In rilievo > Osservatorio sui Femministi
L' "Internazionale" ... Sì, ma del maschiopentitismo e del femminismo.
Angelo:
Stavo approfondendo la lettura dell' "Internazionale". Sarebbe un giornale di "sinistra". Veramente ridicolo, pieno di maschiopentitismo, femministe...
Cominciamo da qualche articolo, questi maschipentiti e femministe un giorno potrebbero pure fare la parte di "persone antifasciste"... Mi danno fastidio quelli che tentano di rifarsi una verginità.
Parto con il primo, quello che apparentemente sembra un innocente articolo buonista. Ma c'è quella parte grassettata che mi puzza di maschiopentitismo zerbinoide e femminista.
http://www.internazionale.it/opinione/giovanni-de-mauro/2015/06/19/apertura-frontiere-liberta-movimento
Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale
Abbiamo sbagliato. È inutile cercare argomenti razionali per discutere con chi trasforma i migranti in nemici e se ne serve per raccogliere consensi intorno a un progetto che appare sempre più chiaramente reazionario e a tratti autoritario.
La logica non farà cambiare idea a chi usa i migranti come capro espiatorio della crisi economica, sfruttandoli per spostare l’attenzione dai veri responsabili. Siamo caduti in una trappola, cercando di spiegare numeri alla mano che i migranti non sono così tanti da rappresentare un pericolo per un continente come l’Europa. Tempo perso. Perché chi parla di “emergenza” fa leva su emozioni potenti come la paura, l’insicurezza, la rabbia.
Ci vorrebbero allora donne e uomini capaci di dare vita a un movimento collettivo che faccia leva invece su sentimenti come la solidarietà, la giustizia, l’uguaglianza (“Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”, diceva don Milani).
Bisognerebbe poi che questi uomini e queste donne si organizzassero e che insieme trovassero la forza per chiedere due cose semplici: l’apertura di tutte le frontiere e la libertà di movimento per ogni abitante della Terra.
Angelo:
Manco a farlo apposta, basta cliccare nella homepage su "Ossessioni"...
Guardate quali sono gli argomenti che "ossessionano" questo giornale...Li indicano proprio loro, proprio per evitare che qualcuno pensi che loro non siano sufficientemente zerbinoidi.
Cambiamenti climatici
Carceri
Expo 2015
Femminismo
Giornalisti
Industria culturale
Migranti
Robot e lavoro
Rom
Scuole
Serie tv
Spazio
Di questo elenco, porterò le prove dello zerbinismo femminista di questo giornale patetico. Parto con femminismo.Clicco su femminismo e partono con questa frase che virgoletto e metto in grassetto:
"
Femminismo
Le cose che è bene sapere per non abbassare la guardia sulle disparità, le ingiustizie, le violenze che intossicano la vita di milioni di donne nel mondo, dall’Italia all’India, dalle mura domestiche agli uffici delle grandi aziende, dalla sfera pubblica a quella privata."
Angelo:
Sempre dalla stessa sezione di questo giornale buono per farsi 4 risate , prendiamo l'ultimo articolo scritto in questa sezione, con la data del 12/06/2015
E' una serie di flatulenze espresse in forma scritta da una "conoscenza" femminista, tale Lea Melandri, femminista doc, campionessa dei "diritti femministi" ...
http://www.internazionale.it/opinione/lea-melandri/2015/06/12/piano-violenza-sessuale
Il piano contro la violenza sessuale è un’occasione mancata
Lea Melandri, saggista
Il piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, approvato il 7 maggio, nasce dal lungo e paziente lavoro volontario dei centri antiviolenza. Oltre che dall’impegno di larga parte del femminismo per far uscire la violenza maschile contro le donne dal confinamento nei casi di cronaca nera, nella patologia, nelle conseguenze del degrado sociale e dell’arretratezza di culture straniere. Ma di questo “precedente” storico, culturale e politico, benché ampiamente documentato, nella premessa del piano non c’è traccia.
Si parla di “fenomeno strutturale”, dovuto a rapporti di potere diseguali tra i sessi, della necessità di un “sistema integrato di politiche pubbliche” per la salvaguardia e promozione dei diritti umani delle donne, di azioni a favore delle vittime e interventi di contrasto alla violenza di genere, associata – nella ratifica alla convenzione di Istanbul (15 ottobre 2013, legge 119) – “alle disposizioni urgenti in materia di sicurezza” e “protezione civile”.
Il primo e unico passaggio in cui viene riconosciuta ai centri antiviolenza una “rilevanza” particolare e un legame con il femminismo, si trova negli “Obiettivi del piano”. Da quel punto in avanti saranno sempre accomunati, senza alcuna distinzione, alla realtà del privato sociale, del terzo settore, dell’associazionismo governativo.
Quale sia il significato da dare a “sinergia”, “azioni coordinate”, “governance multilivello” appare chiaro fin dall’inizio. La “democrazia attiva”, a cui il Piano sembra aspirare, prevede in realtà “due articolazioni diverse” che riportano poteri e valori dentro gerarchie note: al centro c’è la politica nella sua accezione tradizionale, dalla presidenza del consiglio, dalle amministrazioni statali fino agli enti locali, riuniti in un tavolo interistituzionale a cui spetta il compito di programmare, pianificare le azioni e coordinare in un sistema unico la varietà degli interventi; ai margini, come “sussidiarietà circolare”, stanno i servizi pubblici, il privato sociale, la società civile e le realtà che “hanno maturato esperienze significative nella presa in carico delle donne vulnerabili”, chiamati a partecipare “a livello tecnico” a un osservatorio nazionale sul fenomeno della violenza.
Non lascia molto sperare in fatto di riconoscimenti, autonomia, orizzontalità nei processi decisionali, neppure il tavolo di coordinamento che verrà istituito negli ambiti territoriali. L’eterogeneità dei soggetti che ne faranno parte, con compiti di indirizzo, programmazione, monitoraggio del fenomeno – prefettura, forze dell’ordine, procura della repubblica, comuni, asl, associazioni di pronto soccorso, eccetera – e la modalità con cui si prevede debbano essere realizzati i programmi con le parti interessate – protocolli di intesa, convenzioni, eccetera – la dicono lunga sulla macchinosa integrazione istituzionale e burocratica a cui vanno incontro i centri antiviolenza e tutto il patrimonio di sapere e di pratiche prodotto dal movimento delle donne.
Gli sbarramenti istituzionali
Non è nemmeno difficile immaginare che, nella difficoltà di scendere la scala dei molteplici sbarramenti istituzionali, anche i ristretti finanziamenti previsti per l’attuazione del piano finiranno nel contenitore più vicino al centro del controllo, la Banca dati, a cui spetta il sistema di monitoraggio del fenomeno a livello nazionale.
Dall’enfasi con cui viene descritta un’azione che dovrebbe essere solo di supporto si capisce con chiarezza qual è il senso complessivo di una legge che fa proprio, a parole, il dettato della convenzione di Istanbul sulla “necessità di promuovere cambiamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’inferiorità della donna”, mentre si muove di fatto su un terreno che è ancora quello della patologia e della criminalizzazione della violenza maschile.
Basta vedere la descrizione dei “dati” che dovranno affluire al centro per essere raccolti ed elaborati: “profili caratteristici delle vittime di violenza”, “informazioni relative al fatto violento (luogo, tipo di arma, motivazione addotta)”.
Posto in questi termini, non si vede in che cosa il monitoraggio del fenomeno – di cui si è fino a questo momento sottolineata la collocazione nella cultura maschile dominante, e quindi la sua “normalità” – potrà differenziarsi dalle “valutazioni del rischio nel sistema penitenziario”: “stabilire la pericolosità sociale del condannato”, “rilevare i bisogni, le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale”.
Perfino la scelta, secondo i dettami dell’Onu e del consiglio d’Europa, del “recupero e reinserimento degli uomini autori di violenza”, di per sé degna di attenzione, calata dall’alto e su un elenco di servizi eterogenei – forze dell’ordine, servizi sociosanitari, eccetera – arriva agli “operatori competenti nell’ambito del privato sociale per il reinserimento delle donne (centri antiviolenza)” nel modo più irriguardoso rispetto al fine stesso che il piano si propone: difesa della dignità, della libertà e dell’autodeterminazione delle donne.
È vero che analisi e indirizzi di largo respiro, mutuate dalla convenzione di Istanbul, compaiono nelle linee di indirizzo alla voce “Educazione” (“…includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta nei conflitti in rapporti interpersonali”), ma ecco che subito dopo, di nuovo, l’inclinazione del piano verso esiti punitivi si manifesta in modo evidente:
…gli insegnanti ‘sentinelle’ possono avvertire i segnali di allarme del disagio e indirizzare i minori in difficoltà presso le strutture del servizio sanitario nazionale individuate per la specifica presa in carico, quali i consultori familiari, i dipartimenti materno-infantili, i centri e gli sportelli antiviolenza…
L’impressione generale, restando sui contenuti e sulla visione di insieme del fenomeno, è che si sia tentato di tenere dentro tutto e il contrario di tutto: la centralità dello stato, delle sue amministrazioni, e il coinvolgimento dei soggetti non istituzionali, la questione della parità dei diritti, dello svantaggio femminile da colmare e la messa in discussione di una cultura che ha ingabbiato dentro stereotipi alienanti sia uomini sia donne.
Sui contenuti forse si può pensare che la discussione continui, ma una “governance” concepita come un immenso contenitore burocratico non è il modo migliore per attivare “sinergie” tra tutti i soggetti oggi impegnati nel contrasto alla violenza maschile contro le donne.
È vero che il rapporto tra il corpo e la legge ha sempre posto interrogativi e aperto conflitti. È capitato negli anni settanta, in due occasioni particolari: quando si discusse dell’aborto – se battersi per una legge che lo rendesse assistito e gratuito, e perciò riconosciuto come un diritto civile, o limitarsi a chiederne la depenalizzazione – e quando, nel 1975, furono istituzionalizzati i consultori.
Il desiderio di non perdere l’autonomia e le consapevolezze che nascevano da una pratica anomala come l’autocoscienza si è sempre accompagnato alla richiesta più o meno esplicita di una “parola pubblica” che riconoscesse alla questione uomo-donna – vista sotto il profilo della sessualità, maternità, salute, lavoro di cura, eccetera – il peso politico che ha sempre avuto.
Che la conquista di un diritto, la consegna alla legge e quindi alle politiche pubbliche di un’azione nata dal basso, con soggetti non istituzionali, potesse distorcere le finalità e i modi di agire con cui era nata, non era sfuggito neppure alle donne che in varie città italiane avevano creato gruppi e consultori autogestiti.
Sta accadendo di nuovo.
Angelo:
Qui, in un altro articolo, già dal titolo si vede cosa vogliono le donne secondo questi femministuccielli
http://www.internazionale.it/notizie/2015/06/10/donne-figli-istruzione
GIU 2015
10.19
Le donne vogliono tutto
Secondo il Pew Research Center, negli Stati Uniti dal 1994 al 2014 è diminuita la percentuale di donne ultraquarantenni senza figli, in particolare tra quelle con un maggior grado di istruzione. Nel 1994, il 35 per cento delle donne in possesso di un dottorato era senza prole, vent’anni dopo il tasso è calato al 20 per cento.
I dati si spiegano da una parte con un maggior accesso all’istruzione e ai trattamenti contro l’infertilità, che hanno allungato i tempi di studio e aumentato le gravidanze tardive.
Ma secondo il demografo Philip Cohen, dell’Università del Maryland, c’è anche un’altra spiegazione. Secondo Cohen sono cambiati alcuni meccanismi all’interno della coppia. Le donne più istruite sono state favorite a formare delle relazioni stabili e paritarie con il proprio partner, con stipendi simili e pari responsabilità verso i figli. Se nel 1965 le madri passavano con i propri figli sette volte il tempo che ci passavano i padri, nel 2012 il tempo era “solo” il doppio. Insomma, conclude l’analisi dell’Economist, raggiungere un buon livello d’istruzione e di carriera non è necessariamente un ostacolo ad avere dei figli. Alle volte, invece, può renderlo più semplice.
STATI UNITIFEMMINISMO
Angelo:
Qui invece, si lamentano del "maschilismo in Cina"... Le "giornaliste" (essendo un giornale spudoratamente femminista, i portatori di fallo, lì presenti e aventi il permesso di scrivere articoli femministi, non si sentiranno offesi del femminile plurale, anzi apprezzeranno la "cortesia" che ho fatto loro) cercano di scatenare sentimenti di pietà per qualche bagascia femminista probabilmente prezzolata dai "soliti noti" gruppi "umanitari" (a guida USA) che ha protestato in Cina.
GIU 2015
17.17
In Cina maschilismo, pornografia e aziende tecnologiche vanno d’accordo
Bill Savadove, giornalista
Per celebrare la giornata internazionale dell’infermiere, il 12 maggio, il sito di vendite online JD.com (la seconda più importante azienda di commercio elettronico in Cina, quotata alla borsa di New York) ha messo sul suo sito delle immagini di modelle con cuffiette e biancheria intima. Poi, però, travolto dai commenti di utenti indignati, ha dovuto interrompere bruscamente la campagna pubblicitaria.
Eppure le inserzioni pubblicitarie di questo tipo, in cui si vedono donne davanti ai fornelli oppure in atteggiamenti e tenute provocanti, sono comunissime. “Nella società cinese l’immagine della donna è vista come un oggetto e si assiste a continue disuguaglianze di genere”, commenta Wang Ping, un professore dell’Accademia di scienze sociali della provincia orientale di Zhejiang. “Il problema è ancora più grave nelle aziende tecnologiche”, aggiunge, “dove la stragrande maggioranza dei dipendenti sono maschi”.
Quando poi il settore high tech cerca di reclutare personale femminile, lo fa spesso goffamente. Un’offerta di lavoro del gigante del commercio elettronico Alibaba per assumere nuovi programmatori citava Sora Aoi, una pornostar giapponese molto popolare in Cina. Diceva l’inserzione: “Potrete somigliare al personaggio di La professoressa Aoi, tra le cui doti ci sono un profumo forte e penetrante e un seno che abbraccia il mondo”, e lavorare per Alibaba. “Oppure potrete essere come Song Hye-kyo (un’attrice televisiva della Corea del Sud), bellezza celeste che rivaleggia con la luna”.
Davanti alle critiche, Alibaba ha ritirato l’annuncio sessista spiegando che si trattava semplicemente “di un tentativo spiritoso di attirare dei talenti”.
Ma alcune aziende tecnologiche arrivano a invitare delle note attrici dell’industria del porno giapponese a partecipare ai loro eventi promozionali. Quando NetEase, un gestore di siti d’intrattenimento, nel 2013 ne ha invitata una a visitare i suoi uffici, i dipendenti maschi si sono accapigliati per fotografarla. E l’anno scorso la società di giochi online Dream, con sede a Shanghai, ha invitato la pornostar Yui Hatano ad animare il suo party annuale.
È vero che la pornografia è ufficialmente bandita dalle autorità cinesi, ma le attrici del porno asiatiche mietono successi in Cina: sulla piattaforma di microblogging cinese Weibo, l’account Teacher Aoi ha 16 milioni di follower.
“Le donne portano sulle spalle la metà del cielo”: nonostante questa famosa frase di Mao Zedong, Pechino non è affatto disposta a incoraggiare un movimento femminista. E così, ultimamente la polizia ha arrestato e incarcerato per un mese cinque attiviste che manifestavano contro le molestie sessuali a bordo dei mezzi di trasporto pubblici.
Del resto la Cina non ha mai conosciuto nulla di simile a un processo come quello intentato per discriminazione da Ellen Pao contro il suo ex datore di lavoro, la società di venture capital Kleiner Perkins, che nel 2005 ha infiammato gli Stati Uniti e in particolare la Silicon Valley.
La ricetta segreta
Oggi però alcuni gruppi industriali cinesi con ambizioni internazionali cercano di migliorare la loro immagine. Alibaba, per esempio, assicura: “Ci impegniamo a offrire pari opportunità e un trattamento equo a tutti i dipendenti in base al merito”.
Oltre il 40 per cento dei suoi 35mila dipendenti sono donne, mentre la Apple ne ha il 30 per cento. E, a detta di Alibaba, il 35 per cento delle posizioni dirigenziali è occupato da donne.
“È la nostra ricetta segreta”, ha detto il fondatore e presidente di Alibaba, Jack Ma, nel corso di una conferenza tenuta recentemente a Hangzhou, nell’est della Cina, dove il gruppo ha la sua sede.
Alibaba può affermare di essere all’avanguardia: secondo gli esperti, infatti, nelle aziende tecnologiche di tutto il mondo le donne rappresentano appena il 20 per cento dei dipendenti. Invece in Alibaba le posizioni chiave – direttore finanziario e direttore della gestione clienti – sono occupate da donne.
Eppure Lucy Peng, che è la direttrice delle risorse umane, ha dichiarato nel corso della stessa conferenza stampa che vuole essere giudicata per la qualità del suo lavoro e non per il fatto di essere donna. E ha puntualizzato: “Noi facciamo semplicemente il nostro lavoro responsabilmente e con cura”.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è stato pubblicato dall’Agence France-presse il 31 maggio 2015 con il titolo “En Chine, géants de l’internet, machisme et stars du X font bon ménage”.
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