questo è il testo completo della sentenza della c.c.
Corte Costituzionale, sentenza 8 novembre – 21 dicembre 2016, n. 286
Presidente Grossi – Redattore Amato
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza emessa il 28 novembre 2013, la Corte d’appello di Genova
ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo
comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale della norma
desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del
regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34
del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2,
comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede
«l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza
di una diversa contraria volontà dei genitori».
2.– Il giudizio a quo ha per oggetto il reclamo avverso il provvedimento del
Tribunale ordinario di Genova che ha respinto il ricorso avverso il rigetto, da
parte dall’ufficiale dello stato civile, della richiesta di attribuire al figlio dei
ricorrenti il cognome materno, in aggiunta a quello paterno.
La Corte d’appello di Genova osserva che, sebbene la norma sull’automatica
attribuzione del cognome paterno, anche in presenza di una diversa volontà
dei genitori, non sia prevista da alcuna specifica norma di legge, essa è
desumibile dal sistema normativo, in quanto presupposta dagli artt. 237, 262 e
299 cod. civ., nonché dall’art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, e
dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000.
Il rimettente evidenzia che molti Stati europei si sono già adeguati al vincolo
posto dalle fonti convenzionali e, in particolare, dall’art. 16, comma 1, lettera
g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e
resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132. Essa impegna gli Stati
contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare tale
discriminazione in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti
familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e
alla moglie, compresa la scelta del cognome».
Vengono, inoltre, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28
aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362, nonché la risoluzione 27
settembre 1978, n. 37, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra
madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché alcune pronunce
della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione della
eliminazione di ogni discriminazione basata sul genere nella scelta del
cognome (sentenze 16 febbraio 2005, Unal Tekeli contro Turchia; 24 ottobre
1994, Stjerna contro Finlandia; 24 gennaio 1994, Burghartz contro Svizzera).
Viene, in particolare, richiamata la sentenza di questa Corte in cui si afferma
che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione
patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di
famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente
con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra
uomo e donna» (sentenza n. 61 del 2006). In quella occasione, osserva il
rimettente, la Corte costituzionale ritenne che la questione esorbitasse dalle
proprie prerogative, in quanto l’intervento invocato avrebbe comportatoun’operazione manipolativa eccedente dai suoi poteri.
Il giudice a quo evidenzia, tuttavia, la necessità di una rivalutazione della
medesima questione, alla luce degli argomenti sviluppati dalla Corte di
cassazione nell’ordinanza n. 23934 del 22 settembre 2008, con la quale – ai
sensi dell’art. 374, secondo comma, del codice di procedura civile – veniva
disposta la trasmissione degli atti al Primo Presidente ai fini della rimessione
alle sezioni unite, per valutare la possibilità di un’interpretazione
costituzionalmente orientata delle norme che regolano l’attribuzione del
cognome ai figli.
Il rimettente ritiene che la distonia rispetto ai principi sanciti dall’art. 29 Cost.,
già rilevata nella sentenza n. 61 del 2006, imponga – alla luce dei due eventi
normativi consistenti, da un lato, nella modifica dell’art. 117 Cost. e, dall’altro,
nella ratifica del trattato di Lisbona – la riproposizione della questione relativa
alla norma implicita che prevede l’automatica attribuzione del cognome
paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori.
Tale disciplina si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 Cost., per la
violazione del diritto all’identità personale, che trova il primo ed immediato
riscontro proprio nel nome e che, nell’ambito del consesso sociale, identifica le
origini di ogni persona. Da ciò discenderebbe il diritto del singolo individuo di
vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.
Viene, inoltre, denunciata la violazione dell’art. 3 e dell’art. 29, secondo
comma, Cost., sotto il profilo del diritto di uguaglianza e pari dignità dei
genitori nei confronti dei figli e dei coniugi tra di loro. D’altra parte, ad avviso
del rimettente, l’esigenza di tutela dell’unità familiare non sarebbe idonea a
giustificare l’obbligatoria prevalenza del cognome paterno.
Viene, infine, denunciata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.,
«come interpretato nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte
costituzionale [...], costituendo le norme di natura convenzionale già citate
parametri del giudizio di costituzionalità delle norme interne».
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituite le parti reclamanti nel
giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità
costituzionale sollevata dal giudice a quo.
3.1.– In punto di fatto, esse evidenziano che il proprio figlio minore, nato in
costanza di matrimonio, è titolare di doppia cittadinanza e tuttavia – per
effetto del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile di procedere
all’iscrizione del minore con il cognome di entrambi i genitori – egli viene
identificato diversamente nei due Stati dei quali è cittadino: in Italia con il solo
cognome del padre ed in Brasile con il doppio cognome, paterno e materno.
Dopo avere illustrato l’evoluzione normativa e giurisprudenziale successiva alla
sentenza n. 61 del 2006, la difesa delle parti ricorrenti evidenzia che, nelle
more del presente giudizio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato
che l’impossibilità per i genitori di far iscrivere il figlio “legittimo” nei registri
dello stato civile attribuendogli alla nascita il cognome della madre, anziché
quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in
combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare)
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e deriva da una lacuna delsistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate
riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane» (sentenza 7 gennaio 2014,
Cusan e Fazzo contro Italia).
Ad avviso delle parti reclamanti, tale decisione, vertente su un caso
sostanzialmente identico a quello all’esame di questa Corte, rafforza gli
argomenti a sostegno della fondatezza della questione.
3.2.– Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 2 Cost., la difesa delle
parti private richiama i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale sul
diritto al nome come segno distintivo dell’identità personale, anche in
riferimento alla posizione del figlio adottivo (sentenze n. 268 del 2002; n. 120
del 2001; n. 297 del 1996 e n. 13 del 1994).
Pur riconoscendo che permangono delle differenze in materia di attribuzione
del cognome tra la posizione del figlio di una coppia non unita in matrimonio o
adottato e la posizione del figlio di una coppia coniugata, le parti ricorrenti
ritengono che la rigidità della norma che impone in ogni caso l’attribuzione del
cognome paterno sacrifichi il diritto all’identità del minore, che si vede negata
la possibilità di aggiungere il cognome materno, qualora tale scelta sia
espressione di un’esigenza connessa all’esercizio del diritto all’identità
personale.
Ad avviso delle parti private, se il diritto al nome e, più in particolare, al
cognome, costituisce la manifestazione esterna e “tangibile” del diritto
all’identità personale, l’attribuzione automatica al figlio di una coppia coniugata
del solo cognome paterno determina l’irrimediabile compromissione di tale
diritto, precludendo al singolo individuo di essere identificato attraverso il
cognome che meglio corrisponda alla propria identità personale.
3.3.– Con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3, primo comma, e
dell’art. 29, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza e pari
dignità dei genitori e dei coniugi, vengono richiamate le pronunce con le quali,
sin dal 1960, la giurisprudenza costituzionale ha affermato l’illegittimità di
norme che prevedevano un trattamento irragionevolmente differenziato dei
coniugi (sentenze n. 33 del 1960; n. 126 e n. 127 del 1968; n. 147 del 1969;
n. 128 del 1970; n. 87 del 1975; n. 477 del 1987; n. 254 del 2006; in tema di
eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra i coniugi, vengono, inoltre, citate le
sentenze n. 46 del 1966; n. 133 del 1970; n. 6 del 1980 e n. 116 del 1990).
3.4.– Quanto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., la
difesa delle parti private richiama i principi affermati a livello internazionale, e
recepiti dall’ordinamento italiano, sulla protezione dei diritti del fanciullo e sulla
parità di genere. Vengono richiamati, in particolare, l’art. 24 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici (adottato dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976,
ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881); l’art. 7 della
Convenzione sui diritti del fanciullo (fatta a New York il 20 novembre 1989,
ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176); l’art. 16, lettera
g), della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione
contro le donne (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination
Against Women – CEDAW), adottata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo
1985, n. 132.Da tale quadro normativo emergerebbe la non conformità ai principi sopra
richiamati della norma che impone l’attribuzione automatica ed esclusiva del
solo cognome paterno. Essa sarebbe lesiva sia dei principi che garantiscono la
tutela del diritto al nome, sia di quelli in tema di eguaglianza e di non
discriminazione tra uomo e donna nella trasmissione del cognome al figlio, sia
esso legittimo o naturale.
La difesa delle parti reclamanti evidenzia, in particolare, che sebbene la CEDU
non contenga alcun riferimento espresso al diritto al nome del singolo
individuo, la Corte di Strasburgo, in molteplici pronunce, ne ha ricondotto la
tutela entro l’ambito applicativo del diritto al rispetto della vita privata, sancito
dall’art. 8 della CEDU. In queste decisioni la Corte europea – pronunciandosi su
casi analoghi a quello successivamente deciso dalla citata sentenza nel caso
Cusan e Fazzo – ha accertato la violazione dell’art. 8 CEDU, in combinato
disposto con l’art. 14, in ragione della disparità di trattamento fondata sul
genere.
3.5.– Le parti private deducono, inoltre, che la pronuncia richiesta alla Corte
non sarebbe tale da invadere la sfera di discrezionalità del legislatore,
trattandosi, viceversa, di un intervento costituzionalmente imposto, limitato
all’apposizione, alla norma impugnata, delle “rime obbligate”. La Corte
potrebbe, infatti, limitarsi a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme
invocate, nella parte in cui non consentono ai genitori di scegliere, di comune
accordo, il cognome da trasmettere ai figli.
D’altra parte, non sarebbe ravvisabile alcun vuoto normativo derivante
dall’invocato intervento caducatorio. Al riguardo, sono richiamate le pronunce
che affermano che, a fronte di «un vulnus costituzionale, non sanabile in via
interpretativa − tanto più se attinente a diritti fondamentali − la Corte è tenuta
comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione
dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o,
meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione)
omette di prevedere. [...] Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre
dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli
strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore
provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno,
gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione»
(sentenza n. 113 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 78 del 1992 e n. 59
del 1958).
4.– L’Associazione Rete per la Parità ha depositato atto di intervento in cui ha
chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata
dalla Corte di appello di Genova.
In via preliminare, sono state illustrate le ragioni dell’ammissibilità
dell’intervento, sebbene l’Associazione non rivesta la qualità di parte nel
giudizio a quo.
Quanto al merito della questione, l’Associazione ha esposto e ribadito i
medesimi argomenti svolti dalla difesa delle parti private a sostegno della
rilevanza e della fondatezza della questione.
5.− L’ordinanza di rimessione è stata ritualmente notificata al Presidente del
Consiglio dei ministri, il quale ha omesso di intervenire in giudizio.
Considerato in diritto1.– Con ordinanza emessa il 28 novembre 2013, la Corte d’appello di Genova
ha sollevato − in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo
comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale della norma
desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del
regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34
del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2,
comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede
«l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza
di una diversa contraria volontà dei genitori».
È denunciata, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., in quanto verrebbe
compresso il diritto all’identità personale, il quale comporta il diritto del singolo
individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami
genitoriali.
Viene, inoltre, evidenziato il contrasto con gli artt. 3 e 29, secondo comma,
Cost., poiché sarebbe leso il diritto di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei
confronti dei figli e dei coniugi tra di loro.
Viene, infine, ravvisata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
riferimento all’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla
eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alle
raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo
1998, n. 1362, nonché alla risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla
piena realizzazione dell’uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome
dei figli.
2.– Preliminarmente, va confermata l’ordinanza dibattimentale, allegata alla
presente sentenza, con la quale è stato dichiarato inammissibile l’intervento
dell’associazione Rete per la Parità.
3.– La questione sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost. è fondata.
3.1.– È denunciata l’illegittimità costituzionale della norma − desumibile dagli
artt. 237, 262 e 299 cod. civ. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000 –
che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato in
costanza di matrimonio, in presenza di una diversa contraria volontà dei
genitori.
Va rilevato, preliminarmente, che tra le disposizioni individuate dal rimettente
compare, altresì, l’art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, il quale,
tuttavia, è stato abrogato dall’art. 110 del d.P.R. n. 396 del 2000. Dal tenore
complessivo degli argomenti sviluppati nell’ordinanza di rinvio si evince,
peraltro, che tale disposizione rientra nel fuoco delle censure del rimettente al
solo fine di esplicitare la norma − da essa presupposta – che prevede
l’automatica attribuzione del solo cognome paterno.
L’esistenza della norma censurata e la sua perdurante immanenza nel sistema,
desumibili dalle disposizioni che implicitamente la presuppongono, è stata già
riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, nelle precedenti occasioni in
cui ne è stata denunciata l’illegittimità (sentenze n. 61 del 2006 e n. 176 del
1988; ordinanze n. 145 del 2007 e n. 586 del 1988). In queste pronunce, la
Corte ha riconosciuto l’esistenza di tale norma, in quanto presupposta dalle
medesime disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dall’odierno
rimettente (artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché artt. 33 e 34 del d.P.R. n.396 del 2000).
Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, ancora
una volta, non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa
della norma, in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al
figlio.
Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, sia
precedente, sia successiva alle richiamate pronunce di questa Corte, laddove
ha riconosciuto che – da tali pur eterogenee previsioni – si desume l’esistenza
di una norma che, sebbene non prevista testualmente nell’ambito di alcuna
disposizione, è ugualmente presente nel sistema e «certamente si configura
come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo»
(Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; v. anche Cass., sez. I, 22 settembre
2008, n. 23934).
Nel caso in esame, la norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno
è oggetto di censura per la sola parte in cui non consente ai genitori – i quali
ne facciano concorde richiesta al momento della nascita – di attribuire al figlio
anche il cognome materno.
3.2.– Così ricostruito l’oggetto della presente questione, va rilevato che già in
precedenti occasioni questa Corte ha esaminato la disciplina della prevalenza
del cognome paterno, al momento della sua attribuzione al figlio, ma ha
dichiarato inammissibili le relative questioni, ritenendole riservate alla
discrezionalità del legislatore, nell’ambito di una rinnovata disciplina.
Tuttavia, già nell’ordinanza n. 176 del 1988, è stato espressamente
riconosciuto che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo
all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla
determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal
matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il
quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi
dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (v. anche ordinanza n.
586 del 1988).
Diciotto anni dopo, con ancora maggiore fermezza, nella sentenza n. 61 del
2006, in considerazione dell’immutato quadro normativo, questa Corte ha
espressamente rilevato l’incompatibilità della norma in esame con i valori
costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Tale sistema di
attribuzione del cognome, infatti, è definito come il «retaggio di una
concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel
diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più
coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale
dell’uguaglianza tra uomo e donna».
3.3.– A distanza di molti anni da queste pronunce, un «criterio diverso, più
rispettoso dell’autonomia dei coniugi», non è ancora stato introdotto.
Neppure il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle
disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge
10 dicembre 2012, n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la
completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio
naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, ha scalfito
la norma oggi censurata.
Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome – conl’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e
l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012,
n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello
stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) –
le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del
cognome, effettuata al momento della nascita.
Va, d’altro canto, rilevata un’intensa attività preparatoria di interventi
legislativi volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione
del cognome ai figli. Allo stato, tuttavia, essi risultano ancora in itinere.
Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità
per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché
la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il
cognome della madre.
3.4.– La Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità
personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di
trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di
salvaguardia dell’unità familiare.
3.4.1.– Quanto al primo profilo di illegittimità, va rilevato che la distonia di tale
norma rispetto alla garanzia della piena realizzazione del diritto all’identità
personale, avente copertura costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost.,
risulta avvalorata nell’attuale quadro ordinamentale.
Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue
espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del
diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un
gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome
del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella
sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.
È proprio in tale prospettiva che questa Corte aveva, da tempo, riconosciuto il
diritto al mantenimento dell’originario cognome del figlio, anche in caso di
modificazioni del suo status derivanti da successivo riconoscimento o da
adozione. Tale originario cognome si qualifica, infatti, come autonomo segno
distintivo della sua identità personale (sentenza n. 297 del 1996), nonché
«tratto essenziale della sua personalità» (sentenza n. 268 del 2002; nello
stesso senso, sentenza n. 120 del 2001).
Il processo di valorizzazione del diritto all’identità personale è culminato nella
recente affermazione, da parte di questa Corte, del diritto del figlio a conoscere
le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, quale «elemento
significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona» (sentenza n.
278 del 2013).
In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto il diritto al nome nell’ambito
della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014,
successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha
affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il
cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14(divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al
rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del
sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate
riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì,
ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva
autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni
aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel
nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento
del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione
di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere
identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi
i genitori.
Viceversa, la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno
sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere
identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno.
3.4.2.– Quanto al concorrente profilo di illegittimità, che risiede nella violazione
del principio di uguaglianza dei coniugi, va rilevato che il criterio della
prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei
coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità
di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.
Come già osservato da questa Corte sin da epoca risalente, «è proprio
l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a
metterla in pericolo», poiché l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci
rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza
n. 133 del 1970).
La perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei
coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il
figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice, ora come allora, quella
finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in
generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della
norma sulla prevalenza del cognome paterno.
Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli,
in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e
dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né
con il principio della loro pari dignità morale e giuridica.
4.– Con la presente decisione, questa Corte è, peraltro, chiamata a risolvere la
questione formulata dal rimettente e riferita alla norma sull’attribuzione del
cognome paterno nella sola parte in cui, anche in presenza di una diversa e
comune volontà dei coniugi, i figli acquistano automaticamente il cognome del
padre. L’accertamento della illegittimità è, pertanto, limitato alla sola parte di
essa in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli,
al momento della nascita, anche il cognome materno.
4.1– Rimane assorbita la censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost.
5.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di
illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, alla disposizione
dell’art. 262, primo comma, cod. civ., la quale contiene tuttora – conriferimento alla fattispecie del riconoscimento del figlio naturale effettuato
contemporaneamente da entrambi i genitori – una norma identica a quella
dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.
Anche tale disposizione va, pertanto, dichiarata illegittima, nella parte in cui
non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al
momento della nascita, anche il cognome materno.
5.1.– Per le medesime ragioni, la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai
sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, va estesa, infine, all’art. 299,
terzo comma, cod. civ., per la parte in cui non consente ai coniugi, in caso di
adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il
cognome materno al momento dell’adozione.
6.– Va, infine, rilevato che, in assenza dell’accordo dei genitori, residua la
generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un
indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la
materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
1) dichiara l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237,
262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939,
n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre
2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione
dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L.
15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune
accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome
materno;
2) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod.
civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di
trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno;
3) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del
1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella
parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi,
di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento
dell’adozione.
Allegato:
ordinanza letta all’udienza dell’8 novembre 2016
Rilevato che, nel giudizio promosso dalla Corte di appello di Genova con
ordinanza del 28 novembre 2013 (reg. ord. n. 31 del 2014), il 7 aprile 2014 ha
depositato atto di intervento l’associazione Rete per la Parità, in persona del
proprio legale rappresentante pro tempore.
Considerato che l’Associazione Rete per la Parità non riveste la qualità di parte
del giudizio principale;
che la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze
allegate alla sentenza n. 134 del 2013 e all’ordinanza n. 318 del 2013) è nelsenso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è
circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del
Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta
regionale (artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte
costituzionale);
che a tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il
carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – soltanto a favore di
soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex
plurimis, sentenze n. 76 del 2016; n. 221 del 2015 e relativa ordinanza letta
all’udienza del 20 ottobre 2015; n. 162 del 2014 e relativa ordinanza letta
allʼudienza dellʼ8 aprile 2014; n. 293 e n. 118 del 2011; n. 138 del 2010 e
relativa ordinanza letta allʼudienza del 23 marzo 2010; ordinanze n. 240 del
2014; n. 156 del 2013; n. 150 del 2012 e relativa ordinanza letta allʼudienza
del 22 maggio 2012);
che, pertanto, sulla posizione soggettiva della parte interveniente l’eventuale
declaratoria di illegittimità della legge deve produrre lo stesso effetto che
produce sul rapporto oggetto del giudizio a quo;
che il presente giudizio – che ha ad oggetto la norma desumibile dagli artt.
237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio
1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del decreto del
Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la
revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma
dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui
prevede «l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in
presenza di una diversa contraria volontà dei genitori» − non sarebbe
destinato a produrre, nei confronti dell’Associazione interveniente, effetti
immediati, neppure indiretti;
che, pertanto, essa non riveste la posizione di terzo legittimato a partecipare al
giudizio dinanzi a questa Corte.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
dichiara inammissibile l’intervento dell’Associazione Rete per la Parità.