Autore Topic: Michele non si è ucciso solo per il lavoro.  (Letto 6470 volte)

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Offline Angelo

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #15 il: Febbraio 09, 2017, 02:58:20 am »
Mi dispiace e mi fa rabbia che un mio coetaneo (quasi ) si sia suicidato ANCHE a causa delle parole di questo lurido esemplare ---->
Detto questo, io non credo che mi suiciderei dopo che il mio "carnefice" in giacca e cravatta mi ha pure preso per il culo e si ingozza come un porco assieme ad una banda di traditori della Patria. I maiali ci vogliono alla fame mentre loro si fanno i cazzi loro*, io resisto. Sempre arriverà il momento in cui i porci e le vacche pagheranno. Pure perchè altri soggetti, forse con altri temperamenti e con altra rabbia qualcosa hanno fatto ---->

http://www.lastampa.it/2017/01/07/italia/cronache/nuove-minacce-al-figlio-del-ministro-poletti-proiettili-in-una-busta-ti-ammazziamo-gjOAbbjz9C5KPw4ByJ39WO/pagina.html

* Qui vediamo lo smunto ed emaciato Poletti al tavolo con gli zingari ed altri soggetti che sono "ospiti dello Stato" --->  minuto 00:26

** <--- Qui invece "minaccia" un giornalista colpevole di avergli dato un microchip dello stesso tipo che lui riteneva idoneo per i lavoratori di Fincantieri.
Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro.

Gilbert Keith Chesterton

Offline claudio camporesi

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #16 il: Febbraio 09, 2017, 10:49:07 am »
In questa ( ennesima) tragedia,credo necessario distinguere  due aspetti ( ed in  entrambe la QM c'entra , e c'entra eccome)

Un livello personale : quando la risposta ad un qualunque problema è rappresentata dal suicidio, dopo l'umano smarrimento ci si chiede se fossero stati ignorati  eventuali segnali- La fase della colpevolizzazione, da parte di chi era vicino al suicida, è inevitabile.
La realtà è che Michele era solo, forse ( dico forse)è stato lasciato solo. Non solo sotto l'aspetto lavorativo,od economico. Anche sotto il profilo sentimentale.Anzi,certamente.
Qualunque errore di valutazione  nella preparazione lavorativa, nelle prospettive economiche o in campo sentimentale viene ingigantito dalla solitudine.
E la solitudine è una terribile consigliera, spesso si sposa con la angoscia ed uccide la speranza.
A me, che come tutti voi  non lo conoscevo, resta solo la pietas.Una pietas laica.

In una società laida.

E qui entriamo nel secondo livello.
Una società che ti valuta solo come consumatore , e per di più consumatore obbligato di beni e valori già stabiliti, deve emarginare chi non partecipa.
Soprattutto una società cosiddetta laica, dove alla religione si è sostituito il valore del consumo.
Se non guadagni non consumi, se non consumi non vali, se non vali tanto vale che tu ti tolga dai piedi.
Si può resistere in questo contesto?
Mi permetto di rispondere : si , ma è molto difficile.
Ci vogliono fortissimi  anticorpi psicologici. Che si creano con estrema dificoltà , e con il tempo.
Occorrerebbe imparare a soffrire,  a capire che nessuna minestra è gratis.Non lo è mai stata.
Che probabilmente nella Vita  si perde, ma che ci si può rialzare.Magari non ci si riporta in piedi subito , magare si sta in ginocchio , ma con lo sguardo in alto.
La vita è una lotta : puoi acquisire tutta la tecnica che ti pare , ma quando arrivano i primi colpi, se non sei abituato al dolore crolli ( Clubber e Frank potrebbero dir molto sotto questo aspetto- ed è il motivo per cui ho sempre consigliato ai depressi, ai bullizzati... le Arti Marziali ).
E non è un caso che a suicidarsi sian soprattutto giovani maschi: troppe le aspettative, troppe le pretese. Soprattutto da loro . Se lo aspetta la Società , ma soprattuto le donne.
Se sei maschio, hai un debito in piu'. Tu magari non lo sai,
Se non guadagni, se non hai il macchinone, se non sei belloo belloccio  se non sei figlio di ...
Se non hai fatto il corso di studi giusto, se non  sei simpatico, estroverso, superficiale, smart, ,un pò figlio di p.

E tu , sicuramente , non lo eri.
E sei entrato nella Tempesta Perfetta.

PS ANTIPATICO (provo angoscia scrivere, ma devo, per onor di completezzza).
Ma tu Michele , qualche "colpa" la avevi?
Si , la ingenuità.
Perchè la Società, in realtà, non ti deve nulla.In Natura non esistono i diritti , o la Giustizia ..
( E' giusto ammalarsi?O patir dolore? O morire?).In realtà  la Società Umana è un qualcosa di innaturale : ci si coalizza per contrastar la fame, la paura, cercar di guarire e rimandar la morte).
Ma una Società dove il senso di "bene comune"  e' posto alla berlina,  queste estreme soluzioni individuali aumenteranno..
Scritto per Michele che non è piu', rivolto ai tanti Michele che ci sono ancora.

Offline Fazer

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #17 il: Febbraio 09, 2017, 11:42:47 am »
Si, più o meno quello che dicono Blondet e altri...
(Dis)educati in un certo modo, sono convinti che la società debba loro il lavoro, la felicità...
Non hanno capito niente, i seguaci della "società dei diritti (senza doveri)".
I fiocchi di neve che cadono su una fossa comune chiamata occidente.
I poveri, perduti "figli delle femmine".
I "senza padre".

http://www.maurizioblondet.it/la-vita-un-rischio-ragazzi-replica-snowflakes/

“LA VITA E’ UN RISCHIO, RAGAZZI” (REPLICA PER SNOWFLAKES)

 Un lettore a  proposito del suicida  trentenne: “Non sono riuscito a trovare “cristiana pietà” nel suo articolo, evidentemente mi è sfuggita, se può segnalarmela, grazie”.  Un altro: “Ai giovani bisogna voler bene.  Lei, caro Blondet, non sembra amarli”.

Al primo rispondo: la  “cristiana pietà” per Michele bisognava  averla prima.  Adesso non serve. E’ solo sentimentalismo,  una delle  piaghe collettive italiane. Lo dimostra il secondo lettore: “Lei non sembra amare i giovani”.   Naturalmente, per  “amare i giovani” in Italia bisogna dirgli che sì, che hanno ragione, mantenerli infantili, compatirli, accarezzarli. Se  li si sgrida e li si educa  – a trent’anni   non li si tratta da adulti –   “non li si ama”.   E’  la “misericordia”  di manica larga, alla papa Francesco,  sotto  la quale c’è una vera cattiveria e una vera indifferenza  per il  miglioramento dei giovani.  Uno dei motivi profondi della nostra arretratezza.

Quindi, su suggerimento di un terzo lettore, riposto un articolo che ho scritto nel gennaio 2008 .  Sperando che possa rispondere ai pietosi  che “amano i giovani”.

….

…….Ricevo l’ennesima mail che, a proposito dell’emergenza-monnezza  a Napoli, mi informa di quanto siano pericolosi gli inceneritori e termovalorizzatori.  Sono lettere piene di dati tecnici, sono «ragionevoli», o almeno raziocinanti: gli inceneritori hanno un bilancio energetico negativo, emettono diossina, anch’essi producono rifiuti, chi abita vicino si ammala di cancro, tutto ciò è comprovato dal rapporto che allego e che la prego di leggere…
Ragazzi, lo so. Volete che non lo sappia?

Anzi sono convinto, come Woody Allen, che «la vita è cancerogena».
Letteralmente vero: la vita è il primo fattore predisponente al tumore.
Viene prima del fumo e dell’esposizione a sostanze chimiche.
Se non si è vivi, si è esenti dal cancro.
Si può dire ancora di peggio: la vita è il massimo fattore di rischio.
E che rischio, ragazzi: mortalità 100%. Molto più della peste bubbonica, della guerra e di ogni altra catastrofe. Questo paradosso – a questo servono i paradossi – serve a rivelare ad absurdum cosa nasconde questa voglia di sicurezza assoluta, di assoluta sanità ecologico-medica e assicurativo-previdenziale: un’inconsapevole volontà di morte.

 

E’ la pulsione di morte collettiva che possiede la nostra società intera, la società dell’uomo-massa. Spiace dirlo a quei lettori raziocinanti e cortesi, tutt’altro che cafoni: ma il loro è il tipico modo di essere dell’uomo-massa.  Dell’uomo per cui vivere è «essere quello che già è».
Del bambino viziato dalla storia, venuto in un mondo fatto di sicurezze duramente conquistate dai nostri padri ed avi, e che dà per scontate, credendo addirittura di averne «diritto». E che, per questo, sta distruggendo proprio le condizioni della vita sicura, ossia della civiltà. Questi raziocinanti vivono in una sorta di irrealismo, che fa piangere.
Quasi mai la decisione politica è fra un bene e un male – allora sarebbe facilissima – né fra un «male minore» ed uno maggiore.
Ogni decisione presa per la collettività ha le sue contro-indicazioni.
Sia un nuovo tratto d’autostrada, una ferrovia, una qualunque infrastruttura, c’è qualcuno che ne viene danneggiato. Che viene espropriato di terreni, che perde il silenzio in casa sua o qualche comodità. Per vantaggi ipotetici o che non lo riguardano.
Ogni decisione politica contiene un rischio e un «contro».
Il vantaggio che promette può non realizzarsi, il calcolo può rivelarsi sbagliato. Scegliere fra armamento e disarmo, scegliere tra tassare i salari o i consumi, scegliere l’imposizione diretta o indiretta, scegliere se dare risorse più alle pensioni o alla ricerca, comporta il rischio di errore – anche nell’ipotesi dei politici più onesti e responsabili. E’ il rischio inerente alla vita.
Ma il rischio peggiore sono i politici disonesti e irresponsabili, che l’uomo-massa vota perché lo adulano nei suoi vizi.
L’uomo-massa non esisteva nel ‘300 o nel ‘500. E perché?

Perché la vita era fatta, per il tipo d’uomo che oggi è uomo-massa, di limiti e restrizioni.
Vivere era soffrire e mancare del necessario, e soprattutto di ogni sicurezza.
Provate a mettervi nei panni di un contadino del ‘300.
Se era così fortunato da possedere una mucca, la mungeva con la coscienza assillante che quel latte era tutto il suo cibo per sé e la sua famiglia, e che se la mucca si ammalava non avrebbe avuto niente da mangiare. Né un’assistenza sociale a cui rivolgersi, né contributi europei a compenso della perdita. Una grandinata, una ferita del capofamiglia, significava lo spettro della mendicità.
Un’appendicite era la morte nel 50% dei casi. Un mal di denti comportava un’estrazione fatta da un cavadenti alla fiera, senza anestesia e senza asepsi, con ascesso in corso.
Una bocca sdentata verso i 30 anni era la regola, si imparava a biascicare il pane duro con le gengive, e se ne ringraziava Dio. Il sacrificarsi per i familiari era anch’essa la norma, fino ad ingobbirsi e a deformare il corpo nella fatica, abituati al dolore e alle sciagure.
Il parto portava a morte spessissimo giovani spose sedicenni.  I bambini morivano altrettanto spesso nei primi mesi, falciati da malattie gastro-intestinali oggi scomparse, da cadute nei pozzi, avvelenamenti accidentali da granaglie infette da funghi e muffe, scrofola e rachitismo, cretinismo da carenza di iodio erano quasi la norma nell’Appennino e nelle Alpi.
La vita era tutta rischio, penuria, sofferenza e sacrificio.

 

E non si creda che i nobili vivessero meglio: magari si circondavano di lusso, ma questo non coincideva con la comodità. Il raso e i broccati coprivano pancacci, i velluti coprivano eczemi, pidocchi, ferite di guerra mal rimarginate e fratture scomposte, con cui si doveva comunque andare a cavallo. Ce n’era abbastanza per chiudersi in casa e aspettare, sul giaciglio di foglie, la morte liberatrice.  Ma quegli uomini non lo fecero.
Da quella durezza appresero che non potevano permettersi di essere uomini-massa, cui tutto era dovuto per «diritto».
Appresero che se non si fossero occupati loro di sopravvivere e di migliorare la natura attorno a sé, nessun ministero competente l’avrebbe fatto al loro posto.  E dissodarono pietraie, trasformarono foreste in campi, s’imbarcarono su trabiccoli, vissero fra l’afrore di cavalli e di mandrie, spesso dormendo con le bestie, si fecero strumenti di legno e di ferro, mulini a vento e ad acqua, si diedero leggi, si diedero persino chiese ed arte.
Appresero che ogni miglioramento della vita comportava contro-indicazioni, e che queste andavano affrontate e sopportate, per migliorare e crescere.  Questo è durato in tempi ancora recenti.
L’ammiraglio Nelson vinse le sue battaglie in condizioni fisiche che oggi l’avrebbero reso titolare di pensione d’invalidità con diritto all’accompagnatore: senza un occhio, senza un braccio, roso da mille malattie.


Nelson. Senza un braccio e senza un occhio,   così  guardava  al cannocchiale.  Non si sentiva un grande invalido con diritto alla pensione INAIL.
Le sue ciurme, scatenate alle sartie e alla sciabola, avevano spesso gambe di legno e uncini al posto delle mani e bende su occhi cavati.  Equipaggi di invalidi senza pensione.
A Londra nell‘800 giravano un milione e mezzi di cavalli, si raccoglievano ogni giorno tonnellate di sterco equino, gli incidenti di traffico con le carrozze provocavano un’altissima mortalità.
Per questo furono inventate le ferrovie, e il signor McAdam escogitò la strada con ghiaia, futura strada asfaltata.
Le truppe di Napoleone andarono da Parigi a Mosca «a piedi», e a piedi tornarono, quelli che sopravvissero (uno su cinque), su piedi congelati.
La medicina militare fece enormi passi avanti sulla pelle di quei soldati, mutilati e feriti.
E i primi piloti d’aereo? Grazie a loro masse di turisti di massa partono per Le Maldive e considerano un’improbabile sciagura il morirci. Ma solo perché, nel primo ‘900, i piloti morirono sulle loro macchine nel 60% dei casi, e a forza di rischiare appresero un sacco di cose sul volo sicuro.
Ai tempi di Roma, 35 navi su cento naufragavano, non tornavano in porto. Pensate che non si navigasse? Si navigava perdutamente, accanitamente, per avidità e per guerra; «Navigare necesse est, vivere non necesse», disse Cesare.  Per raggiungere una certa sicurezza si dovettero aspettare nuove velature e nuovi armamenti, 15 secoli dopo.

 

Così, mi fa un po’ piangere ricevere l’ennesima lettera di un lettore che mi informa di quanto siano pericolose le centrali nucleari, di quanto sia irrisolto il «problema delle scorie» radioattive.
E ancor più fa piangere che lo scrivente sia, qualche volta, un ingegnere.
Ingegneri?  Grande categoria storica, che pena vederla scesa così in basso, così tremebonda. Cosa apprendeva l’ingegnere al Politecnico?
Formule matematiche, scienza dei materiali, resistenze, fisica avanzata? No, questi erano solo gli strumenti, non era questo l’essenziale. L’ingegnere non era un teorico, era un pratico.
Il suo compito e mestiere era la «gestione del rischio».
Nessuno meglio dell’ingegnere sapeva che il rischio era ineliminabile, e che tutta la scienza e tecnica dell’umanità doveva essere mobilitata per «ridurlo», per «controllarlo». Essere ingegnere era essere responsabile – anzitutto di uomini, di operai – , ed essere coraggioso. Come i grandi medici che provarono le loro medicine su di sé, che s’infettarono volontariamente per provare vaccini.
«Vivere non necesse».
(…)

 

In attesa della soluzione ideale, migliore, senza contro-indicazioni, si conclude nell’immobilismo.
E nella storia umana, l’immobilismo è impossibile: diventa arretramento.
Senza inceneritori non è che si vive meglio: si vive con la rumenta a monti davanti al portone.  Senza rigassificatori, ci si avvicina al momento della penuria.
Si rischia di tornare a quelle epoche, finite solo ieri, in cui si rischiava la morte per molto meno, andando a cavallo a Londra, e senza assicurazione.  Ai tempi in cui Roma risentiva della malaria, i «miasmi» delle paludi pontine, la cui bonifica è tanto deplorata dagli ecologisti.
“Gli inceneritori non sono l’ideale”, lo so. “Le centrali atomiche sono rischiose.
Vanno evitate. Bisogna dire no”.
Strana concezione dei rischi nella nostra società.
Sapete qual è la categoria di persone che muore di più, in Italia, a parte gli ultrasettantenni?  I giovani da 17 a 23 anni.
E perché? Per comportamenti che sono tutti evitabili: droga, alcoolismo alla guida, febbri del sabato sera con relativi incidenti mortali.
Eppure, strano, nessuno scende in piazza come  si va per protestare contro gli inceneritori, o contro la ILVA di Taranto che inquina…..  per i sei mila giovani che muoiono, e per le decine di migliaia che restano tutta la vita sulla sedia a rotelle. Qui, nessuna seria prevenzione, nessun allarme sociale. Eppure, non è necessario andare in discoteca a ubriacarsi, mentre è necessario avere inceneritori,  necessario produrre acciaio nazionale.
Non necesse  morire di discoteca.  Qui, ci sono solo contro-indicazioni e nessun vantaggio. La stupidità irresponsabile è la contro-indicazione maggiore.

Un altro, contrario alle centrali nucleari, mi ha scritto: il vero problema è che una cospirazione di poteri forti sta bloccando la fusione fredda, che risolverà tutti i nostri bisogni energetici.
Un altro ancora mi segnala che è stato scoperto il motore pulito, ad acqua, ma che i brevetti sono stati nascosti dalle multinazionali. Ebbene, non discuto la credibilità di tutto questo: ma nel frattempo, mentre sgominiamo i poteri forti globali, che facciamo della monnezza a Napoli e del rincaro del barile? Perché è strano progettare di cambiare il mondo e il suo modello di sviluppo, mentre non sappiamo risolvere la nettzza urbana.
E’ una fuga nell’irreale.

Ma no,  anzi vi prendo in parola.  Occulti poteri impediscono la ricerca della fusione fredda. Benissimo: e tu, cosa fai per vincere questa battaglia? Stai studiando la fisica avanzata per proseguire quegli studi vietati?
Lo chiedo a te, personalmente.
Perché se invece ti trascini straccamente in una università inutile per avere un pezzo di carta, allora non hai il diritto a questo complottismo da quattro soldi. Cosa credi, che Pasteur e i signori Curie non abbiano dovuto lottare contro i poteri forti? Che le loro scoperte fossero accettate immediatamente, fra applausi e premi Nobel? No; soffrirono, furono osteggiati e ridicolizzati.  Alcuni, come il dottor Semmelweis inventore della asepsi,  che salvò migliaia di donne negli ospedali,  furono fatti impazzire.

Tutti costoro non si dissero: bisogna aspettare che il mondo sia migliore, che i potenti malvagi siano debellati. Il mondo, l’hanno cambiato loro.  E non con battaglie ideologiche, con mozioni di protesta; con la ricerca, con le notti al microscopio, con la sfida al conformismo imperante, con la mancanza non di «finanziamenti», ma di soldi per la cena.
E tu? Viviamo in questo mondo che ha viziato l’uomo-massa.
Le generazioni che vollero e crearono l’assistenza sanitaria gratuita non lo fecero pensando che esista un «diritto» a farsi la plastica al naso gratuita ossia a spese della collettività: lo fecero per gli operai, per i lavoratori, che non fossero rovinati da una malattia, che un incidente non aggiungesse sciagura alla sciagura, non li portasse alla fame e alla miseria con tutta la famiglia.
La sanità serviva a far tornare i capifamiglia al lavoro, anziché alla mendicità a carico della società. Era una scelta seria per affrontare una situazione tragica: il rischio inerente alla vita attiva, produttiva.
Un altro  lettore: il problema vero è il modello di sviluppo sbagliato, basato sullo spreco consumista, sul superfluo.  E come non dargli ragione?
Solo che vorrei, caro lettore, che cominciassi tu a cambiare il modello di sviluppo.
Nella tua vita.  Stai mungendo la tua vaccherella?  Coltivi il tuo orto?
Vai tutte le mattine a cercare se le tre galline hanno fatto l’uovo, sapendo che se non l’hanno fatto dovrai andare dai frati per la minestra?  Io temo, caro lettore  ecologista  e animalista, che tu pensi ad un mondo irreale: un’Italia coperta di foreste vergini (le foreste italiane non sono mai state vergini, sono coltivazioni da sopravvivenza: castagni, querce…), paludi vastissime e incontaminato regno di anofeli, libellule e uccelli rari, nemmeno un inceneritore a bruttare l’ambiente, nemmeno un’autostrada a deturpare il paesaggio bellissimo, epperò dove il supermercato sia pieno di merci fresche, il dentista abbia l’anestetico e non ti strappi il dente ma te lo curi, dove si possa fare la vacanza estiva alle Maldive o almeno in Sicilia, e la settimana bianca allo Stelvio.
Ma allo Stelvio, quando c’era la natura incontaminata che tutti rimpiangiamo, non c’erano settimane bianche.  C’era la fame e il freddo, l’ultimo orso fu ucciso nell’800, i lupi mangiavano le pecore, i pastori castagne secche e sfarinati di grano saraceno, il gozzo (cretinismo) era endemico. Eroici medici condotti cercavano di mettere una pezza, avanzando nella neve, magari con gli sci, ma non per divertimento.
Questo mondo, dove ci sono solo vantaggi e nessuna contro-indicazione, solo benefici e diritti e nessun effetto collaterale sgradevole, non esiste.  Non è mai esistito un mondo dove la spazzatura si elimina da sola, si è convissuti per secoli fra cacche di cavallo e di maiale, nell’afrore dello sterco fermentato, e li si considerava preziosi fertilizzanti.
Nel Nord, ancora pochi decenni fa, i contadini passavano le sere e le notti nella stalla, perché le mucche erano il riscaldamento  autonomo.
E persino la cacca di mucca era accettata come un dono di Dio.
Se oggi ci sono tante più sicurezze e meno effetti collaterali, non è per natura. E’ perché generazioni di faticatori, di tecnici, di medici, di feriti e di malati hanno conquistato tutto quello che noi abbiamo oggi.  Non è stato gratis.
E come l’hanno fatto?
Con il coraggio, anzitutto col coraggio di vivere. Del coraggio, del coraggio personale, la civiltà non può fare a meno, pena la sua scomparsa.  Né del personale sacrificio.
E per quanto sembri strano, è in questo la felicità.  La felicità possibile all’uomo nell’aldiquà sta in questo, nell’abnegarsi e nel coraggio.

Il vero senso di

Ho   riferito  che nessuno in Italia vuol fare l’infermiera, e un lettore prontissimo mi scrive: le infermiere devono fare tre anni d’università, e poi il loro lavoro è faticoso fisicamente, estenuante moralmente, disprezzato socialmente, e con una paga di 1.300 euro al mese.
Perché mai un giovane dovrebbe fare l’infermiere?
Ha «ragione» il lettore-massa, e nello stesso tempo ha torto. Perché mai fare l’infermiere?
La risposta lo urterà: per vocazione.
E qui, «vocazione» non significa affatto «essere portati a», trarre piacere da un mestiere sgradevole come sollevare i vecchi con l’Alzheimer che pesano e togliergli il pannolone.
«Vocazione» significa qualcosa di diverso, che sapevano Nelson e Cesare,   ma anche  le madri di famiglia contadine ingobbite dalla fatica e che si toglievano il pane per darlo ai figli, i medici condotti che affrontavano i lupi in Siberia per andare a fasciare un ferito…
Vocazione significa, nel mondo reale, una cosa precisa: la cosa che devi fare tu, proprio tu personalmente, perché nessun altro la farà al posto tuo.
Non perchè «sei portato», ma perché qualcuno la deve fare, e quello – magari per circostanze della vita – sei tu.
In una società senza «vocazioni» infermieristiche, i vecchi muoiono nelle loro feci, o sono uccisi eutanasicamente. Effetto collaterale: quando sarete vecchi voi, non ci sarà nessuno a tenervi puliti dalle vostre feci, ad accorrere quando suonerete il campanello, a vegliare sulla vostra agonia.  Vi faranno firmare una volontà di morte, e voi la firmerete.
Un’iniezione, e via. Così non darete fastidio.
Certo, non tutti sono «chiamati» a tener puliti i malati; ma è incredibile che tutti, oggi, si sentano chiamati solo allo shopping (anche come commessi), allo spettacolo, al turismo, ad occuparsi del «tempo libero», a far denaro col denaro.  Il modello umano di sviluppo giusto richiede sacrificio, richiede responsabilità e abnegazione.

Il coraggio serve ancora.
E non esiste un metodo meccanico per imparare ad avere coraggio, ossia carattere: la scuola è sempre quella del sacrificio, della sofferenza presa come una sfida.
Non ci sono scorciatoie al carattere, né pillole che sostituiscano il coraggio.  E poi, guardate, lo schifo delle feci dei vecchi è in parte una fantasia: quando si è imparato come fare, lo si fa con rapidità ed efficienza.   I metodi accertati per provvedere ai bisogni dei malati sono già stati messi a punto da altri: a cominciare da una donna che in Inghilterra è un’eroina, Florence Nightingale, l’inventrice dell’arte infermieristica.  Quello che scarseggia non è lo stipendio.

 

La vera falla sta altrove: nella soppressione, sistematica, del primo sentimento che può indicare la «vocazione»: la pietà per il prossimo, per il malato che ha bisogno di te.
TV, pubblicità, edonismo, modelli di «successo nella vita» sopprimono questo sentimento nei giovani.
Ma io vorrei invitarvi, cari giovani, a dare ascolto a questo sentimento.
Perché la vera infelicità nella vita è non avere avuto la vocazione, o – ancor peggio – averla rigettata per andare in discoteca, per comodità, perché non vi piace soffrire né veder soffrire.
Lo so perché l’ho visto. Nella stanza dei morenti di madre Teresa, i giovani che volontariamente lavavano i malati, che pulivano le loro piaghe (letteralmente) piene di vermi, erano raggianti.
Giapponesi in pantaloni corti, belle ragazzone australiane in cotonina, chiedevano loro di fare quel lavoro, e mentre imboccavano donne semipazze e sbrodolanti, o vuotavano i pitali, nella loro faccia si leggeva questa gioia: «Ho vinto me stesso». Il mio schifo non solo è sopportabile, ma è persino una vittoria, un’affermazione, e nello stesso tempo, faccio qualcosa di utile per chi ha bisogno di me, di me personalmente.
Lo sapeva così bene Madre Teresa, che aveva rinunciato a fare lei queste cose, ad avere questa gioia, e nemmeno le faceva più fare troppo alle sue suore: lasciate che siano i giovani che vengono qui per due settimane a imboccare e a pulire i poveri. Considerava questo «toccare i poveri», «touch the poor», il primo gradino della salita, e il più «facile» e gratificante.
Le suore si occupavano dei poveri cattivi, dei disperati più immeritevoli e ingrati.
Quello è il difficile.

Il bello del mestiere d’infermiere e di badante è questo, in fondo: che lavori ed hai aperta la via della santificazione nel tuo lavoro di ogni giorno.
Che il suo senso è immediatamente nel suo fare.  Pochi mestieri hanno questa apertura, certo non quello di giornalista (o di velina, o di ricco).

Ora direte, ecco il solito cattolico, che tira l’acqua al noto mulino… No, è il vecchio che parla.
Uno che ha sbagliato o rifiutato più di una vocazione.  Sono stato giovane anch’io, e per questo so come vi sentite.  So che questa vostra voglia di provare «emozioni» fino all’autodistruzione stupida e sterile, questo vostro conformismo molle che si vuole trasgressivo e originale e che vi rende poltiglia anonima, viene dal vostro vuoto, dal vostro vile ritrarvi davanti alla vostra vocazione: non voglio fare questo, non quest’altro, non gli inceneritori, no al sacrificio, no alla scomodità.
E’ questo che vi rende tanto vuoti, dal volere e cercare la morte.  Meglio la morte per  qualcosa che una vita vuota, a questo punto vuota.

Ma la vita c’è a portata di mano: correte questo rischio di vivere, di dedicarvi, di sacrificare le vostre fantasie da Harry Potter ad una cosa sola e la sola necessaria, a una fatica, a un lavoro duro. Che ci siano responsabilità altrui, inadempienze di politici, insufficienze e disonestà di poteri forti, che il mondo sia pieno di menzogna e profondamente errato, sarà tutto vero.
Ma qui, in fondo, è la vostra vita che è in gioco.   La vostra personale. E la vostra anima.

Offline ReYkY

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #18 il: Febbraio 09, 2017, 12:09:42 pm »
Un rigo prima "i diritti conquistati dai nostri nonni"
Un rigo dopo "il lavoro non è un diritto" ahahah!  :lol:

Ma allora quali diritti hanno conquistato sti nonni? Non è che 70 anni fa qualche diritto ci è, invece, stato tolto? :w00t:
Ah già... ogni 5 anni possiamo eleggere un governo fantoccio. :w00t: (anche se, da qualche anno, manco più quello).


Dico solo una cosa: a 30 anni ancora non conosco nessuno che ha trovato un lavoro senza aiuti e raccomandazioni. Nessuno.
Nes-su-no.

Offline Vicus

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #19 il: Febbraio 09, 2017, 12:21:44 pm »
Tutti costoro non si dissero: bisogna aspettare che il mondo sia migliore, che i potenti malvagi siano debellati. Il mondo, l’hanno cambiato loro.  E non con battaglie ideologiche, con mozioni di protesta; con la ricerca, con le notti al microscopio, con la sfida al conformismo imperante, con la mancanza non di «finanziamenti», ma di soldi per la cena.
Se oggi ci sono tante più sicurezze e meno effetti collaterali, non è per natura. E’ perché generazioni di faticatori, di tecnici, di medici, di feriti e di malati hanno conquistato tutto quello che noi abbiamo oggi.  Non è stato gratis.
E come l’hanno fatto?
Con il coraggio, anzitutto col coraggio di vivere. Del coraggio, del coraggio personale, la civiltà non può fare a meno, pena la sua scomparsa.  Né del personale sacrificio.
E per quanto sembri strano, è in questo la felicità.  La felicità possibile all’uomo nell’aldiquà sta in questo, nell’abnegarsi e nel coraggio.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #20 il: Febbraio 09, 2017, 12:43:49 pm »
Ennesima contraddizione.

"Bisogna accettare che il lavoro non è un diritto"

Però

"Bisogna cambiare le cose anche sacrificando la vita".


Ipse dixit. N'atra vot... :D


(Ovviamente le rivoluzioni le devono sempre fare gli altri). :doh:

Offline claudio camporesi

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:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #21 il: Febbraio 09, 2017, 13:12:34 pm »
Vorrei chiarire una cosa : la mia pietas va all'individuo , giovane o vecchio che sia. La mia è empatia ( condivido e comprendo le emozioni e le sofferenze di un essere umano)

Condivido COMPLETAMENTE  quanto  riportato da Vicus :  i nostri lussi (perché di lussi si tratta)-i miei lussi - sono il risultato di  infiniti sacrifici, determinazione,..di chi in questo mondo  ci ha preceduto.Il campo medico ed infermieristico è solo un esempio preminente , ma non l'unico.

Siamo la prima generazione Occidentale che non conosce la morte per fame, sfinimento...
Che non ha dimestichezza con la paura , quella vera.

Mia nonna , classe 1880  , mi raccontava di quando la "Polizia Igienica Comunale" aveva il compito di  raccogliere in strada  i morti per fame : 1 o 2 al giorno su una popolazione di poco più di 40 mila abitanti


Online Frank

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #22 il: Febbraio 09, 2017, 19:05:18 pm »
Noto che Blondet seguita a propagandare la tesi secondo la quale "certe cose son tipiche dell'Italia" (implicitamente dice questo).
Citazione
Al primo rispondo: la  “cristiana pietà” per Michele bisognava  averla prima.  Adesso non serve. E’ solo sentimentalismo,  una delle  piaghe collettive italiane. Lo dimostra il secondo lettore: “Lei non sembra amare i giovani”.   Naturalmente, per  “amare i giovani” in Italia bisogna dirgli che sì, che hanno ragione, mantenerli infantili, compatirli, accarezzarli.

Bene, questi sono alcuni brani tratti da IL MITO DEL POTERE MASCHILE (1993), di Warren Farrell, segnalatimi da una conoscenza.

Citazione
6 Il sesso suicida: se è vero che gli uomini hanno il potere, perché tra loro i suicidi sono più frequenti?
«L'uomo cui muore la moglie tende a suicidarsi dieci volte più spesso della donna cui muore il marito.»[1]
«Tra i disoccupati il tasso di suicidi è doppio rispetto a quello che si rileva tra quanti hanno un lavoro. Tra le donne, non c'è alcuna differenza nel tasso di suicidi, che lavorino o no.»[2]
«Nel bel mezzo della Grande Depressione, la tendenza al suicidio tra gli uomini era 650 volte superiore che tra le donne.»[3]
«Il tasso di suicidi tra gli adolescenti è recentemente aumentato e ora è 3 volte superiore rispetto a quanto avviene tra le ragazze.»[4]
«Solo vent'anni fa, gli uomini tra i 25 e i 34 anni si suicidavano in percentuale doppia rispetto alle coetanee; oggi la percentuale è quadruplicata. (Il tasso tra gli uomini è aumentato del 26 per cento, tra le donne è diminuito del 33 per cento.)»[5]
Questi dati sollevano una serie di interrogativi; Perché il tasso di suicidi tra i ragazzi è aumentato tanto di più che tra le ragazze, in tempi recenti? Perché la perdita dell'amore è così devastante per gli uomini? Se tra gli uomini la disoccupazione porta al suicidio, è in qualche modo paragonabile a quello che è lo stupro per una donna? La depressione femminile è l'equivalente del suicidio maschile? Perché le donne tentano il suicidio più spesso, mentre gli uomini ci riescono quattro volte più spesso?[6] Perché la «classe suicida» è anche la «classe arrivata»? Forse gli uomini si suicidano in numero maggiore perché ce ne occupiamo meno, e quindi la «classe suicida» sarebbe la «classe non amata»?
Cominciamo dagli adolescenti. Perché il tasso di suicidi tra i ragazzi, ma non tra le ragazze, aumenta del 25.000 per cento quando diventano chiari i ruoli sessuali?[7]

Perché i ragazzi si suicidano più di frequente non appena diventano chiari i loro ruoli sessuali
«Quando un ragazzo delle isole Truk (gruppo insulare del Pacifico) ha una relazione difficile, ci si aspetta che reagisca con l'amwunumwun, una sorta di blocco emotivo. I maschi delle Truk si suicidano 25 volte più spesso dei loro coetanei americani.»[8]
Nella preadolescenza, ragazzi e ragazze esprimono nello stesso modo le emozioni e si suicidano all'incirca in numero pari. È nell'adolescenza che i ragazzi americani (come i ragazzi delle isole Truk) sono spinti a controllare e nascondere le emozioni. Ed è proprio nell'adolescenza che il tasso di suicidi tra i ragazzi, fino a quel punto assai vicino a quello delle ragazze, diventa quattro volte superiore.[9]
In entrambi i sessi l'adolescenza acuisce l'angoscia per il ruolo sessuale: la paura del rifiuto crea una fragilità emotiva. Le ragazze meno attraenti si sentono in particolare vulnerabili... vulnerabili quanto invisibili. A sua volta, la ragazza più attraente finisce per intuire la sua dipendenza da un potere che a un certo punto svanirà, e poiché i ragazzi fanno a gara per conquistare la sua attenzione, quasi fosse una celebrità, in sostanza si trasforma in una celebrità genetica - e le celebrità genetiche diventano dipendenti da! riconoscimento del loro titolo. Mentre difficilmente capita alle ragazze, credo che in quel periodo ai ragazzi accada qualcosa che rende più probabile il suicidio.
Rendendo i ragazzi più dipendenti dal corpo delle ragazze e non viceversa, facciamo sì che i ragazzi si sentano inferiori. Di conseguenza, cercano di far colpo sulle ragazze, danno loro la caccia, pagano per loro, proprio per compensare quella inferiorità. Quando pensano che mai riusciranno a guadagnare abbastanza per permettersi ciò da cui dipendono sono sopraffatti dall'angoscia che, nella sua forma estrema, conduce al suicidio. Le azioni, il corteggiamento e la possibilità di pagare provocano tanta angoscia perché il ragazzo intuisce che sono metafore delle versioni adulte delle prestazioni, del successo, del denaro (quindi, se non ci riesce da piccolo...)
L'adolescente nota che i ragazzi che ottengono l'«amore» della celebrità genetica sono più in gamba:
• Nelle prestazioni. Diventano leader (a capo di una squadra o della classe), mostrano un bel «potenziale», oppure hanno la macchina.
• Nel dare la caccia. A lei tocca inseguire, a lui aspettare. Si dà per scontato che comprenda vaghe allusioni femminili quando non riesce neppure a comprendere se stesso. E più la ragazza non comprende se stessa, più diventa schiacciante la paura del ragazzo di interpretare male ciò che non è chiaro. Gli ormoni lo preparano alla ricerca del sesso ma non al rifiuto. Si presume che sappia fare alla perfezione del sesso quando ancora
non sa che cosa sia. Sa di volere dei contatti sessuali con le ragazze, ma non è sicuro che anche loro lo desiderino (e a rifiutarlo sono soprattutto le ragazze che lo interessano di più). Al giorno d'oggi, inoltre, se interpreta male un messaggio può anche finire in galera. Il che non accade a lei. Ciò crea una certa angoscia.
Nel pagare. Più lei è bella e più dovrà pagare, e quindi guadagnare.
Queste sono le cose che i ragazzi apprendono di dover fare se vogliono essere all'altezza dell'amore delle ragazze. Anche la teen-ager ha le sue angosce, ma mediamente ha meno richieste da soddisfare e più risorse da usare per ottenere l'amore. Il suo corpo e la sua mente sono in maggior misura dei doni genetici. Pertanto, una ragazza ammirata è prevalentemente una celebrità genetica, mentre un ragazzo ammirato è prevalentemente una celebrità conquistata. Più è attratto dalla celebrità genetica, più deve diventare una celebrità conquistata.
La richiesta di prestazioni senza le risorse per fornirle
A rendere tanto opprimente l'angoscia del teen-ager è il fatto che per lui la socializzazione è richiesta di prestazioni, ma senza le risorse necessarie per farvi fronte. Di conseguenza, molti sono i rischi, molti anche i fallimenti. E per giunta sono più che evidenti. Quasi tutti i ragazzi si sentono silenziosi soci del Club dei Fallimenti Frequenti.
Inoltre, i più grandi tra i vincenti, i giocatori di calcio, ricevono amore abusando di sé. In alcuni ragazzi l'idea di ricevere amore abusando di sé crea ansia. Ma perdere l'amore crea anche maggior ansia. Così il teen-ager è prigioniero tra l'ansia dell'abuso e l'ansia del rifiuto.
Nel ragazzo le cui prestazioni sono mentali ma non fisiche, l'identità si va formando negli anni in cui i coetanei che rispetta meno ottengono l'«amore» delle ragazze che desidera di più. D'altro canto, il ragazzo dalle buone prestazioni fisiche ma non mentali spesso teme che i suoi giorni eroici finiranno con l'ultimo giorno dì liceo.

Né i vincenti a breve termine né i perdenti a breve termine sanno comprendere e individuare il significato di tutto ciò. Né li sentirete mai parlare della questione. L'angoscia attanaglia lo stomaco, si vince con l'alcol e trova sfogo al volante di una macchina. Se è quindici volte più probabile per un teen-ager rispetto all'automobilista medio provocare involontariamente un incidente mortale,[10] allora la socializzazione maschile sì è combinata con la tecnologia per trasformare il protettore e killer del nemico in un protettore e killer a casaccio. Alle elezioni Michael Dukakis è stato sconfitto perché aveva lasciato libero Willy Horton, ma noi tutti creiamo dei Willy Horton. Li acclamiamo persino. E poi sposiamo dei Willy Loman.
Non trovando nessuna alternativa, vedendo che ogni rituale sottolinea la sua inadeguatezza proprio mentre va alla ricerca della sua identità, e non ha neppure il permesso di parlare con i suoi pari delle proprie paure, l'isolamento e i dubbi su di sé lo portano al suicidio. E il tasso di suicidi tra ragazzi, prima inferiore a quello delle ragazze, è quindi oggi quattro volte maggiore.[11]

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #23 il: Febbraio 09, 2017, 19:06:27 pm »
Citazione
Come mai negli ultimi tempi il tasso di suicidi tra i ragazzi è aumentato tanto più rapidamente che tra le ragazze?
Le ragazze si preparano per un mondo che sempre più consente loro di essere ciò che desiderano - donne di casa, madri, segretarie, dirigenti. Le ragazze possono dimostrare le proprie capacità all'esterno, esprimere in casa le loro doti materne, o conciliare le due cose, a seconda della personalità. I ragazzi devono comunque dar prova di sé all'esterno, indipendentemente dalla personalità. Per alcuni ragazzi la vita è tuttora problematica, com'era un tempo per entrambi i sessi. Ciò vale in particolare per i ragazzi gay, ai quali non è ancora permesso essere «femminili», mentre alle ragazze gay è più ampiamente consentito essere «mascoline». Forse per questo tra i teen-ager gay i suicidi sono tre volte più frequenti che tra le teen-ager gay.[12]
Un tempo i due sessi seguivano entrambi uno stretto sentiero di aspettative nell'amore: lei doveva attrarre e opporre resistenza; lui doveva inseguire e insistere. Ora a lei si offre la possibilità di inseguire, mentre a lui resta l'antica aspettativa di inseguire, alla quale non se ne aggiungono di nuove (se spera di trovare l'amore). In passato, sesso e gravidanza erano fonte di ansia per entrambi i sessi. Ora la pillola riduce al minimo l'ansia della ragazza, mentre i preservativi accrescono l'ansia del ragazzo. Ora il ragazzo foruncoloso deve rischiare il rifiuto, sebbene abbia intanto dovuto superare la propria paura dell'herpes e dell' AIDS e possa assicurarle che non c'è nulla da temere. Ora deve continuare a rischiare, ma può finire in galera se rischia troppo alla svelta, o essere dileggiato se non è abbastanza lesto.
Attualmente una ragazza può scegliere tra prendere o non prendere la pillola; la scelta del ragazzo non implica la sicurezza che lei la prenda. Un tempo, una gravidanza era un guaio sia per il ragazzo sia per la ragazza, indubbiamente pesava di più su quest'ultima. Attualmente, per una ragazza significa la possibilità di abortire (indipendentemente dai desideri del ragazzo) o di citare in giudizio il partner per ottenere il mantenimento, per diciotto anni, del bambino (indipendentemente dai desideri del ragazzo). In breve, oggi conta la volontà della ragazza e non quella del ragazzo. Ogni volta che lei fa del sesso, ha una scelta; ogni volta che lui fa del sesso, rischia di restare prigioniero delle decisioni della partner per il resto della sua esistenza.
In tutto il mondo industrializzato, non essendo i ragazzi riusciti a liberarsi dell'obbligo di dar prova di sé, i giochi previsti per gli adolescenti hanno ancora il fine di prepararli a questo. Tuttora i ragazzi si sfidano a saltare davanti a un treno in arrivo, a guidare a grande velocità, arrampicarsi sugli alberi o a rubare,[13] quasi fosse una cerimonia rituale per mettere alla prova la disponibilità a sacrificare la vita per proteggere.
L'impatto di questa priorità data alla capacità di fornire prestazioni - per cui la vita degli uomini passa in secondo piano - è viva tra noi. Una pubblicità televisiva è un esempio lampante di questa realtà:
«La ragazza dà il segnale. Due ragazzi si lanciano in macchina verso una scogliera. Il ragazzo che si butterà fuori dalla macchina per primo è un «cagasotto». Una portiera si blocca; il ragazzo e la sua macchina sbandano, finiscono sugli scogli e poi nell'oceano. Riaffiorano solamente una giacca a vento e un paio di jeans. Sullo schermo appare la scritta UNION BAY - LA MODA CHE DURA.»[14]
Se sugli scogli e nell'oceano si andasse a sfracellare il corpo di una ragazza, a nessun pubblicitario verrebbe in mente di sfruttare queste scene per vendere una «moda che dura»... di usare la fragilità femminile per celebrare la lunga durata della moda. Sarebbe considerato un esempio perfetto della scarsa considerazione in cui viene tenuto il sesso femminile - un sesso di cui disporre a piacimento.

Come mai «il sesso che non sa amare» è distrutto dalla perdita dell'amore?
Le più stimate terapeute femministe, per esempio Carol Gilligan e Jean Baker Miller, affermano che una relazione finita è più grave per le donne che per gli uomini.[15] Se fosse vero, come mai gli uomini cui muore la moglie si suicidano con una frequenza dieci volte superiore rispetto alle donne che perdono il marito?[16] Una mia amica ipotizzò: «Dev'essere perché i vedovi sono per lo più dei pensionati che non possono seppellirsi nel lavoro». Allora ho fatto qualche controllo. Ho scoperto che per un trentenne cui muore la moglie ci sono undici probabilità in più di suicidarsi rispetto al trentenne la cui moglie è in vita.[17] A trent'anni, quando gli uomini possono buttarsi nel lavoro e sono fisicamente ed economicamente interessanti per l'altro sesso, la perdita della donna amata è talmente devastante che spesso non è alleviata neppure dalla possibilità di avere molte donne. Gli uomini potrebbero buttarsi nel lavoro, o anche su un'altra donna, ma non seppelliscono il dolore. In breve, è la perdita dell'amore che distrugge gli uomini.

Il militare: il boccone più ostico e amaro
«Negli Anni Ottanta si suicidarono più militari di quanti non fossero stati uccisi in Libano, Grenada e Panama messi insieme .[18] E per ogni suicidio ci furono otto tentativi di suicidio. »[19]
Spesso immaginiamo un militare come un uomo più attento al potere e al sesso che alla sensibilità e all'amore; ma il militare tende a suicidarsi non quando non riceve una promozione o subisce un rifiuto nel sesso, ma quando gli viene rifiutato l'amore.[20] La seconda ragione principale? La mancanza di amici.[21] La terza? La mancanza di rispetto da parte della famiglia (per esempio, una famiglia che non lo rispetta ancora dopo averlo visto il giorno del conferimento dei gradi).[22] Il comune denominatore? La mancanza di amore e di rispetto da parte della famiglia.
Come mai «il sesso che non sa amare» è distrutto quando perde l'amore? Perché deve ingoiare il boccone più ostico e amaro. Ecco perché.
Immaginate di perdere in un sol colpo tutti i vostri amici e conoscenti e di non poter parlare a qualcuno della perdita per più di tre minuti alla volta. Questo è ciò che può significare per un uomo il divorzio, o la morte della moglie: infatti spesso la moglie rappresenta per lui «tutti gli amici e i conoscenti», il suo unico e assoluto collegamento all'intimità. (Pensa di non poter ottenere più di tre minuti di tempo da un collega di lavoro per parlare del suo divorzio e spesso si tratta del suo «miglior amico».)
Dire - come fanno le terapeute femministe di fronte alla comunita terapeutica - che le donne sono più focalizzate sui rapporti e soffrono pertanto dì più della perdita di un rapporto equivale a dire che un uomo è più focalizzato sul denaro e dovrebbe quindi ricevere un miglior trattamento economico dopo il divorzio. Si approfitta così della socializzazione femminile e la si usa come giustificazione per ottenere un ulteriore vantaggio: la donna nei panni della «vittima». Con quale risultato? Ci preoccupiamo delle donne afflitte e isoliamo gli uomini afflitti, appesantendo l'atmosfera che induce gli uomini a suicidarsi. Come ebbe a dire una mia amica: «Quando mio nonno morì, la nonna si iscrisse immediatamente alla Greeley Widows' Society... Non ho mai sentito parlare di una associazione di vedovi». Non ci viene neppure in mente di organizzare gruppi di supporto per i vedovi, che non pensano certo a crearseli da soli.

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #24 il: Febbraio 09, 2017, 19:07:06 pm »
Citazione
Le donne si rifiutano di suicidarsi perché è un atto di egoismo?
«Il personaggio interpretato da Jimmy Stewart prende in considerazione il suicidio affinché la moglie possa riscuotere la sua polizza di 5000 dollari. Il film s'intitola La vita è meravigliosa. (Chissà che cosa farebbe se fosse orribile!)»
«Quando, agli inizi degli anni Ottanta, la crisi agricola portò divieti di ipoteca e bancarotte negli Stati settentrionali del Middle West, il tasso di suicidi tra i maschi agricoltori triplicò.»[23]
Quando, durante i seminali, parlo del tasso di suicidi tra gli uomini, c'è sempre una donna che domanda: «Il suicidio non è forse un atto di egoismo? Si lascia dietro persone che hanno bisogno di te e ti amano». È corretto - ma molto più corretto per le donne. Ecco perché. La donna che divorzia ottiene la custodia dei figli nel 90 per cento dei casi. Ha uno stretto rapporto quotidiano con le persone che ama, sente che hanno bisogno di lei. Ascoltando migliaia di donne e uomini i cui amici o i cui parenti si erano suicidati, ho notato che le persone che si sentono veramente amate e veramente necessarie raramente sì suicidano. Siccome è più spesso la donna ad abbandonare persone che, come ben sa, la amano e hanno bisogno di lei, è anche meno portata al suicidio.
Invece gli uomini si suicidano più spesso quando sono disoccupati o perdono i risparmi di una vita a causa di una crisi economica, perché allora l'uomo sente che, uccidendosi, «uccide il fa dello inutile». Per lui il suicidio non è perciò un atto di egoismo ma un atto d'amore - perché toglie un peso alle persone che ama. Così almeno vede la cosa in quel momento. Ma se pensa di poter guadagnare altro denaro - e non essere di peso - continui a vivere. E se qualcuno davvero lo convince che non sarà di peso neppure se continuerà a essere disoccupato, allora continuerà vivere.
L'unica soluzione per evitare il suicidio è far sentire all'uomo che si ha bisogno di lui in quanto essere umano. E non soltanto come portafogli ambulante. Quando gli uomini si sentono necessari soprattutto come fonte di reddito, tendono a suicidarsi quando il portafogli è vuoto.
Perché le donne «tentano» il suicidio più spesso degli uomini?
Perché la donna è tre volte più propensa dell'uomo a tentare suicidio? Si sente spesso dire che lo fa per attrarre su di sé l'attenzione, ma ciò non basta a farci comprendere che cosa si pro pone di ottenere richiamando l'attenzione: vuole diventare 1a priorità assoluta per coloro che ama, e non continuare a dar loro la priorità. È stanca di quella definizione dell'amore che consiste nell'essere sempre presente per gli altri, mentre gli altri no sono lì per lei. Ciò porta a un «tentativo» di suicidio, che in realtà non è un tentativo di suicidio ma piuttosto un segnale d'allarme, come la luce gialla del semaforo non è un tentativo di rossi ma un segnale che avverte del pericolo.
Molti uomini hanno un profondo bisogno di inviare segnali d'allarme, ma pensano di non avere nessun diritto di chiedere agli altri di salvarli dalla catastrofe che immaginano di essersi cercata, e pertanto evitano persino di far sapere di nutrire quel bisogno. Sanno inoltre che l'ammissione di un fallimento in realtà può produrre altri fallimenti, perché quando amici e colleghi ne vengono a conoscenza, automaticamente diminuiscono le assegnazioni e le promozioni, e aumenta dunque la possibilità di un disastro economico. Agli uomini resta ben poco spazio per tentare di chiedere aiuto agli altri. Quindi si chiudono nell'isolamento. Se ce la fanno, bene; se non ce la fanno, allora nessuno li amerà, diventeranno una nullità. Anzi, peggio di una nullità: saranno un peso.
Credo che gli uomini si suicidino quando o pensano che nessuno li ami né abbia bisogno di loro (e quindi non si può parlare di egoismo), oppure, peggio ancora, si convincono di essere di peso per coloro che amano.

Perché la «classe suicida» è la «classe arrivata»?
La «classe suicida» è per il 91 per cento formata da bianchi,[24] di solito istruiti e in genere appartenenti alla classe media. Sono la «classe arrivata», o almeno lo erano, prima di perdere il lavoro o i risparmi. Ma perché il suicidio, se ho detto e ripetuto che il catalizzatore è il non sentirsi amati, non sentirsi necessari? Perché gli uomini di successo diventano più dipendenti dal successo per ottenere amore. Quando perdono il successo, spesso temono di perdere l'amore. È vero? Be', di solito è in parte per questo e in parte per paura. Di solito è vero che la moglie forse non lo avrebbe considerato un buon partito se fosse stato un semplice impiegato di un supermercato; e anche che il successo necessario per trovare l'amore l'ha reso più esperto in successi che in amore; tuttavia, potrebbe anche essere che sottovaluta il vero amore della moglie o dell'amica. Comunque, dato di fatto e paure sono entrambi reali per lui; di qui la connessione tra uomini, amore, successo e suicidio. O, potremmo anche dire, la separazione tra uomini e vita.

Offline Vicus

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #25 il: Febbraio 10, 2017, 00:49:40 am »
Noto che Blondet seguita a propagandare la tesi secondo la quale "certe cose son tipiche dell'Italia" (implicitamente dice questo).
Avrebbe dovuto dire l'Occidente.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #26 il: Febbraio 10, 2017, 18:07:38 pm »
Avrebbe dovuto dire l'Occidente.

In realtà, caro Vicus, quello dei suicidi è un dramma che non riguarda solo l'Occidente.
Anzi, altrove è pure peggio.

http://www.ilpost.it/2014/09/12/mappa-suicidi-nel-mondo/
Citazione
12 settembre 2014
La mappa dei suicidi nel mondo
Secondo i dati forniti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, muoiono in questo modo più di 800 mila persone all'anno

Il numero di suicidi nel mondo   

Mercoledì 10 settembre è stata la Giornata mondiale di prevenzione dei suicidi, un evento organizzato dall’Associazione Internazionale di Prevenzione dei Suicidi (IASP). Il gruppo – impegnato nella sensibilizzazione e informazione riguardo questi temi – lavora in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che nelle settimane scorse ha diffuso una serie di analisi e mappe che mostrano il tasso di suicidi nel mondo secondo i dati disponibili più recenti, relativi al 2012. Ogni anno nel mondo circa 804 mila persone muoiono suicidandosi – una ogni quaranta secondi –, e molte di più sono quelle che tentano il suicidio: i suicidi si verificano a qualsiasi età, ma nel 2012, in particolare, sono stati la seconda causa di morte tra le persone di età compresa tra i 15 e i 29 anni.

La prima mappa mostra, in ogni paese, il numero di suicidi per ogni 100 mila abitanti, sia uomini sia donne: la media globale è di 11,4 suicidi all’anno ogni 100 mila abitanti.

La seconda mappa mostra il rapporto tra i suicidi compiuti dagli uomini e i suicidi compiuti dalle donne, in tutto il mondo, paese per paese. La media globale, ogni 100 mila abitanti, è di 15 suicidi compiuti da uomini e di 8 suicidi compiuti da donne: il rapporto medio globale è di 1,9.

Dall’analisi dei dati disponibili emerge che il paese con il minor numero di suicidi al mondo è l’Arabia Saudita (0,4), seguita da Siria (0.4), Kuwait (0.9), Libano (0,9), Oman (1) e Giamaica (1.2); poi c’è l’Iraq (1.7), dove però è più elevato il tasso di suicidi compiuti da donne, contrariamente alla tendenza globale. I paesi con il tasso più elevato di suicidi sono invece Guyana (44,2), Corea del Nord (38,5), Corea del Sud (28,9), Sri Lanka (28,8), Lituania (28,2), Suriname (27,8) e Mozambico (27,4), seguiti da Nepal (24,9) e Tanzania (24,9).

In Europa i paesi con il minor numero di suicidi sono Azerbaijan (1,7), Armenia (2,9), Georgia (3,2), Grecia (3,8), Tagikistan (4,2), Cipro (4,7), Italia (4,7) e Spagna (5,1). Quelli con il numero più elevato sono Lituania (28,2), Kazakistan (23,8), Turkmenistan (19,6), Ungheria (19,1) e Bielorussia (18,3). I paesi col più elevato numero di suicidi al mondo, tra le donne, sono Corea del Nord, Guyana, Mozambico e Nepal; tra gli uomini sono Guyana, Lituania, Sri Lanka e Corea del Nord.


Un articolo sull’Economist – che ritiene in parte inaffidabili le statistiche sui suicidi, perché “molti, per ragioni culturali e religiose, non vengono registrati” – riporta alcune informazioni riguardo il caso particolare della Guyana, il paese che – oltre ogni ragionevole dubbio – ha di gran lunga il più elevato numero di suicidi all’anno ogni 100 mila abitanti (44, ). Il normale rapporto tra suicidi compiuti dagli uomini e quelli compiuti dalle donne – mediamente di circa 1,9 – nel caso della Guayana è sbilanciato in modo ancora più marcato a favore dei suicidi compiuti da uomini. Molti di loro, scrive l’Economist, assumono volontariamente erbicidi, che causano una morte piuttosto lenta e dolorosa; vivono in aree rurali; e sono prevalentemente uomini di mezza età e anziani. È vero che le condizioni economiche della Guyana non sono buone, premette l’Economist, ma c’è chi sta messo molto peggio senza tuttavia presentare dati statistici sui suicidi lontanamente paragonabili a quelli della Guyana.

Lo psichiatra Gerard Hutchinson – a capo del dipartimento di Scienze mediche e cliniche all’Università delle Indie Occidentali, a St. Augustine, in Trinidad e Tobago – sostiene che anche alcuni fattori chimico-ambientali possano in una qualche misura condizionare il dato statistico. Molti agricoltori e contadini guianesi potrebbero fare un uso eccessivo di erbicidi e insetticidi a base di organofosfati, che secondo diversi studi scientifici internazionali possono portare a comportamenti suicidi impulsivi. Un altro fattore determinante potrebbe infine essere la scarsa assistenza fornita alle persone a rischio di suicidio.

Offline Vicus

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #27 il: Febbraio 10, 2017, 18:55:39 pm »
In realtà, caro Vicus, quello dei suicidi è un dramma che non riguarda solo l'Occidente.
Anzi, altrove è pure peggio.

http://www.ilpost.it/2014/09/12/mappa-suicidi-nel-mondo/
Si riferiva a questo:

Citazione
Al primo rispondo: la  “cristiana pietà” per Michele bisognava  averla prima.  Adesso non serve. E’ solo sentimentalismo,  una delle  piaghe collettive italiane. Lo dimostra il secondo lettore: “Lei non sembra amare i giovani”.   Naturalmente, per  “amare i giovani” in Italia bisogna dirgli che sì, che hanno ragione, mantenerli infantili, compatirli, accarezzarli.

In realtà non è un atteggiamento tipico dell'Italia, ma di tutto l'Occidente, specialmente dell'Europa.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline ReYkY

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #28 il: Febbraio 10, 2017, 23:56:49 pm »
Dopo Michele eccone un altro...

Ultimo messaggio su FB: "cerco fidanzata disperatamente".

http://www.abruzzolive.it/?p=57024

 :( :( :(

Offline Salar de Uyuni

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Re:Michele non si è ucciso solo per il lavoro.
« Risposta #29 il: Febbraio 11, 2017, 22:38:21 pm »
Io non sono d'accordo con Blondet.
Lui parla,bravo.
Devi,devi,devi.
Vocazione non è fare quello che la società richiede da te,se no saremo tutti cuochi e personal trainer e altre stronzate che Blondet giustamente deplora.
Blondet voleva fare il giornalista,avrebbe accettato di fare il macellaio se suo padre era macellaio?
Eh no,certe cose te le devi sentire un pò.
Blondet divorzia fa quel cazzo che vuole e poi predica.
Si lo so la lettera del ragazzo contiene dei non sequitur che Blondet ha sottolineato,però c'è un però.
Il ragazzo ribalta sul mondo il suo insuccesso e lo accusa sbaglia?
La società in cui viviamo ci insegna l'esatto contrario cioè che dobbiamo sgomitare e se non arriviamo siamo dei falliti.
Non che ci deve essere consegnato il successo.
Diciamo che si a parole tutti quanti siamo uguali però poi si sa come.
Quello che non capisco è:
SIC STANTIBUS REBUS
PERCHE' NON HAI PORTATO POLETTI CON TE COSI' SI RICORDAVA CHE LE PALLE DA CUI LEVARSI SONO SEMPRE 2?
Te ne saremmo stati eternamente grati.
Si sarebbe aperta una falla questa volta davvero.
Il gesto non è cristiano,ma è equo,precristiano salomonico SI CHIAMA MUOIA SANSONE CON TUTTI I FILISTEI.
Solo che viene condannato da tutti,cristiani compresi.
Se poi porti con te una donna,apriti cielo...
Da quando dio e' morto in occidente,pare aver prestato la sua D maiuscola al nuovo oggetto di culto la ''Donna''