A chi interessa, ecco AMBDP Cayetano Lopez Y Martinez eccc
Adesso è vietato anche criticare le donne
Scritto da Annamaria Bernardini De Pace
sabato 13 marzo 2010
il Giornale - Se, dopo avere offerto il mio aiuto a un
uomo affaticato nello scaricare sacchi di calce da un
camion, egli mi dicesse: «No grazie, perché lei è
donna» non mi offenderei né mi sentirei diffamata
qualora ci fossero almeno tre persone presenti. Se
avessi bisogno di una guardia del corpo, vorrei un
uomo. Non mi basterebbe una donna, per quanto
nerboruta e perfino un po’ androgina. Non riterrei
davvero di compiere un reato, qualora esprimessi la
mia precisa preferenza, «mi serve un uomo» in
presenza di più persone e anche della stessa
bodyguard scartata.
In osservanza della nota sentenza...
Se una lesbica, desiderosa di maternità, dicesse alla
compagna «qui serve un uomo», la compagna non
potrebbe mai sentirsi ingiuriata per il solo fatto di essere donna e di sentirsi ricordare le
diversità biologiche.
Invece, la Cassazione penale ha deciso che le critiche verso una donna, se riferite al solo fatto
biologico, sono lesive della dignità della persona.
Il fatto in questione riporta a un articolo di giornale dal titolo: «Carcere: per dirigerlo serve un
uomo». Un sindacalista, nel corpo dell’intervista, chiariva che la struttura penitenziaria, fino a
quel momento diretta da una donna, richiedeva a suo parere «una gestione maschile».
Le esimenti del diritto di critica e di cronaca non sono state considerate valide dai supremi
giudici, che hanno condannato gli imputati - sindacalista, editore e giornalista - attribuendo
oggettiva portata diffamatoria alla frase del sindacalista e al titolo del pezzo, poiché si tratta di
un «riferimento gratuito, sganciato dai fatti, che costituisce una mera valutazione, ripresa a
caratteri cubitali nel titolo... sganciata da ogni dato gestionale e riferita al solo fatto di essere
una donna, gratuito apprezzamento contrario alla dignità della persona perché ancorato al
profilo, ritenuto decisivo, che deriva dal dato biologico della appartenenza all’uno o all’altro
sesso».
Dunque, se ho ben capito il senso della sentenza, qualora si fosse detto, per ipotesi, che la
direttrice era incapace, pigra, alcolizzata o inesperta e si fossero portati fatti a riprova delle
gravi affermazioni, gli imputati non sarebbero stati condannati, perché gli apprezzamenti del
sindacalista non sarebbero stati «gratuiti». Cioè, le considerazioni specifiche, se comprovate,
non avrebbero leso la dignità della persona, neppure a mezzo stampa, mentre il dato generico
di appartenenza al sesso femminile si risolverebbe, in sostanza, in un’arbitraria discriminazione
di genere «perché ancorato al profilo, ritenuto decisivo» del dato biologico.
Be’, per quanto il ruolo di direttore di carcere sia aperto a entrambi i sessi e per quanto molte
donne se la cavino egregiamente in questa funzione, forse è legittimamente pensabile - e
dicibile - che qualche carcere e qualche direttrice non siano facilmente compatibili. Una
determinata realtà carceraria di per sé, infatti, può avere l’esigenza di essere organizzata da un
uomo più che da una donna. Non perché entrambi i sessi non abbiano medesimi doveri e
opportunità, nonché competenze, giusta l’eguaglianza giuridica e sociale, ma perché non si può
spensieratamente affermare, in termini categorici, che uomo e donna siano uguali anche
biologicamente e psichicamente.
Il dato biologico dell’appartenenza all’uno o all’altro sesso, è proprio ciò che fa muovere il
mondo e condiziona i comportamenti umani e il pensiero individuale, senza necessariamente
integrare fattispecie di reato quando se ne sottolinei la differenza. Se il camionista non vuole il
mio aiuto fisico, perché sono donna, non mi offendo, ma anzi apprezzo il suo senso protettivo
maschile. Se un imputato mi rifiuta quale difensore, preferisco sentirmi dire «perché donna»,
piuttosto che «incompetente». Nel primo caso giudico il non cliente un cretino, nel secondo un
ingiurioso.
Affermare «qui serve un uomo» è un pensiero, anche non condivisibile, ma può rimanere
un’opinione personale, che non mi sembra possa far perdere neppure un grammo della
reputazione di chicchessia, più di quanto ne potrebbero giocare racconti particolareggiati su
eventuali documentate inefficienze del ruolo in discussione.
Sarebbe potuta essere considerata una frase infelice, forse maschilista, forse anche no, quella
del sindacalista. Ma la frase in sé, dov’è che lede la reputazione? Dove si è consumata la lesione
dell’identità personale e professionale della direttrice per il richiamo obiettivo e indiscutibile
del dato biologico? Non tutte le affermazioni maschiliste e inopportune costituiscono reato, se
no quasi tutte le donne ogni giorno consumerebbero il loro tempo a scrivere querele.
In nome della legge.