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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
--- Citazione da: Vicus - Agosto 07, 2018, 02:22:55 am ---A quel che ne so le albanesi sono piuttosto cozze* quindi non abbiamo alcuna ragione di avere a che fare con loro.
* Sempre meglio le montenegrine comunque.
--- Termina citazione ---
Ma infatti non ho mica postato quell' articolo per invitare implicitamente chi legge a farsi piacere le albanesi...
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-la-finta-guerra-alla-mafia-189613
--- Citazione ---Serbia: la finta guerra alla mafia
Da quando i vertici dello stato hanno dichiarato di voler combattere la criminalità organizzata, in Serbia sono stati commessi 37 omicidi a sfondo mafioso e il numero di morti è in costante aumento
09/08/2018 - Stevan Dojčinović Belgrado
(Originariamente pubblicato dal portale investigativo Krik , il 2 agosto 2018)
Da quando, sul finire del 2016, lo stato ha dichiarato guerra alla mafia, gli scontri tra gruppi criminali sono diventati sempre più frequenti e brutali, comportando anche la morte di persone innocenti. La guerra alla mafia è stata dichiarata a seguito dell’omicidio di Aleksandar Stanković, soprannominato Sale Mutavi, leader di un gruppo criminale che – come è emerso dopo la sua morte – ha stretti legami con il potere politico.
I dati dimostrano che questa guerra finora non ha prodotto alcun risultato. I gruppi criminali non sono stati indeboliti, e gli scontri tra di essi hanno subito un’escalation. Da quando i vertici dello stato hanno dichiarato di voler combattere la criminalità organizzata, in Serbia sono stati commessi 37 omicidi a sfondo mafioso, e il numero di morti è in costante aumento. Solo nell’ultimo mese sono state uccise sei persone (il database degli omicidi di mafia è consultabile qui ). Gli omicidi commessi da gruppi criminali raramente vengono risolti.
Gli scontri tra clan mafiosi diventano sempre più brutali, e ad esserne vittime sono spesso le persone non direttamente coinvolte nell’attività criminale, come dimostra l'omicidio dell'avvocato Dragoslav Ognjanović , che ha difeso, tra gli altri, Luka Bojović, ex leader del clan di Zemun [attualmente detenuto in Spagna]. Negli ambienti criminali, l’omicidio di un avvocato non è considerato un delitto qualunque, bensì una trasgressione dei limiti. L’omicidio di Ognjanović è solo uno dei tanti casi di omicidi di avvocati verificatisi in Serbia negli ultimi anni. Oltre agli avvocati, anche i familiari dei criminali spesso rimangono vittime degli scontri tra clan rivali, come dimostra il caso di Teodora Kaćanski, fidanzata di un criminale di Novi Sad, uccisa qualche anno fa.
Capita che rimangano feriti e uccisi anche dei semplici passanti trovatisi per caso sul luogo dello scontro. In altre parole, nessuno è più al sicuro, chiunque può essere vittima di uno scontro tra gruppi criminali nel centro di Belgrado, o in qualsiasi altra città della Serbia. Non bisogna dimenticare che tra i criminali uccisi ci sono molti giovani, ragazzi addentratisi ingenuamente nel mondo della malavita. Non si tratta di “criminali qualsiasi”, bensì dei ragazzi del nostro vicinato. È chiaro quindi che la situazione è allarmante e che chiunque può rimanere vittima degli scontri tra gruppi mafiosi che già hanno portato via fin troppe vite: dal 2012 in Serbia sono state uccise 87 persone e in Montenegro 44.
La risposta dello stato a questa situazione consiste nel negare l’esistenza del problema. Mentre si stanno moltiplicando i morti nelle automobili date alle fiamme, davanti ai ristoranti, nei garage, davanti ai palazzi residenziali, il presidente serbo Aleksandar Vučić continua a manipolare i dati sulla criminalità organizzata, sforzandosi di convincere l’opinione pubblica che non c’è nessun motivo di preoccuparsi.
Così, ad esempio, cerca di smentire l’aumento di omicidi a sfondo mafioso citando statistiche sul numero complessivo degli omicidi commessi in Serbia (tra i quali ci sono molti omicidi in famiglia), oppure fa paragoni tra la situazione attuale e il periodo tra il 2001 e il 2002, dicendo che in quegli anni la situazione era peggiore. Il che è vero: erano anni in cui il clan di Zemun assassinava a sangue freddo i membri dei clan rivali, cercando di conquistare il sottobosco criminale serbo, e Vučić di certo ne sa qualcosa dato che all’epoca era uno dei più stretti collaboratori di Vojislav Šešelj, che intratteneva stretti rapporti con questo famigerato gruppo criminale. Il clan di Zemun è stato messo in ginocchio nel 2003 durante l’operazione “Sablja” (Sciabola), e quell’anno va considerato l’anno zero. Se volessimo paragonare l’attuale stato di cose con il periodo immediatamente successivo al 2003, dovremmo ammettere che oggi la situazione è peggiore. Quello che preoccupa è proprio il fatto che la situazione attuale sia molto simile a quella che ha caratterizzato il periodo precedente all’operazione “Sablja”.
Ci sono alcune questioni che impediscono allo stato di confrontarsi effettivamente con il fenomeno della criminalità organizzata.
Il primo problema è di carattere generale: in Serbia persiste la tendenza a piazzare nelle posizioni chiave delle istituzioni, comprese la polizia e la procura, persone che sono mere pedine al servizio del partito al governo, invece di affidare questi incarichi a professionisti. Si apprezza la lealtà piuttosto che la competenza. È chiaro che la lotta alla mafia non può essere vinta se affidata alle istituzioni guidate da persone incompetenti.
Un altro problema, ancora più preoccupante, è che lo stato, a quanto pare, appoggia almeno uno dei gruppi criminali coinvolti nello scontro attualmente in corso. Ci sono diverse prove che dimostrano che la leadership al potere intrattiene stretti legami con il gruppo del sopracitato Aleksandar Stanković. In parole povere, lo scontro principale è tra due clan montenegrini, il clan di Škaljari e il clan di Kavač, che hanno i loro alleati in Serbia. Il gruppo di Luka Bojović è vicino al clan di Škaljari, mentre il gruppo di Sale Mutavi è legato al clan di Kavač.
Uno dei membri del gruppo di Sale Mutavi è stato impegnato a garantire la sicurezza dei sostenitori di Vučić durante la sua cerimonia di insediamento da presidente della Repubblica, mentre il figlio di Vučić è stato visto al campionato di calcio in Russia in compagnia di alcuni membri dello stesso gruppo criminale . Questo gruppo gode del sostegno di uno dei più potenti uomini della gendarmeria serba Nenad Vučković Vučko , il quale intrattiene stretti rapporti con il segretario di stato presso il ministero dell’Interno Dijana Hrkalović.
I leader di questo gruppo criminale, che si cela dietro al paravento del gruppo di ultras “Janjičari”, riescono quasi sempre a evitare la condanna per i delitti commessi, omicidi compresi. Le accuse contro di loro cadono per motivi poco chiari, e anche quando vengono condannati non scontano nemmeno un giorno di carcere per via delle “cattive condizioni di salute”. È chiaro che godono di un trattamento privilegiato: possono vendere droga o commettere omicidi senza temere alcuna conseguenza.
In queste circostanze, è impossibile combattere la criminalità organizzata, perché lo stato e la mafia sono strettamente interconnessi.
Al fine di creare i presupposti per una vera lotta alla criminalità organizzata lo stato deve innanzitutto ammettere che il problema esiste. Invece di mascherare il reale stato delle cose e di nasconderlo dietro a statistiche e a paragoni insensati, lo stato deve dichiarare che la guerra tra gruppi criminali rappresenta una delle principali minacce per il paese che mette a repentaglio la sicurezza nazionale; deve ammettere la propria inefficacia nell’affrontare la situazione e promettere all’opinione pubblica una pronta risoluzione del problema.
È importante, inoltre, che vengano destituiti coloro che avrebbero dovuto occuparsi di questo problema, ma si sono dimostrati incapaci di farlo. Tanto per cominciare, bisognerebbe fare un repulisti tra le fila della polizia, compresa la destituzione del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, nonché la rimozione di una serie di funzionari, tra cui il segretario di stato Dijana Hrkalović, il gendarme Vučković, il direttore della polizia Vladimir Rebić e il capo della polizia di Belgrado Veselin Milić (Milić è stato nel frattempo destituito e assegnato ad un altro incarico). Al loro posto devono venire persone competenti e professionali, che non hanno nessun legame con i gruppi criminali né con i politici.
Inoltre, bisogna rompere tutti i legami tra lo stato e la criminalità organizzata, compreso il gruppo che protegge il presidente. Lo stato che collabora con i criminali non può al contempo combattere la mafia. Sarebbe opportuno destituire anche quei ministri che in passato hanno intrattenuto stretti rapporti con la criminalità organizzata, come il ministro della Salute Zlatibor Lončar e il ministro degli Esteri Ivica Dačić , per evitare che venga messa in discussione la credibilità dello stato nella lotta alla mafia.
Un altro passo da intraprendere è il miglioramento della cooperazione con le autorità di altri paesi, soprattutto con quelle dei paesi del sud-est Europa. In teoria, le forze di polizia dei paesi della regione collaborano tra di loro, ma in pratica questa collaborazione non funziona: non c’è alcuno scambio di informazioni a causa della reciproca sfiducia. E questo è dovuto proprio al fatto che i criminali mantengono stretti rapporti con i funzionari statali. Le autorità di un paese non trasmettono le informazioni ai loro colleghi di altri paesi perché temono che potrebbero finire nelle mani dei criminali. Tuttavia, non può esserci una vera lotta alla mafia senza cooperazione internazionale perché la criminalità non conosce frontiere. I gruppi criminali, compresi quelli attivi nel nostro paese, operano a livello internazionale: gli stupefacenti vengono contrabbandati dall’America Latina verso l’Europa; il denaro proveniente da attività illecite viene riciclato in vari paesi; un omicidio può essere organizzato in un paese ed eseguito in un altro.
Pertanto è indispensabile affidare gli incarichi chiave all’interno della polizia e della procura a persone “pulite” e integre, in grado di intraprendere una vera lotta contro la mafia, nella quale avranno bisogno di aiuto dei colleghi di altri paesi.
Ed è solo l’inizio.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-come-combattere-la-disoccupazione-nelle-aree-rurali-189575
--- Citazione ---Armenia: come combattere la disoccupazione nelle aree rurali
Secondo i dati dell’Agenzia nazionale del lavoro, in Armenia ci sono oltre 82mila di disoccupati. Il numero di disoccupati nelle aree rurali rappresenta il 18,3% del totale, segnando un incremento del 2,66% rispetto all’anno scorso
08/08/2018 - Armine Avetisyan Yerevan
Gayane Sargsyan, abitante del villaggio di Aygek, nella regione di Armavir, svolge ormai da dieci anni lavori stagionali nel settore dell’agricoltura. Il suo anno lavorativo dura dall’inizio della primavera fino alla metà dell’autunno.
“Non appena inizia la stagione dei raccolti, comincio a lavorare. Vengo impiegata nella raccolta di diversi tipi di colture: fagioli, fragole, albicocche… Il mio anno lavorativo inizia con la raccolta dei fagioli, poi raccolgo vari tipi di verdura e di frutta, compresi i frutti di bosco. Non è un lavoro facile, ma non ho nessuna alternativa. È molto difficile trovare lavoro nel villaggio. Se non avessi questi impieghi stagionali, sarei senza alcun reddito”, dice Gayane.
La sua giornata lavorativa dura otto ore, durante le quali ha diritto a una pausa. Guadagna 5000 dram (circa 9 euro) al giorno.
“Il mio datore di lavoro e io di solito raggiungiamo un accordo verbale, senza firmare alcun contratto di lavoro, e finora non ci sono mai stati problemi. Lavoro per la stessa persona ormai da anni. Mi ha sempre pagato regolarmente e io svolgo il mio lavoro in modo responsabile”, spiega Gayane, aggiungendo che col suo lavoro provvede al sostentamento dell’intera famiglia, composta da cinque persone.
“Nei villaggi è molto difficile trovare un altro lavoro, oltre a quello stagionale. Molti abitanti delle zone rurali, soprattutto gli uomini, vanno a lavorare all’estero. Le donne che restano nei villaggi non hanno molta scelta: possono stare a casa o trovare un lavoro stagionale, oppure eventualmente avviare un’attività in proprio, ma questo è molto difficile. Conosco davvero poche donne che ci sono riuscite (imprenditrici di successo)”, dice Gayane.
Stimolare lo spirito di iniziativa
La trentenne Hripsime Petrosyan vive nel villaggio di Krashen, nella regione di Shirak. Era considerata una ragazza molto timida fino a quando, tre anni fa, non aveva intrapreso un’attività che, oltre a permetterle di mantenersi, porta benefici anche agli altri abitanti del villaggio.
“Circa 6 anni fa avevo partecipato a un corso di formazione organizzato nel nostro villaggio dall’ong Women for Development, dopodiché avevo deciso di frequentare un altro corso, cominciando a uscire fuori dal villaggio e a impegnarmi in vari progetti. Pian piano le mie vedute sono cambiate, e di conseguenza anche la mia vita”, spiega Hripsime. Grazie alla partecipazione a diversi progetti, Hripsime ha ottenuto un contributo di 2 milioni di dram (circa 3600 euro) nell’ambito di un programma promosso dalla Fondazione KASA, decidendo di utilizzarlo per acquistare un trattore.
“Il programma prevedeva che i finanziamenti erogati venissero utilizzati a vantaggio dell’intera comunità. E io ho deciso di comprare un trattore. Molti abitanti del villaggio se ne sono rallegrati, perché prima facevano tutti i lavori agricoli a mano, e il trattore per loro era una vera salvezza. Anch’io ero felice per il fatto di essere riuscita a procurarmi un lavoro. A dire il vero, all’inizio non mi sentivo del tutto a mio agio alla guida del trattore, perché in Armenia, che è ancora un paese molto tradizionale, è opinione diffusa che il posto di una donna sia in cucina. Ma ora non riesco a immaginarmi senza il trattore”, dice Hripsime.
Il fatto che Hripsime abbia deciso di guidare il trattore non ha sorpreso molto gli abitanti del villaggio, perché già da tempo guidava un fuoristrada UAZ. “Quando ho cominciato a guidare la macchina di mio papà molti nel villaggio mi guardavano strano, perché era una cosa insolita. Ma poi pian piano si sono abituati e quando mi sono seduta al volante del trattore hanno solo sorriso”, ricorda Hripsime, che con il suo trattore fornisce servizi anche agli agricoltori dei villaggi circostanti.
Hripsime dice di essere contenta della sua vita attuale. Ha un lavoro che le garantisce un reddito fisso, cosa che prima poteva solo sognare.
“Con i soldi che avevo risparmiato ho finanziato la costruzione di un campo da gioco nel nostro villaggio. Lo sognavo fin da quando ero bambina. Anche i miei compaesani auspicavano la creazione di un campo da gioco. Adesso i bambini del nostro villaggio giocano in quel campo, e un domani ci giocherà anche mio figlio”, dice Hripsime, che non è ancora sposata, ma desidera creare una famiglia e avere un figlio.
Oltre a guidare il trattore, Hripsime è anche impegnata in diverse attività sociali. “Le donne del nostro villaggio sono molto passive. Cerco di coinvolgerle in varie attività, ma anche di portare altri progetti nel villaggio, che ci permetterebbero di creare nuovi posti di lavoro e di condurre una vita attiva. La vita nei villaggi è molto triste. Dobbiamo aggiungere un po’ di colore alle nostre vite, ma dobbiamo anche crearci nuove opportunità di lavoro”, dice Hripsime. Aggiunge inoltre che bisogna rompere lo stereotipo secondo cui le donne che vivono nei villaggi devono occuparsi solo della casa e della famiglia.
La disoccupazione come fattore di spinta all’emigrazione
La mancanza di opportunità di lavoro nelle aree rurali spinge all’emigrazione. Molti giovani uomini decidono di recarsi all’estero in cerca di lavoro. Non esistono dati certi sul numero di cittadini armeni che lavorano all’estero, ma durante certi periodi dell’anno alcune zone rurali dell’Armenia praticamente si svuotano di giovani uomini.
“Nel nostro villaggio non c’è nessun lavoro. Ogni anno, a gennaio, mio marito va all’estero a lavorare e torna a dicembre. Quindi, praticamente lo vedo un mese all’anno”, dice Rima, abitante di un villaggio situato nella regione di Gegharkunik.
Ad essere maggiormente colpite dal fenomeno dell’emigrazione sono le regioni di Shirak, Lori, Gegharkunik e Kotayk. “Ho sempre sognato che mi sarei svegliata una mattina, avrei portato i figli a scuola, dopodiché sarei andata al lavoro. E poi la sera, durante la cena, i figli ci avrebbero raccontato com’è andata a scuola e io avrei raccontato la mia giornata di lavoro. Ma quello è rimasto solo un sogno. Nella zona in cui si trova il nostro villaggio non c’è nemmeno una piccola fabbrica dove potrei trovare un impiego”, dice Rima.
Rima vorrebbe trasferirsi a Yerevan con la famiglia. Dice di averne già parlato con suo marito e lui è d’accordo.
“Invece di andare a lavorare a Mosca, mio marito lavorerà a Yerevan. Prima era molto difficile trovare un impiego nella capitale, bisognava corrompere qualcuno o avere buone conoscenze. Ma recentemente c’è stato il cambio di potere e penso che ora riusciremo a trovare lavoro”, dice Rima.
Interventi istituzionali
La disoccupazione è una delle principali preoccupazioni del governo armeno, che negli ultimi anni ha implementato una serie di interventi volti a combattere questo problema, tra cui il progetto “Dare sostegno all’agricoltura attraverso la promozione del lavoro stagionale”.
Inoltre, con l’appoggio di alcune organizzazioni internazionali, è stato avviato un programma volto a favorire lo sviluppo di piccole imprese in diverse regioni del paese, che dovrebbe contribuire ad arginare il fenomeno della disoccupazione.
Dopo il cambio di potere, avvenuto nella primavera 2018, la questione della disoccupazione è stata affrontata nel programma del nuovo governo, nel quale viene precisato: “La rivoluzione di velluto, popolare e nonviolenta, avvenuta in Armenia tra aprile e maggio 2018, ha portato alla ripresa degli investimenti e al miglioramento delle prospettive di crescita economica. Il governo intende investire nelle regioni e incoraggiare gli investimenti volti a creare nuovi posti di lavoro”.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-dopo-il-fuoco-si-abbattono-le-costruzioni-abusive
--- Citazione ---Grecia, dopo il fuoco si abbattono le costruzioni abusive
8 agosto 2018
Tremila e duecento costruzioni abusive verranno abbattute con una procedura d'emergenza solo nella regione dell'Attica. Il governo greco, guidato dalla sinistra radicale di Alexis Tsipras ha così annunciato le prime misure dopo i devastanti incendi dello scorso 23 luglio, che hanno provocato la morte di 91 persone e centinaia di feriti.
Alla base del provvedimento c'è il tentativo di mettere in sicurezza un territorio segnato da diffuso abusivismo, figlio di corruzione e burocrazia inefficiente, che è stato tollerato in Grecia per decenni, per essere poi spesso “legalizzato” da parte delle autorità attraverso sanatorie, che secondo i critici hanno assicurato consenso politico alle élite di governo a scapito della sicurezza.
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Nelle aree costiere, come a Mati, il centro più colpito dalle fiamme, molto spesso le costruzioni illegali hanno di fatto ostruito l'accesso al mare, nonostante gli espliciti divieti.
“Il caos dell'abusivismo non può più essere tollerato”, ha dichiarato Tsipras, il cui esecutivo è sotto il fuoco incrociato dell'opposizione, che accusa il governo di aver dato una risposta del tutto inadeguata alla situazione di emergenza.
Venerdì scorso Nikos Toskas, ministro per l'Ordine pubblico e la Protezione civile, ha rassegnato le dimissioni, pur rigettando le accuse rivolte nei suoi confronti. Nei giorni seguenti i capi di polizia e vigili del fuoco sono stati rimossi, mentre il direttore della protezione civile ha rassegnato le proprie dimissioni lunedì.
Lo stesso Tsipras ha però rispedito al mittente la responsabilità di quanto accaduto, ricordando che l'abusivismo ha profonde radici in Grecia, negli anni in cui l'attuale opposizione di centro-destra e di sinistra ha governato il paese.
Alle critiche verso le istituzioni elleniche, si sono unite anche quelle verso l'Unione europea e la Troika, che nei lunghi anni della crisi economica hanno imposto tagli draconiani alla spesa pubblica ad Atene. “Caserme dei pompieri, centri per la protezione civile, ambulanze ed ospedali sono a corto di personale”, ha scritto su “The Globe and Mail” Yannis Varoufakis, già ministro delle Finanze e leader del movimento DiEM25.
“L'UE non ha contribuito a combattere le fiamme – cosa che non rientra nei suoi compiti – e non è certo responsabile di settant'anni di abusi sull'ambiente da parte della società greca. Ma è fuor di dubbio che nel decennio appena trascorso la Troika, costituita da UE, FMI e Banca centrale europea, ha attivamente privato lo stato ellenico delle risorse e capacità necessarie in situazioni di emergenza”.
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/91673
--- Citazione ---ROMANIA: La protesta della diaspora termina in violenza
Francesco Magno 9 ore fa
Notte di tensione e violenza quella di ieri per le strade di Bucarest. La manifestazione anti-governativa dei romeni all’estero si è trasformata in un violentissimo scontro tra una parte dei manifestanti e la gendarmeria. Fonti giornalistiche riportano più di 400 feriti; l’atmosfera nel paese è estremamente tesa.
Le premesse
Il meeting della diaspora romena, già da tempo in programma, ha richiamato nella capitale oltre 100.000 persone. Sono circa 5 milioni i romeni che vivono all’estero, buona parte emigrati durante gli anni della transizione, tra il 1990 e il 2000. L’Italia è il paese che ne ospita il maggior numero (circa un milione), seguita a ruota dalla Spagna. Gli expat romeni sono tutt’altro che avulsi dalla vita politica del paese d’origine; tradizionalmente ostili al partito social-democratico (PSD), nel 2014 hanno di fatto sancito la vittoria alle presidenziali di Klaus Iohannis sul candidato socialista Victor Ponta, molto forte in Romania ma privo di qualsiasi presa sugli emigrati. Essi vedono nel PSD l’erede del vecchio partito comunista e, soprattutto, di quel Fronte di Salvezza Nazionale guidato da Ion Iliescu che ha governato il paese negli anni Novanta, proprio nel periodo più caldo dell’emigrazione. Da ciò nasce l’ostilità verso i socialisti, visti quasi come causa della loro partenza. Sfruttando le vacanze estive e il tradizionale ritorno a casa, i romeni della diaspora si son dati appuntamento a Bucarest, per protestare contro il governo. In un primo momento l’amministrazione della capitale, guidata dal sindaco Gabriela Firea, esponente di punta del PSD, non si era mostrata entusiasta all’idea della manifestazione di massa. Tuttavia, sull’onda della pressione mediatica, ha concesso l’autorizzazione allo svolgimento della dimostrazione. I primi scontri si sono registrati intorno alle 16.00, quando alcuni manifestanti hanno cercato di forzare le barricate che proteggevano Palatul Victoriei, la sede del governo. La situazione sembrava essersi rasserenata, almeno fino alle 23.00, quando il vaso di Pandora è stato scoperchiato.
Provocatori e gendarmeria
Intorno alle 23.00, in risposta alle provocazioni di uno sparuto gruppo di manifestanti (con ogni probabilità provocatori giunti col preciso scopo di causare disordini) la gendarmeria ha risposto lanciando gas lacrimogeni in maniera indiscriminata anche sui partecipanti pacifici, aumentando il caos. I facinorosi hanno approfittato del disordine per attaccare le forze dell’ordine: due gendarmi, tra cui una ragazza di vent’anni, sono stati privati delle pistole e malmenati, prima di essere salvati da un gruppo di manifestanti che ha fatto da scudo umano. Nel frattempo, il resto delle forze dell’ordine ha continuato ad usare i gas e a picchiare anche uomini innocenti, colpevoli soltanto di essersi trovati al posto sbagliato al momento sbagliato. Risultato: circa 400 feriti, alcuni anche gravi. Com’è stato possibile tutto questo?
Dipanare la matassa
Chi è anche solo minimamente avvezzo ai fatti romeni sa che l’infiltrazione di provocatori violenti all’interno di proteste pacifiche è tutto tranne che inusuale. Era già successo nel febbraio 2017, all’epoca delle prime grandi manifestazioni contro il governo PSD. Tuttavia, non è semplice identificare questi gruppi e i loro mandanti. I media anti-governativi ritengono che siano ambienti vicini al partito social-democratico a muovere questi huligani, al fine di macchiare le proteste davanti all’opinione pubblica etichettandole come violente. Di contro, risulta difficile credere che un governo già ampiamente mal visto sia sul piano interno che internazionale possa adottare una strategia talmente suicida, che ha come solo esito quello di infangare ancora di più l’esecutivo e il suo principale partito. Non è così peregrino immaginare che alti circoli dell’amministrazione pubblica e dei servizi, fortemente ostili al PSD, possano aver mosso le fila dei disordini proprio per screditare Liviu Dragnea e i suoi fedelissimi. Ogni ipotesi è plausibile, ma non ci sono elementi che possano avvalorare l’una o l’altra opzione. La terza variante, la più tristemente auspicabile, è la completa impreparazione e inadeguatezza delle forze dell’ordine e delle istituzioni competenti, del tutto incapaci di gestire situazioni di tale complessità. L’unico fatto concreto sono i feriti che da ieri notte popolano gli ospedali di Bucarest.
E adesso?
Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis, con un post su Facebook, ha immediatamente condannato i fatti di ieri, scagliandosi contro la gendarmeria, la cui azione è stata definita “non proporzionata alle azioni della maggior parte delle persone di Piata Victoriei”. Liviu Dragnea e il premier Viorica Dancila tacciono, guardinghi. La situazione è in evoluzione continua. Prevedere cosa accadrà adesso è impossibile. I fatti di ieri hanno ulteriormente dimostrato che la democrazia romena è in crisi. L’autunno si prospetta caldissimo; tra un anno si terranno le elezioni presidenziali, e il rischio di una svolta autoritaria non è così remoto.
--- Termina citazione ---
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