Autore Topic: LGBT e femminismo hanno gli stessi finanziatori?  (Letto 1830 volte)

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Offline Vicus

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LGBT e femminismo hanno gli stessi finanziatori?
« il: Giugno 17, 2015, 00:47:08 am »
Questo articolo può aiutare a capirlo:
http://www.maurizioblondet.it/se-vi-battete-per-i-diritti-dei-gay-perche-e-di-sinistra/

“Nei soli Stati Uniti (dati del 2008) le organizzazioni omosessuali possono vantare i loro principali paladini nella persona del miliardario mondialista Georges Soros”. Soros ha finanziato le roganizzazioni militanti omosessuali “attraverso l’Open Society Institute con 150 mila dollari, la MacArthur Foundation con 600 mila dollari; la Fondazione Ford (CIA) ha dato 1,2 milioni di dollari. “Meritano un cenno anche le somme fornite dal Goldman Fund di San Francisco, che nel 2000 ha devoluto 2 milioni di dollari alle organizzazioni gay, e dalla Rockefeller Foundation, con circa 60 mila dollari l’anno; senza contare gli innumerevoli altri ‘torrenti’ di decine di migliaia di dollari, che giungono con regolarità da gruppi come Kodak, Hewlett-Packard, Chevron, Citigroup, AT§T, British Petroleum (BP), American Airlines, Apple, Daimler Chrysler, Dell, Deutsche Bank, Ernst § Young , Estée Lauder, Intel, Ibm, Morgan Chase, Johnson § Johnson, Levi Strauss § Co, Merrill Lynch, Microsoft, Nike, Pepsi, Toyota, Ubs, Xerox, e soprattutto Motorola e Fondazione PlayBoy  :lol: :lol: (che da decenni finanzia le organizzazioni gay)”.
“Sempre Georges Soros, insieme ad altri miliardari come Bill Gates o Jeff Bezos di Amazon, ha recentemente donato milioni di dollari ai comitati pro-gay in Usa, arrivando persino a ‘ungere’ di dollari molti deputati del Partito Repubblicano, il cui elettorato è al 90 per cento contrario ai matrimoni gay, pur di ottenere il consenso”.
Quando la Corte Suprema Usa ha dichiarato incostituzionale il Defense of Marriage Act, che definisce matrimonio solo quello tra uomo e donna, riconoscendo ai gay accoppiati gli stessi diritti, il numero uno di JP Morgan ha lodato la decisione: “E’ una buona cosa per la società e i nostri clienti, ma soprattutto è la cosa giusta da fare”, ha dichiarato Jamie Dimon. Goldman Sach gli ha fatto eco con un comunicato: “L’uguaglianza nel matrimonio riduce gli oneri e le difficoltà a carico dei dipendenti e porterà alla costituzione di attività imprenditoriali di successo e a un’economia americana forte” (…) In uno spot mandato in onda dalle tv americane, dal titolo Time4Marriage, si sono espressi a favore del ‘matrimonio gay’ l’ex segretrario di Stato del governo Bush Colin Powell, l’erx vicepresidente Dick Cheney e l’ex first lady Laura Bush. (Da notare) la partecipazione dell’ex presidente repubblicano e conservatore George Bush senior e sua moglie Barbara, in qualità di ‘testimoni’, a un matrimonio gay nello Stato del Maine”.
Non è una ricerca mia. Sto citando dal notevole saggio di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta – UNISEX – La creazione dell’uomo senza identità – Arianna Editrice, 2014, pagine 26-28. Euro 7.
Gli autori del saggio, breve e chiaro e ben documentato, domandano: vi pare probabile che i maggiori hedge found del mondo, le mega-banche globali, i massimi miliardari americani, le multinazionali più titaniche si schierino platealmente per la causa gay per ragioni puramente filantropiche?
A voi che avete applaudito così numerosi la sfilata dei finocchioni a Roma perché “è progressista”, perché “la sinistra si batte per i diritti LGBT”, mi limito a chiedere sommessamente: voi come progressisti siete più Dick Cheney o più Bill Gates? Siete della sinistra che si riconosce in JP Morgan o in quella che si sente più vicina a Deutsche Bank? Siete più radical-chic stile  IBM o Pepsi?
La vostra giornalista-prezzemolina, ex direttrice dell’Unità Concita De Gregorio ha scritto su Repubblica: “POI un giorno con moltissima calma dovremmo farci la domanda cruciale: qual è esattamente il problema del mondo cattolico rispetto all’omosessualità? (…) Alcuni, segnatamente, hanno un problema. Verrebbe, dolcemente, da chiedere loro: avete provato a chiedervi cos’è che vi disturba nel fatto che tutto attorno a voi ci siano persone omosessuali che vivono la vostra stessa vita? Vogliamo parlarne? Cosa vi irrita, esattamente, nell’altrui libertà? “. Non so, magari di trovarci con Soros e Microsoft.
A voi non vi irrita? Secondo me avete un problema."

Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline ilmarmocchio

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Re:LGBT e femminismo hanno gli stessi finanziatori?
« Risposta #1 il: Giugno 17, 2015, 18:06:36 pm »
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/06/11/news/donne_e_tecnologia_divorzio_all_italiana-114811237/?refresh_ce

eccola qui una bella lenzuolata di schifezze, tra cui troviao la nostra Conchita, l' affossatrice de l ' Unità :D



DONNE E TECNOLOGIA, DIVORZIO ALL'ITALIANA
Donne e tecnologia, divorzio all'italiana
Nel paese con i tassi di alfabetizzazione digitale tra i più bassi d'Europa esiste un problema nel problema: la questione di genere. Uso del computer, accesso a internet, impieghi tecnologici e iscrizioni alle facoltà scientifiche registrano infatti percentuali femminili molto più basse rispetto a quelle maschili. Le nuove generazioni stanno iniziando ad invertire la rotta, ma i vecchi modelli culturali rischiano di produrre cittadini di serie A e di serie B

di FRANCESCA DE BENEDETTI e ROSITA RIJTANO, con un commento di CONCITA DE GREGORIO. Illustrazione di ROBERTO MICHELI
11 giugno 2015


Se il futuro ha il sapore antico della disparità
Stereotipi e sfiducia, così la scienza spaventa
Web e social, al passo solo le giovanissime
Un divario che pesa sull'occupazione
"Care ragazze, riconquistiamo l'autostima"
Ma a pesare è ancora il pregiudizio

Se il futuro ha il sapore antico della disparità

di FRANCESCA DE BENEDETTI e ROSITA RIJTANO
ROMA - Nel cuore dell'innovazione digitale, la Silicon Valley, è allarme sessismo: le donne hanno stipendi più bassi e sono meno della metà degli uomini nei settori leader delle imprese tech. I vertici dei colossi sono stati trascinati in tribunale con l'accusa di discriminazione, come ha fatto il ceo del social network Reddit Ellen Pao con il fondo di investimento Kleiner Perkins Caufield & Byers. I giudici le hanno dato torto, eppure, in California come in Italia, le prove che qualcosa non funzioni come dovrebbe non mancano. Qui da noi, ad esempio, solo una start up innovativa su 10 è femmina, le aziende high tech assumono più uomini, e la diseguaglianza si accentua con l'aumentare della specializzazione tecnica richiesta.

Del resto, a studiare materie scientifiche e tecnologiche sono soprattutto i maschi: la differenza è evidente già fra i banchi di scuola e nelle aule universitarie si consolida ulteriormente. Solo il 38% delle studentesse sceglie indirizzi legati alle materie cosiddette "Stem" (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). E le ragazze che percorrono questa strada faticano a raggiungere i vertici delle professioni così come le sedi decisionali negli enti di ricerca pubblici.

Ma non occorre fare della tecnologia una scelta di vita per sperimentare sulla propria pelle l'esclusione: solo una donna su due è "cittadina digitale" e circa la metà non ha accesso al web. Rimanendo "fuori dalla rete", le donne sono cittadine di serie B della società dell'informazione. Tanto che, per evitare le disparità, in Parlamento si discute l'ingresso del diritto a Internet nella Costituzione.

Stereotipi e sfiducia, così la scienza spaventa

di ROSITA RIJTANO
ROMA - Prima di volare nella Silicon Valley, è tra i banchi di scuola che si consuma il gap nell'universo hi-tech. Le facoltà di scienze, tecnologia, ingegneria e matematica sono settori dove le donne sono ancora poche, ma la "selezione" parte molto prima. In Italia le ragazze compaiono di rado sulle liste delle Olimpiadi di Matematica e Fisica. E registrano punteggi inferiori ai maschi nella parte del test Ocse-Pisa che misura la capacità di "pensare come uno scienziato": battute dai coetanei con 24 punti di distacco, contro una media Ocse di 16. Secondo i numeri reperibili sul sito del Ministero dell'Istruzione, nel periodo 2013 e 2014 le matricole rosa hanno raggiunto quota 79% negli atenei di tipo umanistico. Mentre l'indirizzo scientifico ha conquistato solo il 38% di ragazze, a fronte del 62% di uomini. Certo, c'è stato un rialzo rispetto all'anno accademico 2003 e 2004, ma la percentuale va letta nel dettaglio.
Donne e scienza, ecco chi ha sconfitto i pregiudizi

Facoltà disertate. "È necessario fare una distinzione tra le discipline scientifiche che si occupano della cura della vita, per esempio ingegneria biomedica o medicina, dove la presenza femminile è spesso massiccia e le scienze cosiddette hard, come informatica, ingegneria meccanica e così via", spiega la fisica Patrizia Colella che segue tematiche relative alla formazione per l'Associazione Donne e Scienza. Qui non si registrano evoluzioni a breve termine. "La percentuale è ferma da 15 anni: 30% a fisica, 18% a ingegneria, 15% ad informatica - Prosegue Colella - Le ragioni sono diverse. Ma le ragazze che vogliono prepararsi a questo tipo di carriera hanno ogni cosa contro. Prima di tutto, è una questione di orientamento. Da una parte si tratta di un circolo vizioso: il fatto che ci siano poche donne in questi settori inibisce le nuove reclute a intraprendere percorsi del genere. Dall'altra, spesso la tecnologia non è presentata con caratteristiche che le possono interessare". Per non parlare degli stereotipi culturali, radicati nel contesto sociale. Un modus operandi che persino Colella, in piccolo, ha potuto constatare. Ha chiesto agli insegnanti di descrivere uno studente e una studentessa bravi in matematica. I risultati? Aggettivi associati ai primi: "geniali"; "brillanti". Alle seconde: "studiose"; "serie". "In altri termini noiose", sottolinea la ricercatrice. "Si tratta di preconcetti impliciti che non sono cambiati negli ultimi anni e di cui ormai non ci rendiamo conto". Eppure esistono. E i risultati si vedono.

"Le ragazze crescono sentendosi dire: Lascia stare, è difficile", accusa Chiara Burberi, co-fondatrice di Redooc, piattaforma online per l'insegnamento di materie scientifiche dedicata ai liceali. "C'è ancora un gap culturale da colmare in questa fase", ammette Donatella Sciuto, prorettore del Politecnico di Milano, dove il trend delle iscritte in area ingegneria è in leggero aumento (+ 1,4% rispetto al 2010/2011). Ma ancora basso (22,3%). "Lo notiamo soprattutto nel settore informatico, le giovani leve pensano che sia una cosa da geek, o da maschi, e di conseguenza non si iscrivono".
"Noi, le outsider delle facoltà scientifiche dominate dai maschi"

Bassa autostima. Un'Altra frontiera , altra battaglia è la fiducia in se stesse. Sembra, infatti, che le donne siano portate a sottovalutarsi. Lo provano diversi studi scientifici. Giusto per citarne uno: nel 2011, l'Institute of leadership and management del Regno Unito, ha condotto un sondaggio tra i dirigenti britannici per misurare il loro grado di stima in se stessi. Ha dichiarato di avere poca fiducia nelle proprie prospettive professionali la metà delle femmine, gli uomini sono stati meno di un terzo. Aggiunge Francesca Borgonovi, economista dell'Ocse-Pisa e consulente del ministero dell'Istruzione: "Durante i test, abbiamo evidenziato che le ragazze manifestano sentimenti d'ansia. Sono meno sicure di riuscire a risolvere i problemi matematici e scientifici. E hanno una percezione negativa di loro stesse come persone in grado di capire queste discipline". Una sensazione che si ripercuote sugli esiti perché, continua Borgonovi, "chi ha fiducia in sé può imparare più facilmente dagli errori. Invece gli insicuri tendono a interpretarli come un segno d'inadeguatezza".

Le attese dei genitori meritano un paragrafo a parte: solo un papà su sei pensa che la propria figlia possa interessarsi a materie relative alla scienza e alla tecnologia, quindi a un lavoro di questo tipo. Da qui le ragazze non solo hanno dei risultati peggiori, ma diverse aspettative. Facendo sempre fede ai dati dell'organizzazione internazionale, a 15 anni solo una ragazza su 20 immagina il suo futuro in un indirizzo scientifico. Contro un ragazzo su cinque.

Il soffitto di cristallo. Una volta completato un percorso di studi tecnico-scientifico e trovato un impiego, le donne finiscono comunque per andare a sbattere contro il cosiddetto soffitto di cristallo. Un risultato diretto della maggiore presenza di uomini in commissioni giudicanti, rettorati e in tutte quelle leve che danno accesso alla carriera dei ricercatori", dice Sveva Avveduto dell'Irpps-Cnr. Così si arriva allo zoccolo duro del problema. Anche quando la scienza è rosa, persino quando le donne sono in maggioranza e fanno ricerca, non raggiungono mai i vertici. Basta guardare i numeri. Come si legge nel volume curato dalla stessa Avveduto con Lucio Pisacane, "Portrait of a Lady" (edizioni Gangemi, euro 20), nel comparto pubblico c'è ben il 48% di ricercatrici al grado iniziale di carriera. Ma la percentuale scende al 39% nel ruolo di primi ricercatori. E al 24% tra i dirigenti di ricerca. Lo stesso vale per i tecnologi: 44% di donne al grado iniziale; 34,6% dei primi tecnologi; 22% dei dirigenti tecnici. Non solo. Tra i direttori di Istituti di ricerca e di dipartimento, solo il 17% è rosa.

Precisa Avveduto: "Apparentemente non c'è nulla che ci limita, mentre in realtà è come se ci fosse un ostacolo che ci tiene giù, un pregiudizio culturale". Le quote di genere potrebbero essere una soluzione che però incontra qualche perplessità. "Fino a qualche anno fa ero contraria anche io - continua - poi ho cambiato idea: sono uno strumento forte, vero, ma consentono di invertire immediatamente la rotta. Se aspettassimo un'evoluzione fisiologica, ci vorrebbero ancora 40 o 50 anni. Ci sono tante scienziate brave, tante manager brave che potrebbero gestire la scienza, è ora di dar loro un'opportunità". Giovanna Gabetta, classe 1952, prima donna italiana laureata in ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, è ancora più radicale: "Credo che vadano eliminate le quote azzurre, cambiato il concetto di gerarchia, e introdotto quello di responsabilità".

Web e social, al passo solo le giovanissime

di FRANCESCA DE BENEDETTI
ROMA - Nonostante l'apparenza, gli smartphone sempre in mano e le ossessioni da selfie, gli italiani non sono un popolo di navigatori. E nel mare di internet, parafrasando Orwell, alcuni sono più uguali - e più connessi - di altre. Nel 2010 usava internet il 54,6% degli uomini e il 43,6% delle donne. Oggi le percentuali sono cambiate: al maschile il 62,3% e al femminile il 52,7%. Lo scalino, la distanza tra sessi, rimane però uguale. Non è una Rete per donne, quella italiana: troppe, circa la metà, ne rimangono fuori, cittadine di serie B della società dell'informazione.

La fotografia del gap. Non solo la metà delle donne non usa Internet, dicono i dati Istat, ma solo una su due usa il pc, mentre fra i maschi la percentuale sale al 59,3%. E anche tra chi è in rete il divario si vede. Le donne ad esempio sono meno "social": i dati Audiweb registrano che a usare Facebook nel corso del 2014 sono più uomini (il 53%) che donne (il 47%). Su Twitter cinguettano per il 43,4% le femmine e per il 56,6% i maschi. I dati sull'e-commerce descrivono poi due galassie differenti: le femmine sono avanti nell'acquisto web di libri e vestiti, nella prenotazione di visite mediche e iscrizione online a scuole e università. Ma sono i maschi a sorpassarle quando si tratta invece di comprare online attrezzature elettroniche, hardware, software, videogiochi, servizi telecom. Insomma, la tecnologia anche in questo caso è in mano agli uomini.

La rivolta delle ragazze. Le "nuove tecnologie" non sono più "nuove": sul digitale si basa l'economia e anche la cultura è cambiata. Il geek, lo smanettone tech, non è più un innovatore solitario o un'eccezione da subcultura, ma un impiegato ben pagato. Una rivoluzione copernicana che però in Italia rimane superficiale, soprattutto al femminile: dietro un'avanguardia di giovanissime, tante altre donne rimangono indietro. Se vogliamo che il gender gap digitale si riduca, dice la sociologa Chiara Saraceno, dobbiamo sperare proprio nelle più giovani: "Dalle ragazze arriva il segnale che le cose potrebbero cambiare velocemente. Le femmine tra gli 11 e i 17 anni, e tra i 20 e i 24, si muovono in controtendenza, usano internet più dei maschi". Quelle tra i 20 e i 24 li superano anche nell'uso del cloud, mentre le donne tra i 15 e i 24 anni sono le principali fruitrici di e-book.

Nonostante questa "rivolta delle ragazze", l'Italia sconta le disuguaglianze e i ritardi infrastrutturali: per connettività siamo un'anomalia a livello europeo, davanti solo a Grecia, Bulgaria e Romania. Ma per una somma di debolezze l'esclusione digitale riguarda soprattutto le donne: "Le nuove tecnologie - spiega Saraceno - sono usate anzitutto dalle fasce giovani, istruite, che studiano o lavorano. In Italia le donne invece sono sovrarappresentate proprio tra gli anziani, a bassa istruzione, inattivi (le casalinghe sono quelle che usano di meno i nuovi strumenti), che spesso non hanno un collegamento web domestico, tanto più se vivono nel Mezzogiorno". A condizionare la partecipazione femminile online, sottolinea ancora Saraceno, è anche il lavoro: "Finché gli uomini lavorano di più, soprattutto in impieghi ad alta specializzazione, avranno più accesso al digitale di una casalinga o un'impiegata. Per chiudere il gap di genere, è importante tanto il tipo di formazione quanto un'occupazione che richieda strumenti tech".

Cittadine di serie B. Altrimenti, diseguaglianza chiama diseguaglianza: lo sa bene la professoressa Roberta Bracciale, autrice di "Donne nella rete. Disuguaglianze digitali di genere". Quando si analizzano accesso, competenze e uso di internet la somma delle "debolezze" sociali (ad esempio abitare in zone rurali o avere un livello di istruzione basso) comporta un allargamento del divario. Si chiama "effetto San Matteo", l'effetto cumulativo degli svantaggi, spiega la sociologa. Nella net society reale e virtuale non sono mondi a se stanti: nelle fasce già deboli - donne, anziani, poco istruiti - la digitalizzazione rischia di approfondire le disparità. Mind the gap: attente allo scalino, al divario. Vale anche per gli stereotipi di genere: esistono a prescindere dal web, ma col digitale l'impatto può risultare amplificato.

E le parole, come le immagini, sono importanti. "Come mai nelle pubblicità non sono mai le bambine a usare i videogiochi?", è la domanda-provocazione di Loredana Lipperini, scrittrice e frequentatrice assidua tanto della rete che delle tematiche di genere."Le donne stanno conquistando una presenza forte sul web, stanno proponendo una loro narrativa. Ma ci trasciniamo dietro le disparità sin da bambine. Poi da grandi le donne devono conciliare lavoro e cura della famiglia, hanno poco tempo per stare online. In più, alle frequentatrici della rete capita anche di imbattersi nel sessismo: con quello, bisognerebbe usare il 'metodo Gianni Morandi'. Essere ferme nel bloccare la violenza verbale, e non giocare mai al rialzo con gli insulti".

Digitali per Costituzione. A una rete non per donne, c'è chi reagisce facendo rete. Come Flavia Marzano, che ha ideato la community Wister  (Women for Intelligent and Smart Territories). "Per tirarci fuori dall'esclusione digitale - dice Marzano - servono formazione, investimenti, svolta culturale". Serve, forse, anche una modifica alla Costituzione. La Commissione che sta elaborando la Carta dei diritti di Internet ha inserito un chiaro richiamo al principio di uguaglianza sostanziale nell'uso del web. Per il presidente, il giurista Stefano Rodotà, i diritti digitali sono parte integrante della cittadinanza. "Non a caso - spiega - ho proposto che nell'articolo 21 della Costituzione venisse inserito l'accesso a Internet come diritto fondamentale della persona, il Senato ne sta discutendo". Perché il pari accesso al mondo dell'informazione, al web, è un diritto: chi è tagliato fuori dalla Rete resta un cittadino di serie B. Le donne lo sanno.

Un divario che pesa sull'occupazione

di FRANCESCA DE BENEDETTI
ROMA - Se pensate che la tecnologia sia sinonimo di progresso, guardate quel cartello. "Non c'è posto per le ragazze": dice così il manifesto invisibile che sta all'ingresso della Silicon Valley. I colossi tech d'America hanno molte meno donne che uomini in ruoli guida, gli stipendi al femminile sono più bassi, le storie di discriminazione finiscono in tribunale. Quel "non c'è posto per le ragazze", però, vale tanto nel cuore dell'innovazione d'oltreoceano quanto alla sua periferia, l'Italia. Fa meno rumore, ma il gender gap nelle aziende tech è un problema anche italiano, che si somma al nostro "spread" digitale e tecnologico.

Le cifre della disparità. Tra le start up innovative italiane, solo un'azienda su dieci è a guida femminile. Una marginalità estrema, anche se si sta riducendo: nell'ottobre 2014 era capeggiato da donne solo il 9,17%. Sei mesi dopo, il 12,4%, cioè 398 su 3200. Poche e piccole, ma in aumento, queste start up "femmine" nascono soprattutto nel Nord Ovest (30,2%) e in particolare a Milano. Hanno pochi addetti e budget ridotti (il 95% ha un capitale sociale che non supera i 50mila euro). Il tasso di femminilizzazione delle start up innovative decresce con il crescere del valore di capitale: tocca lo zero per capitali superiori ai 500mila euro. Di queste imprese, documenta Unioncamere, solo alcune sono a vocazione tech: un 21% che si interessa di produzione software e consulenza informatica, un 19,8% che opera nella ricerca scientifica e sviluppo, il 10,6% nei servizi informativi (Ict). Estendendo l'analisi alle aziende tech in generale, la Camera di commercio di MIlano ha scoperto che più sono tecnologicamente avanzate, meno le donne sono protagoniste: le high tech sono femminili per l'11,7%, quelle mediamente tech per il 10,3%, quelle a basso contenuto tech sono invece il 23,1%.


Meno assunte.  E' più facile insomma che le donne guidino un'azienda tessile o agroalimentare, piuttosto che facciano impresa con computer e affini. Anche sul fronte assunzioni, l'insidia del gender gap è dietro l'angolo. Nelle aziende Ict, il 79,5% di assunzioni previste non risulta condizionato da preferenze di genere. Ma poi, per fabbricare pc, fornire servizi informatici e delle telecomunicazioni, quel 20,5% restante è spartito in modo ineguale tra le donne (il 7,8%) e gli uomini (il 12,8%). E le proporzioni cambiano in base al tipo di ruoli e alla qualità delle competenze. Nella segnalazione del genere ritenuto più adatto, per ruoli di elevata specializzazione è femmina solo l'1,6% a fronte del 10,6% dei maschi.

Situazione che si ribalta nei ruoli esecutivi d'ufficio: come impiegato o segretario c'è una preferenza del 20% per le donne a fronte dell'8% di uomini (fonte: Unioncamere-ministero del Lavoro). "La radice del problema - commenta la sociologa Chiara Saraceno - è anzitutto la scarsità di donne nelle facoltà scientifiche, oltre al fatto che quando si tratta di fare impresa le femmine hanno in media accesso a meno capitale (proprio o in prestito) rispetto ai maschi". Il divario di genere è profondo, ma in evoluzione: il World Economic Forum piazza l'Italia giù al 69esimo posto nella classifica sul gender gap, subito dopo il Bangladesh. Ma nel 2011 eravamo 5 scalini più giù, al 74esimo.

La distanza con l'America. Eppure il futuro è lì: mentre la tecnologia penetra sempre più nel tessuto della società dell'informazione, le donne sono ancora molto lontane dalla parità. Una condizione che persino nella "avanzata" San Francisco Bay suscita aspre polemiche: da Apple a Google, passando per Microsoft, i colossi tech che governano la Rete a livello mondiale hanno al vertice solo 1 donna per 4 uomini.  "Da noi - racconta Anna Sargian di Girls in Tech - ora c'è più consapevolezza, il divario nel settore è una questione accesa. Però in Italia una donna che sfida il gigante, come ha fatto in America Ellen Pao portando in tribunale Kleiner Perkins, non la vedo. Dovremmo partecipare al cambiamento come fanno le poche che decidono di farsi strada con grinta. Il fatto è che c'è anche un problema di background: troppe poche ragazze studiano materie scientifiche e tecnologiche. Sono ancora viste come cose da maschi. Quando smetteremo di lasciare che le carte le dia qualcun altro?".

Anna Gatti, pavese di nascita e ormai da 15 anni californiana d'adozione, ha ricoperto ruoli di responsabilità a Google, Youtube, Skype; poi si è messa in proprio lanciando due start up. La sua è una storia di frontiera, in Italia non tornerebbe e il mito della Silicon Valley come valle del progresso per lei è ancora vivo. "Se ci sono meno donne ai vertici è anche perché poche studiano materie tech", sostiene. "Ma almeno a San Francisco la situazione può facilmente ribaltarsi: anche il fatto che del gender gap si discuta, è segno di un cambiamento". Mai successo di sentirsi tagliata fuori perché donna? Anna ammette: "Quando alla dirigenza ci sono quasi tutti uomini, per chi non lo è, la vita è più dura. Quando rimasi incinta mi capitò un'incomprensione col mio capo di allora: gli diedi la notizia, ed ecco che mi chiese se non fosse meglio rinviare la promozione che aspettavo da un po'. Forse ci eravamo solo capiti male, ho giocato la carta della lucidità e alla fine ho avuto la meglio. Qui sono convinta che, al di là del genere, sarò assunta e avrò successo, oppure no, sulla base di quanto valgo. Non credo che in Italia sia lo stesso. Dove sono nata, il gap di genere si somma alle ineguaglianze di sistema e alla mancanza di meritocrazia: spesso viene premiato chi si conforma. Dove sto ora invece ho avuto spesso la prova che fare strada dipenda dal mio talento, dalle mie capacità".


"Care ragazze, riconquistiamo l'autostima"

di ROSITA RIJTANO
ROMA - Amalia Ercoli-Finzi, scienziata, ne è convinta: "Le donne possono". Nella ricerca, nella tecnologia, ovunque: "Hanno la capacità di dare al mondo la svolta di cui ha bisogno". Tutta questione di opportunità. "Il gap maschi-femmine c'è. Le ragazze di oggi non devono pensare che abbiamo raggiunto la parità. Quando entriamo in un ambiente nuovo dobbiamo dimostrare di saper fare più di quanto sia necessario agli uomini. L'autostima è il grosso problema delle donne: molte non ne hanno abbastanza per dire 'sono brava, devo farcela'. Invece bisogna battagliare, non demoralizzarsi, anche se di legnate se ne prendono, e tante. Se si è vittime di un'ingiustizia, occorre dirlo, io mi sono sempre ribellata". E le prepotenze son servite.

Classe 1937, mamma di cinque figli e nonna di sei nipoti, Amalia Ercoli-Finzi è così: parla per esperienza. È stata la prima donna d'Italia a laurearsi in ingegneria aeronautica prima di diventare docente di lungo corso al Politecnico milanese. Ha firmato il trapano sceso sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, accompagnato dalla sonda europea Rosetta. La sua rivolta è iniziata da bambina, nella provincia di Gallarate, in una famiglia dove a contare di più erano i due fratelli maschi. In casa erano sei: mamma maestra, papà contabile, più quattro figli. "Noi due avevamo un peso diverso rispetto ai ragazzi. E io ho dovuto lottare fin dall'inizio, per due motivi. Prima di tutto perché non ero un uomo. Poi perché non mi piaceva solo la roba da femmine. Adoravo smontare le biciclette, cosa che facevo regolarmente, e mi incuriosivano i campanelli: li osservavo".

Il segreto dell'ingegneria, secondo Ercoli-Finzi, è tutto qui: "Ho sempre voluto capire come funzionano le cose, perché credo che quando ne comprendi il meccanismo, puoi intervenire. Sì, ai miei genitori devo molto: ci hanno fatto studiare, anche se con scopi diversi. Io ero brava in matematica, ed ero predestinata, volevano che facessi l'insegnante. Non ho obbedito e il mio obiettivo l'ho raggiunto da me".

Nel 1957, sui banchi del Politecnico di Milano, su 650 studenti solo cinque erano donne. "Mi sono laureata in cinque anni, con lode, meglio dei miei compagni. Non perché fossi più capace, sia chiaro, ci mettevo solo molto impegno: dovevo dimostrare qualcosa". E i risultati non sono mancati. Scherza: "All'inizio c'era una gran quantità di ragazzi che mi faceva il filo. Quando ho iniziato a prendere 30 e lode in geometria, in analisi, chimica e fisica, gli uomini sono scappati ed è rimasto solo mio marito".

Erano gli anni dello Sputnik, iniziava la stagione della corsa allo spazio. Un'avventura che, fin dai primi passi, avrebbe coinvolto anche l'Italia. Con Luigi Broglio, papà dell'astronautica tricolore, e il suo satellite San Marco: sparato, oltre l'atmosfera, nel 1964. Impossibile non appassionarsi. "L'ho vista tutta, a partire dalle prime grandi missioni", spiega Ercoli-Finzi d'un fiato, "è stato emozionante: l'aspettavo, ero convinta che ci saremmo arrivati. Ora sono certa che il passo successivo sarà una missione umana sulla Luna, per tornarci con una base, è necessaria per la prossima tappa: Marte".

« Ultima modifica: Giugno 17, 2015, 18:44:17 pm da ilmarmocchio »

Offline Vicus

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Re:LGBT e femminismo hanno gli stessi finanziatori?
« Risposta #2 il: Giugno 17, 2015, 18:16:32 pm »
 :doh:
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline ilmarmocchio

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Re:LGBT e femminismo hanno gli stessi finanziatori?
« Risposta #3 il: Giugno 17, 2015, 18:35:48 pm »

Offline Frank

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Re:LGBT e femminismo hanno gli stessi finanziatori?
« Risposta #4 il: Giugno 17, 2015, 19:32:36 pm »
Citazione
le donne hanno stipendi più bassi e sono meno della metà degli uomini nei settori leader delle imprese tech.

Eh, lo credo bene, considerando che in quel campo le donne hanno tre marce in meno rispetto agli uomini...