Autore Topic: La strada degli errori  (Letto 1844 volte)

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Milo Riano

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La strada degli errori
« il: Ottobre 10, 2009, 18:41:28 pm »
http://violenza-donne.blogspot.com/2009/01/la-strada-degli-errori.html

La strada degli errori
di Elisabeth Badinter


1. Nuovo discorso sul metodo

I parametri cartesiani della verità sono decaduti da tempo. All'idea "chiara e distinta" preferiamo l'analogia e la generalizzazione: in sintesi, l'amalgama, ovvero la mescolanza di "elementi diversi che non si combinano"[1]. E l'amalgama non è tanto uno strumento del saggio quanto del politico. D'altra parte, è difficile distinguere i contorni della filosofia che fonda l'attuale femminismo vittimista. Interessa diverse nebulose in cui il culturalismo rasenta il naturalismo e un essenzialismo che non dice mai il suo nome.
Spesso si ha la sensazione che non siano i princìpi a regolare l'azione, ma che questa produca delle giustificazioni a posteriori. La posta in gioco non è tanto una teoria del rapporto tra i sessi quanto la messa sotto accusa dell'altro sesso e di tutto un sistema di oppressione. Nuova logica, ma vecchia filosofia. Consapevolmente o no, questo femminismo ha partorito una rappresentazione della donna che rischia di riportarci molto indietro, o di condurci dove non vogliamo.

La logica dell'amalgama

Si applica innanzitutto alla sfera della sessualità e procede per generalizzazioni e analogie. Non si fa più differenza tra oggettivo e soggettivo, minore e maggiore, normale e patologico, fisico e psichico, conscio e inconscio. Tutto viene collocato sullo stesso piano in nome di una particolare concezione della sessualità e del rapporto tra i sessi.

Il continuum delle violenze

Per trent'anni il femminismo radicale americano ha ricostruito pazientemente gli anelli di una catena del reato sessuale, allo scopo di dimostrare il lungo martirologio femminile. In pochi anni la corrente che agita il tema dell'oppressione sessuale femminile ha pubblicato tre libri. Il primo tratta dello stupro[2], il secondo delle molestie sessuali[3], il terzo della pornografia[4]. Le loro autrici, Susan Brownmiller, Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, ne hanno tratto notevole celebrità. In seguito, Dworkin e MacKinnon hanno lavorato di concerto, trovandosi d'accordo sull'essenziale: che le donne sono una classe oppressa e la radice dell'oppressione è la sessualità. Il dominio maschile riposa sul potere degli uomini di trattare le donne come oggetti sessuali.

Questo potere, che si fa risalire all'origine della specie, sarebbe stato inaugurato dallo stupro. Soprattutto, ai loro occhi, lo stupro, la molestia sessuale, la pornografia e le percosse (contusioni e ferite) sono un tutt'uno che discende dalla stessa aggressività contro le donne[5]. Senza dimenticare la prostituzione, lo strip-tease e tutto ciò che, da vicino o da lontano, ha a che fare con il sesso. La sentenza è inappellabile: bisogna costringere gli uomini a cambiare la loro sessualità. E, per far questo, modificare le leggi e impadronirsi dei tribunali.

Le femministe liberali hanno protestato con veemenza contro questo approccio che faceva appello alla censura, calpestava la libertà sessuale e suonava come una dichiarazione di guerra contro il genere maschile[6]. Andrea Dworkin, sprizzante di provocazioni, è rimasta, con le sue stravaganze, a fare da contrasto a questo nuovo femminismo. Ma la sua filosofia vittimista si è fatta strada. Dworkin non ha esitato a paragonare le donne ai superstiti dei campi di concentramento; una parola, survivor, che poi si è ripresentata in tutt'altro contesto. A condurre la battaglia giuridica con il successo che sappiamo è stata la sua complice MacKinnon, brillante avvocato e docente di diritto in prestigiose università. Non soltanto, nel 1986, MacKinnon ha fatto riconoscere la molestia sessuale come una forma di discriminazione dalla Corte suprema degli Stati Uniti ma, alleandosi alle lobby più conservatrici e con l'appoggio compatto dei repubblicani, è riuscita a far votare per due volte, nel 1983 e nel 1984, nelle città di Minneapolis e Indianapolis, l'ordinanza detta "MacKinnon-Dworkin" contro la pornografia.

Poiché questa era stata riconosciuta come una violazione dei diritti civili, l'ordinanza si applicava senza distinzione ai film, ai libri, alle riviste. Nel momento in cui una donna dichiarava di sentirsi "umiliata", lo strumento della sua umiliazione poteva essere messo all'indice. A rischiare di cadere nella trappola erano interi settori della letteratura classica e del cinema. Quella volta, femministe delle correnti più diverse (da Betty Friedan a Kate Millett passando per Adrienne Rich) presero rumorosamente posizione contro il delirante appello alla censura. Dopo una strenua battaglia, il primo emendamento sulla libertà di espressione riuscì finalmente a imporsi. Ma il prestigio e la fama di MacKinnon uscirono decuplicati dalla vicenda; tanto che nel 1992 la Corte suprema del Canada fece propria buona parte delle sue teorie sulla pornografia.

Stranamente, i libri di Dworkin e MacKinnon non hanno avuto traduzione in francese. Forse sono stati giudicati incompatibili con lo spirito delle francesi. Ancora più stranamente, i loro nomi compaiono di rado negli scritti femministi: come se quell'ostentato estremismo sapesse veramente troppo di bruciato. Molte delle loro idee, tuttavia, hanno attraversato l'Atlantico, tramite le istituzioni europee, gli amici canadesi e i numerosi studenti che frequentano le università americane dove esse sono più apprezzate.
In Francia, tutto inizia con una salutare presa di coscienza. Nel 1978, a Aix-en-Provence, un processo esemplare contro tre violentatori rivela a tutta la società la reale portata del problema. Magistralmente condotto da Gisèle Halimi, avvocato delle due vittime e presidente dell'associazione Choisir-La cause des femmes, il caso particolare si trasforma in un processo generale allo stupro, troppo spesso considerato un semplice oltraggio al pudore; in un processo alla polizia e alla giustizia, che scoraggiano le donne dallo sporgere denuncia aggiungendo il sospetto all'umiliazione; in un processo all'inerzia di una società che sottovaluta la gravità dei reati sessuali, perché "un mondo in cui dominano i valori maschili giustifica, in sostanza, lo stupro attribuendolo alla `virilità naturalmente aggressiva' del maschio e alla `passività masochistica' della femmina"[7].

Grazie a questo processo, che diventa un momento pubblico di confronto, inizia ad affermarsi il concetto che le ferite psicologiche impiegano più tempo a guarire dei traumi fisici. La sofferenza che esse causano è irreversibile, benché spesso la si dissimuli o addirittura la si ignori. Le vittime di Aix parlano di annientamento, di perdita d'identità e di morte. Come scrive giustamente Georges Vigarello, "il riferimento al trauma interiore [...] è diventato uno dei maggiori criteri per valutare la gravità del reato"[8].
Al processo di Aix segue una ridefinizione dello stupro e delle relative sanzioni. La legge del 23 dicembre 1980 stabilisce: "Qualunque atto di penetrazione sessuale, di qualunque natura esso sia, compiuto sulla persona con la forza, la costrizione o l'inganno costituisce uno stupro"[9]. Le pene maggiorate vanno da cinque a vent'anni di reclusione, secondo le circostanze del reato. Malgrado resistenze di ogni tipo, le denunce per stupro continuano ad aumentare[10]: 892 nel 1992, 1238 nel 1996[11]. Il dato più notevole è l'aumento delle condanne da dieci a vent'anni: 283 nel 1992 e 514 nel 1996[12].

Oltre allo stupro, anche altri delitti aventi a che fare con la sessualità vengono riveduti nella definizione e nel giudizio. Il nuovo Codice penale francese del 1992 non parla più di "oltraggio ai costumi" ma di "aggressione sessuale": "Costituisce una violenza sessuale qualunque approccio sessuale compiuto con la forza, la costrizione, la minaccia o l'inganno"[13]. La nozione di approccio sessuale si allarga, inaugurando "una nuova serie di atti ostracizzati"[14], tra cui la violenza morale e psicologica.
Nel 1992, sull'esempio americano, viene istituito il reato di "molestia sessuale", che completa il vecchio abuso di autorità. Grazie alla saggezza del Parlamento e dell'allora ministro per i Diritti delle donne, Véronique Neiertz, il testo adottato prevede sanzioni soltanto per l'atto compiuto all'interno di rapporti gerarchici. Ad alcuni americani che si stupiscono di tale restrizione, il ministro replica che il suo consiglio alle donne che si sentono molestate dai colleghi è quello di rispondere con un "bel paio di ceffoni"[15]

Questo sano proposito viene presto dimenticato. Dieci anni dopo, la legge del 17 gennaio 2002[16] introduce il nuovo reato di molestia morale, che esclude la condizione gerarchica. La molestia sessuale o morale dei capi è ben nota nel mondo del lavoro ed è stato giusto penalizzarla. Ma, per il resto, non sarebbe stato meglio incoraggiare le donne (e gli uomini) a difendersi da sole invece di trattarle come esseri totalmente indifesi?

Il 17 aprile 2002, la signora Anna Diamantopoulou, commissario per l'occupazione e gli affari sociali, annuncia che il Parlamento europeo ha appena adottato una legge contro la molestia sessuale definita come segue: "Un comportamento indesiderato, verbale, non verbale o fisico, a connotazione sessuale, che tenti di recare oltraggio alla dignità di una persona, creando una situazione intimidatoria, ostile, degradante, umiliante e offensiva"[17] Non solo il molestatore può essere un collega o un subordinato, ma i termini usati sono così imprecisi e soggettivi che chiunque potrebbe essere tacciato di molestia. Questa definizione non accenna neppure, come l'attuale legge francese, al concetto di "atti reiterati". È l'anticamera del visual harassment (sguardo troppo insistente) e di altre assurdità di questo tipo. Quale diventa dunque il confine tra oggettivo e soggettivo, tra reale e immaginario? Per non parlare di quello che distingue l'intenzione sessuale dalla violenza. Come esempio inoppugnabile di violenza, la signora Diamantopoulou cita l'affissione murale di foto pornografiche: un modo per annunciare quale sarà il prossimo bersaglio.

Non v'è dubbio che stiamo assistendo a una deriva di tipo americano. Verrà presto il momento in cui, come a Princeton, sarà considerata molestia sessuale "qualunque attenzione sessuale non desiderata che susciti un senso di malessere, o sia causa di problemi nella scuola, nei luoghi di lavoro o nelle relazioni sociali".
L'estensione del concetto di violenza alle aggressioni verbali e alle pressioni psicologiche, scaturito dalla recente indagine "Quali sono e come si chiamano le violenze contro le donne"[18] apre la via a qualunque interpretazione. Come misurare con un questionario chiuso "l'offesa all'integrità psichica di una persona"? Dove inizia – e dove finisce - l'offesa in luogo pubblico? Ciò che a una persona dà fastidio, a un'altra sembra cosa di poco peso, è un fatto puramente soggettivo. Lo stesso dicasi per le pressioni psicologiche nella coppia. Tra le nove domande ritenute appropriate per misurare questo tipo di violenza, alcune lasciano quantomeno perplessi.

Per esempio la seguente: "Nel corso degli ultimi dodici mesi, il vostro coniuge o compagno/a: ha criticato o svalutato ciò che fate? Ha fatto osservazioni sgradevoli sul vostro aspetto fisico? Vi ha imposto il modo di vestirvi, di pettinarvi, di comportarvi in pubblico? Non ha tenuto conto o ha manifestato disprezzo per le vostre opinioni? Ha preteso di dirvi quali dovrebbero essere le vostre idee?"[19]. Lo sconcerto aumenta quando si scopre che queste pressioni psicologiche - che ricevono la più alta percentuale di risposte positive - rientrano nel coefficiente totale della violenza coniugale[20], assieme agli "insulti e minacce verbali", al "ricatto affettivo" e, sullo stesso piano delle "aggressioni fisiche", allo "stupro e altre prestazioni sessuali forzate". Il coefficiente totale della violenza coniugale così concepito vedrebbe dunque interessato il 10% delle francesi, delle quali il 37% denunciano pressioni psicologiche, il 2,5% aggressioni fisiche, e lo 0,9% stupro o altre prestazioni sessuali forzate.

Estratto del questionario: Le pressioni psicologiche nella coppia

Nel corso degli ultimi dodici mesi, il vostro coniuge o compagno/a: / mai / raramente / qualche volta / spesso / sistematicamente

1. vi ha impedito di incontrarvi o parlare con amici o membri della vostra famiglia?
2. vi ha impedito di parlare con altri uomini?
3. ha criticato o svalutato ciò che fate?
4. ha fatto osservazioni sgradevoli sul vostro aspetto fisico?
5. vi ha imposto il modo di vestirvi, di pettinarvi, di comportarvi in pubblico?
6. non ha tenuto conto o ha manifestato disprezzo per le vostre opinioni, ha preteso di dirvi quali dovrebbero essere le vostre idee? a) in privato b) davanti ad altre persone
7. ha preteso di sapere dove eravate e con chi?
8. ha smesso di parlare con voi, si è rifiutato totalmente di discutere?
9. vi ha impedito di accedere al denaro comune per le necessità ordinarie della vita quotidiana?

Fonte: Nommer et compter les violences envers les femmes: une première enquete nationale en France, Maryse Jaspart e l'équipe Enveff, "Population et societés", n. 364, gennaio 2001, p. 4.

Lo sconcerto è sempre più grande. E' possibile affiancare le azioni fisiche a quelle psicologiche come fossero elementi di ugual specie? È legittimo condensare nello stesso vocabolo lo stupro e un'osservazione sgradevole o offensiva? Si risponderà che in entrambi i casi viene inflitto dolore. Ma non sarebbe più rigoroso distinguere tra dolore oggettivo e dolore soggettivo, tra violenza, abuso di potere e inciviltà? Il termine violenza è così legato nelle nostre menti alla violenza fisica che si corre il rischio di generare una deplorevole confusione facendo credere che il 10% delle francesi subiscano aggressioni fisiche dal coniuge[21].

Questa somma di violenze eterogenee che riposa sulla sola testimonianza di persone raggiunte telefonicamente privilegia in gran parte la soggettività. In mancanza di un confronto con il coniuge, o di un colloquio approfondito, come prendere per buone le risposte acquisite?

Percentuale di donne che hanno dichiarato di avere subito violenze coniugali nel corso degli ultimi dodici mesi secondo la situazione di coppia al momento dell'indagine



* Aver subito più di tre comportamenti costituenti pressione psicologica, di cui almeno uno di frequente.
** Aver subito molestie morali o insulti reiterati, o ricatti affettivi, o violenze fisiche o sessuali.

Campione: donne dai venti ai cinquantanove anni che hanno avuto un rapporto di coppia nel corso dei dodici mesi precedenti all'indagine.

Fonte: Population et sociétés, cit., p. 3.


Ma la logica dell'amalgama non si limita a questo. Forse a causa della radice comune dei due termini [in francese viol, stupro e violence, violenza], ogni violenza sessuale – e si è visto come questa nozione si vada sempre più allargando - è assimilata a un oltraggio all'integrità, a una sorta di stupro. Senza scomodare Dworkin e MacKinnon, che assimilano la pornografia allo stupro e la paragonano persino alla schiavitù, al linciaggio, alla tortura e all'Olocausto, si odono sempre più voci che assimilano la molestia sessuale allo stupro. Lo psichiatra Samuel Lepastier, per esempio, autore di numerosi studi sulla molestia sessuale, ha dichiarato a "L'Express": "La molestia sessuale dev'essere considerata l'equivalente di uno stupro, in cui la prepotenza morale sostituisce la prepotenza fisica. Si tratta di uno stupro incestuoso: il superiore gerarchico, detentore dell'autorità, incarna la figura genitoriale"[22].

E come la mettiamo con la nuova definizione di molestia che si estende ai colleghi e ai subordinati? Nella molestia sessuale, dice lo psichiatra, si esprime "più il bisogno di umiliare la donna, di abbassarla, che quello di trarne piacere". Ma alla domanda "Come reagire di fronte a un molestatore?", risponde così: "Più si resiste e meglio è. Bisogna rispondergli, rammentargli la legge: 'E vietato. Io non voglio'. Il molestatore è come un bambino viziato: si può dirgli di no". Ora, è proprio questa la differenza sostanziale tra la molestia e lo stupro: quale donna può pensare di resistere a un uomo vigoroso deciso a violentarla in un luogo isolato?

L'avvocato Emmanuel Pierrat sviluppa la stessa analogia dal punto di vista dei querelanti: "In materia di molestia sessuale, l'accostamento a un certo discorso sullo stupro [...] ancora si impone. In entrambi i casi, gli argomenti della difesa sono gli stessi: la vittima lo avrebbe provocato, oppure ne avrebbe goduto [...1. Colpisce il fatto che in gran parte dei reati o dei delitti a sfondo sessuale - si tratti di stupro, di molestia o di pedofilia - si ritrovano gli stessi ingredienti: denigrazione delle vittime, senso di impunità dell'aggressore, che spesso è recidivo"[23].

Altri, infine, assimilano la prostituzione allo stupro. Mettendo in un unico fascio tutte le varie forme di prostituzione, i proibizionisti non fanno differenza tra le schiave controllate dai papponi mafiosi e le indipendenti. È il caso, per esempio, del Collettivo femminista contro lo stupro, che dichiara: "Nello stupro e nella prostituzione vi è la stessa appropriazione del corpo delle donne da parte degli uomini. Il sistema della prostituzione è già in sé una violenza sessista e sessuale da mettere in conto a fianco delle altre violenze contro le donne, gli stupri e le violenze coniugali"[24]. Per corroborare le sue affermazioni, il Collettivo fa riferimento agli appelli ricevuti dal numero verde di Viols femmes informations, e conclude che "la principale porta d'ingresso alla prostituzione è lo stupro, perché risulta che 1'80% delle persone che si prostituiscono abbiano subito aggressioni sessuali nell'infanzia"[25]. Questo dato dell'80%, che ritorna continuamente negli scritti dei proibizionisti, raramente è seguito da una precisazione fondamentale, e cioè che questa percentuale riguarda soltanto coloro che si rivolgono alle associazioni e ai servizi sociali.

Cosa che non è affatto vera per tutte le prostitute. In realtà, i dati presentati mascherano una posizione ideologica preconcetta, secondo la quale la prestazione di servizi sessuali sarebbe il colmo dell'umiliazione per la donna e quindi identica allo stupro. Mentre le donne stuprate denunciano legittimamente l'offesa che è stata loro inflitta, numerose prostitute rifiutano questa assimilazione. Per farle tacere, si è inventato per loro lo statuto di "vittime totali", che le riduce al silenzio. Mentre la minima parola della donna vale oro, quella della prostituta non vale una virgola. Si è subito pronti a pensare che la prostituta sia bugiarda o manipolata. Un modo arrogante di sbarazzarsi delle sue obiezioni, una maniera sprezzante di considerarla. Benché esse si difendano a gran voce, i proibizionisti sono in guerra con le prostitute. Infatti, rifiutando l'immagine vittimistica di cui le si vuole rivestire, esse mettono in pericolo un'ampia fetta delle teorie sulla sessualità che oggi vanno per la maggiore.

La statistica al servizio dell'ideologia

L'allargarsi del concetto di violenza sessuale si traduce ovviamente nell'aumento dei reati e dei delitti sessuali. Sappiamo quanto sia difficile, per una donna violentata o per la vittima di percosse o ferite da parte di un congiunto, risolversi a sporgere denuncia. Paradossalmente, bisogna perciò rallegrarsi se le denunce per stupro aumentano ogni anno, dimostrando così che non s'intende più lasciare impunita una simile ignominia.

Sappiamo bene, per di più, che esse non rispecchiano il numero degli stupri realmente commessi. Alla donna violentata (da un familiare o da altri) occorre un enorme coraggio per innescare tutta la trafila poliziesca e giudiziaria: la dolorosa ripetizione degli atti di umiliazione e delle sofferenze subite, gli anni di attesa, il processo pubblico. Su questo piano, dobbiamo rendere merito all'attuale femminismo che ha conferito allo stupro il suo vero significato e si è ampiamente mobilitato per far uscire le vittime dal silenzio e dall'isolamento. Spesso è grazie alle associazioni che le ascoltano e le sostengono che esse trovano il coraggio di sporgere denuncia.

Questo reato, ampiamente sottostimato in tutti i paesi, ha dato luogo d'altro canto a stime a volte sbalorditive da parte delle femministe più radicali. Catharine MacKinnon afferma che "il 44% delle americane ha subito uno stupro o un tentativo di stupro [...], 4,5% è vittima di incesto paterno e il 12% da parte di altri maschi della famiglia, ciò che ammonta alla cifra del 43% su tutte le ragazze dell'età di diciott'anni"[26]. Oltre al fatto che i calcoli sono poco comprensibili e l'origine dei dati sconosciuta, si è in diritto di sospettare una manipolazione. L'obiettivo palese è di dimostrare che un'americana su due è vittima della peggiore violenza maschile e che questa non è un'eccezione ma la regola, la norma. Il che autorizza a parlare di rape culture, a vedere nello stupro un "normale comportamento maschile".

Nel 1985 la nota rivista "MS" pubblicò un'inchiesta che mise sottosopra il mondo universitario. L'incarico era stato assegnato a una docente di psicologia, Mary Koss, nota per il suo femminismo ortodosso[27]. Secondo l'indagine condotta nei campus, una studentessa su quattro era stata vittima di uno stupro o di un tentativo di stupro. Tuttavia, soltanto una su quattro delle vittime dava il nome di "stupro" a quello che le era accaduto. Inoltre, Koss aveva chiesto alle tremila ragazze interrogate: "Vi siete mai concesse a giochi sessuali (carezze, baci, palpeggiamenti, ma non rapporto sessuale), pur non desiderandolo, perché sommerse dalle argomentazioni e dalle costanti pressioni di un uomo?"[28]. Il 53,7% che aveva risposto affermativamente alla domanda era stato incluso, senza nulla che lo distinguesse, tra le vittime di violenze sessuali.

Una su quattro divenne la statistica ufficiale citata dai dipartimenti di women studies e diffusa dalle riviste, dalle associazioni contro lo stupro e dai politici. Susan Faludi e Naomi Wolf, due stelle del femminismo americano, la usarono come bandiera. I primi a interrogarsi sulla validità di questi dati furono Neil Gilbert, docente alla Berkeley's School of Social Welfare, e una giovane neolaureata di Princeton, Katie Roiphe. Il primo dimostrò che le domande di Koss erano ambigue e l'interpretazione delle risposte tendenziosa[29]. Lo studioso si stupiva del fatto che il 73% delle giovani classificate come vittime di stupro rifiutasse di considerarsi tale e che, tra queste, il 42% avesse avuto ulteriori rapporti sessuali con i presunti stupratori. Infine sottolineava che, malgrado le numerose campagne contro lo stupro nei campus universitari e l'apertura di centri di assistenza, nel 1990 erano state notificate alla polizia soltanto due denunce per stupro, mentre l'università di Berkeley contava quattordicimila studentesse. Roiphe condusse le stesse osservazioni su Princeton. Mentre l'argomento era tanto dibattuto tra le studentesse, com'era possibile che vi fossero così poche denunce; e poi, "se il 25% delle mie amiche è stato davvero stuprato, com'è possibile che io non l'abbia saputo?"[30].

Dall'oggi al domani, Roiphe pubblicò un libro su questo nuovo femminismo vittimista e la sua concezione dei rapporti sessuali. The Morning After: Sex, Fear and Feminism on Campus le fece conquistare un grande successo di pubblico e l'odio delle militanti, le quali la denunciarono come traditrice al soldo del patriarcato. Anche Neil Gilbert fu oggetto di contestazioni e boicottaggio. Nel campus di Berkeley alcuni studenti manifestarono cantando: cut it out or cut it off. Certuni brandivano cartelli sui quali era scritto Kill Neil Gilbert[31].

Ormai che il sasso era stato gettato, furono svolte altre indagini sullo stupro. Quella del National Women's Study (1992) concludeva che un'americana su otto (vale a dire il 12%) era stata violentata, mentre quella di Louis Harris dava una percentuale del 3,5%. Altre indagini riportarono cifre più basse che non ebbero l'onore dei grandi titoli sulla stampa. La posta in gioco, si sarà capito, era più politica che scientifica: più era alta la percentuale degli stupri, più facilmente si poteva far passare l'idea di una cultura americana sessista e misogina e di un maschio americano particolarmente violento.

In Francia, l'indagine Enveff sulle violenze contro le donne pubblicò dei dati più convincenti. L'indice complessivo delle aggressioni sessuali, da cui si evinceva la percentuale delle donne che avevano dichiarato di avere subito almeno una volta, nel corso dell'anno, dei palpeggiamenti, un tentativo di stupro o uno stupro (nello spazio pubblico, in famiglia o nei luoghi di lavoro) riguardava nel 2000 1'1,2% delle donne interrogate. Il dato specifico sullo stupro corrispondeva allo 0,3%. Applicando questa proporzione ai 15,9 milioni di donne in età dai venti ai cinquantanove anni residenti nella Francia metropolitana (censimento 1999), concludevano gli estensori del rapporto, risulta che "nel corso dell'anno circa quarantottomila donne [di questa fascia di età] avrebbero subito uno stupro"[32]. Questo dato non tiene conto dello stupro a danno delle minorenni e lascia intendere che tra le maggiorenni violentate soltanto il 5% sporge denuncia.

Questi dati sono gravi abbastanza perché li si usi con cautela. È lecito quindi stupirsi dell'utilizzo che se ne fa nel "Bulletin 2002" del Collettivo femminista contro lo stupro[33].
In una scheda che riporta i dati raccolti dall'Enveff si legge:
pp. 120-132.

– l'11,4% delle donne ha subito nella vita almeno un'aggressione sessuale (palpeggiamenti, tentativo di stupro e stupro); di cui,
– il 34% prima dei quindici anni;
– il 16% tra i quindici e i diciassette anni;
– il 50% dopo i diciotto anni;
– l'8% delle donne (di cui un terzo minorenni) ha subito almeno uno stupro o un tentativo di stupro.


Da dove scaturiscono queste notizie, che non si trovano nell'indagine Enveff, riservata alle donne dai venti ai cinquantanove anni? Quali sono le fonti dei dati sulle violenze alle minori? Sono forse il risultato di un'estrapolazione basata sugli appelli ricevuti dai loro numeri verdi? Ma, se così fosse, perché non dirlo esplicitamente invece di mescolare i propri dati a quelli dell'indagine nazionale condotta su un campione di settemila donne? Quanto alla cifra dell'8% riguardante le donne che avrebbero subito uno stupro o un tentativo di stupro, non si riesce bene a capire come sia stata calcolata a partire soltanto dalle statistiche fornite dall'indagine.

Ma neppure questo pessimistico 8% risulta definitivo. Due articoli che recensiscono un documentario televisivo dedicato allo stupro[34] (tratto dalla vera vita di Marie-Ange Le Boulaire, giornalista e autrice del documentario) danno per buona una percentuale ancora più alta. "In Francia, una donna su otto ha subito uno stupro," vi si legge, e una su otto non fa più l'8 bensì il 12%. Il dato è riportato nella quarta di copertina del libro che la scrittrice ha dedicato all'argomento, mentre all'interno dello stesso libro Marie- Ange Le Boulaire scrive: "Una donna su otto ha subito o subirà, nel corso della vita, un'aggressione sessuale"[35].

Tuttavia, l'aggressione sessuale non coincide necessariamente con lo stupro, cosa di cui le distinzioni operate dall'Enveff prendono atto. Non si può mettere sullo stesso piano un palpeggiamento indesiderato e lo stupro subito in un parcheggio da un uomo di ventitré anni armato di coltello. Al contrario di ciò che si vuole far credere[36], il trauma non è certo lo stesso nei due casi. Perché, quindi, gonfiare le statistiche sullo stupro, per natura già difficili da conoscere, se non per sfruttare più del dovuto l'immagine della femmina vittima e del maschio violento?

Anche i dati sulle molestie sessuali richiamano lo stesso tipo di osservazioni. Annunciando la legge europea sulle molestie di cui abbiamo già parlato, il commissario Anna Diamantopoulou ha ricordato che "dal 40 al 50% delle donne europee ha ricevuto approcci sessuali indesiderati", di cui "1'80% in determinati paesi"[37]. A parte il "bacio rubato", caro a Trénet e a Truffaut, che cosa rientra negli "approcci sessuali indesiderati"? Un gesto inopportuno? Una parola di troppo? Uno sguardo troppo insistente? Ma - sottolinea opportunamente Katie Roiphe - queste nuove regole trascurano il fatto che gli approcci sessuali indesiderati fanno parte della natura e perfino della cultura: "Per ricevere un'attenzione sessuale desiderata, bisogna darne e riceverne una certa quantità di indesiderate. In realtà, se non si permettesse a nessuno di correre il rischio di offrire un'attenzione sessuale non sollecitata, saremmo tutti creature solitarie"[38].

Risultato di questa evoluzione è il generalizzarsi della vittimizzazione delle donne e della colpevolizzazione degli uomini. Senza arrivare agli eccessi di Dworkin o di MacKinnon, la donna va pian piano assumendo lo stesso statuto del bambino: debole e impotente. Del bambino innocente quale lo si concepiva prima che Freud lo definisse un "perverso polimorfo". Del bambino oppresso dagli adulti, contro i quali egli non può nulla. Si ritorna agli stereotipi di una volta - ai tempi del vecchio patriarcato -, quando le donne, eterne minorenni, ricorrevano, per farsi proteggere, agli uomini della famiglia. Oggi come oggi, non vi sono più uomini che le proteggono. Il "viriarcato" si è sostituito al patriacato. Tutti gli uomini sono sospetti, e la loro violenza si esercita ovunque. La donna-bambino deve rimettersi alla giustizia, come il bambino che invoca protezione dai genitori.

Il lato più preoccupante di questo approccio non è ovviamente la denuncia delle violenze compiute sulle donne, ma la causa che viene attribuita a questa violenza. Non si tratta più di condannare i maniaci, i cattivi e i perversi. Il male è molto più profondo, perché è generale e tocca la metà del genere umano. A essere messo sotto accusa è il principio stesso di virilità. MacKinnon e Dworkin hanno un bel dire che la male-dominance è un effetto della nostra cultura: l'accusa collettiva "sempre e ovunque" gli conferisce un che di naturale, di innato e universale che fa orrore. Bisogna cambiare l'uomo, ci dicono, vale a dire la sua sessualità, perché è quella a radicare l'oppressione delle donne nel sistema sociale.

In Francia, ci si guarda dall'accusare apertamente la sessualità maschile[39], ma a poco a poco è invalsa tra le universitarie la convenzione di designare i rapporti uomo/donna come rapporti sociali di sesso e di fare del "dominio maschile”[40] l'ultima ratio dell'infelicità delle donne. In occasione della Giornata della donna, l'8 marzo 2002, Francine Bavay e Geneviève Fraisse hanno pubblicato su "Le Monde" un articolo intitolato L'insicurezza delle donne, che veniva opportunamente a richiamare tutto questo. "La violenza è sessuata - dicevano le autrici - perché il furto e lo stupro [in francese le vol e le viol] appartengono innanzitutto agli uomini [...]. La violenza è sessuata, espressione di una società che, in tutto il mondo, è strutturata dal dominio maschile." E a citare i "nudi fatti che, dallo stupro alla lapidazione, dalla molestia sessuale alla prostituzione, dall'insulto al disprezzo, sono i segni molteplici di un potere oppressivo".
Anche se per la forma lo si nega, alla condanna degli abusi maschili si è sostituita la messa sotto accusa incondizionata di tutto il genere maschile. Da un lato Lei, impotente e oppressa; dall'altro Lui, violento, dominatore e sfruttatore. Eccoli, irrigiditi l'uno e l'altro nella loro contrapposizione. Come si potrà mai uscire da questa trappola?

Disagio filosofico

Il femminismo postbeauvoiriano è variegato, vale a dire contraddittorio. L'unico punto su cui si è d'accordo è la critica della grande madre. Ella avrebbe misconosciuto la diversità dei sessi, negato l'esistenza dell'identità femminile e predicato un universo astratto che in realtà non è che la maschera dell'universo maschile[41]. Così facendo, ella avrebbe partecipato, suo malgrado, alla produzione di un'illusione ancora più alienante per le donne, rendendole inclini ad allinearsi ai loro maestri. Simone de Beauvoir e le sue discepole, mosse dal "desiderio di cancellare la diversità delle donne" si sarebbero rese colpevoli di maschilismo e sarebbero cadute "nella trappola dell'androcentrismo"[42]. Per qualche tempo le si è accusate di tradimento e misoginia.

È vero che Il secondo sesso è passato accanto alla femminilità. È anche vero che Simone de Beauvoir si è ostinatamente rifiutata di definire la donna attraverso la maternità. Ma troppo presto si è dimenticato che rimettendo la biologia al suo giusto posto - il secondo - Beauvoir ha fatto esplodere le sbarre della prigione femminile. O, in altri termini, gli stereotipi sessuali mutuati dalla natura onnipotente. A forza di sostenere la causa della libertà contro la necessità naturale, ha contribuito a produrre cambiamenti nella mentalità collettiva, e non è del tutto estranea al riconoscimento del diritto alla contraccezione e all'aborto. Se qualcuno se ne rallegra, altri invece fingono di ignorare che questo diritto rivoluzionario ha sancito definitivamente il primato della cultura sulla natura.

Il problema teorico del nuovo femminismo è proprio lì. Come ridefinire la natura femminile senza ricadere nei vecchi schemi? Come parlare di "natura" senza mettere in pericolo la libertà? Come sostenere il dualismo dei sessi senza ricostruire la prigione dei generi? Le risposte a queste impegnative domande sono molteplici e contrastanti. Anche se la maggioranza rifiuta a gran voce qualunque ritorno all'essenzialismo, il dualismo che oggi si rivendica obbliga ad acrobazie intellettuali che lasciano insoddisfatti. Un po' di cultura e molta natura, oppure la miscela contraria: ciascuna (o ciascuno) suggerisce un modello del rapporto tra i sessi da cui ci si astiene dal trarne tutte le conseguenze. È l'ora delle rivendicazioni eteroclite, che a posteriori devono pur trovare una giustificazione teorica. E tanto peggio se la spiegazione filosofica non s'addice a tutte. È stato così per imporre la parità in politica. Quando si è trattato di legittimare l'iscrizione del dualismo sessuale nella Costituzione, diversi fautori della parità si son messi una mano sugli occhi. Un tale progresso valeva bene la dimenticanza dei principi.

Naturalismo e dualismo antagonistico

"Uguaglianza nella diversità" è la parola d'ordine generale. È possibile, ci dicono, perché noi la vogliamo. Frangoise Héritier, che pure sottolinea come la diversità dei sessi si sia, sempre e ovunque, tradotta in una gerarchia a vantaggio degli uomini, e come questa griglia di lettura sia immutabile e arcaica dato che sopravvive perfino nelle società più evolute[43], arriva nondimeno a concludere che questo fenomeno universale è culturale, e quindi dovrebbe essere modificabile. Dopo avere dedicato un primo libro a questa "valenza differenziale dei sessi", che spiega con la volontà degli uomini di controllare la riproduzione femminile[44], ella si accorge, qualche anno dopo, di possedere finalmente lo strumento per porre fine all'eterno dominio maschile: "Se le donne sono state messe sotto tutela ed espropriate dello statuto di persone giuridiche autonome, quale è proprio degli uomini, per essere relegate di forza allo statuto di riproduttrici, è restituendo loro la libertà in questa sfera che acquisteranno nel contempo dignità e autonomia.

Il diritto alla contraccezione, con ciò che questo implica a monte - consenso, diritto di scegliere il proprio coniuge, diritto a un divorzio regolato dalla legge e non al semplice ripudio, divieto di concedere in matrimonio le figlie prepuberi e così via - e il diritto di disporre del proprio corpo sono una leva fondamentale, che agisce esattamente nel cuore del luogo dove tale dominio sì è prodotto"[45].
Il diritto alla contraccezione come strumento per la liberazione delle donne: come non stupirsi di fronte a una rivelazione così tardiva? Nel 1996, Francoise Héritier accenna di sfuggita, nella sua conclusione, al progresso che il controllo della riproduzione rappresenta, subito relativizzato dalla mancanza di progresso "nelle menti e nei sistemi di rappresentazione"[46]. Ci siamo forse dimenticati che il diritto alla contraccezione è dato dal 1967, l'aborto dal 1975, e che altre democrazie occidentali li hanno riconosciuti molto prima di noi?

Quindi, se da più di trentacinque anni le donne in Occidente controllano la riproduzione, come possiamo continuare ad affermare che il dominio maschile persiste ancora oggi in tutto il mondo? Non si è fatta, per caso, confusione tra il fenomeno storico della supremazia maschile, effettivamente minato dalla contraccezione, e il nostro modo di pensare definito arcaico? Francoise Héritier sottolinea a ragione la nostra universale tendenza a pensare la diversità sotto il segno della gerarchia e della disuguaglianza, ma forse sbaglia a collegarla all'appropriazione della fecondità femminile da parte degli uomini[47]. Questo fenomeno è scomparso e noi pensiamo ancora la diversità in termini di disuguaglianza. Ciò potrebbe significare che è più difficile sbarazzarsi di questa categoria mentale che non del dominio maschile.

L'uguaglianza nella diversità è un desiderio, un'utopia, che comporterebbe un notevole progresso dell'umanità, non solo del genere maschile. Come possiamo constatare, di questa arcaica categoria le donne non sono meno schiave degli uomini[48], anche se a loro conviene vedervi soltanto una legittima difesa contro l'imperium maschile.

Dalla fine degli anni ottanta ha iniziato a levarsi da ogni parte un immenso clamore in favore del diritto alla diversità. Questo nuovo diritto, reclamato da tutte le minoranze, da tutte le comunità e dai singoli individui, è diventato il nuovo cavallo di battaglia di molte femministe. A quanto esse dicono, i diritti della femminilità sono minacciati: le donne mascoline rinuncerebbero inconsapevolmente alla propria identità, alle proprie libertà e ai propri valori. Da allora è stato tutto un vociferare contro le "democrazie unisesso e matricide"[49]. Si è arrivati perfino a parlare di ginocidio. E' tornata a riaffiorare l'orribile indeterminatezza dei sessi e dei generi. Benché il rischio che venisse a instaurarsi la confusione dei sessi fosse irrilevante, si temevano nel contempo il genere unico, per definizione maschile, e la destabilizzazione del dualismo dei generi. E quindi tutti a scagliarsi contro l'UNO e il MOLTEPLICE.

Antoinette Fouque si è vista costretta a ricondurre le donne alla ragione proclamando che Esistono due sessi. Sylviane Agacinski ha ricordato loro che "l'ideale della riduzione della diversità o, come lo si è chiamato, della `scomparsa dei generi', mirando all'uniformazione degli individui costituirebbe un fantasma totalitario. Non v'è niente di peggio del sogno di una società di simili liberati dai conflitti dalla loro stessa somiglianza"[50].

Restano da ridefinire le belle particolarità che ci distinguono dagli uomini, mentre, beninteso, la specificità maschile sembra incisa nel marmo. L'uomo finge di evolversi e invece non cambia. A ogni progresso femminile, escogita nuove modalità di dominio[51]. Dall'uomo delle caverne a quello di oggi, la somiglianza persiste. Si ritorna dunque alla buona madre natura e ai principi fondamentali. Antoinette Fouque ci richiama alla nostra grandezza (e al nostro dovere?) di madri, sottovalutata e occultata dal nemico di sempre.

Già da tempo si pone l'esigenza di far riconoscere nel giusto valore questa asimmetria e questo privilegio delle donne, che le rendono infinitamente superiori ai loro compagni. È la capacità di procreare a conferire alla donna la sua umanità, la sua generosità e superiorità morale. Come Luce Irigaray molto prima di lei, Antoinette Fouque si aspetta la salvezza dalla coppia madre-figlia: "Riannodare il legame particolare che esiste tra la madre e la figlia significa tentare di far saltare la roccaforte dell'Uno, del monoteismo, del 'Non vi è che un unico Dio', e della monodemocrazia [...], far apparire la perversione dell'universo che il patriarcato ci impone [...]. Io penso che questa genealogia femminile di trasmissione delle pratiche, delle competenze, delle capacità dalla madre alla figlia e di nuovo alla madre [...] possa essere portatrice di qualche cosa di diverso dal modello antico [...]. Le donne hanno una capacità di contenimento attivo legato alla gestazione"[52].

Questo discorso non nasconde la volontà di ricostruire un dualismo antagonistico. Anzi: "La gravidanza della donna, la gestazione, è l'unico fenomeno naturale di accettazione di un corpo estraneo da parte del corpo, e quindi della psiche. È il modello di tutti gli innesti"[53]. Le donne (madri) sono quindi dotate di "capacità di accoglienza", di virtù iscritte nel corpo, ignorate dalla maggioranza degli uomini[54]. Non si sa se ridere o piangere. Un simile approccio, che fa della biologia la base in cui sono iscritti i ruoli e le virtù, accomuna in un impeto di condanna gli uomini e le donne che ignorano la maternità. Per gli uomini, ovviamente, si tratta di una condanna senza appello. Ma leggiamo anche che se Virginia Woolf fosse stata madre forse non si sarebbe suicidata; e che Lou Andreas-Salomé è rimasta una mistica per il fatto di essersi fermata "al di qua della procreazione". Che ne sarà quindi delle lesbiche, delle donne sterili, di tutte coloro che rifiutano la maternità? A loro trarre le debite conclusioni.

Anche per Sylviane Agacinski la maternità è il punto di ancoraggio dell'identità femminile, più ancora che l'esperienza della sessualità. "Vi è una sorta di coscienza di sesso" che accompagna l'esperienza della procreazione[55]. Ma la filosofa non sembra interessata a trarre le conseguenze etiche di questo. S'interroga sull'interdipendenza dei sessi e sugli effetti della diversità dei sessi per l'identità, soprattutto nella generazione. Per essa, la reciproca dipendenza tra uomo e donna è naturale. Postula quindi, come un fatto ovvio, che "l'umanità è naturalmente eterosessuale", che gli esseri umani "sono generalmente animati dal desiderio dell'altro e dipendono da questo altro per procreare [...]. L'interesse esclusivo per lo stesso sesso è accidentale, è perfino una sorta di eccezione - sia pure frequente - che conferma la regola"[56]. E conclude che è impossibile pensare la diversità dei sessi "quando essi cessano di dipendere l'uno dall'altro, quando si separano, e invece del desiderio dell'altro sesso si incontra quel desiderio dello stesso che oggi chiamiamo omosessualità". Coerente con se stessa, si rifiuta "di abbandonare il modello della coppia genitoriale mista [eterosessuale], perché la filiazione deve continuare a puntellarsi sulla duplice origine naturale"[57].

Qui il dualismo uomo-donna si addiziona al dualismo omo-etero. Benché sia lecito dubitare dell'ancoraggio naturale di quest'ultimo - Freud ci ha insegnato che l'eterosessualità non è meno problematica dell'omosessualità - il ricorso alla biologia e all'anatomia per risolvere nel contempo la questione filosofica dell'identità e quella, politica, del rapporto tra i sessi segna il ritorno in forze del naturalismo. Pur non portando unità tra le teoriche del femminismo, esso presenta l'incomparabile pregio della semplicità e dell'evidenza. Il famoso "buon senso" caro all'opinione pubblica riprende i suoi diritti dopo decenni di messa in discussione e smantellamento.

Il concetto di dominio maschile

Da trent'anni le tracce del dominio maschile sono oggetto di continua ricerca. Le si rinviene ovunque: nelle istituzioni, nella vita quotidiana privata e professionale, nei rapporti sessuali e nell'inconscio.

L'androcentrismo è ovunque, ed è ancora più temibile perché avanza mascherato. È multiforme, come certi virus. Quando si crede di averlo sterminato, eccolo riprodursi in un modo ancora diverso, Gli uomini, a quanto pare, non hanno mai rinunciato ai privilegi materiali e sessuali procurati dal dominio sulle donne.
Dai lavori pionieristici di Nicole-Claude Mathieu[58], Colette Guillaumin[59] e Christine Delphy[60] ai più recenti studi sugli uomini[61], i sociologi e gli antropologi che si occupano dei rapporti tra i sessi sono concordi nell'affermare, sia pure con vari gradi di convinzione, che "il genere maschile è quello egemone e dominante"[62]. Secondo Daniel Welzer-Lang, l'esistenza del dominio maschile oggi è diventata cosa ovvia: si è creato un consenso nel "designare i rapporti uomo-donna come rapporti sociali di sesso [...]: la compagine sociale è divisa secondo la stessa simbolica che attribuisce agli uomini e al maschile le funzioni nobili e alle donne e al femminile i compiti e le funzioni di minor valore.

Questa divisione del mondo è preservata e regolata dalle violenze: violenze varie e molteplici che, da quelle maschili domestiche agli stupri di guerra, passando per le violenze sul lavoro, tendono a conservare i poteri che gli uomini, collettivamente e individualmente, si attribuiscono a scapito delle donne"[63]. Contro il dominio maschile bisogna quindi lottare così come si lotta contro il razzismo e contro il fascismo.
Le domande che si pongono sono molte: se il dominio maschile è così universale come lo si descrive, da dove può venire la salvezza? Dagli uomini che si proclamano femministi? Che cosa propongono questi ai loro pari per porre fine alla loro condizione di sfruttatori? Una presa di coscienza collettiva seguita da un'autocritica? Ma potrà, questa, produrre un ribaltamento delle mentalità, dei comportamenti e soprattutto delle istituzioni? Il problema deriva dalla formulazione del male.

Ovviamente, ci si guarda bene dall'appellarsi alla natura maschile, che impedirebbe ogni speranza di cambiamento e non offrirebbe altra soluzione che l'inconcepibile separatismo, ma l'universalità dei propositi coagula ed "essenzializza" questa maschilità tradizionale. Il rettore della moschea di Bordeaux, che si dichiara progressista, sostiene che "il dominio maschile è una realtà, un"invariante transculturale' ". E lo spiega con "una differenza irriducibile, il famoso cromosoma Y"[64]. Se si ricusa, come agente causale, il cromosoma y, da dove proviene questa maschilità incistata nel dominio? Per gli uni deriva dall'eterna gelosia dell'uomo nei confronti del potere riproduttivo della donna; per gli altri è parte integrante della sua sessualità. La rigidità è il simbolo della sua potenza, e il pene è un'arma, dicono le radicali americane, di cui l'uomo si serve per possedere e svilire la donna. Per altri ancora, l'essere maschi è fonte di vantaggi sociali.

Assimilati ai capitalisti come le donne ai proletari, gli uomini accettano di cedere potere su punti poco importanti, per meglio conservare l'essenziale. Secondo il sociologo Francois de Singly, "possiamo affermare che il dominio maschile si è accentuato sotto l'apparenza della `neutralizzazione'. La sconfitta dei macho è una realtà ingannevole. Si può dire che la compagine degli uomini abbia ceduto un territorio per resistere meglio all'offensiva della compagine delle donne. Hanno perso quello che tutti e tutte considerano il territorio maschile per eccellenza e hanno conservato gli altri territori dove esercitano la loro supremazia". Singly cita "le tecniche `neutre' di autoaffermazione, come la scienza, l'informatica, la politica"[65].

Leggendo simili frasi, si viene presi dallo scoramento. Il dominio maschile non solo sarebbe "transculturale" ma anche eterno. Alcuni, tuttavia, si rifiutano di arrendersi. Senza giungere alla soluzione auspicata dall'attivista femminista John Stoltenberg, che propugna la fine del maschilismo "rifiutandosi di essere un uomo"[66], altri ripongono speranze nella pedagogia e nella psicoanalisi. Terry Kupers, psichiatra e militante del Nomas (National Organization for Men Against Sexism), suggerisce di "ridefinire il potere in un modo che permetta agli uomini di sentirsi potenti senza peraltro essere sessisti"[67]. Invece, Daniel WelzerLang preferisce la soluzione raccomandata da Michael Kimmel, portavoce del Nomas: "Che gli uomini imparino l'impotenza"[68].

Rimane un duplice senso di disagio. Sia per la diagnosi sia per i rimedi proposti. Diversamente da ciò che affermano i più pessimisti, la condizione delle donne occidentali ha subito notevoli mutamenti, e così i loro comportamenti. E gli uomini sarebbero l'unica parte dell'umanità incapace di evolversi? E l'entità maschile sarebbe immutabile? Disagio di fronte alla generalizzazione in due blocchi contrapposti: la categoria delle donne, la categoria degli uomini. Ciò non significa forse ricadere nella trappola dell'essenzialismo, contro il quale, peraltro, le femministe hanno tanto lottato? Una maschilità universale non esiste, esistono maschilità molteplici, come esistono molteplici femminilità. Le classificazioni binarie sono pericolose perché offuscano la complessità del reale a vantaggio di schemi semplicistici e costrittivi. Disagio anche di fronte alla condanna di un intero sesso, condanna che sa tanto di sessismo. Disagio infine riguardo all'intento "rieducativo" nei confronti degli uomini, che ne richiama un altro di infausta memoria.

La parola d'ordine "cambiare l'uomo", esplicita o implicita che sia, non incita a "lottare contro gli abusi di alcuni uomini" ma discende da un'utopia totalitaria. La democrazia sessuale, sempre imperfetta, si conquista a piccoli passi.

Alla fin fine ci si può domandare se la nozione semplificatrice e unificatrice di "dominio maschile" non rappresenti un ostacolo concettuale. Altro nome di un'alterità radicale, servirebbe a evitare di pensare la complessità, la storicità e l'evoluzione del rapporto fra i sessi. Questo concetto "pigliatutto", rinchiudendo uomini e donne in due campi contrapposti, sbarra la via a qualsiasi speranza di comprendere in che modo si influenzino reciprocamente e impedisce di misurare la loro comune appartenenza all'umanità.

Il manicheismo

Il dualismo antagonistico secerne una nuova gerarchia dei sessi, proprio nel momento stesso in cui si crede di essersene liberati. Alla gerarchia di potere che si cerca di abbattere si contrappone una gerarchia morale. Il sesso dominante viene identificato con il male, il sesso oppresso con il bene. Tale sostituzione viene a essere rafforzata dal nuovo statuto accordato alla vittima, e in primo luogo alla vittima infantile.
Nel corso degli anni novanta, e soprattutto dopo il caso Dutroux (1997), la pedofilia viene finalmente percepita come un crimine troppo a lungo celato. Si richiama ciascuno a non distogliere lo sguardo, a non farsi più complice di una simile infamia. Leggendo la stampa di quegli anni si ha l'impressione che, a un tratto, le violenze pedofile si moltiplichino. Non passa settimana senza che ci colpisca la notizia della messa sotto accusa di un insegnante, di un prete, del responsabile di qualche istituzione. Si diffonde una specie di psicosi nei confronti di chi esercita una professione a contatto con i bambini.

Il 26 agosto 1997, Ségolène Royal, ministro dell'istruzione scolastica, emette una circolare che ricorda agli insegnanti un obbligo già sancito dal Codice penale: "Qualora un allievo confidi a un funzionario della Pubblica istruzione fatti di cui dichiara di essere stato vittima, è compito di questo funzionario avvertire immediatamente e direttamente il procuratore della Repubblica"[69]. Il testo viene illustrato personalmente dal ministro durante il telegiornale di prima serata. L'opinione pubblica comprende che la denuncia da parte del funzionario è un dovere perché la parola del bambino è sacra. Durante una trasmissione televisiva, Ségolène Royal proclama più volte: "Il bambino dice la verità"[70]. Alcuni psichiatri dell'età infantile trovano ampio spazio sui giornali per dire praticamente la stessa cosa, e un'associazione per la difesa dell'infanzia maltrattata reclama addirittura che sia inserita nel nostro diritto "una presunzione di fiducia nel bambino"[71].

Assieme alla rinascita del vecchio adagio "le labbra dei bambini non mentono", s'impone agli intelletti una più generale evidenza: la vittima ha sempre ragione. Come sottolinea Paul Bensoussan, "[l]a corrente dominante impone di credere che la vittima, proprio in quanto vittima, dica indispensabilmente il
vero"[72].

Dal bambino alla donna, il passo è breve. Entrambi sono vittime innocenti e impotenti del maschio aggressivo e dominatore. Insensibilmente, all'idea che la vittima ha sempre ragione si aggiunge anche quella che essa è l'incarnazione del bene minacciata dalla potenza del male. Questa visione manichea ingenera due tipi di conseguenze, che attingono entrambe al differenzialismo.

La prima e più radicale è l'appello al separatismo. Analizzando con molta cura i testi del nazionalismo femminile, "dimensione costante dei movimenti femministi"[73], Liliane Kandel mette in luce la duplice implicazione, ontologica e morale, di questa corrente di pensiero. L'assunto del nazionalismo femminile, già criticato all'inizio degli anni ottanta da Ti-Grace Atkinson, è che esista una specificità "dello spirito, delle facoltà e delle emozioni delle donne, che le costituisce in un'entità radicalmente diversa e inassimilabile alla generalità degli uomini". In uno scritto del 1989, Luce Irigaray esplicita la contrapposizione tra uomini e donne e l'idealizzazione di queste. "Il popolo degli uomini fa ovunque la guerra. É tradizionalmente carnivoro, a volte cannibale. Quindi deve uccidere per mangiare, asservire sempre più la natura"[74]. Il popolo delle donne, mosso dalla virtù materna, è l'inverso. Questo femminismo fa causa comune con l'ecologia e la filosofia vegetariana. Di qui, alcune raccomandazioni di ordine politico: "Le donne dovranno avere il diritto civile a difendere la propria vita e quella dei propri figli; i propri luoghi di abitazione, le proprie tradizioni, la propria religione, contro qualsiasi scelta unilaterale del diritto maschile [...].

I media, come la televisione, dovranno essere per metà adattati alle loro esigenze"; e, poco oltre, la conclusione: "[Le donne] rappresentano la metà dei cittadini del mondo. Esse devono ottenere l'identità civile con i diritti a essa corrispondenti"[75]. In altre parole, un sistema giuridico fondato su "diritti particolari, specifici al comparto delle donne". Come dice Liliane Kandel, dietro la rivendicazione del diritto alla diversità sessuale si profila quello di una diversità dei diritti.

Un'altra corrente del nazionalismo femminile, che appare con il testo inaugurale del Mlf del 1970, esprime un secondo aspetto del manicheismo sessuale: "Affermando 'Noi siamo il popolo' (il che significa il vero popolo, quello dei proletari), le donne, costituite in gruppo sovversivo per eccellenza, quasi messianico, [sono] investite di missioni in altri tempi delegate al popolo in armi, o al proletariato: la Rivoluzione, lo sradicamento di tutte le oppressioni, l'avvento di un'umanità nuova"[76].

Sbaglieremmo a vedere in questo un residuo superato del 1968. Se la terminologia è datata, il pensiero che veicola è lungi dall'essere morto. Se si pensa, come alcune, che non c'è niente da aspettarsi dagli uomini, ingolfati come sono nella loro cultura di dominio, la salvezza non può che provenire dalle donne, loro vittime di benefica e pacifica indole.

In tempi più recenti, ci è toccato assistere in Francia a un altro esempio di manicheismo. In occasione del dibattito sulla parità in politica, trascinatosi dal 1992 al 1999, alcuni temi che si credevano obsoleti sono saliti nuovamente alla ribalta. All'inizio, la parità fu presentata come un mezzo quasi tecnico per ovviare al numero ridicolo delle donne presenti nelle assemblee istituzionali[77]. La soluzione proposta – la metà dei seggi alla metà del cielo - aveva il vantaggio della semplicità e l'oggettività del dato statistico. Non c'entravano il differenzialismo e neanche la natura femminile.

Le donne impegnate in politica, a prescindere dalla loro collocazione, furono le prime a ingoiare l'esca, ancora prima che si parlasse di parità. Tra il 1984 e il 1985, Mariette Sineau ne aveva intervistate una quarantina, e la maggior parte aveva messo in risalto il proprio "senso di umanità": "Maggiore ascolto e maggiore attenzione verso gli altri, una presenza più assidua sul campo [...] sono già oggi riconosciuti alle donne presenti sulla scena politica"[78]. Dopo il 1992, altre donne politiche celebri giustificarono la parità con il richiamo alle loro qualità specifiche. Secondo Simone Veil, "le donne, meno preoccupate di realizzare le proprie ambizioni personali, hanno voglia di agire, di ottenere risultati concreti. A costo di assumersi dei rischi, di rispettare meno la forma [...] esse scavano con determinazione e coraggio per portare le pratiche a buon fine"[79]. Sottinteso: gli uomini non pensano che alle proprie ambizioni personali, se ne fregano dei risultati e mancano di coraggio.

Le fa eco Martine Aubry, secondo la quale le donne hanno più i piedi per terra "perché sono interessate all'azione invece che al potere". Esse possono dunque introdurre "un altro modo di fare politica: più concreto, più vicino alla gente"[80]. Identica convinzione anche da parte di Elisabeth Guigou, che enumera lungamente le virtù delle militanti, "coraggiose, tenaci, devote", e quelle delle donne in posizioni di potere, che antepongono le proprie idee alle ambizioni; essendo "tutte un po' ribelli", esse sanno prendere le distanze dal potere[81], dall'apparato e dalle convenzioni. In breve, sono molto più simpatiche dei colleghi maschi. Ma la Guigou si spinge ancora oltre, utilizzando le tesi del femminismo della differenza, e in particolare quelle di Antoinette Fouque. Convinta da quest'ultima dell'irriducibile diversità dei sessi legata alla procreazione, ella conclude: "Bisogna riconoscere che esistono due sessi [...] portatori di fecondità e speranza. È un primo passo verso la differenziazione simbolica: due sessi, due modi di vedere il mondo"[82] e quindi due modi di fare politica.

Certo, il manicheismo che emana dalle tesi di alcune paritariste non ha mai assunto le provocatorie sembianze del separatismo. Ma la stessa insistenza sul fatto che le donne sono meno guerrafondaie, meno vanitose, più devote alla lotta per la vita e la libertà, delinea, in negativo, un ritratto caricaturale dell'uomo. Di soppiatto, l'ideale materno ha rifatto la sua comparsa per giustificare da un lato la superiorità morale delle donne sugli uomini e dall'altro le loro prerogative. E questo senza che vi fosse opposizione da parte di altre paritariste di solito contrarie a un tale armamentario di idee. Anni interi di questi discorsi hanno dato vita a quella che si potrebbe definire una "giudiziosità" femminile. La donna incarna la vittima della società maschile e, nel contempo, il piccolo soldato coraggioso che ripara i guasti causati dagli uomini in un articolo intitolato Courage, les ravaudeuses! ["Coraggio, rammendatrici!"], Christine Clerc ne dà una mirabile descrizione: "Gli uomini, in schiacciante maggioranza al governo così come in Parlamento, redigono testi che portano i loro nomi, e violano le leggi, moltissime leggi [...].

Le donne, dal canto loro, non solo animano migliaia di associazioni che si occupano degli anziani, dei malati, degli esclusi, delle vittime di violenza, degli adolescenti, dei profughi"; le elette assumono una funzione sociale: "Vegliano su tutto e su tutti [...]. E spesso assumendosi grandi rischi". E quindi rende omaggio, alla rinfusa, al valore di Jacqueline Fravsse, sindaco di Nanterre, al coraggio quotidiano delle elette di Agen, di Strasburgo, di Beauvais e di Amiens. Per non parlare di Parigi, dove una donna, Anne Hidalgo, è passata in prima linea dopo l'accoltellamento del sindaco, Bertrand Delanoè. Alle conquistatrici vada dunque il nostro plauso. Alle rammendatrici il nostro grazie più sentito[83].

Coraggio, senso di sacrificio, devozione: tali sono le virtù della madre buona che ignora per definizione i vizi e le pulsioni del padre cattivo. Tuttavia, guardando da vicino, si registra una realtà più variegata e complessa di quanto il dualismo antagonistico pretenda. Nel 2000 le statistiche ufficiali enunciavano la cifra di 83.800 bambini in pericolo[84]. L'8 dicembre 2002, il ministro della Terza età ha dichiarato che gli anziani maltrattati sono ottocentomila. I bambini e gli anziani sono dunque lasciati soltanto alle cure degli uomini?

L'amalgama non è un buono strumento per la conoscenza. E la condanna collettiva di un sesso è un'ingiustizia che deriva dal sessismo. Facendo della violenza il tristo privilegio degli uomini, confondendo il normale con il patologico, si perviene a una diagnosi distorta, poco propizia al buon ordinamento delle cose.


[1] Definizione del Robert che dice anche: "Metodo consistente nell'inglobare artificialmente varie formazioni, sfruttando un punto comune".
[2] S. Brownmillcr, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani, Milano 1976. Ella afferma: "Lo stupro non è altro che un mezzo di intimidazione consapevole mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di timore".
[3] C. MacKinnon, Sexual Harassment of Working Women , Yale University Press, New Haven 1979.
[4] A. Dworkin, Pornography. Men Possessing Women , Putnam's Sons, New York 1981.
[5] C. MacKinnon, Feminism Unmodified, University Press, Cambridge (Mass.) 1987. cap. 7.
[6] Cfr. G. S. Rubin, "Penser le sexe. Po
« Ultima modifica: Ottobre 10, 2009, 19:08:49 pm da Milo Riano »