http://www.avantionline.it/2016/10/foodora-e-non-solo-new-economy-e-nuovi-sfruttamenti/#.WAugNuiLTIUSta facendo discutere il caso di Foodora, la società tedesca, creata a Monaco nel 2014 e ora proprietà del gruppo Rocket Internet, che ha deciso, per le nuove assunzioni, di eliminare unilateralmente la remunerazione fissa basata sul numero di ore lavorate per mantenere esclusivamente una remunerazione a consegna di 2,70 euro. I lavoratori hanno così protestato con l’appoggio dei sindacati, ma l’azienda non si è detta disposta a far passare i dipendenti a un part-time orizzontale di minimo 20 ore remunerato 7,50 euro l’ora più 1 euro a consegna. Ora il caso dei lavoratori in bici, dopo due settimane di proteste e nuove rivelazioni, arriva in Parlamento e il ministro Poletti invia il personale per gli appositi controlli. “Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha inviato gli ispettori alla Foodora. Sono in corso verifiche. Se dovessero emergere violazioni di legge verrebbero adottati i provvedimenti conseguenti”. Così la ministra per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha risposto all’interrogazione del deputato di Sinistra Italiana Giorgio Airaudo durante il question time alla Camera. Ma non è il solo caso di un’economia e di un lavoro che se non sono ‘sommersi’ nascondono pieghe di vero e proprio sfruttamento.
Lavoro, la galassia dei nuovi schiavi
di Valentina Bombardieri
C’è una sottile linea nera tra lavoro e sfruttamento. Una linea sottile e che sembra sbiadirsi con il passare del tempo. L’ultima linea cancellata è quella nella società tedesca Foodora, che ha inventato un sistema di consegna a domicilio, in bicicletta, delle pietanze cucinate in una rete di 6500 ristoranti in dieci Paesi. In Italia il servizio è operativo a Milano e Torino. Proprio in quest’ultima città è scoppiata la protesta. Da una retribuzione oraria lorda di 5,40 euro a 2,70 euro per ogni consegna. È il mondo della “gig economy” che si ribella. Il mondo dei cosiddetti “lavoretti”. Un modello economico sempre più diffuso dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze
Quando è scoppiata la protesta, i vertici italiani di Foodora hanno tentato di far passare l’idea che quei ragazzi amano andare in bici e non fanno nient’altro che unire l’utile al dilettevole. Gianluca Cocco, il co-managing director, ha dichiarato che la sua azienda non offre un “primo” ma un “secondo lavoro”, un modo per impegnare il tempo libero e guadagnare qualche soldo. Il problema è che i ragazzi non l’hanno capito. Affermazione coraggiosa nel paese dei record per quanto riguarda la disoccupazione giovanile. Oggi per i giovani è difficile addirittura trovare il primo lavoro, figuriamoci se pensano a trovare il secondo (o se cse sono obbligati a pensarci è perché il primo offre una retribuzione al di sotto dei minimi livelli di sostentamento). Inoltre è tornato il cottimo, e soprattutto sta tornando l’idea tra i giovani che il cottimo sia una cosa giusta ed equa.
Risultato? Stipendi dimezzati e diritti annullati. Niente ferie, né malattie, figuriamoci la tredicesima. I fattorini (o forse dovremmo definirli ciclisti secondo l’offensiva sintassi sociale del signor Cocco) di Foodora hanno contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Devono attenersi a un orario e devono presentarsi in un luogo di lavoro: la piazza di Torino. Alla faccia della storia di unire l’utile al dilettevole.
Foodora si starebbe avvalendo di un vuoto creato dal Jobs Act: l’abolizione del punto della riforma Fornero in cui veniva stabilito che il compenso dei co.co.co a progetto non potesse essere inferiore alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali del settore; in fondo un vero primato politico per un governo che immaginava di avere una veste un po’ più socialmente corretta del devastante esecutivo al servizio di Bruxelles guidato dal tecnocrate Mario Monti. Anche se qualcosa si potrebbe fare, come sostiene Giuseppe Garesio, vicepresidente nazionale di Assolavoro, l’associazione che riunisce le agenzie interinali, che aveva proposto di ricorrere al monte ore garantito (Mog): una tipologia di contratto di somministrazione che prevede un minimo di ore garantite da distribuire nella settimana, a seconda dei picchi di lavoro previsti. Una sorta di “evoluzione” del lavoro a chiamata che però garantisce al lavoratore la retribuzione, oltre naturalmente agli oneri previdenziali.
Un mondo di lavoretti e di precarietà, un tunnel dove la luce sembra ancora molto lontana. Foodora è solo la punta dell’iceberg in una galassia dove non sembra esserci spazio per i giovani, una somma di pianeti abitati da nuovi schiavi. Nel mondo 45,8 milioni di persone vive in stato di schiavitù, di cui 129.600 in Italia. Di queste, 1.243.400 (2,7%) si trovano in Europa. Sono le conclusioni dell’ultimo rapporto della Walk Free Foundation: secondo l’Indice globale della schiavitù 2016, la stima del 28% rispetto all’ultimo rapporto, che tradotto vuol dire 10 milioni di persone in più. Ovviamente la stima è decisamente più selettiva e riguarda condizioni di reale schiavitù pur considerando, in parte, anche quelle legate a situazioni lavorative di particolare “sottomissione”.
Se decidi di non voler fare consegne in bicicletta puoi trovare lavoro in un call center. Due euro l’ora è la retribuzione media di un operatore per un part time da 20 ore settimanali. Una media di 400/500 euro al mese. Sempre se riesci a superare il periodo di prova, naturalmente non retribuito. Giovani che vengono incantati dalla provvigione che riceveranno con ogni contratto. In realtà, vista la diffidenza sempre maggiore nei confronti di chi riceve le chiamate dai call center, riuscirci è col tempo diventato sempre più difficile. E così l’operatore si ritrova a doversi accontentare dell’esiguo fisso mensile. Va inoltre sottolineato che parliamo di rapporti lavorativi per la stragrande maggioranza dei casi creati al di fuori del contratto collettivo di telecomunicazione.
Ulteriore problema dei call center è la delocalizzazione e gli appalti e sub appalti al massimo ribasso. I sindacati denunciano in particolare il mancato rispetto della clausola sociale contenuta nel “Ddl Appalti” approvato dal Parlamento. E cita l’esempio emblematico di Poste Italiane ed Enel, aziende controllate dallo Stato italiano che, assegnando le attività di call center a esterni scelgono in base al prezzo più economico. Un tempo si diceva che lo Stato siamo noi: non era indicata una postilla che escludeva quei lavoratori “telefonici”. Cinquecento addetti ai call center fra Roma e Napoli delle aziende Gepin Contract e Uptime (che gestiscono il servizio per Poste italiane) sono stati licenziati. L’appalto se lo sarebbero aggiudicato altre imprese dai prezzi ancora più competitivi. Del resto, il decreto appalti lo permette: chi propone il prezzo più basso si accaparra il lavoro. Mentre la clausola sociale che impone a chi vince l’appalto di non licenziare i vecchi operatori garantendo la continuità lavorativa sarebbe del tutto ignorata. E disattesa secondo il sindacato sarebbe anche la norma (articolo 24 bis della legge 134/2012) sulle delocalizzazioni. Moltissimi call center hanno traslocato in Paesi con costi del lavoro bassissimi (l’Albania, ad esempio) e dove non esiste garanzia per il trattamento dei dati personali e sensibili.
È balzato alle cronache il caso di Almaviva, che ha annunciato il taglio di 2.500 dipendenti. Se non risolve la questione entro breve, nel giro di qualche mese ci saranno 70-80mila posti a rischio nel settore dei call center, tra coloro che chiamano i clienti e coloro che vengono contattati per problemi “anche di ordine pubblico”. A lanciare l’allarme sono Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom. Secondo Giorgio Serao (Fistel), Pierpaolo Mischi (Uilcom) e Riccardo Saccone (Slc-Cgil) è necessario intervenire con norme di contrasto alle delocalizzazione e applicando le sanzioni previste, agendo contro le gare al massimo ribasso, rispettando i minimi contrattuali e prevedendo ammortizzatori sociali stabili e non in deroga per tutto il settore
Ma tra gli sfortunati e gli sfruttati esiste addirittura una classifica dove gli ultimi non saranno mai i primi. Una sorta di sciacallesca legge di Murphy in base alla quale chi sta male può sempre attendersi di stare anche peggio. Incredibile la storia di Taranto, dove è stato scoperto un call center con lavoratori in nero e costretti a operare in un garage.
C’è poi il popolo dei voucher. Sette euro e 50 l’ora per prestazioni occasionali, che poi occasionali non sono. Il lavoro a voucher non prevede alcuna forma di welfare (ferie, malattia, gravidanza etc) ed è in larghissima espansione in Italia: lavoro liquido e super precario, sostanzialmente braccia e cervelli in affitto, all’ora, usa-e-getta. Sono nati con una filosofia di emersione del lavoro nero soprattutto nel settore dell’agricoltura. Ora il Jobs Act ne ha ampliato i confini. I settori di maggior impiego del voucher sono il commercio (18 %), il turismo (13,7%) e i servizi (13%) mentre solo il 6 % ormai è venduto nel settore agricolo e appena il 3 % nei servizi domestici, le tipologie per le quali era nato e che, in termini assoluti, si mantengono costanti. Vendita di voucher in aumento del 40% anno in un anno. Nel primo semestre 2016, infatti, sono stati venduti 69,9 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio. Cifra pari al 40,1% in più rispetto al primo semestre 2015.
C’è un mondo diviso. Un mondo dove da una parte ci sono i contrattualizzati, chi ha un lavoro stabile con ferie contribuiti, Inail, le ferie e i festivi e uno stipendio “prosciugato” negli anni ma che in alcuni casi permette “addirittura” di sopravvivere. Dall’altra parte i nuovi schiavi. Sono disoccupati cui si dà una parvenza di occupazione (funziona per le statistiche dell’Istat che poi Renzi esibisce davanti a Obama) al prezzo della cessione di ogni diritto: al contratto, alle ferie, ai festivi, alla maternità, agli straordinari. Nuovi schiavi che sono costretti ad accettare un lavoro perché rifiutarlo è un lusso che oggi nessuno può permettersi. O così o niente. Poco è meglio di niente. Ma quel poco resta pur sempre un insulto.
Valentina Bombardieri
Fondazione Nenni