

Nonostante gli enormi progressi che sono stati compiuti vi è purtroppo la tendenza, da parte dei ricercatori e delle istituzioni a considerare la violenza domestica come una violenza “sessuata”, intendendo con ciò una forma di violenza che non solo ha come unici aggressori gli uomini e come uniche vittime le donne, ma che nasce dallo squilibrio relazionale dei sessi ed ha come obiettivo il totale controllo della donna al fine di perpetuare il suo stato si sottomissione (French, 1993; Longo, 1995; Pence e Paymar, 1993; Parsi, 2000, 2008; Stock, 1991, 1998; Worcester, 2002).

Queste posizioni fanno soprattutto capo alle teorie femministe e alle teorie di genere che vedono nel patriarcato la causa fondamentale della violenza domestica, intendendo con la parola patriarcato una struttura sociale che educa gli uomini al dominio e al controllo pressoché totale delle donne, limitandone le scelte e l’ autonomia decisionale.

Che sia la paura ancestrale nei confronti delle donne (Valcarenghi, 2007), l’ invidia del grembo (Parsi, 2000, 2008) o la messa in atto di un comportamento culturalmente e socialmente approvato da una società misogina (Dobash e Dobash, 1979) ciò che le teorie femministe e di genere fanno è ritrarre un quadro in cui la violenza domestica è originata esclusivamente da fattori socioculturali e dove gli uomini sono gli unici aggressori mentre le donne le uniche vittime.

Questo tipo di approccio, così rigido e monolitico è stato duramente criticato da numerosi studiosi (Archer, 2002; Corvo e Johnson, 2003; Dutton e Nicholls, 2005; Dutton, 1994, 2006; Farrell, 2001; George, 2003; Hamel, 2005; Pimlatt-Kubiak e Cortina, 2003; Sarantakos, 2001) in quanto veicolante una serie di errori e di personali convinzioni che hanno a che vedere con la visione del fenomeno secondo un’ ottica femminista capace di distorcere in modo grave le realtà dei fatti e, di conseguenza, di non essere in grado di proporre validi interventi sia di prevenzione che di trattamento verso chi commette tali violenze e verso le vittime stesse.

Cerchiamo dunque di illustrare quali sono gli errori più comuni che si ritrovano nel momento in cui si seguono le ricerche, i risultati e gli interventi dei ricercatori e dei clinici che aderiscono alle teorie di genere.

Selettività nelle ricerche e nelle citazioni

I ricercatori che aderiscono alle teorie di genere hanno come scopo quello di mostrare i dati della violenza domestica esclusivamente come violenza sulle donne; questo perché vi è la convinzione, come riportato sopra, che la violenza sia dettata dal mantenimento del potere e dei “privilegi maschili” conservati dal patriarcato. La conseguenza di questo atteggiamento produce una serie di errori metodologici in quanto vi è l’ errore di fondo di voler a tutti i costi confermare le proprie teorie piuttosto che cercare di falsificarle. Tra le scelte metodologiche più comuni troviamo il fare ricerca su campioni specifici della popolazioni i cui risultati vengono poi indebitamente riversati sulla popolazione generale, come ad esempio chi effettua inchieste e misurazioni sulle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza o sugli uomini arrestati e mandati in terapia per ordine del tribunale (Dutton, 2005; Hamel, 2005); un altro errore viene anche da alcune ricerche nazionali promosse dallo stato che solitamente mostrano maggiori tassi di vittimizzazione femminile e di perpetrazione maschile.

Riguardo a questo genere di ricerche le obiezioni da rivolgere sono le seguenti:

in alcune ricerche nazionali l’ indagine viene presentata come una ricerca volta a rilevare la “violenza contro le donne”, di fatto ponendo dei filtri che impediscono una corretta stima delle violenze verso gli uomini (Dutton e Nicholls, 2005); quanto segue è confermato dal National Violence Against Women Survey (Tjaden e Thoennes, 1998) e dall’ ISTAT che nel 2006 ha promosso un’ indagine comprendente anche gli episodi di violenza domestica dove gli uomini non erano contemplati come vittime ma solo come autori di reato;
in Canada è stata promossa un’ indagine denominata Canadian Violence against Women survey (Johnson e Sacco, 1995) attraverso la CTS, uno strumento in grado di rilevare gli episodi violenti all’ interno della coppia/famiglia, episodi valutati come la conseguenza di una situazione conflittuale tra i partner (Straus, 1979). La CTS è una scala che viene somministrata ad entrambi i partner, uomini e donne, tuttavia Johnson e Sacco hanno omesso di somministrare la parte relativa alle violenze perpetrate alle donne le quali hanno dovuto rispondere solo in riferimento agli episodi di vittimizzazione subiti;
in riferimento al NVAWS (Tjaden e Thoennes, 1998, 2000) Johnson e Leone (2005) hanno cercato di studiare le coppie in cui venivano commesse le violenze più gravi ma lo hanno fatto prendendo solo gli uomini in qualità di aggressori; le donne non sono state considerate né si è cercato di valutare se potevano rientrare in questo profilo (intimate terrorist);
riportiamo infine il report molto acclamato e stimato dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità (Krug, Dahlberg, Mercy, Zwi, Lozano, e World Health Organization, 2002) secondo il quale la maggior parte delle violenze commesse dalle donne è dovuta all’ autodifesa, ovvero alla minaccia alla propria incolumità; tale conclusione si basa erroneamente su tre studi: il primo (Saunders, 1986) aveva rilevato che solo un terzo delle donne aveva ricorso alla violenza per proteggersi (31% del gruppo che aveva commesso violenze lievi vs. 39% che aveva commesso violenze gravi), dunque i due terzi delle donne avevano aggredito per altri motivi; il secondo (DeKeseredy, Saunders, Schwartz, e Shahid, 1997) aveva trovato che solo il 7% delle donne aveva utilizzato forme di violenza per difendersi dal partner, mentre il terzo (Johnson e Ferraro, 2000) è un articolo che riprende anche l’ autodifesa delle donne quale motivo principale per usare la violenza, senza confermare quanto detto dal report, citando i due studi precedenti (Saunders, 1986; DeKeserdy et al., 1997) e non fornendo dati originali.
L’ uso di tali metodologie unito alle iniziative governative che mostrano le donne come uniche vittime influisce sulla percezione della violenza domestica nei confronti degli uomini come un crimine. Questo potrebbe influire non poco sulla capacità di rilevare gli uomini vittime di violenza da parte della partner in quanto si è visto che gli uomini si rivolgono alla polizia con una frequenza dieci volte inferiore rispetto alle donne (Stets e Straus, 1992a).

Sempre per quanto riguarda la metodologia di conduzione della ricerca tra gli operatori e i ricercatori sostenitori delle teorie femministe e di genere vi è la tendenza a porre domande alle donne unicamente sugli episodi di vittimizzazione, mentre agli uomini sono solitamente riservate le domande che fanno riferimento alle violenze commesse; è inoltre possibile osservare la selettività con cui vengono scelte le persone alle quali porre i questionari: trattasi solitamente di donne provenienti dai centri antiviolenza e da uomini condannati dal tribunale; in altre occasioni i comportamenti degli uomini vengono rilevati dalle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza o alle case-rifugio (“shelters”). Occorre rendere chiaro che le donne che si rivolgono a questo tipo di strutture non sono rappresentative della popolazione generale e nemmeno delle donne che hanno subito violenza, così come non possono essere rappresentativi della popolazione maschile gli uomini presi dal tribunale o le cui descrizioni sono fornite dalle partner che si sono rivolte a strutture specialistiche antiviolenza. In altre occasioni è possibile osservare come alcuni ricercatori omettano di rilevare la violenza femminile nel momento in cui esaminano entrambi i partner oppure non propongono le stesse interpretazioni dei comportamenti degli uomini quando devono analizzare le condotte violente femminili: Coker, Davis, and Arias (2002) hanno analizzato i risultati del NVAW il cui campione consisteva di 6790 donne e 7122 uomini per evidenziare le conseguenze sulla salute fisica e psicologica delle vittime; i risultati hanno mostrato come uomini e donne manifestano conseguenze simili dovute agli abusi, tuttavia gli autori hanno spiegato che, poiché gli uomini vittime possono essere anche gli autori degli abusi, le conseguenze fisiche e psicologiche potevano essere dovute più al fatto di essere i perpetratori piuttosto che le vittime. Questa ipotesi non è stata considerata per le donne e gli autori non hanno presentato alcuna ragione per questa scelta.

Johnson (1995) presenta, in un articolo molto citato, due differenti forme di violenza che si manifesta all’ interno della coppia: una forma di violenza minore che produce danni di lieve entità e investe entrambi i partner (common couple violence) e una forma grave e cronica di violenza chiamata terrorismo patriarcale, le cui vittime risultano essere le donne; naturalmente, la distinzione della violenza in queste due categorie e l’ esclusione di un terrorismo matriarcale sono dovute al fatto che Johnson ha tratto le sue conclusioni sulle donne ospitate nei centri antiviolenza, per cui tale operazione presenta un limite molto grave (Hamel, 2005). Le inchieste nazionali (Stets e Straus, 1992a, b) mostrano invece come la frequenza violenza grave da parte della donne/violenza lieve da parte dell’ uomo e violenza grave da parte della donna/nessuna violenza da parte dell’ uomo siano rispettivamente intorno al 12% e al 11.8%, il triplo rispetto al pattern inverso.

DeKeserdy e Schwartz (1998) hanno chiesto ad un campione di donne violente con il proprio partner se avevano aggredito quest’ ultimo per difendersi dai suoi attacchi; nonostante il campione fosse composto anche da uomini a nessuno di questi sono state poste domande su eventuali vittimizzazione subìte o sull’ uso della violenza al fine di difendersi, bensì solo domande relative alle violenze perpetrate verso la partner. Per quanto riguarda invece l’ uso della violenza a scopi difensivi, nonostante la maggior parte delle donne aveva dichiarato di non aver mai usato la violenza per tali scopi (sia nel gruppo che aveva impiegato forme lievi, 422 donne su 678 che gravi, 205 donne su 356) DeKeserdy e Schwartz hanno concluso che la maggior parte delle donne è violenta verso il partner al fine di difendersi dai suoi attacchi (gli attacchi del partner!).

Babcock, Waltz, Jacobson e Gottman (1993), Jacobson, Gottman, Waltz, Rushe, Babcock e Holtzworth-Munroe (1994) e Jacobson e Gottman (1998) hanno classificato gli uomini che commettono violenze verso la partner in due categorie: pit bull (impulsivi) e cobra (freddi e strumentali); sulla base di questa classificazione Babcock, Waltz, Jacobson e Gottman (1993) hanno condotto un indagine sulle donne maltrattate dal proprio partner. Le violenze che queste donne potevano aver inflitto al proprio uomo non sono state prese in considerazione, ma ciò che colpisce di più è il lavoro empirico che ha portato gli autori alla classificazione degli uomini violenti in “cobra” e “pit bull”; tale lavoro si è basato sui resoconti di un campione di 57 donne, ma l’ aspetto più interessante sono le considerazioni degli autori sulla metodologia d’ intervento. Infatti, secondo i resoconti delle donne metà di loro sarebbe potuta essere inclusa nel gruppo di coloro che avevano commesso violenza verso il partner se il criterio di scelta avesse incluso la violenza da parte delle mogli (Jacobson, Gottman, Waltz, Rushe, Babcock e Holtzworth-Munroe, 1994, pp. 983). La conseguenza di questa scelta naturalmente si riflette sulla rappresentazione della violenza domestica poiché il lettore, il ricercatore e il clinico sono indotti a pensare che tale violenza sia esclusivamente unilaterale, ovverosia dell’ uomo verso la donna.

Altri errori di questo tipo possono essere tranquillamente riscontrati in numerosi autori che adoperano le teorie femministe e di genere per leggere i dati sulla violenza (Jaffe, Lemmon e Poison, 2003; Saunders, 1988; Dobash e Dobash, 1979, Dobash, Dobash, Wilson, e Daly, 1992, Hirigoyen, 2006; Pence e Paymar, 1993; Yllo e Bogard, (Eds.) 1988; Walker, 1989) che non esitano ad etichettare qualsiasi critica scientificamente fondata e qualsiasi dato sulla violenza femminile come un “contrattacco” (“Backlash”, vedere Faludi, 1981) al movimento femminista (DeKeserdy e Schwartz, 2003; Worcester, 2002) con lo scopo di perpetuare la dominazione maschile.

L’ omettere i dati della violenza femminile è anche reso evidente dal minimizzare l’ impatto che questa può avere sugli uomini; spesso è possibile riscontrare ciò in una breve citazione corroborata da ricerche vecchie e che non tengono conto dei dati più recenti.

Luberti (2005) sottolinea, citando un contributo di Serra (1999), come, sebbene le donne possano essere responsabili di episodi di violenza verso gli uomini, le ricerche abbiano dimostrato che in caso di violenze fisiche le donne subiscano ferite nel 99% dei casi. Luberti tuttavia ignora sia i risultati emersi negli Stati Uniti (Stets e Straus, 1992a, b) sia i risultati del General Social Survey (Brown, 2004; Laroche, 2005), sia infine i risultati dello studio meta analitico di Archer (2000) e l’ analisi dei dati del NVAWS condotta da Pimlatt-Kubiak e Cortina, (2003). Tutte queste ricerche si distinguono dalle indagini solitamente svolte dai ricercatori che fanno capo alle teorie di genere in quanto traggono i loro risultati dai dati presi dalla popolazione generale.

Specificamente e sinteticamente, queste ricerche hanno messo in luce che:

le donne sono risultate violente tanto, se non di più degli uomini (Archer, 2000);
la maggior parte della violenza in famiglia o all’interno di una coppia è reciproca, seguita dalla violenza grave da parte di una donna, seguita dalla violenza grave da parte dell’ uomo (Stets e Straus, 1992a, b); sono molti di più gli uomini a non reagire di fronte ad una violenza grave perpetrata da una donna che non il contrario;
uomini e donne sono risultati ugualmente “unilateralmente terrorizzati” nei confronti della violenza esercitata dalla/dal partner, hanno riportato numerose ferite che hanno richiesto un intervento medico ed hanno visto le loro attività quotidiane compromesse (Laroche, 2005);
le donne sono risultate più propense a riportare ferite e a richiedere un trattamento medico ma la differenza rispetto agli uomini non è risultata così ampia come si è soliti credere; lo studio meta analitico di Archer (2000) ha evidenziato per la possibilità di rimanere feriti durante il corso di un episodio violento un effect size di 0.15 pari a circa 1/6 di una deviazione standard, mentre per quanto riguarda il richiedere un trattamento medico l’ effect size è risultato essere 0.08, pari a un 1/12 di una deviazione standard. In conclusione, uomini e donne non differiscono così tanto rispetto alle conseguenze che le violenze possono lasciare a livello fisico;
a livello psicologico occorre infine notare che l’ analisi del NVAWS, molto citata dai ricercatori aderenti alle teorie femministe e di genere ha visto negli uomini e donne soffrire in modo simile gli effetti dalle violenze da un punto di vista psicologico (Pimlatt-Kubiak e Cortina, 2003). La conclusione di questo imponente studio (N = 16,000) è che è la durata all’esposizione alla violenza e non il genere, a determinare l’ estensione e la gravità delle conseguenze negli uomini e nelle donne.
Per quanto riguarda la violenza psicologica, sebbene continuamente si dichiari che le donne sono solite esercitare questo tipo di violenza, allo stato dei fatti rarissimi sono stati i tentativi di misurare gli effetti di tali comportamenti sugli uomini, mentre le ricerche abbondano per quanto riguardano le violenze psicologiche subite dalle donne. L’ ultima indagine in Italia è stata effettuata dall’ ISTAT che, lo ricordiamo, non ha incluso gli uomini nella sua rilevazione. Ciò non si spiega in quanto, se è vero che il genere influisce dal punto di vista della resistenza fisica alle ferite, non si capisce in che modo questo possa essere considerato un fattore protettivo nel caso delle violenze psicologiche.

Il Patriarcato e il dominio maschile quale causa della violenza domestica

I sostenitori delle teorie femministe e di genere ritengono che alla base della violenza domestica (da leggersi esclusivamente come violenza sulle donne) vi siano la volontà e gli sforzi da parte degli uomini di mantenere le donne in un perenne stato di sottomissione, di impedire loro qualsiasi movimento emancipatorio verso l’ autonomia e di reagire a qualsiasi tentativo di insubordinazione con la violenza. Il patriarcato è probabilmente l’ argomento preferito delle sostenitrici delle teorie femministe e dei ricercatori e ricercatrici che analizzano la violenza domestica esclusivamente attraverso il genere.

Fondamentalmente le ricerche hanno cercato in tutti i modi di trovare una relazione tra patriarcato e violenza domestica e dove non l’ hanno trovata hanno fatto comunque in modo che il patriarcato, i “privilegi maschili” e il “dominio maschile” risultassero i principali responsabili della violenza contro le donne.

Cerchiamo dunque di vedere in cosa consistono questi errori e che cosa hanno prodotto gli studi più accreditati dal punto di vista scientifico. Per quanto riguarda l’ Italia è bene precisare che la variabile patriarcato non è mai stata empiricamente indagata su un campione rappresentativo della popolazione nazionale, tuttavia questa viene chiamata in causa attraverso due elementi male interpretati:

la mancanza di dati sulle violenze femminili e sulle vittimizzazioni maschili;
una forte eterogeneità di dati per quanto riguarda le caratteristiche degli autori di violenze.
Il primo aspetto può convincere gli operatori che la violenza domestica sia in realtà una violenza sulle donne e che le donne non utilizzino le stesse condotte violente verso il partner; di fatto quando si analizza il fenomeno la maggior parte degli autori non prende in considerazione la possibilità che anche le partner possano essere violente verso i loro uomini (Robustelli, 2007; Lacangellera). Ciò perché nella maggior parte dei casi la violenza viene vista come uno strumento di mantenimento del “dominio maschile” e pertanto non può investire le donne.

A sentire i numerosi autori e autrici (Dobash e Dobash, 1979; Parsi, 2000, 2008; Hirigoyen, 2006; French, 1993; Longo, 1995) parrebbe che le questioni di dominio e di controllo siano esclusivamente una prerogativa maschile, mentre le donne sarebbero mosse da caratteristiche quali la condivisione, la cooperazione e uno stile relazionale non basato sulle gerarchie. Ciò che si crea utilizzando queste assunzioni e una visione opposta dei due generi, quasi manichea, che non trova alcun fondamento scientifico (ma nemmeno nella vita quotidiana) e che non aiuta certo a comprendere le violenze e le strategie volte alla prevenzione e al recupero.

Sebbene molti autori dipingano gli uomini e le donne, i primi con caratteristiche assolutamente negative, le seconde con caratteristiche e aspetti assolutamente positive, a proposito della violenza è opportuno segnalare che:

nelle indagini sulla violenza domestica le motivazioni di dominio e di controllo del partner raramente sono state considerate e questo poiché vi è la convinzione che tali motivazioni siano intrinseche al genere maschile o quanto meno al patriarcato;
nelle ricerche in cui tali variabili sono state considerate i ricercatori hanno trovato anche nelle donne il desiderio di dominare e di controllare il partner attraverso i racconti di questi ultimi (Cook, 1997; Pearson, 1997; Migliaccio, 2001, 2002; George, 2002). Stets (1991) ha mostrato che entrambi i generi mettono in atto strategie per controllare il comportamento del partner così come Follingstad, Wright, Lloyd e Sebastian (1991) non hanno riscontrato differenze legate al genere per quanto riguarda il mettere in atto comportamenti atti a controllare le attività del partner.
Per quanto riguarda poi la volontà maschile di dominare la partner vi sono ulteriori difficoltà nel momento in cui tale affermazioni vengono smentite dalle indagini nazionali. Sappiamo dall’ ISTAT che il 31.9% delle donne ha subito una violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Riguardo alle violenze subite Lacangerella (2008) afferma che “dietro molte tragedie c’ è spesso una grande frustrazione maschile, il desiderio di tappare la bocca ad un altro. C’ è un uomo che di fronte ad una donna autonoma e sicura di sé, non sa più qual è il suo ruolo, perde autorevolezza; ha un comportamento regressivo, quasi schizofrenico, come un bambino pretende tutto dalla partner e se lei non l’ accontenta la picchia o l’ ammazza” (pp. 25). In questo passaggio Lacangerella chiarisce che il motivo principale della violenza che risiederebbe nella perdita di autorevolezza dell’ uomo legata al suo ruolo di genere. Dal momento che però non sono state effettuate particolari analisi sugli autori di reato risulta difficile stabilire con certezza che la volontà di perpetuare quell’ “autorevolezza” sia la causa della violenza. Questa considerazione, inoltre, non tiene conto della recente indagine dell’ ISTAT svolta nel 2003 e pubblicata nel 2006 dove è stato rilevato chi prendeva le maggiori decisioni all’ interno della coppia/famiglia: dai risultati è emerso che entrambi i partner decidono di comune accordo sulla spesa per gli svaghi (72.5%), sulla spesa per la casa (53.9%), l’ abbigliamento (51.1%), la gestione dei risparmi (61.4%), le persone da frequentare (86.6%), l’ educazione dei figli (83.1%), dove andare in vacanza (83.5%) e cosa fare nel tempo libero (85.2%). Se si esclude questa categoria (decisioni prese da entrambi) che domina quella dove uno dei due partner prende le decisioni, si può osservare che le donne all’ interno della coppia e della famiglia prendono le maggiori decisioni ad eccezione della gestione dei risparmi. Questo dato non coincide assolutamente con l’ immagine della famiglia patriarcale che molti autori dipingono e non spiega altresì il 31.9% di donne che sono state picchiate o sessualmente abusate; questo dato inoltre è assolutamente in linea con i risultati di Coleman e Straus (1986) i quali hanno documentato su un campione nazionale che negli Stati Uniti solo il 9.4% delle famiglie può essere considerato di tipo patriarcale, segue un 7.5% di famiglie matriarcali, ovverosia dove è la donna a prendere le decisioni. In entrambe le categorie si sono riscontrati valori più elevati di violenza tra partner.

L’ errore delle teorie femministe e di genere, nonché di tutte quelle spiegazioni che vedono nel “dominio maschile” la causa delle violenze è quella non solo di ignorare le violenze femminili, ma anche quello di non considerare il fatto che la maggior parte degli uomini non abusa della partner e non tutti quelli che commettono violenza lo fanno in modo grave e pervasivo.

Trattare inoltre la violenza domestica come una violenza “di genere” e sessuata non consente di conoscere i dati relativi delle violenze che le donne esercitano su altre donne: numerosi studi hanno evidenziato che spesso nelle coppie lesbiche i tassi di violenza fisica, sessuale e psicologica si equivalgono con quelli delle coppie eterosessuali con motivazioni del tutto simili a quelle degli uomini, ovverosia la gelosia nei confronti della partner e il desiderio di controllarne ogni aspetto della vita (Bologna, Waterman e Dawson, 1989, cit. in Dutton, 2006; Lie et al., 1991; Renzetti, 1992), nonché una percentuale non indifferente di vittimizzazione femminile ad opera di altre donne (Personal Safety Survey a cura del Australian Bureau of Statistics, 2005).

Negli Stati Uniti il desiderio di trovare nel patriarcato la causa delle violenze domestiche ha raggiunto livelli così esasperanti che, come riporta Lenton (1995), la maggior parte delle ricerche sulle violenze contro le donne si è focalizzata esclusivamente su di esso.

Vi sono stati tentativi di misurare la presenza del dominio maschile attraverso le cosiddette attitudini verso l’ abuso (Smith, 1990; Hanson, Cadsky, Harris e Lalonde, 1997; Reitzel-Jaffe and Wolfe, 2001) ma quasi tutte le ricerche hanno risentito di numerosi errori dal momento che volevano a tutti i costi provare che l’ abuso della donna rientrasse tra le facoltà dei partner (Vantaggiato, in attesa di pubblicazione). L’ aspetto più importante da sottolineare è che è assolutamente controindicato misurare le attitudini dopo che un comportamento si è verificato e poi sostenere che le prime sono causa del secondo (Dutton, 2006) in quanto, specie nel caso di violenze che si protraggono per anni, gli esseri umani tendono a modificare le proprie convinzioni sulla base della congruenza che queste ultime possono avere con il comportamento emesso; gli psicologi parlano in questo caso di dissonanza cognitiva che può influire sulla valutazione dei ricercatori e di conseguenza sull’ attuazione di un programma preventivo o di trattamento.

Le teorie del patriarcato rimangono dunque delle teorie debolissime che escludono di fatto le donne dall’ esercizio di qualsiasi comportamento violento nei confronti del partner (se non in casi di autodifesa) e non spiegano l’ incredibile eterogeneità dei comportamenti violenti degli uomini.

Le teorie femministe e di genere allo stato attuale, con le loro immagini monolitiche sugli uomini e sulle donne, non sembrano destinate ad offrire delle valide alternative volte, non diciamo ad arginare, ma quanto meno a prevenire ulteriori episodi di un fenomeno che coinvolge individui di tutte le età ed estrazione sociale.

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Tratto da: http://www.cepic-psicologia.it/contributi/Violenza%20domestica%20la%20fallacia%20dei%20paradigmi%20di%20genere-%20Vantaggiato.doc
Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti (Winston Churchill) https://storieriflessioni.blogspot.it/ il blog di Jan Quarius