Autore Topic: La Rivoluzione del 1917 aveva (anche) volto di donna...  (Letto 1346 volte)

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Online Frank

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La Rivoluzione del 1917 aveva (anche) volto di donna...
« il: Novembre 01, 2017, 16:01:32 pm »
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Martina Napolitano 6 giorni fa   

Restano ancora oggi in disparte, le donne della rivoluzione russa, nella narrazione del 1917. Eppure in disparte certo non erano: anche grazie a loro la Russia vive la rivoluzione, introduce il suffragio universale, pari diritti ed alcune forme di socializzazione del lavoro domestico.
La Rivoluzione di febbraio: una rivolta dal volto di donna

A differenza della presa del Palazzo d’Inverno dell’Ottobre – evento poi celebrato come l’autentica Rivoluzione, ma che, per molti aspetti, fu più simile ad un moderno e tutto sommato pacifico coup d’etat – la Rivoluzione del Febbraio  fu teatro di veri sommovimenti di piazza. Il 23 febbraio (8 marzo) in occasione del Giorno Internazionale della Donna, gli scioperi che erano stati a partire da gennaio solo sparsi e scoordinati, per quanto imponenti, si trasformarono in una vera e propria insurrezione contro il governo zarista. Le operaie scese in piazza, vere e proprie protagoniste della rivolta, chiedevano miglioramenti delle condizioni di vita e lavoro ed il ritorno degli uomini dal fronte. Proprio la guerra, che aveva privato di mariti e figli, offrì alle donne la possibilità di far sentire la propria voce: erano vedove di guerra molte delle rivoluzionarie bolsceviche, esempio di attivismo politico e sociale al femminile.
Il femminismo marxista delle rivoluzionarie russe

In Russia il femminismo si orientò subito, sulla scia dei sommovimenti dell’epoca, verso un cosiddetto “femminismo marxista” che introduceva nel discorso di critica all’impianto economico anche la condizione di disuguaglianza della donna. La rivoluzione proletaria per queste femministe sarebbe stato l’unico mezzo per l’ottenimento della libertà femminile. E così, sulla spinta idealista dei primi tempi rivoluzionari, effettivamente fu: tra 1917 e 1920 vennero introdotti il suffragio universale, l’uguaglianza davanti alla legge, il diritto al divorzio e il diritto di aborto libero e legale. Diritti “essenziali per dare la possibilità alle donne di diventare indipendenti da istituzioni patriarcali come la Chiesa ortodossa e le altre autorità religiose, e dal controllo dei loro padri e mariti”, sostiene  la storica Wendy Z. Goldman, autrice di Women, the State and Revolution: Soviet Family Policy and Social Life, 1917-1936 (Cambridge University Press, 1993) e Women at the Gates: Gender and Industry in Stalin’s Russia Women (Cambridge University Press, 2002). Anche le politiche di socializzazione del lavoro domestico andavano in questa direzione: le mense, le lavanderie pubbliche, gli asili, oggetto del piano idealistico dei bolscevichi, intendevano permettere alla donna di godere del tempo libero e sviluppare se stessa su una base di parità con gli uomini.
I nomi noti: Nadežda Krupskaja e Aleksandra Kollontaj

Krupskaja, purtroppo spesso relegata nella narrazione come “moglie di Lenin”, fu un’attivissima rivoluzionaria bolscevica. Incontrò il futuro marito nel 1894 proprio in un circolo marxista e nel 1905 divenne segretario della fazione bolscevica del Partito Operaio. Dopo il 1917 lavorò alacremente al fianco di Lunačarskij al Commissariato per l’Istruzione. Convinta della necessità di dialogare con le donne, dalle pagine del giornale Rabotnica (lett., L’operaia) Krupskaja cercava di diffondere tra le lettrici i propri ideali marcatamente femministi.

È proprio grazie a Kollontaj, prima donna al mondo ministro (più precisamente, secondo la terminologia rivoluzionaria, Commissario del popolo per l’Assistenza Sociale) e ambasciatrice, che nei primi anni dopo il 1917 la Russia introduce i diritti fondamentali per la donna, compreso il riconoscimento di un salario pari a quello degli uomini. Tuttavia, sostiene la studiosa Katy Turton, “alla sua figura sono legati alcuni stereotipi. Se a Nadežda Krupskaja è dato il ruolo di moglie di Lenin, Aleksandra Kollontaj è considerata una donna dalle molte avventure amorose”.
Nomi meno noti: Marija Bočkareva, Marija Spiridonova, Ekaterina Breškovskaja

Bočkareva “ha modificato l’idea di quello che si riteneva potessero essere capaci le donne”, afferma Sarah Badcock dell’università di Nottingham. Questa rivoluzionaria, con la concessione dell’ultimo zar Nicola II, fu addirittura soldato nell’esercito zarista nella prima guerra mondiale:  vi si distinse particolarmente e venne promossa sottufficiale. Creò successivamente anche il primo “battaglione della morte” interamente femminile, facendo vergognare gli uomini “incapaci di lottare per il paese”, come recitavano i suoi slogan. Bočkareva, contadina della siberiana campagna di Tomsk, trovò nella rivoluzione il suo spazio, così come Spiridonova, grande oratrice delle masse contadine, operaie e tra i soldati, ma anche tra i primi a denunciare i bolscevichi come traditori degli ideali rivoluzionari. Con lei anche Breškovskaja, la cosiddetta “Babuška (nonna) della rivoluzione”, uno dei leader del partito Socialista Rivoluzionario (gli “esery”, dalla sigla SR). Insoddisfatta dei bolscevichi, lasciò la Russia nel 1918. “Se piaci a Breškovskaja, allora sei un vero rivoluzionario”, dicevano i suoi contemporanei.


Citazione
Creò successivamente anche il primo “battaglione della morte” interamente femminile, facendo vergognare gli uomini “incapaci di lottare per il paese”, come recitavano i suoi slogan..

E vabbè... ogni giorno ne leggo una "nuova".

Online Frank

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Re:La Rivoluzione del 1917 aveva (anche) volto di donna...
« Risposta #1 il: Novembre 01, 2017, 16:04:41 pm »
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Citazione
RUSSIA: L’emancipazione sempre mancata della donna
Vittorio Filippi 10 febbraio 2017   

“La liberazione della donna non può compiersi che attraverso una trasformazione radicale della vita quotidiana. E la vita quotidiana stessa non sarà trasformata che attraverso una ricostruzione radicale di tutta la produzione, sulle nuove basi dell’economia comunista. Una rivoluzione nella vita quotidiana si sta effettuando sotto i nostri occhi: essa si espande e si approfondisce, e con essa vediamo entrare nella vita, nella pratica, la liberazione della donna.” Così scriveva nel 1921 Alexandra Kollontaj, rivoluzionaria russa, pensando che – sull’onda della rivoluzione di quattro anni prima – anche la famiglia sarebbe passata, per usare le parole di Engels, “dalla sfera della necessità a quella della libertà”.

Invece oggi, a cento anni esatti dall’Ottobre con le sue utopie affamate di nuovo, il passato ritorna alla grande. Vi ritorna proprio a Mosca, con la decisione della Duma di togliere dal codice penale il reato di “percosse in famiglia” declassandolo ad illecito amministrativo. Insomma picchiare mogli e figli non sarà più un reato, in un paese in cui 40 donne al giorno vengono uccise da mariti e compagni. D’altronde – come dice un vecchio proverbio russo – “se ti ama, ti picchia”, per cui meglio che lo Stato non entri in faccende di “schiaffi in famiglia”, come pensa un quinto della popolazione secondo un sondaggio dello VTsIOM.

Nonostante che le immagini della rabotnica, dell’operaia, venissero riprodotte in dimensioni superiori alla realtà, la liberazione della donna promessa dalla rivoluzione rimase sempre incompiuta, ondivaga e contraddittoria. Già alla fine degli anni Venti l’esaltazione della figura avveniristica della donna-operaio veniva affiancata dalla rivalutazione stalinista della madre eroina con prole numerosa. Poi nel 1968 la nuova legislazione familiare e matrimoniale segnò il trionfo del welfare state e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ma non veniva ridotta l’asimmetria di genere, dato che sulle donne gravavano il lavoro extradomestico e quello domestico (appesantito dalle code interminabili ai negozi).

Con la glasnost degli anni Ottanta si svelano infinite situazioni di disgregazione familiare (le famiglie monoparentali erano tra il 30 ed il 40%) e di mariti alcolizzati e violenti. Mentre i lavori femminili si concentravano nelle professioni più pesanti, meno retribuite e qualificate. Anche a livello letterario si sviluppa una “diversa prosa” (drugaja proza) che racconta lo squallore esistenziale di tante donne alle prese con una quotidianità infelice. Alla fine del decennio a livello di cultura di massa si propugnava il ritorno delle donne a casa per cui il culto della famiglia – scriveva nientemeno che la Pravda nel 1987 – era l’unico culto consentito e sostenuto dallo Stato sovietico. Due anni dopo lo stesso giornale ribadirà che “la società si era troppo femminilizzata … la donna doveva tornare a casa e non mettere becco in nient’altro.”

Nella Russia post-sovietica dei nouveaux riches pesano sulle donne oltre alle violenze (due quinti delle divorziate erano state percosse, secondo una ricerca del 1996), la povertà ed il crollo dei servizi sociali e sanitari. Secondo l’Unicef, il lavoro domestico occupava le donne russe con una media di 70 ore alla settimana. Inoltre nella Russia el’ciniana fioriva un vero e proprio rinascimento patriarcale basato sui valori presocialisti della tradizione ortodossa e nazionalista panrussa. La donna doveva essere gentile, mite, remissiva ed affascinante (secondo canoni estetici occidentali naturalmente) e soprattutto non così impegnata nel lavoro come predicato dall’ideologia sovietica. In parallelo fiorivano l’industria del sesso, la prostituzione, i concorsi di bellezza ed il sessismo violento delle culture giovanili urbane. Se si chiedeva alle liceali di Mosca quale fosse la professione più prestigiosa, rispondevano la prostitutka, imprenditrice solitaria della nuova economia di mercato aperta ai businessmen stranieri.

Se la classe operaia al potere è stata una utopia messianica mai divenuta eutopia, quella della donna liberata come la intravedeva la Kollontaj (o la Armand, la Zetkin, la Luxemburg) si è rivelata una deludente distopia. Che dovrebbe oggi permetterci di non essere troppo meravigliati o sorpresi dalla decisione della Duma e dalla diffusa cultura (maschilista) che ne legittima il consenso sociale. Un ennesimo paradosso per quello che fu il paese dei Soviet.