Fonte :
http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2014/08/12/laffaire-maschileplurale-tutti-sconfitti/Sono io quello di Maschile plurale accusato da una mia ex compagna di aver agito violenza su di lei. Non è per provare a convincere qualcuno/a dell’infondatezza di tali accuse che ho deciso di prendere adesso la parola. Considero, anzi, non solo per nulla sorprendente, ma perfino giusto che una certa sensazione di dubbio rimanga, sempre e comunque, anche in chi leggesse queste mie righe con animo il meno pregiudizialmente ostile. Ho passato molti anni a dire che nessun uomo può pretendere di essere considerato immune da possibili comportamenti violenti, e non ho assolutamente cambiato idea in questi mesi. Tante persone in quest’ultimo, surreale periodo mi hanno detto: non crederò mai che uno come te abbia davvero potuto commettere gli atti di cui è accusato. A tutte ho risposto: ti ringrazio ma ti sbagli, in un ambito come quello della violenza maschile sulle donne non può esistere sulla faccia della terra alcun uomo, neppure il più insospettabile, che di fronte all’accusa di una donna possa essere considerato a priori incolpevole. Da sempre la penso così. Tutto quello che ho sempre pensato della violenza maschile sulle donne non è cambiato di una virgola a causa di questa vicenda.
Non ho però mai pensato che invece le donne, perché donne, siano naturalmente o culturalmente immuni da comportamenti aggressivi, distruttivi, anche violenti; ma in generale la violenza nelle relazioni è chiaramente una prerogativa maschile, ed è un comportamento che gode di una più o meno esplicita complicità, connivenza, impunità di fatto anche sul piano giuridico. Anche questo l’ho sempre pensato e continuo a pensarlo oggi. Ma è possibile che uno che da tanti anni dice tutto questo – e magari ci crede anche sinceramente – abbia davvero commesso violenza su una donna? Certo che è possibile. Come è possibile, d’altra parte, che non lo abbia fatto. O addirittura che in realtà costui venga accusato di averlo fatto perché questo è il modo più rapido, sicuro e potente di rovinare la sua vita personale, familiare, amicale, professionale ecc. Anche questo è possibile. Per me, quest’ultima ipotesi è molto più che una possibilità. Non chiedo a nessuna/o di crederci, ma di considerare la seguente domanda: c’è forse qualcuno/a che, in tutta onestà, possa affermare di escludere categoricamente una pur minima probabilità che questo possa mai succedere?
Abbiamo visto accadere, troppo spesso, che le persone reagiscano alla fine non voluta di una relazione in modo decisamente aggressivo; le persone, dico, perché non sarebbe esatto affermare che si tratta di comportamenti esclusivamente maschili, sebbene questi siano certamente quelli di gran lunga più gravi, sia quantitativamente che qualitativamente. Non voglio, ripeto, convincere nessuna/o che questa sia l’unica chiave in cui leggere tutta la storia. Per certi aspetti, non lo penso neppure io: per esempio, varie dinamiche di quella relazione mi hanno interrogato e mi interrogano autocriticamente come uomo, è ovvio; e proprio per tale ragione sento di poter dire che queste dinamiche, pur essendo connesse a un contesto di disagio cui si è voluto trovare soluzione attraverso le accuse di violenza, nulla hanno a che fare con la violenza. Ma queste potranno apparire interpretazioni meramente soggettive, e senz’altro è logico che sia così. Ciò che adesso mi sembra più importante è piuttosto soffermarmi su alcuni fatti che non sono mai emersi in questi mesi, e che dal mio punto di vista consentono di mettere quelle stesse accuse in una luce del tutto differente. Quando dico fatti, mi riferisco a eventi concreti e anche documentabili – di cui quindi esistono riscontri molto chiari: decine di mail, per esempio, decine di testimonianze di terzi -; ovvio che poi i “fatti” si possono raccontare e interpretare in vari modi, e sempre a partire da un punto di vista soggettivo, ma forse accennarvi sarà comunque utile perché chi legge si formi le proprie impressioni e valutazioni sulla base di più ampie informazioni disponibili.
La mia, di valutazione, è questa: le gravissime accuse che mi colpiscono sono parte integrante di un più complesso e continuato comportamento aggressivo e distruttivo della mia ex compagna nei miei confronti, iniziato nel periodo successivo alla nostra separazione (nulla di lontanamente paragonabile a tali accuse mi è stato mai rimproverato nel corso del nostro rapporto, per quello che conta saperlo). Non è poi tanto un paradosso, che un’aggressione di questa natura preveda la costruzione e la diffusione di gravissime accuse a mio carico riguardanti la violenza. Ma devo ammettere che io stesso, soltanto fino a dieci mesi fa, avrei fatto davvero molta fatica a interpretare una vicenda come questa in una simile prospettiva; e francamente non posso affatto biasimare chi, conoscendo magari solo una parte della storia, rimane scettica/o di fronte all’idea di una donna che spinge il proprio risentimento al punto di accusare di violenza un uomo, guardacaso, da lungo tempo impegnato in prima fila contro la violenza maschile sulle donne, incanalando così in un percorso di demolizione totale di quell’uomo la propria rabbia profonda nei suoi confronti.
È questa un’idea che a prima vista cozza contro molte delle evidenze e dei presupposti politici connessi alla violenza maschile sulle donne come fenomeno generale: per ovvie ragioni, è molto più credibile l’accusa di violenza avanzata da lei, e astrattamente parlando pare anche a me ineccepibile che debba essere proprio così. Sappiamo bene, inoltre, che spesso gli autori di violenza non solo la negano (e talvolta appaiono letteralmente incapaci di riconoscerla), ma tendono a presentarsi loro stessi come vittime; se guardiamo alla casistica generale, tali evidenze sono indiscutibili. Tutto questo non era ignoto, evidentemente, a chi ha scelto di dare questa forma compiuta alla propria sofferenza, sapendo quindi benissimo che una simile impalcatura denigratoria sarebbe risultata praticamente inattaccabile. Ma andiamo alla storia, cioè al contesto di cui le accuse nei miei confronti sono parte inscindibile.
Questa è una vicenda conflittuale che all’inizio somiglia a mille altre fra un lui e una lei. Nel settembre 2013 termina una relazione, iniziata poco più di un anno prima; ma è solo nelle ultimissime settimane che sono dolorosamente emersi gravi problemi di comprensione reciproca, conflitti senza apparente soluzione, profonde disillusioni. Termina per volontà di lui, che in quei giorni esprime una crescente sfiducia sul loro futuro; lei, che fino a ieri aveva sempre manifestato il proprio benessere per questa relazione, rimane attonita.
Nei mesi successivi, però (e questo è un punto non secondario), sosterrà di aver preso lei la decisione di chiudere la relazione, e proprio dopo aver preso pienamente coscienza del comportamento violento di lui: eppure, da varie fonti inoppugnabili emerge chiaramente come lei, ancora dopo più di un mese dalla separazione, esprimesse la speranza che questo esito non fosse definitivo. E altre settimane ancora dovranno passare prima che lei gli rivolga per la prima volta l’accusa di violenza psicologica; ma su entrambi questi importanti aspetti torneremo fra breve.
In generale, riguardo a ciò che debba precisamente intendersi con tale definizione, è da tenere comunque presente che a proposito dei comportamenti che costituiscono violenza psicologica (fra gli altri, attacchi verbali, insulti, denigrazione, isolamento sociale, minacce varie) il sito di D.i.Re., rete italiana di centri antiviolenza, sottolinea:
È importante ricordare che nei momenti di rabbia tutti possiamo usare parole provocatorie, oltraggiose o sprezzanti, possiamo agire comportamenti fuori luogo ma di solito seguiti da rimorsi e pentimenti. Nella violenza psicologica invece non si tratta di un impeto d’ira momentaneo ma di un tormento costante e intenzionale con l’obiettivo di sottomettere l’altro/a e mantenere il proprio potere e controllo (
www.direcontrolaviolenza.it/cose-la-violenza-contro-le-donne).
Dopo un primo brevissimo periodo di silenzio, lei inizia dunque a inviargli messaggi pieni di pesanti ingiurie, sbeffeggiamenti, derisioni varie; al telefono è sprezzante, e così per settimane. Agli insulti si accompagnano insistiti riferimenti a mille deficienze, contraddizioni, incapacità di lui: prodotto di una genealogia familiare mentalmente disturbata, affetto da comportamenti relazionali seriamente patologici, oltre che da pesanti fobie, ossessioni e manie; asociale e autoritario con chiunque, meschino borghese che “fa il proletario”; sessualmente disturbato in modo preoccupante ecc.
Questa stigmatizzazione a tutto tondo dovrebbe minare in profondità la sua autostima, convincerlo di essere gravemente immaturo, malato, incapace di interagire con gli altri esseri umani e soprattutto con una donna in modo sano.
Quando poi lei, un mese dopo la separazione, gli domanda se davvero è convinto che tutto sia definitivamente finito, lui risponde che a questo punto non è più pensabile tornare indietro. Da qui in poi, non senza avergli fatto anche la dubbia proposta di iniziare insieme una terapia di coppia, lei aggiunge agli insulti vari cenni alla presunta slealtà di molti amici e conoscenti di lui, che da lungo tempo le avrebbero confidenzialmente fornito ampie conferme di questo quadro patologico. Per di più, le insistenze di lei sulla sua “malattia” adesso investono un numero crescente di persone della cerchia amicale di lui, contattate via mail, per telefono, di persona, e a cui si chiede in modo drammatico di condividere tale analisi e dunque di intervenire urgentemente per “aiutarlo”. Vengono coinvolti in questa fase numerosi amici e amiche, familiari, persino ex compagne di lui. Alcune di queste persone vengono anche informate di dettagli “rivelatori” sulla infanzia di lui e sulle vite dei membri della sua famiglia d’origine, oltre che naturalmente dei suoi infiniti atteggiamenti patologici manifestatisi nel corso della relazione.
Tale operazione complessiva dovrebbe, evidentemente, creare un isolamento intorno a lui, fargli insomma terra bruciata tutt’intorno: stando a quello che lei racconta, lui non potrebbe più fidarsi praticamente di nessuno, mentre amici, conoscenti, familiari dovrebbero prendere le distanze da lui o, nel migliore dei casi, trattarlo come una persona con gravi disturbi di personalità.
Si noti che fino a questo punto – e sono passati ormai quasi due mesi dalla separazione – non gli sono ancora state compiutamente contestate accuse di violenza psicologica; il tema fisso è “solo” una grave deficienza relazionale, affettiva, emotiva di lui. Nelle prime settimane, tentativi di lui di comprendere le ragioni di questo improvviso attacco ottengono come risposta solo un supplemento dei soliti insulti e sberleffi, e per meglio ridicolizzarlo vengono coinvolti negli scambi via posta anche alcuni conoscenti comuni. Un incontro, richiesto da lei, si trasforma subito in un’ulteriore occasione di esprimere disprezzo e scherno; ancora un mese più tardi, lei lo aspetta presso una nota libreria della città dove lui deve presentare un libro sulla violenza contro le donne a cui ha collaborato. In questa occasione, prima gli si incolla letteralmente alla spalla mentre lui tenta di allontanarsi fra gli scaffali, poi lo afferra energicamente per un braccio, in modo da costringerlo ad ascoltare le parole provocatorie che gli mormora continuamente all’orecchio, allo scopo evidente di suscitare una reazione esaperata davanti a tutti. È questa l’ultima volta che si vedono.
Una fase successiva consiste nel coinvolgere non più soltanto amici, parenti, conoscenti di lui, ma anche donne e uomini che hanno condiviso e condividono con lui percorsi di lavoro critico sul genere e sulla violenza maschile contro le donne; in primo luogo, ma non solo, esponenti di Maschile plurale. Siamo adesso a metà novembre: per la prima volta adesso lei gli formula un’esplicita accusa di aver agito violenza. Si tratterebbe di violenza psicologica, ma compaiono anche cenni molto chiari a momenti in cui, a quanto pare, per passare il segno della violenza fisica c’è mancato davvero un niente. Il tutto condito sempre con vari riferimenti a un quadro mentale di lui fortemente disturbato. Di un simile scenario inquietante vengono messe a conoscenza un numero esorbitante di persone in tutta Italia e anche all’estero.
Qui l’obiettivo è, evidentemente, quello di screditare pesantemente sul piano delle relazioni pubbliche, sul piano politico e su quello professionale (lui è da lungo tempo coinvolto in progetti di varia natura riguardanti il genere, spesso in collaborazione con associazioni di donne e centri antiviolenza) la sua persona, distruggendone irreversibilmente la credibilità di uomo impegnato contro la violenza maschile sulle donne.
Mentre cresce ininterrottamente il numero di donne e uomini destinatari di un simile racconto (un consuntivo indubbiamente approssimato per difetto porta a sfiorare l’impressionante cifra di trenta persone contattate), un’ulteriore fase si apre a gennaio 2014. A un post su Facebook, che peraltro non riguarda in alcun modo la violenza maschile sulle donne, due persone aggiungono nel giro di poche ore commenti pesantemente allusivi a gravi comportamenti di lui, sottolineando che lei si trova adesso in terapia presso un centro antiviolenza (un luogo, peraltro, del quale lui è da molti anni collaboratore in varie forme). Queste persone sono amiche intime di lei: lui ovviamente lo sa molto bene. Eliminare il post non serve a nulla, perché nella stessa giornata lo screenshot di quel post, con annessi commenti allusivi, ricompare sulla pagina Facebook di Maschile plurale, inserito da una terza persona – anche questa una vecchia amica di lei – che aveva appena chiesto, e ottenuto, di essere ammessa al gruppo. Il tutto si è svolto nel giro di poche ore. A questo punto si scatena la girandola dei commenti di altri amici e amiche di lei, accortamente dosati nel tempo in modo da mantenere a lungo il post in primo piano; questa fase della vicenda dura per vari mesi. Il tenore è quello di un lento ma costante linciaggio mediatico, con riferimenti ambigui a fatti mai avvenuti (una “denuncia circostanziata”, per esempio, che non c’è mai stata né sul piano legale, né su quello della comunicazione pubblica: lei non è mai intervenuta pubblicamente nemmeno in forma anonima, fino a luglio 2014, per “denunciare” alcunché). Il tono è accortamente allusivo, mai diretto, senza cioè riferirsi mai a una vicenda di cui si dica qualcosa: l’unica cosa chiara è che ci sarebbe una torbida storia di violenza in cui è pesantemente coinvolto un membro di Maschile plurale. Il che è comunque più che sufficiente per scatenare la caccia all’Untore.
Chi gestisce la pagina Facebook di Maschile plurale a questo punto si assume la responsabilità di eliminare il post con annessi commenti, pubblicando il seguente testo:
Recentemente su questa pagina sono stati pubblicati alcuni commenti e accuse, che alludono ad una vicenda a nostro avviso troppo complessa e dolorosa per essere discussa a colpi di post su un social network. Alcuni di noi si sono da tempo attivati per incontrare e ascoltare le persone coinvolte, cercando di fare chiarezza sull’accaduto e aprendo spazi di riflessione. Intendiamo continuare ad occuparci di questa vicenda, ma con modalità rispettose della sensibilità e dignità di chi vi è coinvolto; perciò d’ora in avanti non pubblicheremo ulteriori commenti che la riguardino.
Siamo qui a fine aprile 2014. Il resto è storia dell’oggi; su Facebook e su un paio di blog un piccolo gruppo di commentatrici e commentatori attacca ripetutamente Maschile plurale e alcuni suoi esponenti che provano a interloquire, tacciandoli di complicità con la violenza, di ipocrisia, di reticenza, di omertà, e infine di seconda violenza sulla donna coinvolta. Nell’insieme degli interventi, una delle principali accuse rivolta all’associazione Maschile plurale è quella di non aver chiaramente preso le distanze da questo suo membro accusato di violenza. Di non averlo insomma emarginato, o magari anche espulso: più o meno di non aver dato, in ultima analisi, un importante contributo alla sua definitiva morte civile. In uno di questi blog, infine, agli inizi di luglio 2014 compare un testo (ovviamente non firmato) attribuito alla protagonista femminile di questa vicenda, in cui l’autrice qualifica chiaramente i passati comportamenti di lui come condotte
che qualsiasi manuale prodotto dai centri antiviolenza, qualsiasi libro di criminologia, qualsiasi sentenza penale classifica come atti di violenza psicologica, ovvero maltrattamenti.
Questo, molto in breve, il mio riassunto dei fatti che compongono il contesto di cui sopra. Tengo a precisare che un simile intervento da parte mia non vuole avere, nel modo più assoluto, l’intenzione di azzerare il racconto, o la voce, di una donna che ha provato a dare un senso alla propria sofferenza cristallizzandola in un’accusa gravissima nei miei confronti. Sembrerà forse fin troppo ovvio dirlo, ma per me non è affatto scontato: questa sofferenza è indispensabile che venga presa sul serio, ascoltata e accolta; essa è reale, è grande, forse anche più grande di ciò che io lei, nel bene e nel male, siamo stati. Voglio anzi dichiararlo – a costo, mi rendo conto, di suonare ridondante – nel modo più inequivocabile: che nessuno si senta mai autorizzato a usare queste mie parole per minimizzare, banalizzare o negare il racconto di una donna che parla a partire da una sofferenza originata dalla relazione con un uomo.
Ma non tutte le sofferenze entro una relazione (o meglio, in questo caso, al termine di una relazione) hanno origine da una violenza; questo è persino banale dirlo. Né può essere sempre e comunque accettabile chiamarle in causa per legittimare qualsiasi bordata letale contro un uomo che con il suo comportamento ha magari aperto ferite profonde, e per il quale quindi si prova un risentimento potente e sordo. Perché questo è vero, secondo me, oggettivamente: il mio comportamento ha senza dubbio ferito la donna che oggi mi accusa di violenza. Di sicuro, io sono stato per lei causa di sofferenza nel momento in cui non ho più voluto proseguire la relazione, una scelta che a quanto pare lei ha vissuto come un giudizio tombale sulla sua persona. Per tacere dei tanti piccoli e meno piccoli errori commessi anche prima, come tante volte, purtroppo, non siamo capaci di evitare in una relazione; anche di questi non potrò che sentirmi ancora e sempre responsabile, certamente. Ma un’accusa di violenza, anche in questo caso, è veramente ben altra cosa. Sta, in senso proprio, su un altro pianeta. Non ogni atteggiamento che ferisce possiamo chiamarlo violenza, a meno che questa parola potentissima non ci sia necessaria per trasformare il risentimento in un’arma micidiale.
Fino a ora ho taciuto pubblicamente (ed è più che probabile, comunque, che continuerò a farlo anche in futuro). Ho taciuto molto a lungo, per quanto sempre più esterrefatto di fronte a una vera e propria escalation di aggressioni a tutti i livelli possibili (escluso quello fisico). Ho silenziosamente sperato che la sofferenza di lei prendesse finalmente strade diverse dalla distruttività fine a se stessa, ma è successo invece il contrario: questa rabbia ha assunto le forme di una fortissima volontà di annientare letteralmente l’altra persona, tanto nella sfera personale quanto in quella familiare, delle relazioni amicali e sociali, professionali e politiche. Di questo scenario complessivo si potrà pensare ciò che si vuole, ma si tratta di vicende reali e delle quali infatti, come ho già detto, esistono abbondanti riscontri. Se ho provato a riassumerle qui non è certo per distribuire torti e ragioni, e quindi per appiattire in modo manicheo responsabilità complesse di entrambi, ma per provare a contestualizzare quel poco che finora è venuto fuori di questa storia, e che ha finito per conferire un’unica dimensione alla storia stessa. Quella di accuse infamanti rilanciate ai quattro venti, quasi con ogni mezzo disponibile. La dimensione della gogna, del linciaggio, della “giustizia” a furor di folla. Uno scenario cruento da cui non si può che uscire tutte e tutti sconfitti, a me pare.