http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=46472Il bisogno compulsivo di essere ammirati è causa ed effetto della inconsapevolezza
di Francesco Lamendola - 27/10/2013
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Se si volesse sintetizzare in un solo concetto elementare, in una espressione telegrafica, il male più grande che attanaglia sia l’individuo che la società, risponderemmo senz’altro: «il bisogno costante, compulsivo, paranoico, d’essere ammirati, invidiati, desiderati».
Quello di essere ammirati, di ricevere gratificazione dagli altri, è un bisogno autentico della natura umana: e coi bisogni non si discute, si cerca il modo di soddisfarli – sempre, beninteso, nelle forme di cui è capace una persona desta e consapevole e non in quelle, sgangherate e talvolta moralmente discutibili, che sono proprie degli immaturi, dei superficiali, degli egoisti.
Il bisogno compulsivo di approvazione e di ammirazione, invece, è un’altra cosa: è un bisogno patologico; e con le malattie non si scherza: si cerca di curarle, possibilmente individuandone le cause e non limitandosi a sopprimerne i sintomi - i quali, peraltro, cacciati dalla porta, tornerebbero inevitabilmente da qualche finestra rimasta socchiusa.
In linea di massima, il bisogno di essere approvati e ammirati è direttamente proporzionale al grado di maturazione della persona: maggiore è la maturità, minore la dipendenza da un simile bisogno; minore è la maturità, tanto maggiore il bisogno di fare colpo sul prossimo. Ecco perché il bambino - e in misura diversa, ma non meno significativa – l’adolescente – ne hanno un così grande bisogno: per loro, essere riconosciuti e approvati dagli altri è una necessità vitale, senza la quale non riuscirebbero a costruire la propria autostima e la propria fiducia in sé. «E mira ed è mirata, e in cor s’allegra», dice Leopardi, ne «Il passero solitario», parlando della gioventù: cogliendo con finissimo intuito psicologico, e con eccezionale sobrietà stilistica, il nocciolo della questione.
Per la donna, il meccanismo è esattamente lo stesso: ha un bisogno insopprimibile di piacere agli altri; e non perché – o non necessariamente perché – la civetteria sia il suo abito naturale, ma perché in lei più fragile è la sicurezza in se stessa, la coscienza di essere, di avere una forma determinata: più vicina alla natura e alla vita, perché materialmente trasmettitrice della vita, il suo sé appare più fluido, più mutevole, più elusivo. Non si tratta di doppiezza – a meno che diventi strumento di potere, adoperato scientemente a tale scopo -, ma indeterminatezza ontologica; perciò ella sente, più del maschio, il bisogno di appoggiarsi all’altro, magari anche al figlio, per dare una struttura più solida e stabile al continuo fluire (e sfuggire) del suo essere.
È per questo che le lodi, che siano rivolte alla sua bellezza o anche soltanto al suo vestito, fanno sempre piacere alla donna, fosse pure la donna più schiva e riservata, la meno vanitosa e civetta: esse attestano un riconoscimento da parte dell’altro, sono sempre gradite da chiunque vengano perché sono la prova che in lei vi è qualcosa di bello, di ammirevole, di speciale; e sono gradite perfino quando ella capisce che sono poco convinte o poco sincere, in quanto il bisogno di ricevere riconoscimenti è in lei così vivo, che riceverne di siffatti è pur sempre meglio che non riceverne alcuno.
Non c’è niente, infatti, che possa ferire una donna più della disattenzione, della noncuranza, dell’indifferenza: da parte degli uomini, esse le fanno sentire che non è desiderabile; da parte delle altre donne, le rivelano che esse non la considerano nemmeno una potenziale rivale, che la calcolano come una entità insignificante; e non esiste umiliazione più grande di questa. Una donna ingannata e tradita soffre, ma può sempre riprendersi e può sempre consolarsi pensando che altri troveranno in lei delle qualità che il suo amante non ha saputo vedere e apprezzare; ma una donna ignorata si sente aggredita nella sua stessa essenza, nella sua stessa sopravvivenza.
Per questo una donna trattata dall’uomo con indifferenza reagisce con la sindrome di Mirandolina (la protagonista della commedia di Goldoni «La locandiera»): si impunta per attirare su di sé l’attenzione del disattento personaggio e s’industria con tutte le armi a sua disposizione, anche le più subdole, per scuoterlo e per indurlo a riconoscerla, a riconoscere la sua bellezza, la sua grazia, la sua intelligenza; civetterà con astuzia suprema per farlo innamorare; e infine si vendicherà nel più sottile dei modi, perché non ha mai smesso di considerarlo un nemico indegno di qualunque perdono, nemmeno quando gli sorrideva con ammiccante complicità.
Anche il maschio, s’intende, prova il bisogno di essere approvato, di essere ammirato, di essere invidiato: che si tratti di sfoggiare l’abbronzatura oppure i muscoli, il vestito firmato o la Ferrari, lo scopo è sempre quello. Però il maschio adulto e normale - se ci è lecito adoperare ancora questa vecchia parola che la cultura del politicamente corretto vorrebbe cancellare dal vocabolario, accusandola di essere un veicolo dell’intolleranza e magari del razzismo - non ne ha, o non dovrebbe averne, un bisogno tale da non poterne mai fare a meno. Un uomo adulto e normale dovrebbe essere abbastanza uomo e abbastanza adulto da tirare diritto per la sua strada, qualunque cosa dicano di lui: non per spirito di negazione aprioristica, non per orgoglio e, meno ancora, per attirare su di sé l’attenzione degli altri facendo il Bastian contrario; ma semplicemente per il possesso di quella tranquilla sicurezza in se stesso che, pur senza sconfinare mai nella presunzione o nel disprezzo dell’altro, basta comunque a se stessa per affrontare la vita a testa alta.
Oggi assistiamo a una sistematica esasperazione del bisogno di riconoscimento e di ammirazione: la società competitiva e consumista detta le sue leggi imperiose e chi non si adegua ad esse si sente perduto; e la legge fondamentale è questa: esisti se gli altri si accorgono di te, altrimenti è come se tu non esistessi affatto. Dunque, tutti cercano di attirare al massimo l’attenzione su se stessi; e, siccome ogni altro individuo fa la stessa cosa, bisogna alzare continuamente la posta dell’esibizionismo, della provocazione, anche della volgarità, altrimenti si continuerebbe a passare inosservati, come un automobilista che strombetti con il clacson per farsi dare la precedenza, in una città dove tutti gli automobilisti strombettano a loro volta, perché ciascuno conduce la sua automobile con la stessa prepotenza incivile di ogni altro.
Così, la massima oggi imperante sembra essere questa: se si possiede un vantaggio sugli altri, lo si deve sfruttare al massimo; se si possiede 100, bisogna esibire 150 (tirando fuori quel 50 in più con qualunque mezzo, fosse pure quello di fingerlo); è inconcepibile che, se qualcuno possiede 100, mostri agli altri solo 40 o magari 30. Sono divenute inconcepibili la modestia, la riservatezza, il pudore. Tutti gridano, dunque bisogna urlare; tutti provocano, dunque bisogna scioccare l’altro. A simili individui non viene in mente che, se si è molto intelligenti, non c’è bisogno di far sentire il prossimo una nullità; che, se si è forti, non occorre provarlo facendo i prepotenti con gli altri; e che, se si è giovani e belli, forse non è indispensabile caricare la propria bellezza di sensualità, oltre ogni limite del buon gusto, sino alla pornografia pura e semplice, così come non è indispensabile rincorrere ad ogni costo la giovinezza fuggente, sino al punto di farsi ricostruire il proprio corpo di bel nuovo, sopra il tavolo operatorio di un chirurgo estetico.
Il guerriero greco voleva conquistare per sé una dose sempre maggiore di gloria, come riconoscimento della propria eccellenza (aristeia); ma la volevano anche tutti gli altri guerrieri: da ciò la guerra come stato “normale” e permanente della società greca antica. Il cittadino consumista della società contemporanea, malato della smania d’essere ammirato e invidiato da tutti, moltiplica le strategie per colpire l’attenzione, per suscitare il desiderio, per sbalordire (e sgominare) gli altri: si comporta come il pescatore che, per catturare qualche trota, butta in acqua addirittura dei candelotti di dinamite e uccide centinaia di pesci. La mancanza di discrezione è mancanza di misura: e la società viene continuamente bombardata dal fuoco di tutti contro tutti, bramosi della stessa cosa – il riconoscimento altrui – e timorosi della stessa cosa – la disattenzione, l’indifferenza, che equivarrebbero a una sentenza di morte civile.
Che si possa riservare la bellezza del proprio corpo nudo, per esempio, alla persona che si ama e non darla in pasto a tutti, camminando per la strada con meno indumenti addosso che se si fosse in spiaggia, è una cosa – tanto per fare un esempio – che una volta era considerata ovvia, ma che adesso pare diventata superata, all’antica, improponibile. Bisogna provocare tutti gli altri, indistintamente, anche se l’obiettivo è di fare colpo su uno solo. Ma forse l’obiettivo non è più nemmeno quello di fare colpo su qualcuno, ma di accendere il desiderio ciecamente, così, al solo scopo di sentirsi desiderabili (non già desiderati, cosa che pone sempre una relazione personale): ormai anche la gratificazione è divenuta virtuale, non necessita più di atti concreti.
C’è una differenza enorme tra il fatto di voler piacere per attirare l’altro verso di noi, e voler piacere al solo scopo di godere vedendo accendersi il suo desiderio e, magari, procurandosi l’ulteriore piacere di respingerlo. In questo secondo caso, siamo certamente nella sfera dei comportamenti patologici, anche se una certa cultura politicamente corretta proclama che tutto ciò è naturalissimo, che l’importante non è piacere agli altri, ma a se stessi: il che sarebbe giusto, se non si accompagnasse alle strategie più chiassose per fare colpo e per mettersi al centro dell’attenzione. Se davvero quel che si vuole è piacere a se stessi, a che scopo ostentare in mezzo alla folla il proprio apparire? Via, siamo onesti: quel che si cerca non è di piacere a se stessi, ma di godere nel vedersi desiderati: anche se si tratta di un desiderio brutale, come brutale e grossolana è la tecnica di seduzione indiscriminata che si è scelta.
E qui, appunto, vengono al pettine le contraddizioni insite nella premessa dell’atteggiamento esibizionista. Si vuol colpire l’altro, per riceverne l’ammirazione, dato che solo così ci si sente vivi, ci si sente importanti, si sente di esistere. Per colpire l’altro, in un mondo ove ciascuno si sforza di colpire tutti, si eccede in strategie di vendita: si vendono le proprie qualità, vere o presunte, ribassando continuamente i prezzi; ossia, fuor di metafora, abbassando continuamente non solo il livello della propria dignità e del rispetto dovuto a se stessi, ma anche quello della propria unicità e della propria irripetibilità. Per attirare ad ogni costo l’attenzione su di sé, si esagera con l’insolito; ma poiché anche tutti gli altri fanno lo stesso, questa originalità finisce per sguazzare nel pantano del conformismo, e sia pure di un conformismo alla rovescia: il conformismo dell’anticonformismo. Stupidità e volgarità trionfano, e questo mentre si vorrebbe essere riconosciuti e apprezzati per la propria intelligenza e per il proprio senso estetico; e ci si vede ammirati e ricercati soprattutto dagli individui più banali, più vuoti e meno interessanti. Che triste paradosso e che severo castigo per la vanità del nostro piccolo ego, eternamente smanioso di applausi.
Esiste un modo per uscire da tali contraddizioni, da tali dinamiche distruttive, che non procurano la pace e il benessere interiore né al singolo, né al corpo sociale, ma che sono, anzi, la fonte di continue delusioni, di continue amarezze, di uno stato di perpetua ansia e insicurezza? Certo che sì: ed è quello di imparare a volersi bene, a stimarsi, non contemplandosi allo specchio con infinito narcisismo, ma sforzandosi di evolvere, di perfezionarsi, di divenire consapevoli: cioè sviluppando la propria parte migliore e non la peggiore, come tendono a fare milioni di uomini e donne immaturi, fragili e superficiali.
C’è un prezzo da pagare: la solitudine; perché diventare quel che si deve diventare, cioè autentiche persone, invece di vivacchiare alla giornata, come dei bambini viziati, è faticoso, e i più preferiscono seguire strade meno aspre e accidentate, più agevoli e riposanti; e non solo non ammirano quanti si sforzano di aprire nuovi sentieri, ma sono sempre in agguato, pronti a criticarli, a calunniarli, a ostacolarli, perché li rode la gelosia e li tormenta il dispetto nel vedere che altri osano fare ciò che in teoria tutti potrebbero, mentre, in cuor loro, essi intuiscono che non ne avrebbero il coraggio.
L’individuo è solo un numero nella massa, mentre la persona è preziosa, unica e infinitamente importante: non perché altri l’ammirano (del resto, accade continuamente che ad essere ammirati non siano i migliori, ma semplicemente i più furbi o i più spregiudicati), ma perché ogni essere umano è una storia sacra, misteriosa, commovente, e ogni persona è un essere umano che si è sforzato di ascoltare e di attuare il proprio progetto esistenziale, la propria vocazione, il senso della propria chiamata.
Non siamo qui per caso, ma per svolgere un compito: che è, in primo luogo, la capacità di riconoscere quale esso sia. Ciascuno ha il proprio compito: che non è, né potrebbe essere, quello di sgomitare nella folla, per strappare agli altri quei riconoscimenti che vorrebbe soltanto per se stesso.