Off Topic > Off Topic

La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

<< < (25/117) > >>

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Sfruttamento-e-precariato-lavoratori-serbi-in-Slovenia-187301


--- Citazione ---Sfruttamento e precariato: lavoratori serbi in Slovenia

La Slovenia ha bisogno di manodopera e Lubiana sta firmando accordi bilaterali con i paesi della regione che però rischiano di ridurre ancora i diritti dei lavoratori immigrati
11/05/2018 -  András Juhász   

(Pubblicato originariamente da Mašina, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Centinaia di migliaia di serbi lavorano all'estero e prendere in considerazione o decidere di lasciare il proprio paese fa parte del quotidiano della gente di qui, come di tutti i Balcani. Ma ciò che la gente conosce sulle condizioni di lavoro all'estero si riduce spesso ai soli racconti dei conoscenti e dei familiari emigrati. Vi sono poche informazioni sulla legislazione in materia di lavoro negli altri paesi, su come funzionano le agenzie interinali o su accordi bilaterali inerenti ai diritti dei lavoratori all'estero.

È in questo contesto che il primo febbraio 2018 Belgrado e Lubiana hanno sottoscritto un accordo sul distaccamento di lavoratori serbi in Slovenia. Pochi media ne hanno parlato e hanno affrontato i contenuti dell'accordo. Secondo Zoran Đorđević, ministro serbo del Lavoro, l'accordo garantirà ai lavoratori serbi gli stessi diritti di quelli sloveni. A due mesi dalla firma però il testo dell'accordo non è ancora a disposizione sul sito del ministero. Alla nostra richiesta di vederne copia ci è stato risposto che il documento era ancora in corso di ratifica e che sarebbe poi stato pubblicato sul Gazzettino ufficiale della Repubblica di Serbia.
Ue e lavoratori all'estero

Uniformare la disciplina europea sul distacco dei lavoratori è un tema cruciale per un equo mercato interno del lavoro. Le esigenze – almeno in parte contrapposte – sono quelle di garantire la libera circolazione dei servizi e quella di combattere il dumping sociale, soprattutto negli ambiti a maggior intensità di manodopera. Nel 1996 la direttiva n° 71 cominciò a circoscrivere la materia prevedendo tre categorie per distinguere il lavoratore distaccato da quello che lavori stabilmente in uno stato diverso dal proprio. La direttiva prevede che, in ogni caso, le condizioni del lavoratore distaccato devono essere conformi a quelle dello Stato in cui svolge la sua prestazione. Questa previsione è stata nei fatti difficile da applicare, soprattutto per mancanza di coordinamento tra gli organi di controllo. Di conseguenza, nel corso degli anni si è verificato uno squilibrio tra i principi che si intendevano tutelare a favore delle libertà del mercato, conducendo a un abuso di pratiche sleali nei confronti dei lavoratori. Nel 2016 la Commissione europea ha proposto una revisione sulla normativa, per coprire le zone d’ombra e assicurarne maggiore efficacia. La commissione Occupazione e Affari sociali (EMPL) del Parlamento europeo ha esaminato la materia e ha presentato un rapporto, che ha poi intrapreso l’iter decisionale. Il voto sull’esito del negoziato è previsto il 25 aprile.

La versione slovena del documento, a disposizione, è stata analizzata da Delavska Svetovalnica, un'organizzazione che si occupa di diritti dei lavoratori e lavoratrici immigrate in Slovenia. I suoi collaboratori ci hanno spiegato cosa si dovranno aspettare i lavoratori serbi in Slovenia nel caso il testo del documento venga effettivamente ratificato dal parlamento. Il nostro interlocutore, Goran Zrnić, ha cominciato a lavorare in Slovenia 10 anni fa, in alcuni cantieri edili. Ha poi subito un infortunio sul lavoro con una lesione alla colonna vertebrale che ne ha causato l'invalidità. Da quel momento ha avviato una lotta lunga e ardua contro la burocrazia per far valere i suoi diritti. Da sei anni lavora come consulente per i lavoratori immigrati in Slovenia.

“Attualmente i lavoratori serbi hanno il diritto di dare le dimissioni e di cambiare datore di lavoro quando desiderano”, sottolinea Goran Zrnić. “Con il nuovo accordo non avranno più questo diritto durante il primo anno di lavoro in Slovenia. Questo sarebbe l'avere uguali diritti ai lavoratori sloveni? Mi piacerebbe che qualcuno me lo spiegasse!”.

Il diritto a cambiare datore di lavoro nel corso del primo anno viene soppresso dall'articolo 10 dell'accordo. Come spiegato dai membri di Delavska Svetovalnica, questa clausola non sarebbe altro che un copia incolla di un accordo già in vigore con la Bosnia Erzegovina che permette lo sfruttamento dei lavoratori immigrati.

“Un lavoratore che nel proprio paese era più o meno libero non può concepire di dover passare un anno intero con un datore di lavoro che, a quel punto, lo sfrutterà dicendogli che se non è contento può benissimo dare le dimissioni e rientrare nel proprio paese. Se uno dà le dimissioni, questo significa che torna alla casella di partenza e deve ricominciare da zero... E questo accade spesso”, continua Goran Zrnić.

Secondo i membri di Delavska Svetovalnica, quest'impossibilità di fatto di cambiare datore di lavoro nel corso del primo anno ha come conseguenza ore in più richieste e non pagate, contributi sociali non versati e a volte anche salari non corrisposti.

Anche se, formalmente, il lavoratore immigrato potrebbe ricorrere a una procedura di dimissioni eccezionali in base al diritto del lavoro sloveno, in pratica accade raramente, essendo i lavoratori poco informati e la procedura complessa. “Immaginatevi una persona da qualche parte in Slovenia, i cui genitori gli hanno raccontato che questa repubblica era tra quelle che stavano meglio nell'ex Jugoslavia: buoni salari, buone leggi... Arrivato pieno di sogni si risveglia in un ingranaggio che lo schiaccia. Senza contare il fatto che spesso i lavoratori immigrati pagano per arrivare sino a qui. Si sono indebitati e poi lavorano 250-300 ore al mese. Il datore di lavoro versa loro un salario di non più di 600 euro dicendo loro che 'contributi e congedi malattia da lui non esistono'”.

Il salario medio in Slovenia è di 1077 euro e il salario minimo di 638. Da sole, le spese di alloggio, rivelano il vero valore del salario degli immigrati. “In generale per un posto letto in una camera da quattro si spendono 120-140 euro. E affittare un monolocale a Lubiana costa tra i 250 e i 300 euro, spese non incluse ovviamente. Gli affitti degli appartamenti fuori Lubiana sono di un 10-30% in meno. Ma in quel caso aumentano i costi di trasferimento verso il posto di lavoro”.

Secondo Goran Zrnić se l'accordo sottoscritto in febbraio sarà ratificato, i lavoratori serbi in Slovenia saranno destinati a condividere la misera esperienza dei lavoratori provenienti dalla Bosnia Erzegovina. A suo dire, vista la mancanza di manodopera in Slovenia, la Serbia potrebbe negoziare condizioni migliori per i propri lavoratori. “In questo momento la Slovenia sta tranquillamente aspettando che la Serbia cada nella stessa trappola della Bosnia Erzegovina. A mio avviso Belgrado ha più pedine a suo vantaggio rispetto a Lubiana e potrebbe ottenere condizioni migliori per i propri cittadini. Ma se le giocherà o meno è una domanda da un milione di dollari. Servirebbe che i lavoratori serbi si mobilitassero, meglio se insieme a noi, è ovvio che occorre lavorare assieme”.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/L-Albania-di-oggi-al-di-la-dei-falsi-miti-187967


--- Citazione ---L’Albania di oggi, al di là dei falsi miti
Albania - Ivo Danchev

Un'intervista rilasciata al portale Pangea dal nostro collaboratore Nicola Pedrazzi. Un ampio, appassionato e disincantato sguardo sull'Albania
18/05/2018 -  Pangea   

(Pubblicata originariamente da Pangea News il 15 maggio 2018)

Ci sono date da ricordare e miti da sfatare. 8 agosto 1991. Ricordate. La nave si chiamava ‘Vlora’, era stata costruita ad Ancona, varata a Genova, venduta a una società marittima di Durazzo. Quel giorno arriva al porto di Bari. Sbarcarono in 20mila. Albanesi. L’evento ebbe la natura assoluta di un simbolo, e diventò un docufilm, La nave dolce, diretto nel 2012 da Daniele Vicari.

La popolazione albanese in Italia conta, ad oggi, poco meno di mezzo milione di unità (stando al “Rapporto annuale sulla presenza dei migranti” del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali): sostanzialmente, non possiamo non conoscere un albanese. Il successo pubblico di Ermal Meta narra, a essere ottimisti, di una integrazione riuscita; dal punto di vista culturale, invece, tolti alcuni, rari nomi (Ismail Kadare, Ornela Vorpsi), la conoscenza italiana del patrimonio letterario albanese è ancora sporadica (citiamo il decisivo numero di In forma di parole dedicato ai Poeti della terra d’Albania, del 2002, e Il funerale senza fine, opera poematica di Visar Zhiti, edita lo scorso anno da Rubbettino).

In realtà, di Albania sappiamo quasi nulla. Ne sappiamo, per lo più, tramite claim promozionali, per così dire. Ci viene detto, ad esempio, di un ‘miracolo economico’ albanese, e di un primo ministro, Edi Rama, confermato al secondo mandato nel 2017, con il vizio d’artista – ha esposto alla Biennale di Venezia – e il carisma da capopopolo, che piace a tutti, soprattutto ora che l’Albania è in ‘odore d’Europa’. Dal vero, però, le condizioni di vita in Albania sono molto difficili, i giovani continuano a lasciare il loro paese, gli stipendi medi oscillano tra i 200 e i 300 euro, i libri hanno prezzi inaccessibili ai più e la corruzione – che ha come contraltare l’indifferenza civica verso i fatti politici – è ancora dominante.

Per capire l’identità dell’Albania oggi, una terra storicamente legata all’Italia – ma adesso i legami preferenziali sono con Stati Uniti e Turchia, e la Cina continua a fare affari – dove si sta costruendo la moschea più grande dei Balcani, abbiamo parlato con Nicola Pedrazzi, che collabora con l’Osservatorio Balcani e Caucaso da Tirana, e conosce il territorio albanese come le sue tasche (l’anno scorso, tra l’altro, ha firmato il libro L’Italia che sognava Enver. Partigiani, comunisti, marxisti-leninisti: gli amici italiani dell’Albania Popolare. 1943-1976). Sarà Nicola a toglierci l’utopia dalla testa e la réclame dagli occhi.

Dunque: Albania in Europa. I negoziati sono ufficialmente aperti. Come vive questa possibilità la società civile? Con disinteresse, con orgoglio, come una nuova possibilità di sviluppo?

I negoziati per l’adesione all’Ue, in realtà, non sono ufficialmente aperti. Nell’ultimo progress report la Commissione ha raccomandato al Consiglio europeo l’apertura dei negoziati, elogiando i progressi del paese; come sempre, spetta ora ai capi di stato e di governo decidere all’unanimità, il che significa che qualora anche solo un governo Ue non fosse d’accordo, l’apertura dei negoziati verrebbe rimandata. È quanto accade alla Macedonia per la questione del veto greco sul nome, nonostante sia candidata dal 2005; non è dunque detto che i negoziati con l’Albania verranno aperti quest’anno (d’altronde lo stesso balletto si è già visto per la concessione dello status di ‘paese candidato’, due volte raccomandato dalla Commissione, due volte negato dal Consiglio, fino all’estate del 2014). Sul tema, il Consiglio europeo dovrebbe riunirsi quest’estate.


Anche in Albania vige grande confusione sulle istituzioni e sul funzionamento dell’Ue. Un fatto che non aiuta la comprensione di dove si stia andando, e in quali tempi. Ciò premesso, tutte le forze politiche del paese e la schiacciante maggioranza dei cittadini albanesi sono convintamente ‘europeisti’: il che non stupisce, perché solamente tra Grecia e Italia vive più di un milione di cittadini albanesi. Non c’è un solo albanese di Albania che non abbia almeno un parente o un amico in Ue. Conseguentemente, il benessere e i vantaggi dell’Europa unita sono ben noti, e l’Europa è vista come la via maestra per lo sviluppo, come prima porta per una vita migliore. E qui viene la frustrazione: se l’Europa è un desiderio forte, gli albanesi lo soddisfano a livello personale, con la migrazione. La fiducia sul fatto che la politica albanese sia in grado di guidare il paese in Europa è bassa, così come è basso l’interesse per la politica, che in Albania come in altri paesi della regione è sinonimo di potere.



A tal proposito, è bene precisarlo: in Albania ancor più che in altri paesi balcanici è molto difficile parlare di ‘società civile’. Se, con riferimento a nuovi, embrionali, fermenti sociali, si sceglie di adottare quell’espressione, lo si deve fare sapendo che la ‘società civile albanese’ non è ancora assimilabile a una società civile ‘europea’. Infine, orgoglio e disinteresse/disillusione, citati nella sua domanda, sono in effetti due sentimenti che gli albanesi conoscono molto bene: il primo in relazione alla propria appartenenza nazionale, il secondo in relazione alle istituzioni del proprio Stato. Diciamo che questa mentalità diffusa mal si concilia con il progetto di integrazione politica avviato a ovest nel dopoguerra. Un processo, quello della ‘federazione’ degli stati e degli interessi europei, che ha conosciuto innumerevoli battute d’arresto, ma che ancora oggi è reso credibile proprio dalla pulsione al superamento dei nazionalismi deflagrati per l’ultima volta nel secondo conflitto mondiale. Un processo (e un racconto) cui i Balcani occidentali approdano solamente nei primi anni Duemila, non dobbiamo dimenticarlo.


Edi Rama rieletto lo scorso anno. Chi lo sostiene? Come è riuscito a consolidare la crescita dell’Albania? Ha davvero lavorato bene?

Domande difficili. Come prima cosa va detto che in Albania Edi Rama non gode della fama scintillante di cui dispone all’estero e tra gli albanesi della diaspora. Questo gli osservatori stranieri tendono a trascurarlo, soprattutto in Italia, dove negli ultimi anni la stampa ha largamente contribuito all’elaborazione del mito dello sviluppo albanese. Una narrazione giornalistica che non è politicamente innocua, perché la politica albanese utilizza (e talvolta sponsorizza direttamente) recensioni estere per legittimarsi (il 60% degli albanesi conosce e legge l’italiano, e qualora si concedesse il voto agli albanesi all’estero il consenso elettorale di Rama aumenterebbe ancora).



Al contempo, è un fatto che alle ultime elezioni il Partito Socialista di cui Rama è segretario è andato oltre le più rosee previsioni: avendo ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi il governo è monocolore, e non ha il problema del ricatto di forze minori in maggioranza (come LSI) che aveva nella scorsa legislatura. Dall’altra parte, il Partito Democratico (che Sali Berisha ha lasciato all’incolore Lulzim Basha) è in grave crisi. Buona parte dell’ascesa di Rama si spiega dunque anche con la mancanza di concorrenza politica, perché dopo il crollo del “sistema Berisha” nel 2013 la destra albanese è rimasta senza leader e organizzazione. Va poi detto che alle ultime elezioni, nel giugno scorso, ha votato solamente il 46% degli aventi diritto: il primo partito è dunque quello degli astenuti, perché, come dicevo sopra, verso il sistema politico in Albania vige il disincanto, indipendentemente da chi governa. Perché anche se di elezione in elezione migliora, il sistema di consenso rimane ampiamente clientelare.

Fatte tutte queste premesse, Rama è innegabilmente un leader capace e di grande carisma; ed è indubbio che nel corso dell’ultimo suo governo tante cose si siano ottenute: dalla candidatura all’Ue alla riforma universitaria, fino alla riforma della giustizia per ottenere un potere giudiziario finalmente indipendente dalla politica; una riforma votata due estati fa grazie alle pressioni internazionali, ma che è lungi dall’implementazione. In generale, in paesi così piccoli e in fase di accesso il cammino delle riforme è disegnato dalle delegazioni internazionali e dalla Commissione europea. Al contempo, il paradigma dello ‘sviluppo’ albanese non è sostanzialmente cambiato dall’era Berisha: apertura alle delocalizzazioni e attrazione degli investimenti esteri grazie al basso costo del lavoro e alla bassa tassazione, il tutto per riassorbire una disoccupazione che rimane alta. C’è stata senza dubbio una stretta su alcune disfunzioni croniche dello stato (segnali banali dal quotidiano: le bollette della luce ora le pagano tutti, a Tirana i parcheggi cominciano a essere a pagamento, si pensa all’inserimento di caselli autostradali…) ma la grande domanda degli albanesi a questo punto è: come faccio a pagare tutte queste nuove ‘tasse’, come faccio a rispettare le leggi e vivere nella “legalità europea” se il mio salario medio rimane di 200/300 euro al mese? In questo dilemma c’è il cortocircuito politico che potrebbe cominciare a intaccare lo strapotere del primo ministro artista (nonché l’‘europeismo’ degli albanesi).

Un argine alla creativa solitudine del premier sarebbe anche auspicabile, visto che ormai il paese si sta trasformando in una galleria d’arte all’aria aperta, a immagine e somiglianza del leader. Cosa che da vedere è inquietante, soprattutto conoscendo il recente passato del paese, e considerando l’area in cui si trova l’Albania e il peso dell’ ‘esempio’ turco (che oggi, di fatto, si pone come concorrente all’Ue). Sullo sfondo, gigante, rimane il problema della commistione tra potere politico e criminalità. Un dato su tutti: il ministro degli Interni del primo governo Rama (Saimir Tahiri) è risultato coinvolto in indagini avviate dalla Guardia di Finanza italiana sul narcotraffico tra i due paesi. Prima delle scorse elezioni Rama ha esiliato il suo imbarazzante ministro, ma di fatto poi in parlamento i socialisti hanno difeso il proprio affiliato con l’immunità parlamentare. Quindi anche l’immagine di Rama come campione della legalità, forgiatore di una statualità finalmente europea, è ampiamente propagandistica, e non corrisponde nemmeno alla sua storia politica, perché già negli anni in cui era sindaco di Tirana, Rama permise una speculazione edilizia di cui la caotica capitale, cresciuta senza criteri che non fossero dettati dal crudo denaro, è testimone vivente. Insomma, stiamo parlando innanzitutto di un personaggio complesso e controverso, anche se poi espone le sue opere alla biennale di Venezia e la Rai gli dedica servizi appiattiti sulla retorica del cambiamento arcobaleno, con la leggerezza e la compiacenza che in genere si dedica alla cronaca rosa, non a governanti in carica.

Esiste, immagino, una classe intellettuale albanese, case editrici, un sistema dell’informazione. La libertà di espressione intellettuale è reale? Ricordo di aver intervistato il poeta Visar Zhiti, ora ambasciatore albanese a Washington DC, che sotto il governo di Hoxha, 35 anni fa, ha patito la prigione per il solo fatto di essere poeta. Ora, ovviamente, la situazione è cambiata, ma, i giornali sono davvero liberi? I libri hanno un prezzo compatibile per tutti?

Se pensiamo al regime di Enver Hoxha è evidente che è cambiato tutto: pluralismo politico, libere elezioni, libertà di parola sono novità recenti, cui gli albanesi che hanno vissuto metà della vita ‘in un altro mondo’ devono ancora abituarsi. Se la situazione è completamente, positivamente, cambiata dai tempi del confino politico e delle brutalità di cui Zhiti e tanti altri testimoni conservano memoria preziosa (una memoria che in Albania fatica ancora a divenire pubblica, perché alla ricerca storica si preferisce il mito), nel paese la libertà d’espressione non è ancora garantita a tutto tondo. Il sistema mediatico nel suo complesso è sostanzialmente al servizio della politica – come detto, nella sua dimensione clanica e clientelare più che ideologica – e le voci veramente indipendenti rimangono poche, per il semplice fatto che la libertà ha un prezzo che chi vive nel paese non può sempre permettersi di pagare.

Dal punto di vista della classe intellettuale, pesa ancora il deserto lasciato dal regime comunista, che in mezzo secolo ha ucciso e perseguitato chiunque esercitasse una minima libertà di pensiero e di giudizio, uniformando il lessico e la didattica delle scuole e delle università (libri e dipartimenti universitari ne portano ancora i segni, visitarli per credere…). Esistono nuove case editrici, soprattutto dedite alla traduzione in albanese di volumi stranieri, ma il prezzo di un libro rimane proibitivo per la grande maggioranza delle famiglie albanesi, che non possono ancora concedersi beni che non siano di primissima necessità. La Fiera del Libro di Tirana che si tiene ogni autunno è molto partecipata e affollata, senza dubbio il trend è positivo. Ma il paese non è Tirana, nelle periferie la tivù rimane l’unica finestra sul mondo e i giovani albanesi che desiderano una formazione di qualità se ne vanno in Europa subito dopo il liceo, se non prima.

In Italia, lo sappiamo, da oltre vent’anni c’è una nutrita presenza di albanesi. Che rapporti ci sono tra gli albanesi d’Albania e quelli italiani?

Domanda molto interessante, alla quale non sono in grado di rispondere in maniera esaustiva. In generale, ho notato che la diaspora italiana (che come noto sta assumendo un suo profilo ‘storico’) mitizza volentieri il proprio paese d’origine, nel quale sa che non tornerà a vivere. Gli albanesi che in Albania ci vanno una volta all’anno, magari d’estate in vacanza, e commentano entusiasti i cambiamenti del loro paese d’origine, suscitano spesso e volentieri risposte infastidite negli albanesi d’Albania, che nel paese ci vivono e che di questo ‘miracolo economico’ sopportano le contraddizioni. Al contempo, gli albanesi integrati in Italia, e che magari nel frattempo sono divenuti cittadini italiani, continuano a fornire un appoggio per nuove migrazioni (il caso classico è quello delle matricole, che si fanno ospitare da parenti o amici per studiare in qualche ateneo italiano…).

Per collegarmi al discorso di prima, senza dubbio un premier con il carisma e i contatti internazionali di Edi Rama ha cambiato l’immagine della diaspora albanese, soprattutto in Italia. È come se agli stereotipi negativi degli anni Novanta si fossero sostituiti nuovi stereotipi positivi (che però rimangono stereotipi!). Rama tiene in grande considerazione gli albanesi all’estero, soprattutto quelli di successo, non è un caso che nel suo governo sia stato istituito un ministero apposito per le relazioni con la diaspora, che nel novembre del 2016 ha organizzato a Tirana il primo Summit degli albanesi nel mondo. Insomma questa relazione è senza dubbio cruciale da diversi punti di vista, bisognerebbe studiarla meglio.


Come si vive in Albania, oggi? Intendo: che tenore di vita c’è, che possibilità economiche e di sviluppo culturale? I giovani albanesi restano in Albania o emigrano?

Dipende. Con un passaporto europeo e uno stipendio in euro può essere un paradiso, tanti imprenditori stranieri si innamorano sinceramente del paese e non tornerebbero indietro. Ma per chi vive dentro l’economia nazionale può essere durissima. Il tenore di vita è in crescita, ma rimane basso e tale rimarrà se la politica non si pone il problema dei salari e del lavoro. Fuori Tirana per un giovane (e soprattutto per una giovane) le possibilità di sviluppo culturale rimangono estremamente basse. Istruzione e sanità pubbliche hanno standard non europei e rimangono due forti motivazioni alla migrazione, lungi dall’essersi arrestata (nel 2017 in Francia la prima comunità di asilanti è stata quella albanese, mentre i servizi sociali italiani continuano a denunciare il fenomeno dei minori non accompagnati abbandonati nel nostro paese).

In generale: si sta incomparabilmente meglio rispetto ai difficilissimi anni della caduta del regime, ma si sa che ci vorrà tanto tempo perché l’Albania possa offrire quello che offrono vicini paesi europei. ‘Meglio non aspettare e andare via subito’, è il ragionamento che fanno tanti giovani. A mio giudizio, la tragedia numero uno dell’Albania odierna è che continua a perdere le sue giovani forze. Da questo punto di vista poco è cambiato dagli anni Novanta, anche se ora la migrazione avviene in aereo.

Con quali Stati l’Albania ha il legame economico più forte? Che rapporti persistono con l’Italia?

Certamente con i paesi Ue, Italia in testa. Nei primi anni Novanta l’Italia è stata un paese importantissimo per l’Albania, non solo per la migrazione, ma per le missioni militari, gli aiuti, la penetrazione linguistica e culturale, gli scambi commerciali. In parte questo rimane valido ancora oggi (l’interscambio commerciale ci vede attori di prima importanza), ma va detto che nell’Albania appena uscita dal comunismo l’Italia godeva di un credito di fiducia e che non ha paragoni storici: un patrimonio su cui a mio giudizio non siamo stati assolutamente in grado di costruire una sana egemonia culturale, e che oggi, complice la concorrenza di altri paesi e l’apertura del paese verso altre aree, si sta progressivamente esaurendo.

Com’è noto, nella cerniera balcanica la partita geopolitica rimane aperta: a Tirana pesano come ovvio gli Stati Uniti, ma comincia ad assumere un ruolo rilevante anche la Cina (che in Albania in realtà investe dagli anni Settanta, ma quella è un’altra storia…) e ovviamente la Turchia. Per cinque secoli, fino al 1912, l’Albania è stata una provincia dell’Impero ottomano, il paese e la capitale sono a maggioranza musulmana: è evidente che la Turchia di Erdoğan anche in Albania fa egemonia culturale, specialmente dopo la svolta autoritaria. Di fianco al parlamento albanese, nel pieno centro di Tirana, soldi pubblici turchi stanno costruendo quella che diventerà la prima moschea di tutti i Balcani. Forse non è un caso che nel 2014 il primo viaggio europeo di papa Francesco fu proprio a Tirana. Senza scadere nelle dietrologie, è evidente che in un paese misto, dove convivono musulmani, cattolici e ortodossi (parimenti perseguitati durante l’ateismo di stato) anche l’identità religiosa assume una sua valenza politica. Un fattore su cui un paese come la Turchia gioca senza farne mistero la sua strategia di penetrazione.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/90606


--- Citazione ---ROMANIA: L’assist della Corte Costituzionale a Liviu Dragnea

Francesco Magno 2 giorni fa   

Nella giornata di mercoledì la Corte Costituzionale romena ha emesso una sentenza che, di fatto, obbliga il presidente della Repubblica Klaus Iohannis a firmare il decreto di rimozione di Laura Codruta Kovesi dal ruolo di procuratore capo della Divisione Nazionale Anticorruzione (DNA). La decisione dei giudici ha sorpreso l’opinione pubblica del paese: proteste si sono registrate a Bucarest e a Sibiu

I fatti

A febbraio il ministro della Giustizia Tudorel Toader aveva avviato la procedura di rimozione della Kovesi dalla carica di procuratore capo, a causa di presunti abusi da parte della DNA nello svolgimento delle sue indagini. Iohannis ha bloccato l’iter, rifiutando di firmare il decreto. Di fronte allo scontro istituzionale creatosi è intervenuta la Corte, che ha dato ragione al ministro. Le motivazioni della sentenza verranno pubblicate ufficialmente entro un mese, ma un comunicato stampa dei giudici costituzionali ha già reso note le ragioni della decisione. Secondo i togati, il presidente non avrebbe potuto ostacolare un atto che rispettava la formalità e la procedura legale. In altre parole, i giudici rimproverano a Iohannis il fatto di essersi opposto per ragioni di opportunità politica ad un’azione, quella intrapresa dal ministro, che rispettava tutte le formalità giuridiche. Quando le motivazioni della sentenza verranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, la decisione diventerà immediatamente esecutiva.

Iohannis all’angolo

Il verdetto della Corte ha scatenato la reazione dei settori dell’opinione pubblica romena più ostili al partito social-democratico (PSD). Non vi è dubbio che, nell’imperitura battaglia tra PSD e presidente della Repubblica, i giudici costituzionali hanno fornito un assist al bacio a Liviu Dragnea il quale, consapevole della situazione di vantaggio acquisita, ha evitato dichiarazioni incendiarie. Stessa linea seguita dall’altro grande vincitore della vicenda, Toader. Cosa farà Iohannis adesso? Il presidente è con le spalle al muro: opporsi alla sentenza dei giudici porterebbe ad una crisi istituzionale e ad uno scontro tra poteri dello Stato che la Romania attualmente non può permettersi. I tassi di crescita economica del paese sono tra i più elevati dell’UE, e una crisi di sistema potrebbe vanificare quanto di buono sin qui fatto. Anche da un punto di vista propagandistico, scagliarsi contro i giudici dopo averne difeso per anni l’indipendenza dalle ingerenze del potere politico, potrebbe essere controproducente. Difficilmente tra un mese vedremo la Kovesi seduta sul suo scranno. La DNA ha reagito alla sentenza con un comunicato ufficiale, in cui i procuratori si dichiarano: “preoccupati per l’attacco alla loro indipendenza, garanzia essenziale per un’efficace lotta alla corruzione”.

Futuro incerto

La decisione della Corte, volontariamente o no, ha posto i giudici sotto il pieno controllo del ministro della Giustizia. A Iohannis rimane comunque un’arma: resta a lui il potere di nomina del nuovo procuratore capo della DNA, sempre su proposta del ministro. Tuttavia, di fronte a un nuovo conflitto istituzionale tra ministro e presidente, bisogna chiedersi quanta incidenza avrà la sentenza dello scorso mercoledì, che ha chiaramente rafforzato la posizione del governo a scapito di quella di Iohannis. L’autorevole commentatore Cristian Tudor Popescu ha addirittura paragonato la posizione di Iohannis a quella del re Michele nel 1947; un capo di stato impossibilitato a svolgere delle sue funzioni a causa di un governo dispotico che, contando sul sostegno di una magistratura compiacente, ha imbrigliato l’intero sistema costituzionale. In questo marasma istituzionale, bisogna chiedersi quale sarà il ruolo della piazza: buona parte dell’opinione pubblica è apertamente a favore della Kovesi e dei suoi metodi duri di lotta alla corruzione, e la sua rimozione potrebbe scatenare nuove grosse ondate di proteste.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/90470


--- Citazione ---ALBANIA: Droga e intercettazioni, è scontro tra il governo Rama e l’opposizione

Riccardo Celeghini 3 giorni fa   

Due scandali legati al traffico di droga hanno investito i livelli più alti della politica albanese. Proprio mentre l’ex-ministro dell’Interno finisce agli arresti domiciliari, il suo successore è nell’occhio del ciclone per un caso giudiziario che riguarda il fratello. Le vicende, che coinvolgono due figure chiave del Partito socialista (PS), hanno scatenato l’attacco dell’opposizione, guidata dal Partito democratico (PD), che è scesa in piazza per chiedere le dimissioni del premier Edi Rama. Le dinamiche giudiziarie, politiche e mediatiche intorno ai due casi sono tutt’altro che limpide, ma quel che certo è che il riemergere di pericolosi intrecci tra la politica e la criminalità, nonché di un clima di tensione tra le forze politiche, getta un’ombra sul paese proprio nelle settimane decisive per ottenere il via libera all’apertura dei negoziati di adesione all’Unione europea.

Il caso Xhafaj

Nelle ultime settimane, l’attuale ministro dell’Interno, Fatmir Xhafaj, artefice di importanti riforme della giustizia, è finito al centro di uno scandalo. Ad inizio maggio, il Partito democratico ha reso pubblica una sentenza di un tribunale italiano risalente al 2002 in cui il fratello del ministro veniva condannato a 7 anni di carcere per “associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti”, un verdetto confermato dalla Corte suprema di cassazione nel 2012. Pochi giorni dopo, lo stesso PD ha diffuso delle intercettazioni, dalle quali sembrerebbe emergere che il fratello del ministro, rimasto in Albania per scampare alla condanna in Italia, sarebbe ancora impegnato in traffici illeciti e rapporti criminali. L’opposizione accusa inoltre il ministro di aver protetto il fratello, arrivando a far modificare una legge sull’estradizione per favorire la sua permanenza in Albania. Le accuse sono state rispedite al mittente dal ministro e dal Partito socialista: secondo il premier Rama, l’intercettazione sarebbe un falso costruito per danneggiare il governo e l’immagine esterna dell’Albania.

La campagna intrapresa dall’opposizione è però molto decisa. Il 24 maggio il leader del PD, Lulzim Basha, ha occupato il podio del parlamento per lanciare le sue invettive, prima che tutti i deputati dell’opposizione lasciassero l’aula, rifiutando di votare una mozione di sostegno all’adesione europea del paese. Pochi giorni dopo ha fatto seguito una manifestazione di piazza per chiedere le dimissioni di Xhafaj e di Rama. Si tratta di fatto della continuazione di quella strategia di muro contro muro portata avanti dal PD negli ultimi anni, sotto la regia del vecchio leader del partito, premier e presidente dell’Albania per buona parte degli anni ’90 e 2000, Sali Berisha.

La questione è particolarmente scottante e sono attesi nuovi colpi di scena. Non sono pochi gli analisti che parlano di una campagna creata ad arte per far saltare la poltrona del ministro, autore di riforme coraggiose. Dubbi riguardano inoltre la tempistica della campagna dell’opposizione: perché proprio ora vengono messi in giro audio e documenti su fatti di molti anni fa?

Il caso Tahiri

Il caso Xhafaj avviene negli stessi giorni in cui il suo predecessore al ministero, Saimir Tahiri, è agli arresti domiciliari per traffico di droga e corruzione. Tahiri è stato ministro dell’Interno del primo governo Rama dal 2013, protagonista di importanti riforme nel settore della polizia e dello smantellamento del villaggio di Lazarat, considerato il centro della produzione di cannabis diretta in tutta Europa. In quella fase, molti vedevano in lui un possibile successore di Rama. Dopo esser stato rimosso dall’incarico nel corso del rimpasto di governo avvenuto a marzo 2017, nel pieno della crisi politica tra maggioranza e opposizione che ha segnato i mesi prima del voto di giugno, è stato rieletto come deputato.

Il caso Tahiri è scoppiato lo scorso ottobre, a seguito dell’arresto in Italia di un gruppo criminale italo-albanese responsabile del traffico di circa 3.5 tonnellate di marijuana. Dalle conversazioni di due degli arrestati, membri della famiglia Habilaj, già nota alle cronache giudiziarie, emerge il nome di Tahiri, che avrebbe coperto gli illeciti e finanziato la sua campagna con i soldi del traffico della droga. I due, si è poi scoperto, sarebbero due lontani cugini del deputato socialista. In realtà, già durante il suo incarico di ministro Tahiri era finito più volte sotto accusa da parte dell’opposizione, soprattutto a causa dell’aumento delle coltivazioni di marijuana nel paese e di controverse vicende giudiziarie.

A seguito dell’indagine, la procura albanese ha richiesto l’arresto del deputato, una richiesta respinta in parlamento dalla maggioranza socialista. Da allora, però, gli attacchi dell’opposizione contro Tahiri sono continuati, fino alla decisione di inizio maggio, quando Tahiri ha annunciato le dimissioni da parlamentare per affrontare la giustizia senza alcuna immunità. Pochi giorni dopo, è stato arrestato e si trova ora ai domiciliari, in attesa del processo.

L’obiettivo europeo di Rama

L’intreccio di queste complesse vicende giudiziarie ha fortemente colpito il governo Rama, anche perché esplose nel momento meno opportuno. L’Albania è difatti in attesa della decisione del Consiglio europeo di giugno, quando gli Stati membri dovranno decidere se accettare o meno la richiesta della Commissione europea di aprire i negoziati di adesione. A tal fine, Rama è impegnato in un tour delle cancellerie europee per vincere le resistenze. In particolare l’Olanda, la Francia e la Germania hanno mostrato una certa reticenza ad appoggiare la richiesta della Commissione, facendo leva proprio sull’eccessivo peso nel paese di corruzione e criminalità organizzata. Senza l’unanimità tra gli Stati membri, l’apertura dei negoziati verrebbe nuovamente rimandata. La piaga della diffusa criminalità nel paese e l’aspra battaglia politica interna, dunque, rischiano di avere pesanti ripercussioni sul futuro europeo dell’Albania.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/90765


--- Citazione ---La desertificazione demografica dei Balcani
Vittorio Filippi 2 giorni fa   

“Sconvolgimento demografico in Europa” titola Le Monde diplomatique di giugno. Nel 1900 in Europa risiedeva un abitante della terra su quattro, oggi uno su dieci, nel 2050 saremo a malapena il 7% del mondo. Un’Europa che non cresce demograficamente dal 1993, pur con velocità differenti. C’è infatti un’Europa del nord-ovest vitale sia come saldo naturale che come saldo migratorio. C’è poi un’Europa tedesca e meridionale in cui il saldo naturale insufficiente è compensato da quello migratorio. C’è infine l’Europa centrale ed orientale (Russia esclusa) in cui giocano gli effetti perversi di denatalità ed emigrazioni.

I Balcani sono l’epicentro di questa desertificazione demografica (ed umana in senso antropologico) europea che già negli anni settanta Pierre Chaunu aveva predetto chiamandola “peste blanche”. Della ex Jugoslavia da questa “peste” si salva per ora solo la Slovenia, anche se le ultime elezioni, com’è noto, hanno premiato gli anti-immigrati. Per il resto è un disastro condensabile in quel 20% (cioè un quinto della popolazione!) di abitanti perduto dalla Bosnia negli ultimi trent’anni.

E’ vero che già nella Jugoslavia socialista l’emigrazione era una realtà rilevante ed il gastarbajter era sinonimo di emigrato. Poi le guerre degli anni novanta, le pulizie etniche e lo sfacelo dell’economia hanno accelerato denatalità ed esodi (i due fenomeni sono notoriamente connessi). Anche in Croazia, eccetto la capitale e la zona costiera baciata dal turismo, la desertificazione demografica corre ed investe aree come la Slavonia in cui la presenza di piccole imprese austriache, italiane ed ungheresi non riesce comunque a trattenere i giovani. Dall’indipendenza del 1991 la Croazia ha perso 627 mila abitanti, cioè il 13% della popolazione dell’epoca. Va messo in conto anche l’esodo forzato di 200 mila serbi durante l’operazione “Tempesta” del 1995, per cui – se le tendenze denatalistiche e migratorie dovessero continuare – il paese potrebbe veder sparire un quarto della sua popolazione in un decennio. E lo stesso avviene dall’altra parte del confine, in quella Posavina bosniaca in cui i salari da 200 euro ed una flessibilità che rende del tutto teorici i diritti lavorativi risultano ben poco attrattivi nei confronti della domanda di lavoro delle imprese tedesche o scandinave.

I flussi migratori balcanici seguono rotte tortuose, in cui – specie per le professioni sanitarie, edili, alberghiere e dei servizi – bosniaci, macedoni e serbi vanno a lavorare in Croazia ed in Slovenia mentre croati e sloveni prendono la strada per la vicina Germania. Naturalmente l’emorragia dei giovani qualificati non solo mette in difficoltà le economie locali, ma affossa ulteriormente la natalità.

Solo nell’inverno 2014-2015 centomila persone – cioè il 7% del paese – hanno lasciato il Kosovo dirigendosi verso la Vojvodina serba da cui entrare poi illegalmente in Ungheria e da qui in Germania; addirittura il 7 settembre dello scorso anno le autorità kosovare bloccarono la stazione delle corriere di Pristina per “eccesso” di emigranti in fuga. Gli stessi movimenti migratori investono anche il nord depresso del Montenegro ed il sud-est povero della Serbia; da questa repubblica 160 mila persone se ne sono andate tra i censimenti del 2002 e del 2011.

Per ora le uniche politiche demografiche messe in cantiere da Croazia e Serbia per combattere spopolamento ed invecchiamento si limitano ad accorati e patetici inviti pro-life antiabortisti, mentre le delocalizzazioni industriali presenti (spesso all’insegna del dumping sociale) non appaiono in grado di correggere il disastro demografico dei Balcani. Un quarto di secolo dopo gli esodi violenti degli anni novanta, un’altro esodo – silenzioso e non cruento – sembra voler mantenere i Balcani in un perenne destino di Europa sempre marginale, di eterna “altra Europa”.
--- Termina citazione ---

Navigazione

[0] Indice dei post

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente

Vai alla versione completa