http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/04/23/news/quando_in_guerra_combattono_le_donne-111941534/?ref=HREC1-19QUANDO IN GUERRA COMBATTONO LE DONNE
Sei paesi europei, assieme all'Italia, hanno una ministra della Difesa. I peshmerga kurdi, in battaglia, si affidano sempre più ai battaglioni femminili. Come decine di milizie più o meno regolari sparpagliate nel mondo. Perfino gli Usa, che si sono sempre opposti alla loro presenza in prima linea, hanno accolto le prime candidate alla scuola d'élite dei Ranger. Una tendenza che si basa sui risultati. Le soldatesse sono più decise e affidabili. Mettono in soggezione il nemico. Ci credono anche gli jihadisti dell'Is: relegano le donne nell'ombra ma poi sul web esaltano la loro brigata
di GIAMPAOLO CADALANU, PETER D'ANGELO, ALBERTO FLORES D'ARCAIS e dal nostro corrispondente FABIO SCUTO. Con un commento di
VITTORIO ZUCCONI .
Un pregiudizio che resiste tra le stellette
di GIAMPAOLO CADALANU
ROMA - Per una donna è più facile ordinare una guerra che combatterla in prima persona. Nel 1982, durante la guerra delle Falklands, al numero 11 di Downing Street, c'era la signora di ferro, Margaret Thatcher, a comandare l'offensiva contro gli argentini. A battersi in prima fila sotto la bandiera di Sua Maestà per riconquistare l'arcipelago, però, donne non ce n'erano. Anche trent'anni dopo, oggi che le Forze Armate dei Paesi occidentali hanno aperto i ranghi al sesso femminile, per una donna sembra quasi più facile arrivare a posizioni di potere che andare al fronte. Basta guardare all'Europa: hanno affidato a una donna il ministero della Difesa Italia, Germania, Norvegia, Olanda, Albania, Montenegro. Ma in combattimento, no. Sembra quasi una logica da film bellico di terza categoria: dove fischiano le pallottole non è posto per signore. Persino i libri di storia confermano il pregiudizio: le eroine capaci di affrontare la morte senza paura non mancano, ma per molte di loro l'unica strada percorribile è quella di fingersi uomini.
Doppio sforzo. Luogo comune o pregiudizio puro e semplice che sia, resta ancora consolidato al giorno d'oggi. L'altra metà delle stellette deve farsi largo a fatica, con il doppio dello sforzo. Arriva a comandare brigate, a pilotare navi o cacciabombardieri, a strappare l'ingresso nelle Forze speciali, ma in Occidente resta spesso accolta con un filo di condiscendenza dai commilitoni più tradizionalisti. Per limitare l'accesso delle donne alle posizioni più rischiose, cioè alle occasioni di combattimento, viene spesso citato il timore che i soldati maschi siano distratti dai loro compiti perché istintivamente sono portati a proteggere le colleghe. Apparentemente, all'origine di questa vicenda sembra esserci una citazione di Edward Luttwak, ripresa ampiamente dai circoli conservatori americani e basata, sostiene lo storico militare, sulle esperienze riferite dai militari israeliani durante la Guerra arabo-israeliana del 1948. In realtà questo comportamento incoerente non è mai stato evidenziato da esperimenti scientifici. E questo vale anche per gli altri luoghi comuni, come il presunto crollo psicologico degli uomini se vedono una donna ferita o uccisa.
Ma ci sono Paesi dove questi pregiudizi non vengono considerati, dove cioè le soldatesse rivestono anche ruoli di combattimento. Spesso il via libera alle donne arriva da motivazioni strategiche, cioè in Paesi che hanno estremo bisogno di militari per motivi storici e politici: Eritrea, Corea del Nord, la stessa Israele. Ma va sottolineato che il ruolo femminile è ancora più significativo nelle situazioni di scontro asimmetrico o non convenzionale. In altre parole, se gli eserciti delle nazioni sviluppate seguono regole rigide, evitando alle soldatesse l'impegno nelle situazione rischiose, gli schieramenti guerriglieri e le formazioni terroriste non si fanno troppi problemi. La tendenza era emersa già durante la guerra del Vietnam, per poi diventare comune nelle guerriglie moderne. Persino quando sono coinvolte fazioni che fanno riferimento alla religione islamica, il tradizionale ruolo subalterno della donna viene spesso dimenticato in favore dell'efficacia bellica. Le notizie degli ultimi mesi lo confermano: servono guerrieri per difendere Siria e Iraq, o almeno le province curde. E le donne peshmerga rispondono all'appello. Anche dall'altra parte, cioè fra le file del sedicente Stato islamico, ci sono combattenti con il velo. Insomma, se si tratta di apertura alle soldatesse, anche l'orda di Abubakr al Baghdadi appare più moderna delle Forze armate d'Occidente.
Ha deciso la storia, non gli ormoni
di VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON - Da quando la principessa Olga di Kiev ebbe, mille e più anni or sono, l'idea del primo bombardamento incendiario aereo della storia lanciando piccioni e passeri con stracci infuocati legati alle zampe su un villaggio che le stava antipatico, il rapporto fra le donne e la guerra ha aperto una serie di interrogativi e di dubbi mai più risolti. Se le donne governassero il mondo ci sarebbero più o meno guerre? Le femmine della nostra specie sono spietate carnefici come Olga di Kiev o angeli delle trincee come l'inglese (nata in Toscana) Florence Nightingale, creatrice della figura moderna dell'infermiera?
Che le donne siano, o possano essere soldati, eroici soldatacce peggiori dei commilitoni maschi come le immagini disgustose delle torture nel carcere di Abu Grahib ci mostrarono, non sembra dubitabile. E' evidente che le tecnologie applicate alla guerra, dall'impiego della polvere da sparo ai computer che hanno minimizzato e poi annullato l'importanza della forza fisica, rende la pilota femmina di un bombardiere Stealth esattamente letale come un pilota maschio. E gli ormoni, o il pariglio/spariglio dei cromosomi X e Y, non sembrano una barriera organica contro l'irrazionalità del fanatismo suicida od omicida.
Ma il vero, definitivo annullamento di ogni distinzione tra maschi e femmine nel rapporto con la guerra è avvenuto 75 anni or sono, con la Seconda Guerra mondiale. Nella montagna di 60 o più milioni di vittime che l'applicazione indiscriminata del terrore sui civili sulle città nemiche e nell'olocausto di massa introdotto dal Nazismo produsse, ogni donna è divenuta un legittimo obbiettivo militare. E il passaggio dall'essere nel mirino di altri o di essere la persona che osserva il bersaglio attraverso il mirino era inevitabile. Se il genere non protegge le vittime, le vittime non si sentiranno vincolate dal genere. La guerra, come ogni altra attività umana, è diventata una scelta.
E la principessa Olga, colei che incendiò un villaggio, fu poi fatta santa.
Kurdistan, così hanno travolto l'Is
di PETER D'ANGELO
KURDISTAN OCCIDENTALE - Gli scontri vanno avanti incessantemente, le armi sono contingentate. Trasmettere coraggio, è dura. La metà sono ragazze, giovanissime, tra i 19 e i 28 anni per la maggior parte. Divise improvvisate, scarpe da corsa, niente anfibi. Eppure il morale è sempre alto. "Nell'ultimo villaggio liberato - inizio marzo, nord-est della Siria - abbiamo sottratto all'Is: 3 veicoli armati, 5 veicoli corazzati tipo Hammer, 7 pick-up, 3 camion militari, 1 carro armato, 2 minibus, 1 ambulanza, 2 motociclette, due veicoli carichi di esplosivi TNT per gli attentati esplosivi".
È una guerra di posizione, gomito a gomito, corpo a corpo. "Il mio nome è Xabur Efrin, ho 22 anni, il mio battaglione ha riconquistato la città di Til Hemîs strappandola all'Is". La città di Til Hemîs nel cantone di Cizîrê nel Rojava, Kurdistan occidentale, è stata completamente liberata. Una rivoluzione nella rivoluzione: qui le donne sono alla testa della guerriglia, la cultura curda è frutto di una rivoluzione femminista che dura da 40 anni. È un avamposto del socialismo internazionale, si dice da queste parti, tanto da attrarre altre donne da tutto il mondo che qui, tra le lande della Mesopotamia, coltivano la culla della civiltà per edificare un futuro che nutra la figura della donna come protagonista e non vittima. Ci sono donne europee, arabe, siriane, turche, curde, irachene e non solo. Tra loro, purtroppo, ci sono anche delle martiri: l'ultima a Tell Tamr, 50 chilometri dalla frontiera turca, è stata Ivana Hoffmann, tedesca, 19 anni; in questo fazzoletto di terra, tra polvere e sangue, è morta difendendo un corridoio cruciale verso la roccaforte dell'Isis in Iraq, Mosul. Queste le parole che lascia in eredità, a tutte le guerrigliere. Parole crude scritte in una lettera che aveva indirizzato alle combattenti, poco prima di morire. "Scoprirò cosa si prova a tenere un'arma in mano e lottare per la rivoluzione. Forse scoprirò i miei limiti e cadrò all'indietro, ma non rinuncerò mai al mio spirito per combattere e andare avanti".
Giovanissime. Nelle prime linee ci sono donne giovanissime. "Sono Zilan, ho 20 anni, non ho avuto tempo per avere figli né un marito, da tre anni la mia vita è nella resistenza del Kurdistan occidentale". Si vive tra notti insonni, sacrifici e continue mancanze, ma il morale è alto, nonostante le vite frammentate e sempre in lotta. Queste donne si fanno carico di secoli d'ombra di regimi che si sono succeduti nelle regioni di confine. L'Isis è solo l'ultimo dei nemici in senso cronologico.
Le combattenti curde stanno avanzando e riprendono avamposti che erano nella mani dello Stato Islamico:16 villaggi sono stati liberati a nord, in Siria il 24 febbraio; altri il 23, 25 e 26 marzo, portando il centro della città di Til Hemîs e tutti i punti strategici della zona sotto il loro controllo: un'area di 2940 chilometri quadrati, che comprende 390 villaggi e centinaia di borghi, è stata ripulita dagli jihadisti e liberata come risultato dell'operazione terminata il 10 aprile.
Mentre il numero delle vittime dell'operazione non può essere ancora verificato, L'ufficio d'informazione del Kurdistan dirama questi numeri: 211 jihadisti sono caduti dall'inizio dell'operazione, inclusi i comandanti sul campo ai quali spetta il nome di "amir", comandanti, appunto. L'operazione è stata sostenuta anche dagli attacchi di artiglieria delle forze peshmerga dal confine del Kurdistan del sud e dagli attacchi aerei della coalizione internazionale anti-Is.
La morte e la vita. "Vivo tra gli scontri, gli spari; ogni giorno, nei nostri occhi, esiste solo la morte e la convinzione che un giorno torni la vita", racconta la miliziana curda con la voce rotta da un groppo in gola. Ora l'avanzata dell'esercito curdo si dispiega sul fronte Bdoulih, il nuovo campo di battaglia. "Ogni volta che liberiamo un'area, un villaggio dai terroristi Dash, troviamo bombe Vega, cinture esplosive e veicoli minati per far saltare gli estremisti. Ho visto dove erano stati decapitati i corpi, corpi bruciati ovunque". Per i sikcs curdi si tratta di legittima difesa: così la definiscono. Combattono contro gli estremisti islamici ma anche contro il regime di Assad.
"Per quanto riguarda il numero delle nostre unità sono 100mila. Le donne svolgono un ruolo importante e attivo all'interno delle Popular protection Units: costituiscono il 40% degli effettivi e hanno un ruolo significativo nei campi di battaglia", ci spiega ancora Zillan. Che aggiunge: "I terroristi hanno paura della morte per mano di una donna perché dicono che la scomunica per chi è ucciso per mano femminile è tale da non farti entrare in Paradiso". Quello che i curdi invocano oggi è l'intervento delle Nazioni Unite. Chiedono un contributo per la ricostruzione di Kobane. In quattro mesi di battaglie e di assedi è stata distrutta per il 60 per cento. Ottenere il supporto logistico e militare della Nato e chiedere il riconoscimento ufficiale dell'Unione europea come entità autogestita sarebbe per i curdi una soluzione buona. Per il momento, almeno. Un piccolo passo verso una soluzione più ampia della grande crisi del Medio Oriente. Il Kurdistan, del resto, è uno Stato che esiste solo nella realtà. Ma non nella carta geografica. La sua orografia identitaria si snoda lungo il confine di cinque paesi: Siria, Turchia, Iran, Iraq, Armenia. Una storia secolare. Scandita da continue battaglie. Per resistere ed esistere. Contro Saddam, contro la Turchia, contro Assad. Adesso anche contro il Califfato nero.
Usa, arrivano anche nei corpi speciali
di ALBERTO FLORES D'ARCAIS
NEW YORK - L'ultimo tabù verrà rotto il 20 aprile, quando a Fort Benning (Georgia) inizieranno i corsi della Ranger School, la scuola d'élite per i militari che faranno parte delle squadre speciali delle forze armate made in Usa. Per la prima volta quest'anno anche le donne sono state ammesse alle massacranti prove (ad esempio marce forzate di dieci chilometri con mitra a tracolla e venti chili di 'accessori') e venti ragazze le hanno brillantemente superate, con un certo scorno per i molti maschi eliminati. Dall'anno prossimo svolta anche nella Navy, la marina da guerra made in Usa, dove anche le 'marinaie' semplici potranno arruolarsi nei sofisticati sommergibili nucleari di ultima generazione (le 'ufficiali' sono state ammesse due anni fa). Con l'Air Force all'avanguardia da anni nell'uso di personale femminile anche in combattimento (la prima 'Top Gun' è stata Jeannie Leavitt nel 1993) e con numerose donne che comandano in vari States la Guardia Nazionale, la parità tra i sessi (fatte ancora alcune eccezioni) nelle Forze Armate Usa è praticamente cosa fatta.
Il valore non ha sesso. A oggi le donne-soldato negli Stati Uniti sono 201.400 (su un totale di 1.360.000), e sono dunque circa il 15 per cento dei militari in attività. "Valor knows no gender" (il valore non ha sesso) disse il presidente Obama nel 2013, quando con una mossa a sorpresa annunciò di avere eliminato il divieto per le donne di essere utilizzate nei combattimenti in prima linea. Una decisione storica - nel 1994 il Pentagono aveva proibito alle donne di fare parte di unità combattenti di artiglieria, reparti corazzati e fanteria - che poco dopo venne messa nero su bianco da Leon Panetta (allora Segretario alla Difesa, oggi consulente di Hillary Clinton nella corsa della ex First Lady alla Casa Bianca 2016) con non pochi mugugni da parte delle alte sfere militari. Dalla fine del divieto, in meno di due anni, circa 33mila donne sono entrate a fare parte dei reparti da combattimento e hanno combattuto in Iraq e Afghanistan. Secondo i dati dell'anno fiscale 2014 oltre ad essere il 15 per cento dei militari in attività le donne-soldato rappresentano anche il 23 per cento dei militari di 'riserva' e il 16 per cento della Guardia Nazionale. Tra gli ufficiali di alto grado (da maggiore in su) le donne sono oggi il 14,6 per cento (nel 1995 erano circa l'11 per cento). E tra i 71mila soldati Usa che si trovano oggi all'estero in zone di combattimento oltre 9mila sono donne.
È stato un lungo cammino, iniziato a piccoli passi ancora ai tempi della rivoluzione americana, quando per le donne l'unico lavoro permesso in ambito militare era quello di infermiera o cuoca e chi voleva combattere contro gli inglesi (e sono state più di quanto si immagini) a fianco dei propri mariti o fratelli aveva un'unica scelta, quella di travestirsi da uomo. Tante le tappe significative da quando Mary Edwards Walker ricevette la prima medaglia al valore nel 1865 (era in servizio come medico nell'armata nordica durante la guerra civile): nel 1901 la formazione del corpo militare delle infermiere, nel 1917 l'arruolamento delle donne in marina durante la prima guerra mondiale, nel 1943 lo status di militare per 76mila volontarie del Women Army Corps. E poi la prima volta con il nome di tante ormai scolpito tra cronaca e storia: Barbara Olive Barnell, prima donna arruolata a tutti gli effetti dalla Navy (1953), Barbara Jean Dulinsky prima donna a combattere in Vietnam, Barbara Ann Rainey ufficiale della Marina e prima donna aviatrice, Darlene Iskra, la prima comandante di una nave da guerra (USS Opportune a Napoli nel 1990), Susan Helms, la prima militare dell'Air Force ad andare nello spazio (1993), Gilda Jackson, la prima afro-americana a diventare colonnello dell'esercito (1995), Carol Mutter, primo generale a tre stelle (1996) e così via fino alla nomina di Ann Dunwoody come primo generale-donna a quattro stelle (il massimo grado dell'esercito Usa).
Molti scandali.Negli ultimi anni, complici anche le lunghe guerre in Afghanistan ed Iraq, le donne hanno avuto un ruolo sempre maggiore nelle operazioni militari Usa, ma insieme a una sempre maggiore integrazione sono andati di pari passo anche i numerosi scandali a sfondo sessuale (e un bullismo contro le donne molto diffuso) che hanno coinvolto dai semplici soldati agli alti ufficiali. Con il Pentagono che ha spesso cercato di coprire le colpe dei propri uomini e con qualche (raro) caso di ragazze provate (nel fisico e nella mente) che hanno mascherato il proprio fallimento con accuse rivelatisi false.
Grazie alla Casa Bianca di Barack Obama (e Michelle) e alle sempre più numerose (e coraggiose) denunce, il fenomeno negli ultimi tre anni si è ridotto di molto. A Fort Benning le ragazze hanno dimostrato di poter competere e anche di essere più brave dei maschietti in quella che per millenni è stata considerata un'attività tipicamente maschile. Quando alla fine della primavera si saranno diplomate alla Rangers School potranno fregiarsi della prestigiosa insegna giallo-nera dei corpi speciali anche se ancora non potranno far parte del Ranger Regiment. Ma è solo questione di tempo perché oggi negli Usa le guerriere sono alla pari dei guerrieri.
Israele, 7 su 10 nelle unità di assalto
dal nostro corrispondente FABIO SCUTO
GERUSALEMME - Come ogni anno, alla fine delle scuole superiori in Israele inizia l'arruolamento delle nuove reclute. Anche quest'anno oltre centomila tra ragazzi e ragazze vestiranno la divisa dell'Idf, dell'Aviazione, della Border Patrol o quella azzurra della Navy. In un Paese circondato da Paesi ex nemici come l'Egitto e la Giordania e Paesi ancora nemici come la Siria e il Libano, il servizio militare è estremamente importante, determinante per la sopravvivenza di uno Stato minacciato fin dalla sua nascita, nel 1948. Il sistema di difesa israeliano si basa su un ben assortito mix fra militari di carriera e un servizio di leva che è fra i più lunghi nel mondo: tre anni per i ragazzi e due anni per le ragazze. Eccezioni ed esoneri al servizio, fatti salvi quelli spesso discutibili che paventano motivazioni religiose, sono una rarità.
Ruolo attivo. Nelle molte guerre combattute da Israele negli ultimi 60 anni le donne soldato hanno avuto sempre un ruolo attivo, spesso determinante sia nelle azioni militari che nell'intelligence o nello spionaggio. Ma quello che ha sorpreso gli stessi ufficiali dell'Ufficio reclutamento è che da qualche anno a questa parte il numero delle reclute femminili che chiede di essere assegnato a unità di combattimento è aumentato esponenzialmente. Eppure le ragazze che accettano di entrare in questi reparti vedono allungarsi il periodo di permanenza sotto le armi di un anno, devono prestare servizio anche loro per 36 mesi. I dati del 2015 ancora non sono stati elaborati dall'Idf, ma quelli dell'anno scorso segnalano che il 74,7 % delle ragazze arruolate ha chiesto di essere assegnato a unità di combattimento.
Le donne soldato costituiscono adesso il 20% degli ufficiali fino al grado di colonnello, ma il sistema segnala che a partire dal 2019 il loro numero sarà quasi raddoppiato. Le soldatesse e gli ufficiali donna sono integrati in diversi livelli nelle unità di combattimento e hanno posizioni di comando in diversi ambiti, come il riconoscimento del terreno, la gestione e il calcolo del fuoco dell'artiglieria, il funzionamento dei dispositivi di comunicazione, i sistemi di rilevamento meteorologico per migliorare la precisione del fuoco, il sistema di difesa anti-missile più celebrato al mondo: l'Iron Dome.
L'unità 8200. Nella "mitica" Unità 8200 - quella che si occupa della cyberwar, dei droni, dei satelliti spia - il numero delle soldatesse è il più elevato che in ogni altro reparto. Precisione, freddezza, determinazione, le doti cercate per chi deve guidare a distanza i droni che tengono sotto controllo la Striscia di Gaza, così come quelli che sorvegliano il confine con il Libano. Aree "calde" considerate ad altissimo rischio dove l'agguato, l'attacco, l'azione improvvisa in grado di essere devastate può scattare in ogni istante del lungo turno di servizio. Ma non solo. Dal 2013 le donne costituiscono il 4,3% di tutti i soldati combattenti nell'Idf e il numero ogni anno aumenta. Nella "Combat Search & Rescue Brigade" è un corpo scelto - distinguibile dal basco rosso - le donne servono in prima linea a fianco degli uomini.
"Gli stereotipi di genere? Non fanno per noi!", annuncia con orgoglio il website dell'Idf nella sezione dedicata alle soldatesse. In divisa ci sono donne che hanno mandato in frantumi tutte le barriere lanciando un messaggio chiaro: le donne sotto le armi possono fare davvero tutto. L'ufficio stampa dell'Idf mostra i profili di tre donne soldato, scelti come simbolo dell'integrazione e della responsabilità al comando acquisita sfidando gli stereotipi attraverso il lavoro che svolgono ogni giorno. C'è il capitano Or Cohen, primo comandante donna di una nave della Marina israeliana, impegnata a proteggere la costa israeliana a nord dal Libano e al sud, dalla Striscia di Gaza dove nell'ultima guerra dell'anno scorso le navi da battaglia hanno svolto un importante ruolo. Il maggiore Gal (non è possibile citare il nome completo) è la prima donna ad essere nominata vice-comandante di uno squadrone di caccia F-16; non uno qualsiasi, ma il "Nachshon", un reparto dell'Iaf specializzato nelle missioni di intelligence e clandestine.
Ruolo fondamentale. Il capitano Adi Vardi ha sempre sognato di diventare un soldato da prima linea. Ha deciso di essere un militare di carriera ed è passata attraverso tutto il sistema di addestramento difesa aerea della IDF e, infine, ha preso il comando di una batteria contraerea. Il suo lavoro è la prova che le donne svolgono un ruolo fondamentale nel proteggere Israele. "Fin dall'inizio, ho voluto essere un soldato", dice il capitano Vardi. "La combinazione tra il lavoro fisico e il pensiero critico mi ha davvero incuriosito". Le sue aspirazioni l'hanno portata ad arruolarsi nel dell'Idf Command Air Defense, l'apparato che protegge i civili israeliani da razzi , aerei nemici e altre minacce. "Ho sentito che questo era il posto che mi avrebbe permesso di contribuire più per il mio Paese e una sfida per me". Il giovane capitano, dai lunghi capelli neri e gli occhi neri scintillanti, poteva senza dubbio trovare in altri ambiti della società un ruolo e un posto certamente più confortevoli che non il comando di una batteria anti-missile Hawk in pieno deserto del Negev, destinata a proteggere Eilat, la città turistica israeliana sul Mar Rosso spesso bersaglio di missili sparati da qualche gruppetto jihadista che si nasconde nel vicino Sinai. Lei sente un profondo senso di dedizione per il suo lavoro. "Proteggiamo così tante persone - a Eilat, ma in tutto Israele in generale - permettiamo alla gente di dormire sonni tranquilli perché sa che qualcuno sta vegliando su di loro. La nostra più grande sfida è quella di restare vigili 24 ore al giorno, tutti i giorni, ed essere lì per primi quando succede qualcosa".
Senza diritti ma utili per la propaganda
Anche il Califfato sembra diventato improvvisamente sensibile al tema femminile. Non certo nel campo dei diritti: le donne restano relegate ad un ruolo marginale. Da assistenti sanitarie, a membri della polizia religiosa, fino al più diffuso compito di schiave sessuali per i combattenti.
Ma l'intervento delle donne sui fronti della guerra, specie tra i peshmerga, devono aver convinto anche gli jihadisti dello Stato islamico a creare una brigata tutta al femminile. Il video diffuso dal dipartimento propaganda dell'Is ci mostra questa ostentazione di forza di una cinquantina di donne durante un'esercitazione vicino ad Aleppo, in Siria.
Vestite completamente di nero, coperte persino nella mani con dei guanti sfilano lanciando slogan che inneggiano al jihad lungo un viale alberato che conduce alla chiesa di San Simeone, 80 chilometri dal capoluogo, trasformata ora in un centro di addestramento. Imbracciano fucili Ak-47, sparano, marciano, alzano pugni, urlano: pronte a combattere, in una parità di genere che sorprende. Un altro capitolo della efficace campagna sul web destinata ai miscredenti.
Afghanistan, uccise perché poliziotte
KABUL - In tre mesi ne hanno uccise tre. Sorprese e bloccate per strada mentre tornavano a casa. Avvolte nel burqa, in compagnia di un uomo. Un parente stretto, non uno sconosciuto. Eppure, i Taleban che le hanno bloccate erano sempre certi della loro identità. E' accaduto al tenente Nigara, al colonnello Islam Bibi, al sergente Shah Bibi. Erano tutte donne. Tutte responsabili provinciali della polizia afgana. Dirigenti che comandavano raggruppamenti di soli uomini. Una rarità, in un paese dove la condizione femminile, a 15 anni dalla sconfitta del regime talebano, ha compiuto solo timidi progressi verso una pur vaga parità di genere.
Solo obblighi. Le donne, in Afghanistan, restano confinate in quel limbo dove non ci sono diritti e certezze ma solo obblighi. E questo nonostante il fiume di dollari e di pressioni da parte dei grandi finanziatori (Onu e Usa in testa) che chiedono maggior impegno e maggior sforzo da parte dei legislatori. Così, di fronte a progressi consistenti sull'abolizione del burqa, il diritto al lavoro e allo studio anche per le ragazze, la possibilità di girare da sole per strada, la Costituzione varata a larghissima maggioranza dal Parlamento, uscito da elezioni dubbie ma in fondo democratiche, riconosce come diritto basilare lo stupro in famiglia, i matrimoni imposti, meno impieghi di lavoro per le donne e salari drasticamente diversi da quegli degli uomini.
Davanti a questo muro inossidabile sorretto da pregiudizi, culture ataviche, condizioni secolari e vere forme di
misogenia, è proprio tra i militari e le forze di polizia afgane che si registrano i più vistosi cambiamenti. Siamo ovviamente ancora agli albori di una rivoluzione. Difficile ottenere dati ufficiali. Ma secondo l'Unama, la struttura Onu dell'Afghanistan, meno del 2 per cento dei 169 mila effettivi sono donne. L'obiettivo era arruolare 5000 poliziotte entro il 2014, ma finora hanno indossato la divisa sono in 2.700: poco più della metà.
Difficoltà. Le difficoltà maggiori sono di ordine psicologico. E' difficile stravolgere una cultura che ha formato e segnato una società ancora arcaica e clanistica. Lo stesso territorio resta vasto con aeree isolate dove contano valori ancestrali profondamente radicati. Le novità e i cambi fanno paura. Prevale il conservatorismo. Così le diverse forme di boicottaggio, dirette e indirette, pesano sulle domande. Le molestie sessuali, fino agli stupri, sono costanti. Senza considerare gli aspetti logistici. "Solo spogliarsi è un problema", ricordano le poche poliziotte che hanno accettato di parlare con i colleghi del New York Times, in una bella inchiesta sulle donne tra i militari afgani. "I bagni spesso non sono separati e anche le camerate non sono attrezzate". Eppure i vertici della Difesa e degli Interni hanno fatto una fitta campagna tra le donne per spingerle all'arruolamento. "Sono più affidabili e sono essenziali nelle perquisizioni sulle donne", spiegano. Gli impegni familiari, il lavoro domestico, l'educazione dei figli finiscono però per rendere ancora più difficile l'attività delle poliziotte. Orari ridotti e compressi, niente turni di notte, poca attività di pattuglia e di combattimento.
Se le pressioni e le difficoltà oggettive non bastano arrivano le minacce, seguite dalla morte. Da parte dei Taleban o dei trafficanti di droga. Il tenente Nigara era appena uscita di casa quando è stata raggiunta alle spalle da due colpi esplosi da due uomini a bordo di una moto. Trasportata nell'ospedale di Lashkargah, capoluogo della provincia dell'Helmand, è morta poco dopo il ricovero. Il colonnello Bibi è stata raggiunta al collo da tre colpi di pistola mentre viaggiava a bordo di una moto in compagnia del marito. Il sergente Bibi è stata sorpresa da due killer e freddata in mezzo al bazar mentre faceva la spesa. Anche loro erano responsabili di due centri della polizia dell'Helmand, la regione che ha fornito più combattenti ai Taleban. Nigara è stata l'ultima a morire sotto il piombo degli jihadisti. Aveva paura. Subiva continue minacce e viveva in condizioni di estrema povertà perché rimasta sola, dopo la morte del fratello, anche lui poliziotto ucciso sempre dai Taleban. Ma aggiungeva, per farsi coraggio: "Amo questo lavoro e vedo i miei connazionali in difficoltà e il paese in una situazione critica. Sento che il ruolo delle donne è importante nelle attività delle polizia. Alle tante minacce che mi giungono dai Taleban e dai trafficanti rispondo che sono una donna afgana e che non lascerò il mio lavoro fino a quando mi scorrerà sangue nelle vene".