Autore Topic: La fabbrica dei divorzi  (Letto 2784 volte)

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Grifone.nero

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La fabbrica dei divorzi
« il: Ottobre 04, 2009, 00:27:02 am »
Massimiliano Fiorin
LA FABBRICA DEI DIVORZI - Il diritto contro la famiglia
Edizioni San Paolo

http://www.studiofiorin.it/site/pagina1?PH...18df1c0272af3df

Dalla prefazione di Claudio Risè:

"Dopo quasi quarant'anni dall'introduzione della legge Fortuna-Baslini, fino a che punto il divorzio ha trasformato la società italiana? Che ne è rimasto del matrimonio tradizionale, e quali sono le prospettive future della famiglia? E' anche per rispondere a queste domande che questo libro descrive la realtà delle separazioni coniugali e dell'affidamento dei figli, in Italia, nel primo decennio del XXI secolo.
Si tratta di elementi utili per un bilancio ormai non rinviabile. A giudicare, infatti, dal numero enorme dei fatti di sangue connessi alla disgregazione dei nuclei familiari, e dai malesseri gravi di cui soffrono le persone coinvolte, a cominciare dai minori, il prezzo pagato anno dopo anno per la conquista "civile" del divorzio è davvero molto alto.
Nel frattempo, in tutto il mondo occidentale, la prima generazione che ha conosciuto il divorzio di massa dei propri genitori è diventata adulta. Chi ne fa parte tende a replicare la tendenza all'instabilità familiare che ha conosciuto fin da bambino, o a evitare ogni forma di unione riconosciuta, per non ripetere quell'esperienza traumatica.
Il fenomeno occidentale dello "sciopero matrimoniale", o marriage strike, nasce proprio da questo stato d'animo. Le conseguenze di tutto ciò sia sulla natalità sia sulle angosce dei figli circa la "tenuta" della coppia genitoriale sono molto profonde, ed ancora difficili da valutare pienamente. Così come difficile da valutare è lo stesso futuro di quella che appare, oggi, come una vera e propria società post-matrimoniale.
Nel frattempo, è necessario osservare il fenomeno in modo nuovo, senza più i pregiudizi ideologici degli anni settanta del secolo scorso, che invece sovrabbondano ancora. E' in quest'ottica (secondo lo stesso autore "politicamente scorretta"), che il libro intende verificare la fondatezza dei luoghi comuni della società divorzista, partendo dal consiglio evangelico secondo il quale è dalla bontà dei suoi frutti che si riconosce la verità di una profezia.
Dal crollo demografico all'aumento dell'instabilità economica, dall'impoverimento dei giovani fino al dilagare dei cosiddetti "oceani di sofferenza", nelle pagine seguenti si cerca di squarciare il velo sulle vere cause di questi fattori di crisi. Finendo col suggerire l'idea che l'istituto del divorzio debba essere ripensato dalle fondamenta, prima che la società occidentale ne venga travolta.
Il libro parte dunque dall'esame di ciò che avviene ogni giorno nei Tribunali e negli studi degli avvocati, dove la "fabbrica dei divorzi" si muove secondo una logica ferrea ed univoca, da catena di montaggio. Dai fatti raccontati risulta con chiarezza quanto sia opportuno che tutti gli operatori di questo settore - avvocati, magistrati e consulenti - rivedano i loro modi di pensare e di agire.
In seguito, il discorso viene esteso all'intera cultura occidentale, alla ricerca di come e dove tutto sia iniziato. Ne risulta, soprattutto, che è il ritorno della figura del padre - segno di autorità, di stabilità, di ordine (ma anche di autentico sguardo verso il futuro) - ciò di cui la nostra società ha più profondamente bisogno.
Su un piano più strettamente giuridico, si tenta poi di rompere il tabù dell'intangibilità della legge sul divorzio, indicando modelli come il cosiddetto covenant marriage, sempre più diffuso negli Stati Uniti, per riscoprire in essi il significato più profondo del matrimonio. Da tutto ciò prende infine forma una sorta di decalogo ideale per gli operatori del diritto, utile a tutti coloro che vogliono capire meglio le conflittualità coniugali, con il quale affrontare il quotidiano in modo diverso, mediante un'opzione più consapevole in favore della funzione della famiglia.
L'autore del libro è un avvocato civilista. Pur conoscendo tutti gli aspetti del fenomeno, egli tiene a rifiutare per se stesso l'etichetta di "matrimonialista" o di "familiarista", proprio in quanto pensa che la mentalità ristretta degli specialisti che si occupano del problema dovrebbe essere profondamente rivista.
Il libro, tuttavia, non è destinata unicamente agli specialisti del diritto ed agli operatori dei servizi sociali, né ai soli esperti di psicologia della famiglia. Tutti coloro che nella loro vita sono entrati in contatto con la "fabbrica dei divorzi", per esperienze personali o di lavoro, potranno qui trovare un modo diverso di guardare ad un fenomeno che, nonostante la sua imponenza e drammaticità, per molti versi è ancora inesplorato.
Dai racconti e dalle argomentazioni del libro, appare chiaro che la realtà del divorzio ancora oggi è coperta dalla nebbia dei pregiudizi ideologici e dei luoghi comuni. Esattamente come l'iceberg al quale si avvicinavano i passeggeri che ballavano sul ponte del Titanic".

Da "La Fabbrica dei Divorzi", pagg. 275-276:

" ... le situazioni di conflitto tra coniugi esistono da quando esiste la famiglia. Cioè, dalla notte dei tempi, in ogni civiltà che sia mai sorta su questa terra, senza alcuna eccezione. Nella nostra società occidentale, così evoluta ed emancipata, oggi sarebbe possibile affrontare questi conflitti con un grado di tutela per il coniuge più debole che ancora cinquant'anni fa - quando ancora si discuteva dell'esistenza di un "diritto di correzione" del marito nei confronti della moglie - sarebbe stato inconcepibile. E invece, piuttosto che cercare un modello di società che sappia garantire in modo più avanzato l'alleanza naturale tra uomo e donna, l'Occidente divorzista ha costruito un sistema che mette i due sessi l'uno contro l'altro, esaltando le ragioni egoistiche di ciascuno.
In fondo, per chi sa osservare la realtà senza pregiudizi, basterebbe un minimo di esperienza per capire che in definitiva la gente oggi divorzia così facilmente soltanto perché può farlo. Sono ormai in pochissimi quelli che riescono a farsi aiutare, in quanto abbiano trovato qualcuno che abbia saputo indicare loro una diversa soluzione. Peraltro, ai nostri giorni sono ancora meno - in una società dove ormai da due generazioni un giovane su tre, e anche più, cresce assieme alla sola madre - quelli che hanno ricevuto fin da piccoli un'educazione di base sufficiente per saper fare famiglia, per quando nella vita dovrebbe venire il proprio turno.
Così, i luoghi comuni... si sono trasformati - non solo per gli interessati ma anche per i loro avvocati, e per tutti gli altri operatori del sistema - nei criteri di fondo che tuttora rendono assai prospera e apparentemente invincibile la fabbrica dei divorzi.
In sintesi, possiamo dire con certezza che la teoria del divorzio come male minore, nella maggior parte dei casi, rappresenta solo un falso pregiudizio per offrire un alibi alla coscienza di chi quel divorzio lo vuole, così come delle altre persone che vengono coinvolte. Però è proprio quel pregiudizio che attira milioni di persone e i loro figli nel tritacarne divorzista. Il più delle volte, senza che alcuno di essi riesca mai a incontrare, dall'inizio della crisi fino ai suoi esiti più rovinosi, qualcuno che sia in grado di offrire in modo credibile un'alternativa.
O almeno - come si diceva in precedenza - che sia in grado di dirgli qualche "no", che poi è il principio di ogni percorso educativo.
Perché, alla fin fine, si tratta solo di un problema di educazione".

Da "La Fabbrica dei Divorzi", pag. 25:

"... Da pietosa esigenza per legalizzare situazioni eccezionali, nate da matrimoni tragicamente sbagliati, il divorzio si è dunque trasformato in un diritto insindacabile della persona. Un diritto che l'autorità pubblica si sente tenuta a riconoscere e garantire - e persino favorire - nel modo più ampio possibile. Nel nuovo sistema giudiziario, "la famiglia, in definitiva, tende a porsi in funzione della persona", ha riconosciuto Cesare Massimo Bianca, autore di un trattato di diritto civile che risale agli anni '80 ed è considerato tuttora tra i più autorevoli.
In quest'ottica, la "liberazione" dell'individuo dai legami familiari è stata assecondata come un processo positivo. La visione di fondo è diventata quella del primato dell'individuo, da liberare dalla potenzialità oppressiva della famiglia tradizionale, vista come espressione di un passato autoritario.
Se quasi cinquant'anni fa il giurista Arturo Carlo Jemolo, con espressione che fece epoca, sosteneva che la famiglia è un'isola che il mare del diritto dovrebbe solo lambire, oggi invece si può ipotizzare che la prassi giuridica in tema di separazione coniugale, divorzio e affidamento dei figli minori abbia invece contribuito non poco a sommergerla".


Se possibile, leggete pure l'ipotetica continuazione di quel libro: "presunto colpevole". E si capirà il meccanismo perverso delle macchine sfascia-famiglie.

Milo Riano

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Re: La fabbrica dei divorzi
« Risposta #1 il: Ottobre 10, 2009, 17:18:10 pm »

Milo Riano

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Re: La fabbrica dei divorzi
« Risposta #2 il: Ottobre 10, 2009, 17:19:31 pm »
25 ottobre 2008

Balle da divorzio

Perché il sistema facilita le coppie che vogliono rompere e non protegge famiglie e figli

di Francesco Agnoli

Nella mia non lunga carriera di insegnante, capita ormai sempre più spesso. Sono a udienza, si avvicina un genitore, e io mi alzo, gli preparo la sedia, con un po’ di premura. Dovrò dirgli, penso dentro di me, tutta la verità, perché il caso è grave. Non si può nicchiare, tergiversare, come quando l’alunno è solo un po’ furbo o svogliato. Il genitore si siede, e prima che io inizi a spiegare gli strani comportamenti, le tristezze profonde del ragazzo, si affretta a dirmi: “Sono venuto io, mio marito (o mia moglie) non c’è, siamo divorziati… ma il ragazzo/a l’ha presa bene, ha capito…”.

Ecco, mi è successo troppe volte, ormai, perché non abbia compreso come stanno le cose: nel 95 per cento dei casi, a stare cauti, i problemi di un ragazzo, quelli seri, intendo, sono problemi familiari, dei genitori. I quali in verità, sotto sotto, lo sanno, ma non vogliono ammetterlo. Per questo si consolano dicendo che il figlio ha “capito”, che in fondo è “normale”, lo fanno in tanti, come ripetono giornali, tv, psicologi e avvocati. Però, quei ragazzi che magari hanno l’anoressia, che si fanno tagli sulle braccia, o che sembrano, a tratti, schizofrenici, in verità sono inquieti o apatici, insomma tristi, talora sino al suicidio. Non hanno “capito” proprio nulla, perché nessuno si rassegna a perdere l’affetto di coloro che lo hanno generato, cullato, accudito. Chi insegna, questo lo sa per esperienza. E i casi difficili aumentano sempre di più, proporzionalmente al crescere dei divorzi: 27 mila nel 1994, 45 mila nel 2004, 61.153 nel 2006! Un’ecatombe. Insegnare, ci diciamo spesso tra di noi, diventa sempre più impegnativo e stressante: sempre di più molti ragazzi non sanno concentrarsi, non riescono a stare fermi, non sopportano un minimo di disciplina. Indisciplinati lo diventano, anzitutto, nella testa, piena di paure, di ansie, di turbamenti, respirati in casa, in famiglia, vivendo accanto a due genitori conflittuali, o passando da una casa all’altra, dalla mamma, alla nonna, al padre, allo psicologo, con l’aggiunta, quando va ancora peggio, di nuove figure, nuovi “padri” o “madri”, cioè, secondo un linguaggio antico e ben chiaro, “patrigni” e “matrigne”!

E poi, quando succede il patatrac, quando un ragazzo si uccide, quando fugge di casa, quando finisce nella droga, si cercano mille scuse. Eppure, anche quando è chiaro che l’unica vera causa è la disgregazione familiare, è la mancanza di amore in cui questi ragazzi sono cresciuti, c’è sempre qualcuno che si affretta a negarlo: no, non si può dire, il divorzio è intoccabile, un diritto, una “conquista di civiltà”! Guai solo a pensare che la rottura del vincolo coniugale sia anzitutto fonte di infinito dolore per tutti i soggetti coinvolti! Guai solo a sussurrare che se i giovani, oggi, esitano a mollare le ancore, se non vogliono affrontare la vita in due, se hanno paura di sposarsi e di fare dei figli, è spesso perché, a loro volta, hanno vissuto sulla loro carne l’insicurezza, l’instabilità, il fallimento dell’amore dei loro genitori. Un’analoga esperienza viene raccontata in un libro, unico nel suo genere, “La fabbrica dei divorzi” (san Paolo), da un avvocato, Massimiliano Fiorin, del foro di Bologna. Fiorin descrive con passione e competenza il meccanismo tritacarne dell’individualismo odierno.

Al centro della “fabbrica”, infatti, c’è la convinzione post sessantottina per cui il divorzio è un “diritto”, un bene in sé, una via alternativa di realizzazione, quando la strada precedentemente imboccata si rivela scomoda e difficile. Il divorzio, spiega Fiorin, fu introdotto in Italia con gli stessi ragionamenti con cui fu legalizzato l’aborto: come estrema ratio, come soluzione a qualche caso difficilissimo, patologico, abnorme. Si può uccidere il figlio, sì, ma solo in determinate e rarissime circostanze. Così fu fatta passare all’opinione pubblica. Lo stesso col divorzio. La giurisprudenza entrò così a normare il diritto dei genitori sul figlio, e il diritto dei genitori, indipendentemente dai figli. A poco a poco, l’aborto e il divorzio sono diventati fenomeni di massa, perdendo così il loro carattere di eccezionalità, e divenendo dei veri e propri “diritti individuali”.

Se lo fanno in tanti, allora è normale, anzi giusto, sacrosanto. La realtà della “fabbrica dei divorzi”, spiega Fiorin, è che nel nostro paese vige una legge amplissima, che permette il no-fault-divorce, cioè il divorzio senza colpa: da noi basta una genericissima “incompatibilità caratteriale”, mentre in Inghilterra, ad esempio, “per ottenere il divorzio giudiziale occorre provare l’adulterio, l’abbandono o quantomeno un ‘comportamento irragionevole’ del coniuge. Non vi è neppure, insomma, un vago “favor familiae”. Al contrario, vige un quasi indiscutibile “favor divortii”.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/1246

Milo Riano

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Re: La fabbrica dei divorzi
« Risposta #3 il: Ottobre 10, 2009, 17:23:03 pm »
Dati inconsistenti per attaccare la famiglia
(in Avvenire, "è famiglia", 28.11.2008)

di Giacomo Samek Lodovici

«La violenza maschile è la prima causa di morte per una donna dai 15 ai 60 anni».

Era la denuncia di un manifesto di un partito di estrema sinistra durante una manifestazione contro la violenza sulle donne del novembre 2007, e può essere interessante riconsiderare questa tesi dopo la giornata contro le violenze subite dalle donne, svoltasi martedì.

Sia chiaro: anche un solo caso di violenza (di qualsiasi tipo) è esecrabile, va condannato nel modo più duro possibile e non bisogna minimizzare. Però non bisogna cadere nell'estremo opposto, quello di chi esagera molto l'incidenza percentuale dei decessi femminili causati dagli uomini e usa questo argomento per attaccare la figura del padre o l'istituto della famiglia. Cioè bisogna fermamente chiarire che anche un solo caso di violenza degli uomini verso le donne è ignobile, ma, nello stesso tempo, occorre altresì prendere le distanze da certe campagne femministe che usano questi fatti ignobili per attaccare la famiglia e la figura del padre. Questo senza nulla togliere al fatto che bisogna incoraggiare tutte le donne che subiscono violenze a denunciarle. Anche perché le donne sono molto più esposte alla violenza, sono a rischio se escono di sera, ecc., il che è profondamente ingiusto.

M. Fiorin (La fabbrica dei divorzi, San Paolo 2008, pp. 153-160) scrive che l'ex ministro Pollastrini ha riferito in occasioni ufficiali che «in Italia le donne tra i 15 e i 50 anni muoiono più a causa di violenze che per malattie o incidenti. E ciò avviene nella maggior parte dei casi in famiglia o per mano di persone conosciute». Per Fiorin questi dati sono inconsistenti, dato che i più recenti dati definitivi dell'Istat sulle cause di mortalità in Italia sono del 2002 e dicono che, in quell'anno, le donne decedute per effetto di lesioni provocate intenzionalmente sono state 159, a cui si aggiungono altre 278 donne morte per lesioni di origine non accertata. Le donne tra i 15 e i 49 anni morte per omicidio o in conseguenza di lesioni volontarie, non necessariamente maschili, sono state 85, su un totale di circa 7.500 decessi: l'omicidio e le lesioni intenzionali hanno causato la morte delle donne nell'1,49 % dei casi. In tal modo, tra le altre cause di morte femminile, comprese le malattie, l'omicidio era al nono posto, non al primo. È vero che molte donne non denunciano le violenze subite, ma i dati appena citati si riferiscono ai decessi, che è ben difficile che sfuggano alle statistiche.

E, per quanto riguarda le violenze non mortali, per amore di verità bisogna anche dire che oltre a quelle non denunciate ci sono anche quelle che invece sono inventate. Infatti, dice Fiorin, in molte cause di separazione e di divorzio non mancano donne che inventano violenze/abusi inesistenti, per ottenere dal giudice le migliori condizioni possibili.

Insomma, è sacrosanto non abbassare la guardia nei confronti delle violenze sulle donne, ma a patto di non brandire l'argomento per attaccare la famiglia o per ottenere la rimozione del padre.

Grifone.nero

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Re: La fabbrica dei divorzi
« Risposta #4 il: Ottobre 10, 2009, 17:52:36 pm »
Dati inconsistenti per attaccare la famiglia
(in Avvenire, "è famiglia", 28.11.2008)

di Giacomo Samek Lodovici

«La violenza maschile è la prima causa di morte per una donna dai 15 ai 60 anni».

Era la denuncia di un manifesto di un partito di estrema sinistra durante una manifestazione contro la violenza sulle donne del novembre 2007, e può essere interessante riconsiderare questa tesi dopo la giornata contro le violenze subite dalle donne, svoltasi martedì.

Sia chiaro: anche un solo caso di violenza (di qualsiasi tipo) è esecrabile, va condannato nel modo più duro possibile e non bisogna minimizzare. Però non bisogna cadere nell'estremo opposto, quello di chi esagera molto l'incidenza percentuale dei decessi femminili causati dagli uomini e usa questo argomento per attaccare la figura del padre o l'istituto della famiglia. Cioè bisogna fermamente chiarire che anche un solo caso di violenza degli uomini verso le donne è ignobile, ma, nello stesso tempo, occorre altresì prendere le distanze da certe campagne femministe che usano questi fatti ignobili per attaccare la famiglia e la figura del padre. Questo senza nulla togliere al fatto che bisogna incoraggiare tutte le donne che subiscono violenze a denunciarle. Anche perché le donne sono molto più esposte alla violenza, sono a rischio se escono di sera, ecc., il che è profondamente ingiusto.

M. Fiorin (La fabbrica dei divorzi, San Paolo 2008, pp. 153-160) scrive che l'ex ministro Pollastrini ha riferito in occasioni ufficiali che «in Italia le donne tra i 15 e i 50 anni muoiono più a causa di violenze che per malattie o incidenti. E ciò avviene nella maggior parte dei casi in famiglia o per mano di persone conosciute». Per Fiorin questi dati sono inconsistenti, dato che i più recenti dati definitivi dell'Istat sulle cause di mortalità in Italia sono del 2002 e dicono che, in quell'anno, le donne decedute per effetto di lesioni provocate intenzionalmente sono state 159, a cui si aggiungono altre 278 donne morte per lesioni di origine non accertata. Le donne tra i 15 e i 49 anni morte per omicidio o in conseguenza di lesioni volontarie, non necessariamente maschili, sono state 85, su un totale di circa 7.500 decessi: l'omicidio e le lesioni intenzionali hanno causato la morte delle donne nell'1,49 % dei casi. In tal modo, tra le altre cause di morte femminile, comprese le malattie, l'omicidio era al nono posto, non al primo. È vero che molte donne non denunciano le violenze subite, ma i dati appena citati si riferiscono ai decessi, che è ben difficile che sfuggano alle statistiche.

E, per quanto riguarda le violenze non mortali, per amore di verità bisogna anche dire che oltre a quelle non denunciate ci sono anche quelle che invece sono inventate. Infatti, dice Fiorin, in molte cause di separazione e di divorzio non mancano donne che inventano violenze/abusi inesistenti, per ottenere dal giudice le migliori condizioni possibili.

Insomma, è sacrosanto non abbassare la guardia nei confronti delle violenze sulle donne, ma a patto di non brandire l'argomento per attaccare la famiglia o per ottenere la rimozione del padre.


Le lobby oscure sono interessate a questo. Eliminando il padre di famiglia, distruggi la famiglia, ergo la società è più vulnerabile. COme mai allora anni e anni fa non si parlava mai di lobby?!?!
Non è solo il femminismo...
Vedremo cosa succederà col trattato di lisbona. Di sicuro in europa, prendono sempre più voti partiti di estrema dx che chiedono di uscire dall'UE

Offline TMan075

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Re: La fabbrica dei divorzi
« Risposta #5 il: Ottobre 10, 2009, 18:16:45 pm »
Le lobby oscure sono interessate a questo. Eliminando il padre di famiglia, distruggi la famiglia, ergo la società è più vulnerabile. COme mai allora anni e anni fa non si parlava mai di lobby?!?!
Non è solo il femminismo...
Vedremo cosa succederà col trattato di lisbona. Di sicuro in europa, prendono sempre più voti partiti di estrema dx che chiedono di uscire dall'UE

L'Europa che ha perso la propria indentità ha solo favorito le lobby bancarie.
Il femminismo e le sinistre fanno parte, insieme ad un unica regia, di distruzione dell'uomo occidentale.
Il femminsimo distrugge le famiglie, l'uomo non reagisce più per mancanza di ideali e l'Islam ci invade per colmare il "vuoto" di identità che rimane...
E il Parlamento Europeo viene a negare l'identità cristiana che, forse, era l'unica che ci teneva uniti sia come intenti che come famiglie...
"Un giorno senza sangue è come un giorno senza sole"
John "the duke" Wayne