Autore Topic: Parità anche nella violenza  (Letto 1390 volte)

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Offline giuspal

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Re:Parità anche nella violenza
« Risposta #1 il: Giugno 07, 2016, 08:00:01 am »
Riporto qui:

Violenza sulle donne. E anche sugli uomini
Da un’attenta analisi delle più recenti ricerche si vede come il dibattito sia viziato ideologicamente. Ecco perché

Ritengo vi siano due prospettive diverse, direi opposte anzi, di considerare il problema della violenza sulle donne e di coppia. E in questi giorni, nei quali terribili fatti di cronaca hanno ri-attirato l’attenzione sull’argomento, pare quanto mai doveroso ricordarli. Il primo atteggiamento – ampiamente veicolato dai mass media – è quello che sottolinea la necessità di sempre più aggiornati e severi provvedimenti contro il “femminicidio” finalizzati ad inasprire le pene per i responsabili e a rieducare il sesso maschile, che non solo sarebbe maggiormente violento e spietato, ma si sentirebbe persino legittimato ad agire violenza alla luce di un substrato culturale di matrice conservatrice e patriarcale. Un secondo modo di considerare la questione della violenza sulle donne è invece quello, anzitutto, di fare i conti con almeno tre, scomode verità che la riguardano.

La prima scomoda verità è che le osannate leggi sul “femminicidio” servono a poco. Lo indica anzitutto il caso italiano col Ddl n.1079/2013 che, pur prevedendo tre nuovi tipi di aggravanti – quando il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o del partner pure se non convivente e per chi commette maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori su donna incinta -, non pare abbia finora prodotto risultati convincenti (CorrieredellaSera.it 8.3.2014), e lo stesso indicano i casi della Francia – dove nei primi diciotto mesi della più recente legge contro le violenze coniugali non si sono ottenuti gli esiti sperati (Assemblée Nationale, 2010) – e della Spagna, dove le norme contro la violenza di genere, varate con gran entusiasmo nel 2004, negli anni subito successivi hanno perfino visto gli omicidi con vittime femminili aumentare: 57 nel 2005, sono saliti a 69 nel 2006, a 71 nel 2007 e 76 nel 2008 (Ministerio de Sanidad, 2010).

Come seconda scomoda verità c’è da precisare che l’Italia, aspramente criticata come un Paese preda ancora – si sente spesso ripetere da più parti – di una cultura patriarcale e dunque intrinsecamente violenta, è in realtà uno dei paesi con il più basso tasso di donne vittime di omicidio al mondo. Proprio così: lo certifica l’ONU, secondo il quale la stima è di 0,5% ogni 100 mila cittadine, un valore che non permette di cantare vittoria – anche solo una donna uccisa è qualcosa di imperdonabile – ma pari a quello dell’osannata Norvegia (0,5) e inferiore a quelli di Paesi considerati molto più evoluti di noi quali Svezia e Spagna (0,6), Germania (0,8), Francia (0,9), Finlandia (1,3) e Belgio (1,5) [UNODC, 2012]. Prima di associare ancora la visione tradizionale della famiglia alla violenza omicida sulle donne sarebbe dunque meglio, se i fatti contano qualcosa, essere cauti.

Anche perché, analogamente agli omicidi con vittime femminili, anche considerando il versante degli abusi domestici sulle donne, la posizione del nostro Paese appare, in proporzione, confortante: in una recente indagine a cura dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali effettuata coinvolgendo, preservandone l’anonimato, quarantaduemila donne – circa millecinquecento per ogni Paese – si è infatti vista che, mentre questa violenza appare percentualmente molto diffusa nell’Europa del Nord, celebrata come modello civile, col 52% di donne danesi che racconta di aver subito una violenza fisica o sessuale, il 47% di quelle della Finlandia e il 46% di quelle della Svezia, relativamente meno grave sembra essere il problema nei Paesi Bassi (45%) e in Francia e Gran Bretagna (44%), con l’Italia che, con il suo 27%, si piazza al diciottesimo posto di questa particolare classifica (European Union Agency for Fundamental Rights, 2014).

Una terza e scomodissima verità sulla violenza interpersonale riguarda il fatto che – anche se non è politicamente corretto dirlo – questa è agita in percentuali molto simili anche dalle donne sugli uomini: la “simmetria” tra i sessi nella violenza interpersonale è infatti un fenomeno non solo noto gli studiosi, ma ampiamente riscontrato in parecchie parti del pianeta: in Canada (6), nel Regno Unito (Aggressive Behavior, 1989), in Germania (DEGS-Studie, 2013), in Svezia (Brott i nära relationer. En nationell kartläggning, 2014), in Russia (Journal of Interpersonal Violence, 2008), in Nuova Zelanda (Basic and Applied Social Psychology, 2007) e, dulcis in fundo, negli Stati Uniti considerando tutti e tre i gruppi etnici: quelli bianco, nero ed ispanico (Journal of Interpersonal Violence, 2002). La mole di queste evidenze statistiche – fra le quali non mancano ricerche sullo stalking femminile realizzate da stimate studiose [Sex Roles, 2012] – è talmente consistente e, soprattutto, in conflitto con certe tesi che una parte degli studiosi tenta spesso di negarne l’attendibilità oppure corre ai ripari sostenendo che la violenza femminile, quando c’è, sia dovuta esclusivamente all’autodifesa.

Quest’ultima considerazione, ancorché possa apparire verosimile, è però priva di basi. Infatti, l’idea che la maggior parte delle violenze commesse dalle donne derivi dall’autodifesa è frutto di una cattiva lettura di un documento dell’OMS (World Health Organization, 2002), che ha diffuso un report dove però, al riguardo, si citano tre ricerche che dicono rispettivamente: il primo studio che solo in un terzo dei casi la donna agisce violenza per autodifesa (Violence and Victims, 1986) il secondo studio che appena il 7% delle donne aveva agito violenza per difendersi dal partner (Sociological Spectrum, 1997), mentre il terzo studio (Journal of Marriage and the Family, 2000) non presenta alcun dato nuovo e si basa sui precedenti. La sola rilevante differenza sulla violenza riguarda il fatto che le donne sono più propense agli schiaffi, ai morsi, al lancio di oggetti, mentre gli uomini – che sono meno propensi a denunciare le violenze che subiscono (Annual Report Two Thousand and Fourteen, 2014) – sono più inclini a picchiare e a tentativi di strangolamento (Aggression and Violent Behavior, 2002).

Se le donne subiscono maggiori lesioni degli uomini non è dunque dovuto al fatto che gli uomini siano più cattivi bensì alle diverse tipologie di violenza esercitate e alla differenza forza fisica tra i sessi. Anche se non mancano neppure casi nei quali la stessa violenza fisica viene agita – anche prolungatamente nel tempo – dalla donna sull’uomo. Solo che è politicamente scorretto parlarne. Anche per questo, in Francia, ha suscitato notevole interesse l’uscita del libro di Maxime Gaget, un ingegnere informatico che dalla compagna, prima di trovare il coraggio di denunciarla, ha raccontato di aver subito di tutto, dalle più diverse aggressioni fisiche – dagli schiaffi a salti sullo stomaco –, a severe punizioni – docce fredde da farsi con le finestre spalancate, notti sul pavimento – fino a vere e proprie forme di tortura quali bruciature coi mozziconi di sigarette e ustioni col ferro da stiro (Gaget M. Ma compagne, mon bourreau, Éditions Michalon, 2015).

Ora, alla luce di queste tre scomode verità – che contraddicono in modo netto certa retorica che vuole indispensabili le leggi sul “femminicidio”, l’Italia come Paese retrogrado e le donne solo vittime e mai responsabili di violenza – sono possibili altrettante, rapide riflessioni. La prima è che, più che demonizzare l’uomo come violento predisponendo corsi rieducativi per un solo pubblico maschile, sarebbe opportuna un’educazione finalizzata a rigettare la violenza in quanto tale. Nel momento in cui si continuasse infatti a parlare della violenza unidirezionale contro la donna come se gli uomini fossero sempre e solo carnefici e le donne solo vittime, si commetterebbe una enorme scorrettezza diffondendo un’idea – segnalano gli specialisti dell’argomento – «inattuale e non corrispondente alla realtà dei fatti» (Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, 2012). Una seconda riflessione riguarda il significato del rispetto.

Cosa vuol dire rispettare una persona? La condanna della violenza sulle donne com’è noto tende – sovrapponendo indebitamente violenza e forza fisica, come se la prima possa essere solo conseguenza della seconda – ad identificare il rispetto come assenza di contatto fisico sgradito o molesto. Ma la violenza psicologica, per esempio, non rientra forse tra le forme di violenza? E se sì, come mai l’argomento viene spesso e volentieri trascurato? Continuando ci si potrebbe chiedere allora se il rispetto sia davvero l’assenza di violenza fisica, sessuale o psicologica, o qualcosa di più. Infatti anche chi è del tutto indifferente al prossimo non agisce contro costui alcuna tipologia di violenza, ma appare umiliante per il concetto stesso di “rispetto” affermare che lo stia rispettando: no, il rispetto è qualcosa di più dell’indifferenza. Più convincente pare allora ritenere il rispetto una forma di amore.

A questo punto – terza ed ultima considerazione – ci si potrebbe però chiedere che cosa sia l’amore, quesito che richiederebbe ben altri approfondimenti. Un rapido ma intenso spunto al riguardo ci giunge però da un testo apparentemente lontano dalle questioni di cui si sta parlando – l’enciclica “Deus Caritas est”, di Papa Benedetto XVI -, dove, parlando di come ama Dio, viene esaltato un amore speciale «non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona» (n.10). Ecco, se come uomini e come donne fossimo maggiormente educati e cercassimo di educarci a nostra volta di più ad un amore «donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente» e capace di aprirsi al perdono molto, nei rapporti interpersonali, diventerebbe più semplice.

Non solo e non tanto per la capacità che il perdono offre di guardare oltre, ma soprattutto perché per un amore «donato del tutto gratuitamente» è molto più difficile che degenerare in pretesa, possesso o violenza: laddove vi sono dono disinteressato e assenza di calcolo emerge infatti una capacità piena e nuova di guardare all’altro, anziché quale mezzo per ottenere appagamento, come strumento grazie al quale conoscere la vita più in profondità scoprendo anche la bellezza – nei momenti decisivi, nei quali verrebbe forse più istintivo pensare al comando – del lasciarsi guidare. Impossibile, a questo riguardo e per concludere, non volgere il pensiero agli immortali versi che il poeta Eugenio Montale (1896-1981) dedicò a sua moglie: «Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio/non già perché con quattr’occhi forse si vede di più./Con te le ho scese perché sapevo che di noi due/le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano le tue».