Bello questo commento:
A quanti scrivono che lasciare l’Italia equivale a fuggire diventando un apolide, posso garantire che mi sono sentita più apolide in Italia che in Estonia, dove mi trovo attualmente – persino considerando i primissimi giorni, sbarcata dal volo senza mai averci messo piede prima, quando per fare la spesa mi affidavo alle figure e alle dimensioni delle confezioni, perchè le scritte sono tutte in estone e in russo, e non avevo idea di cosa avrei messo in tavola per cena. Era lo scorso inverno. Mesi dopo, in primavera inoltrata, ero ai Vanalinna Päevad, la festa del centro storico di Tallinn. Mi trovavo nella piazza del municipio. C’era un bel sole tiepido, e sul palco della manifestazione un gruppo musicale cantava un repertorio patriottico e folkloristico (qui, terra della Singing Revolution, non se ne vergognano). La piazza era gremita, come può esserlo la piazza di una città nordica da mezzo milione di abitanti. I più anziani erano seduti, molte coppie si tenevano per mano, alcune erano abbracciate. I più giovani erano in piedi, i meno timidi accennavano passi di danza. C’era chi indossava un copricapo tradizionale, chi fiori tra i capelli, chi sventolava una bandierina; mamme con i passeggini, bambini col monopattino, e i camerieri dei locali circostanti a battere le mani nei loro costumi medievali che spesso si portano dietro l’odore della cannella. Non sono riuscita a frenare le lacrime di commozione. Commozione e gratitudine per essere lì, per poter essere una piccolissima parte di quel momento perfetto, colmo della grazia, della modestia, della tenacia silenziosa e orgogliosa degli Estoni. Non ricordo l’ultima volta che ho pianto di commozione in Italia, e se sono fuggita, l’unico rammarico è di non averlo fatto prima.
Io stesso non vedo scene così in Italia da molti anni.