Autore Topic: USA (e forse altri) verso la balcanizzazione  (Letto 1136 volte)

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Offline Vicus

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USA (e forse altri) verso la balcanizzazione
« il: Luglio 13, 2017, 22:00:17 pm »

Leggete attentamente questo articolo, ché questo schema potrebbe ripetersi altrove (Cina compresa):
http://www.maurizioblondet.it/verso-gli-stati-disuniti-damerica/

Ciò che non riuscirono ad ottenere i Confederati col sangue ed  il valore, riuscirà a Trump e ai nemici di Trump? Potenti pulsioni alla disobbedienza e alla dissoluzione  della unità federale sono elencati  dall’amico Wayne Madsen in un brillante saggio.

https://www.strategic-culture.org/news/2017/07/10/the-rapid-devolution-of-the-united-states.html

Cominciamo. Ben 44 Stati si sono rifiutati di comunicare a  Washington i metodi  con  cui registrano  i votanti. Come abbiamo appreso durante le ultime presidenziali, ci sono Stati dove si vota senza nemmeno  bisogno di presentare un  qualunque  documento d’identità;  brogli e frodi sono fin troppo possibili; dunque l’amministrazione Trump  ha istituito  una commissione Kobach dal nome del repubblicano e segretario di Stato del Kansas, Kris Kobach, che in Kansas ha introdotto regole ferree  per il  voto, a cominciare dall’obbligo, per   quelli che si registrano per la prima volta, di  dimostrare di essere cittadini americani.

Ebbene:  gli stati, non solo a  guida democratica, hanno visto in questo un tentativo di  escludere dal voto gli immigrati  (magari clandestini), i neri, le minoranze; e una volontà di fare  una schedatura nazionale centrale delle identità dei cittadini;  quindi si sono rifiutati, adducendo  la protezione dei dati personali e privati.  Alex Padilla, segretario di Stato della California: “Non   trasferirò  informazioni delicate a  una commissione che ha già giudicato senza motivo che milioni di californiani hanno votato illegalmente”.   Delbert Hosemann, segretario di Stato del Mississippi: “La Commissione Kobach si getti nel Golfo nel Messico, e il Misssippi è lo stato ideale per lanciarvisi”. Il punto è che se Padilla è democratico, Hosemann è repubblicano. Davanti ai 44 Stati disobbedienti, Trump ha twittato: “Chissà cosa hanno da nascondere”, e  poi niente  altro.

Rapporti con Cuba.

Trump ha rimesso in vigore le sanzioni al commercio e limitazioni ai viaggi che erano state liberalizzate sotto Obama. Ebbene: il vice-governatore del Minnesota,in aperta sfida,  ha condotto a Cuba  una delegazione dei due partiti del suo stato, proclamando che per loro valgono le aperture di Obama; il governatore democratico della Louisiana, insieme col commissario all’agricoltura dello stato che è un repubblicano, hanno dichiarato che  le sanzioni di Trump non intaccheranno gli scambi di  prodotti agricoli, già molto vivace, tra  la Louisiana e Cuba.

La questione dei visti.

Come noto, Trump ha voluto negare il visto d’entrata  persone provenienti da  sei stati musulmani, Iran, Siria, Sudan, Yemen, Libia e Somalia; inizialmente anche dall’Irak, decisione che poi si è rimangiato davanti alle proteste. Un provvedimento stupido, arbitrario e ipocrita, con la scusa del  “terrorismo” (nell’elenco non sono compresi i wahabiti…), contro cui diversi Stati hanno proprio fatto opposizione nei tribunali. Fra essi, L’Oregon e lo Stato di Washington; le Hawaii hanno adito la Corte costituzionale contro l’Amministrazione sui visti.  Di fronte all’ingiunzione del Dipartimento della Homeland Security di identificare gli immigrati senza documenti ed  espellerli nel paese d’origine,   diversi stati si sono rifiutati. La California, il più grosso, proclama di essere diventato uno “stato d’asilo” (sanctuary) come nelle chiese medievali vigeva il diritto di asilo:   chi vi entrava era esente dalla giustizia del  braccio secolare.

Trump ha annunciato di voler scatenare una guerra commerciale con la Cina, che accusa di manipolare i prezzi delle sue esportazioni con  la moneta svalutata e il dumping? Detto fatto: la California ha aperto un grosso ufficio commerciale a Pechino, Washington ed Oregon hanno uffici commerciali a Shanghai, Hawaii ha uffici commerciali a Pechino ed a Taipei.  E tutti hanno detto chiaro che  dell’import-export coi cinesi si occupano loro, stato per stato, non il governo federale.

Notoriamente, Trump  s’è ritirato dagli accordi  di Parigi sul clima, sostenendo (non a torto)   che danneggiano il lavoro americano. Ebbene,  una ventina di Stati  si sono precipitati a proclamare che, loro, mantengono gli  impegni dettati dall’accordo di Parigi,   checché  ordini e comandi  Washington. Ovviamente per prima la California, ambientalista e vegana; poi Washington e New York.  Poi ancora, il Connecticut… ed è stata una frana.  Quelli sono stati a  guida democratica,  quindi  ideologicamente ecologisti; ma si sono aggiunti Massachusetts e Vermont repubblicani, seguiti da Rhode Island,  Oregon, Hawaii, Virginia, Minnesota e Delaware. Questi hanno addirittura costituito una “United States Climate Alliance”;  ma una quantità di stati si sono impegnati ad  obbedire all’ecologismo sovrannazionale senza  far parte della Alliance:  Maryland, Montana, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, New Mexico, Illinois, Iowa  e Maine.

“Pacific States of America”

Jay Inslee,  governatore del nordico Stato di Washington ha fatto  sul clima dichiarazioni congiunte con il primo ministro del Canada,  da stato a stato,  e poi hanno discusso anche degli immigrati messicani, che Trump vuol lasciare di là dal muro.  Inslee è andato in Messico a rassicurare il presidente messicano Pena Nieto.

A guidare la soft devolution  in corso non sono gli stati del Sud dell’epoca del secessionismo, ma – nota Madsen –  quelli che  affacciano sul Pacifico,  dalla California al Washington, ed hanno forti rapporti economici con Cina, Giappone, Taiwan (gravitano già verso il complesso super-potenza di domani) , e – come Hawaii – un  vivace partito nativista che punta a  qualcosa di più che all’autonomia. Essi formano “una sorta di sub-alleanza dei Pacific States of America all’interno della Unione”,   che hanno già una politica estera divergente da quella della Casa Bianca.

In fondo, è come la Merkel che apre alla Cina  in nome del mercato globale (e dello pseudo-ecologismo) e guida la UE verso la nuova autonomia da Trump, in nome  della “vittoria” della oligarchia  burocratica europeista contro “i  populismi”, dati (dalla loro propaganda) sconfitti.

Se ciò sia un fenomeno di secessione, è più che dubbio: siamo al disotto del livello del Politico. A voler filosofeggiare, si deve parlare piuttosto di “de-costruzione”  del Sistema occidentalista, esito ultimo dalla sua riduzione della “democrazia” al “mercato”, della “politica” (nel senso di priorità alla autorità pubblica e all’interesse generale) all’economia, ossia al  primato dell’interesse privato.  Gli interessi privati  non uniscono, ma dividono: ecco il risultato.

Risultato aggravato ed accelerato da Trump e dal suo “autoritarismo da tweet”, di un “commander in chief” che impartisce ordini  imperiosi e caotici, che comunque non vengono eseguiti, perché ha l’intero Deep State contro; e che comunque l’America   che conta  disprezza, e di  cui  non vuol riconoscere la legittimità, proprio perché rappresentante dei “deplorevoli”,  la classi spossessate dal globalismo.
E gli eurocrati…

In fondo uno stesso fenomeno si vede in Europa. L’oligarchia  rafforza la NATO,   vi aderisce, moltiplica l’ostilità alla Russia, e nello stesso tempo si scolla da un’America, la potenza protettrice della futura guerra, che è in piena destrutturazione, scollamento e   lotta intestina dei poteri forti. Merkel e Macron celebrano   le loro vittorie come assenso dei cittadini alle loro politiche, quando (in Francia) oltre metà dei cittadini non sono andati a votare. Macron annuncia un programma di austerità atroci, tagli di spese pubbliche di 80 miliardi  in 5 anni,  per fare della Francia un satellite tedesco perfetto coi “conti in ordine”,  nella convinzione ideologica che  i francesi  gli  abbiano dato l’assenso.  No, gli hanno dato il silenzio.
Gentiloni, Merkel e Macron a Trieste. Merkel e Macron: gli immigrati ve li tenete. E Merkel estende la UE ai Balcani. Macron:  austerità  per fare dei francesi  dei  veri  tedeschi.

Questo silenzio  senza assenso può  durare a lungo, tanto  sono state rese passive le cittadinanze depoliticizzate . Macron “imita la forza dei forti”, ha detto molto bene Jacques Sapir: ma non ce l’ha.   Gentiloni e il PD ne hanno ancora meno, e in pieno disfacimento come partito, continuano a riempire i paesi italiani che hanno impoverito, di negri, fidando solo sulla “forza” di Angela Merkel. Anche in America,  lo scollamento  fra Stati e  Casa Bianca può non portare ad alcuna secessione  politica  bellicamente  combattuta, ma avanzare in  degrado  e devoluzioni di fatto nella ricerca di interessi locali – che privazione della Politica  come  “chiamata di genti diverse e potenzialmente ostili a fare qualcosa di grande assieme”.

Ma può durare. Fino a quanto? Io credo, fino al prossimo crack economico mondiale, prodotto dalla stessa globalizzazione finanziaria del capitalismo terminale. In un recente convegno, l’ex governatore della Banca d’Inghilterra  Paul  Tucker  ha scandito: “Ci sarà una nuova crisi”come quella del 2007; “non so dirvi quando, ma potrebbe essere un avvenimento drammatico per il nostro stile di vita, per la nostra democrazia e i valori liberali”.   
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.