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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/94141
--- Citazione ---UNGHERIA: La criminalizzazione dei senzatetto targata Orban
Stefano Cacciotti 5 giorni fa
Lo scorso 15 ottobre è entrato in vigore in Ungheria un emendamento del codice penale che prevede sanzioni severe, tra cui anche l’arresto e l’incarcerazione, per chi dorme o staziona abitualmente nei luoghi pubblici. La decisione del governo guidato da Viktor Orbán si scaglia contro le condizioni di vita già precarie dei cittadini magiari che vivono in strada. Secondo stime recenti, in Ungheria i senzatetto sono circa 30.000, lo 0.3 % della popolazione totale. Un esercito di donne e uomini che si concentra per un terzo nella capitale del paese, Budapest. Nella città danubiana, come in molte altre capitali europee, i senzatetto sono infatti una presenza costante tra le vie del centro.
Le tappe dell’azione governativa contro la povertà
La scelta del partito del premier, FIDESZ, porta a compimento un processo di criminalizzazione della povertà che Orbán ha avviato nel 2011 con la legge sui reati minori, successivamente cancellata dalla Corte Costituzionale, che inseriva fra i reati quello di utilizzare lo spazio pubblico come rifugio. Questo processo ha poi raggiunto un’altra tappa fondamentale nel 2013, quando, grazie all’approvazione della nuova Costituzione, i governi locali hanno acquisito il potere di emanare ordinanze dirette contro i clochard.
Il governo ha giustificato le nuove sanzioni facendo appello ai 19.000 posti letto presenti negli alloggi messi a disposizione dallo stato. Secondo l’associazione A Város Mindenkié (AVM – La città è per tutti), che dal 2009 si batte per l’attuazione di politiche abitative inclusive e popolari in Ungheria, questi dati non hanno una fonte attendibile mentre il numero di posti letto disponibili è fermo da anni a 11.000 unità.
Nei giorni precedenti l’entrata in vigore dell’emendamento, la polizia ha distribuito dei volantini di avvertimento e pattugliato le zone dove si concentrano baracche e ripari di fortuna di molti senzatetto. I membri dell’associazione AVM denunciano che durante i mesi invernali le strutture di ospitalità statali presenti nella capitale non riescono ad accogliere tutte le richieste, andando in sovraffollamento. Il risultato di questa azione governativa costringerà quindi molti senzatetto ad abbandonare le zone centrali, marginalizzandoli ulteriormente senza risolvere i loro problemi.
Stato sociale vs stato caserma
Di fronte a questo dramma, che accomuna tutte le società postindustriali, sono principalmente tre le strade che le autorità politiche possono percorrere. La prima è quella di affrontare il problema in modo solidale e responsabile, riattivando lo stato sociale e mettendo in pratica politiche abitative che avviino al riutilizzo e alla riqualifica degli stabili e delle case abbandonate o sfitte. La seconda è quella di rimuovere artificiosamente il problema negando la sua gravità, ostinandosi a considerare le comunità di emarginati che si aggirano nelle strade delle nostre città come una normale e sopportabile conseguenza del sistema economico capitalista.
La terza via intensifica invece la repressione e il controllo sulle vite dei senzatetto, promuovendo leggi volte alla criminalizzazione della loro miseria. Declinare il problema in questi termini significa avvicinarsi al modello di “stato caserma” definito dal pedagogista Henry A. Giroux, dove gli emarginati diventano dei cittadini di serie B, un elemento di disturbo da tenere sotto controllo per evitare che venga minacciata la salute e l’ordine della società. In questo caso il cinismo, la negazione e la repressione vanno a sostituire i principi di solidarietà, dignità umana e opportunità di riscatto sociale, che sono il collante e il leitmotiv di qualsiasi società democratica che voglia sopravvivere a se stessa.
Purtroppo per i cittadini magiari, e in particolare per quelli che vivono in strada, l’Ungheria di Orbán sembra presentarsi come un interprete piuttosto fedele del modello elaborato da Giroux, in chiara contraddizione con i principi di cui abbiamo oggi disperato bisogno in Europa.
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/94289
--- Citazione ---Serbia e Kosovo, continua il circo della politica balcanica
Giorgio Fruscione 4 giorni fa
Da BELGRADO – Un altro giorno di protesta per i serbi del Kosovo delle città di Mitrovica Nord, Gracanica e Strpce. Sono in strada contro l’aumento dei dazi del 100% per le merci importate da Bosnia-Erzegovina e Serbia. Un aumento contrario agli accordi di libero scambio CEFTA fortemente voluto dal governo kosovaro presieduto da Ramush Haradinaj, in reazione all’opposizione di Belgrado all’ingresso di Pristina nell’INTERPOL.
Il tendone
Seguire gli eventi in corso tra i due paesi è piuttosto complicato, la situazione è in continua evoluzione e gli atteggiamenti delle autorità dei due schieramenti ricordano tanto due bambini che si fanno i dispetti e poi si lagnano. Se si pensa poi che sono due stati che, teoricamente, si sono impegnati per la pace e per il futuro dei propri popoli, vien da dire che come spettacolo ricorda molto il circo.
Funamboli, magie e pagliacci. Nel circo balcanico di Kosovo e Serbia c’è tutto. Persino la suspence del pubblico, anch’esso parte dello spettacolo, da ormai decenni diviso sulle opposte tribune ad assistere al ludico show in atto tra due paesi che prima si impegnano a Bruxelles con strette di mano e foto imbronciate “col nemico”, per poi tornare nel tendone circense della politica balcanica. Dove ci si sente al sicuro a fare tutto il contrario di quel che si è promesso a quell’Europa che ingenuamente investe per la stabilità della regione, e in cambio riceve false promesse.
Andiamo con ordine e ripercorriamo le ultime tappe. Prima, a inizio novembre, il ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic convince le Isole Comore a ritirare il riconoscimento del Kosovo (come avrebbero già fatto altri stati africani); successivamente, Pristina alza i dazi sulle importazioni serbe al 10%; poi, il 20 novembre scorso, la Serbia convince i due terzi dell’assemblea generale dell’INTERPOL a votare contro l’ingresso del Kosovo; che quindi aumenta i dazi al 100%, genera la protesta dei sindaci serbi del nord, che si dimettono, invocano la protesta di piazza, nonché quella dei rappresentanti serbi al parlamento di Pristina, dove vi si barricano in attesa di parlarne con il commissario europeo per l’allargamento Johannes Hanh, ricevuto in visita ufficiale lo scorso 3 dicembre.
Il commissario europeo ha sostanzialmente fatto la parte della maestra che chiede ai bambini che litigano di darsi la mano, rimproverando soprattutto Pristina per la tassazione delle importazioni. Così, quando la merce serba potrà tornare sul mercato kosovaro si potrà letteralmente dire “pace, carote e patate”.
Il funambolo e il pagliaccio
Ma lo spettacolo non si ferma alla diplomazia e alla politica, e coinvolge anche la criminalità.
All’alba del 23 novembre, infatti, le forze speciali kosovare hanno compiuto un’operazione di polizia a Mitrovica Nord, principale città serba del Kosovo. L’operazione ha portato all’arresto di quattro persone indagate per l’omicidio del leader serbo-kosovaro Oliver Ivanović, freddato a colpi di pistola lo scorso gennaio. A sfuggire all’arresto, invece, Milan Radoicic, personaggio noto e decisamente controverso.
Di Radoicic, il capo dell’ufficio per il Kosovo Marko Djuric – intemediario tra Belgrado e i serbi dell’ex provincia – aveva detto esser “un uomo d’affari”. Tuttavia, come emerge da recenti inchieste condotte dai giornalisti di KRIK, Milan Radoicic ha diversi precedenti penali in tutta la regione, che vanno dalla falsificazione di documenti al sequestro di persona, passando per l’appropriazione indebita.
Ma soprattutto, Radoicic è il vice-presidente della Lista Serba, partito di maggioranza dei serbi del Kosovo telecomandato da Belgrado e dal presidente serbo Aleksandar Vucic. Nonostante Vucic abbia smentito di aver mai incontrato Radoicic, esistono sue precedenti dichiarazioni in cui lo omaggiava pubblicamente “per essersi preso cura della vita dei bimbi serbi del Kosovo”. Esistono inoltre alcune fotografie in cui Vucic e Radoicic compaiono assieme. E di foto di Radoicic ne esistono anche in compagnia del premier kosovaro Haradinaj – che, ricordiamo, è sempre sotto mandato di arresto emesso da Belgrado. Non va poi dimenticato che la Lista Serba è il fondamentale alleato del governo di Pristina – quello stesso governo che ha imposto l’aumento dei dazi – con ben tre ministri, di cui uno è anche vice-premier.
Eppure, l’alleanza di governo era stata interrotta dopo il teatrino dell’arresto di Marko Djuric lo scorso marzo. Ma il ritiro dall’esecutivo non è mai stato ratificato, la maggioranza non è mai mancata e non si è mai tornati al voto. In altre parole, la Lista Serba del fuggitivo Radoicic continua a sostenere il primo ministro Haradinaj – che è a sua volta un fuggitivo, almeno stando a Belgrado.
Milan Radoicic è quindi uno di quei funamboli di questo circo balcanico. Fuggito in Serbia in quanto le forze di polizia dello stato governato anche dal suo partito “vorrebbero ammazzarlo”, sembra essere il personaggio chiave per risolvere il caso dell’omicidio di Ivanovic, e forse altre questioni kosovare. Il suo tentato arresto è uno dei motivi, insieme ai dazi, che ha portato alle dimissioni dei quattro sindaci del nord, tutti in quota Lista Serba.
D’altronde, era stato lo stesso Oliver Ivanovic – in un’intervista rilasciata a BIRN pochi mesi prima di essere ammazzato – a fare il nome di Radoicic sostenendo come questi fosse il vero padrone del buono e cattivo tempo nel nord del Kosovo. Nella stessa intervista, aggiungeva di temere per la propria sicurezza molto di più per colpa dei suoi connazionali serbi che per gli albanesi. Inoltre, va detto che Ivanovic si era precedentemente rifiutato di aderire alla Lista Serba, preferendo restare all’opposizione. Insomma, Oliver Ivanovic era un politico scomodo.
A quasi un anno dal suo omicidio, il caso è ancora lontano dall’essere chiuso. Ma anche a questo sembra averci pensato Vucic.
Dopo la fuga in Serbia, Radoicic è infatti stato ascoltato dalla polizia serba, ma non come indagato, e sarebbe stato sottoposto alla macchina della verità. Lo ha detto lo stesso Vucic in un’intervista esclusiva per l’emittente nazionale RTS: “Radoicic ha passato positivamente il test della macchina della verità. Non solo non ha ucciso Ivanovic, ma non ha nemmeno partecipato all’organizzazione dell’omicidio. E quindi ora che si fa? Eh, che si fa?”. Il tono quasi minaccioso con cui il presidente si è rivolto al giornalista sembra chiudere il caso così, senza necessità di indagare oltre.
Se non altro, è strano che un capo di stato difenda in modo così strenuo un fuggitivo indagato per omicido – che per altro aveva dichiarato di non conoscere – quasi come se stesse difendendo sé stesso, rendendo per un attimo quasi realistiche le teorie che sostengono che una caduta di Radoicic possa comportare anche una caduta dell’uomo forte di Belgrado.
Al momento, Radoicic si trova nella capitale serba insieme al presidente della Lista Serba e sindaco di Mitrovica Nord Milan Rakic. I due hanno avuto un incontro con Vucic sulla situazione in Kosovo, ma Radoicic ha seminato i giornalisti e ha fatto sapere di non voler rilasciare dichiarazioni.
Magia: “E ora che si fa?”
Al presidente serbo che chiede “e ora che si fa?” – che ricorda quei maghi che gridano “non c’è trucco, non c’è inganno” – bisognerebbe rispondere che la macchina della verità non si sostituisce ai processi e al regolare percorso della giustizia. Un indagato non può essere scagionato da un test di cui nessuno ha prova.
Infine, mentre succedeva tutto questo, lo scorso primo dicembre Vucic ha ricevuto a Venezia il “Leone d’oro per la pace”. Anche se il suo doppiogiochismo politico gli avrebbe dovuto portare piuttosto quello per il miglior attore protagonista, va detto che, tuttavia, il premio non ha nulla a che fare col rinomato festival del cinema di Venezia. E’ un riconoscimento che in molti ignorano, nonostante prima di lui l’abbia vinto il re dei tortellini Giovanni Rana e che, al posto del presidente, il premio sia stato ritirato dall’ambasciatore serbo in Italia. D’altronde, Vucic era impegnato a salvaguardare la pace nei Balcani, non poteva certo assentarsi.
Il circo balcanico continua, condito dagli stacchetti di walzer tra criminalità e politica, rigorosamente inter-etnici. Nelle attività criminali, infatti, il nazionalismo non ha posto, mentre le tensioni etniche sembrano sempre di più un’efficace arma di distrazione di massa.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Gli-ostacoli-al-contrasto-della-violenza-sulle-donne-191542
--- Citazione ---Gli ostacoli al contrasto della violenza sulle donne
In Europa gli stereotipi sessisti ostacolano la diffusione di efficaci strumenti di contrasto alla violenza di genere. Nel 2018 la ratifica della Convenzione di Istanbul è stata respinta da Bulgaria e Slovacchia. Ma anche dove la ratifica c'è stata, l'applicazione spesso procede a rilento
07/12/2018 - Gina Pavone
In Lituania una donna vittima di violenza maschile non saprebbe dove andare a stare, nel caso non avesse modo di sottrarsi autonomamente agli abusi subiti per esempio in famiglia. In questo paese non esistono infatti rifugi per l’accoglienza di donne vittime di violenza ed eventuali figli. Questo vuol dire che non vi è nessuno dei posti letto che sarebbero stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, che il paese ha firmato nel 2013 ma mai ratificato.
Nei paesi dell’Unione europea la Lituania è l’unico dove si registra la totale assenza di uno dei servizi considerati basilari per il contrasto alla violenza di genere: la disponibilità di luoghi protetti e accessibili gratuitamente, dove una donna che ha subito violenza può trovare riparo, protezione e assistenza per uscire dalla condizione di vittima. Tuttavia numerosi paesi sono ancora troppo vicini a questo vuoto: in Polonia manca il 99% dei posti letto attesi, nella Repubblica Ceca ne manca il 91%, in Bulgaria il 90%, mentre l’Italia è ferma all’89%.
È un momento, quello attuale, in cui le politiche di parità e antidiscriminazione, comprese le azioni per il contrasto alla violenza contro le donne, registrano attacchi anche notevoli e azioni organizzate di contrasto. Come quello che comincia a essere noto come “Agenda Europe ”, un piano transnazionale per la restaurazione di una visione conservatrice e religiosa della società, e per il contrasto di politiche antidiscriminatorie, tra cui viene inclusa la tanto paventata “ideologia gender”.
La situazione nell’est Europa
La parola “gender” è oggetto del contendere anche in molti paesi dell’Est Europa in cui si sta dibattendo la ratifica o meno della Convenzione di Istanbul. È proprio su questo termine che in Slovacchia la ratifica è stata rigettata e in Bulgaria la Convenzione è stata dichiarata incostituzionale. Anche in Lituania la ratifica risulta impantanata per il rifiuto di accettare l’articolo 3.c della Convenzione, in cui il genere viene definito come un insieme di regole, comportamenti, attività e attributi che una società considera accettabili per uomini e donne. Un passaggio centrale nella Convenzione, indispensabile per mostrare che alla base della violenza spesso agiscono lo squilibrio di potere e i rapporti di forza e sottomissione tra uomini e donne radicati nella società. In altre parole, per indicare che la violenza di genere è perpetrata contro le donne proprio in quanto tali (art. 3.d).
In totale i paesi che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul sono 33, con Croazia, Grecia, Islanda, Lussemburgo e Macedonia che si sono uniti nel 2018. Ma nonostante le ratifiche sottoscritte da molti paesi est europei, in quest’area dell’Unione ci sono stati anche molti contrasti. Campagne di opposizione alla Convenzione sono state organizzate in diversi paesi: in Croazia ci sono state manifestazioni in piazza, in Bulgaria e Slovacchia si è arrivati al rifiuto della ratifica, mentre in Lituania non si riesce a portare avanti la discussione parlamentare.
In generale nel paesi dell’est Europa si registra una scarsa conoscenza dei servizi rivolti alle donne vittime di violenza, come riporta un sondaggio 2016 di Eurobarometro sulla violenza di genere. Nel sondaggio tra le altre cose emerge che, considerando tutta l’Europa, un intervistato su cinque condivide punti di vista che tendono a colpevolizzare le vittime stesse - “se la sono cercata” è una narrazione che si sente spesso, persino in sede processuale - o ancora l’idea che quella sulla violenza maschile è una ricostruzione spesso esagerata se non inventata. Punti di vista largamente diffusi nell’Est Europa, sottolinea lo stesso sondaggio, così come è diffusa una certa ritrosia a denunciare gli episodi di violenza: nell’Europa orientale le persone sono generalmente propense a considerare la violenza domestica una questione privata che va gestita all’interno della famiglia; ad esempio si trova d’accordo con questa affermazione il 34% dei bulgari che hanno risposto al sondaggio e il 32% dei romeni.
E ancora in un recente sondaggio nella Repubblica Ceca emerge che il 58% degli intervistat i pensa che lo stupro possa essere in qualche modo giustificabile da atteggiamenti della vittima stessa, come per esempio camminare da sole di notte o vestire in un modo piuttosto che in un altro. Una mentalità che tende a scoraggiare le denunce: secondo le stime, sempre nella Repubblica Ceca solo tra il 5 e l’8% dei casi di violenza finisce per essere riportato alla polizia, e ancora meno sono poi le storie che da lì finiscono in tribunale.
Le dimensioni del problema
In realtà però non si conosce ancora la reale dimensione del problema, le statistiche ufficiali sulle donne vittime di violenza sono ancora molto lacunose, e se si guarda a ciò che arriva nei tribunali si entra nel vivo di una mancanza di informazioni che comprende molti aspetti, dalla grande disomogeneità nel modo in cui sono raccolti i dati - per esempio nel conteggio delle violenze stesse o dei femminicidi - fino all’assenza di statistiche complete su esposti, denunce, cause intentate ed effettive condanne. La notevole varietà dei dati esistenti lascia ipotizzare sia differenze metodologiche di raccolta ed elaborazione, sia marcate differenze di mentalità tra i vari paesi per quanto riguarda la concezione stessa di violenza di genere.
In generale in Europa sul fronte della fiducia delle donne vittime verso le istituzioni non va molto bene, se si pensa che solo una donna su 3 (il 33%) vittima di violenza grave da parte del partner si rivolge alla polizia o a strutture e organizzazioni dedicate. Percentuale che scende al 26% quando l’aggressore non è il proprio partner.
Anche nei paesi dove l’emancipazione femminile è generalmente considerata più avanzata, la violenza non è affatto scomparsa, anzi. Spesso ha solo cambiato modalità o situazioni in cui si presenta. Un rapporto europeo pubblicato nel 2007 su violenza di genere e indipendenza economica rileva una situazione molto articolata quando si mettono in relazione emancipazione femminile e violenza. L’avere un lavoro fa registrare una lieve diminuzione della violenza subita in casa, ma solo se non ci sono di mezzo dei figli. E se da un lato le donne con livelli avanzati di istruzione risultano un po’ più al riparo da violenza sessuale e violenza da parte del partner, questa condizione espone maggiormente a molestie sessuali. Da notare inoltre che anche il livello di indipendenza economica conta: quando le donne guadagnano di più del partner, si segnala un consistente aumento della violenza da parte del partner; all’opposto quando la donna guadagna meno, risulta più esposta ad abusi psicologici.
Molto resta ancora da fare, dunque. Non solo per agevolare firme e ratifiche della Convenzione di Istanbul, ma anche per garantire l’effettiva applicazione dei suoi contenuti. Non a caso la Convenzione stessa prevede un’attività di monitoraggio e valutazione ex post, che proprio quest’anno è stata condotta in Italia. Nel rapporto da poco pubblicato dall’associazione “Dire” si legge di numerosi ostacoli che le donne incontrano sia con le forze dell’ordine sia in ambito sanitario “dovuti ancora a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere”.
Il rapporto definisce irrisori i fondi stanziati per contrastare la violenza sulle donne: secondo un dato ripreso dalla Corte dei Conti italiana ai centri antiviolenza e alle case rifugio arriverebbero circa 6.000 € annui, una cifra largamente insufficiente per ottenere gli standard di protezione da garantire alle vittime, e tanto più per pianificare azioni di prevenzione e contrasto di più ampio respiro. Risorse di cui il rapporto segnala anche una costante diminuzione negli anni e una distribuzione “a macchia di leopardo”, che si traduce nella presenza di strutture quasi solo al centro nord e una grave carenza strutturale nel sud e nelle isole.
Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/94458
--- Citazione ---BALCANI: Le città più inquinate al mondo
Pietro Aleotti 1 giorno fa
Sarajevo è stata, il primo dicembre scorso, la città più inquinata del mondo, perlomeno per ciò che attiene alle emissioni delle famigerate polveri sottili. Peggio persino di Pechino e Lahore, che storicamente si contendono i primi posti di questa poco lusinghiera classifica. L’indice di qualità dell’aria calcolato per quel giorno è stato, infatti, di oltre 300 (su una scala di 500), con un valore di polveri sottili pari a 750 microgrammi, quasi il doppio rispetto a quello ammesso a Sarajevo, ma addirittura 15 volte superiore a quello consentito in una città come Milano. Un problema non nuovo per la capitale bosniaca, al punto che la sua risoluzione è stata posta tra i punti centrali del documento di programma appena sottoscritto dalla nuova maggioranza di governo del Cantone di Sarajevo.
Nei giorni immediatamente successivi, a Pristina, capitale del Kosovo, l’indice di qualità dell’aria ha raggiunto il valore-monstre di 456, similmente a quanto osservato a fine novembre in un’altra capitale, Skopje, in Macedonia.
Un problema generale nei Balcani
Se la questione non fosse seria e non riguardasse la salute delle persone, si potrebbe sottolineare, con quell’ironia tanto cara ai sarajevesi, che l’inquinamento è probabilmente l’unico elemento unificante dei Balcani, accomunando non solo le capitali, ma anche i centri minori, sede di diversi insediamenti industriali (realizzati perlopiù nel periodo jugoslavo e mai ammodernati) e delle centrali elettriche a carbone. Sono conosciutissimi per le emissioni di anidride solforosa gli impianti Nikola Tesla B e Kostolac, in Serbia, e quello di Ugljevik, in Bosnia Erzegovina: quest’ultimo considerato dall’Agenzia europea per l’ambiente il più inquinante di tutti (150 mila tonnellate l’anno di anidride solforosa).
E’ forse meno noto, invece, che secondo quanto emerso dagli studi condotti nell’ambito del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), sarebbero addirittura 27 le zone che, in Kosovo, hanno un livello di inquinamento ad alto rischio per la salute umana. E secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale per la Salute (OMS) del 2016, sono tre le città macedoni tra le prime dieci per emissioni di polveri sottili: Tetovo, Skopje e Bitola. Per non dire della centrale a carbone di Pljevlja, in Montenegro, regolarmente oltre i limiti di emissioni.
Le cause
Un refrain, quello dell’inquinamento atmosferico, che si presenta sempre uguale a se stesso alla vigilia di ogni inverno. Oltre al già ricordato ricorso al carbone per alimentare le centrali termoelettriche, le cause di questa situazione risiedono sia nell’impiego del carbone stesso o della nafta nel riscaldamento domestico, sia nella moltitudine di veicoli circolanti alimentati a gasolio, spessissimo risalenti agli anni ’80 e ’90.
Non un problema stagionale, dunque, ma un problema strutturale, come sottolineato da Khaldoun Sinno, vicecapo della delegazione UE in Bosnia Erzegovina, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Sarajevo all’indomani della diffusione dei dati choc sull’inquinamento cittadino.
Le conseguenze
Il problema è, dunque, vitale e percorre da nord a sud tutti i Balcani. Il World Health Statistics del 2018 ha sancito che sono proprio i paesi dell’est Europa a far registrare i tassi di mortalità legati all’emissione di polveri sottili più alti dell’intero continente. E i dati dell’OMS del 2016 sono in linea con questa conclusione: la situazione peggiore si ha in Bosnia Erzegovina dove si stima siano almeno 8000 le morti premature per cause legate all’inquinamento dell’aria, 231 ogni centomila abitanti. Appena meglio in Serbia dove si scende a 5400, ma è significativo, se rapportato alla popolazione, anche il dato di Macedonia e Kosovo, con 1300 e 800, rispettivamente.
Non solo un problema sociale, però, ma anche economico: stando a uno studio di Bank Watch, un’organizzazione no profit, i costi direttamente collegati all’inquinamento dell’aria ammonterebbero, in tutti i Balcani, a 8,5 miliardi di euro l’anno, tra morti premature e costi sanitari, il 13% del loro PIL totale.
Lontani dalla soluzione
Da parte della politica sembra esserci mancanza di consapevolezza o, peggio, indifferenza a trovare una soluzione. Prova ne è il fatto che in Bosnia si continua a investire sul carbone: dopo l’inaugurazione di una nuova centrale a carbone a Stanari nel 2016 (560 milioni di euro, il più grande investimento in campo energetico degli ultimi 30 anni), sono ora al via i lavori per l’espansione della centrale di Tuzla, in Bosnia.
Più in generale, in tutti i Balcani occidentali sono svariati i progetti di nuovi impianti termoelettrici allo studio, con la sola eccezione dell’Albania. Nel frattempo si gestisce alla bene e meglio l’emergenza mettendo in atto misure palliative, dal blocco del traffico, alle mascherine. Davvero troppo poco.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Il-dilemma-del-femminismo-nella-Nuova-Armenia-191639
--- Citazione ---Il dilemma del femminismo nella "Nuova Armenia"
aree Armenia ita
Mentre sempre più donne scelgono di entrare in politica nella "Nuova Armenia" rivoluzionaria, il movimento femminista è di fronte a un dilemma: trasformare il sistema patriarcale dall'interno o dall'esterno?
13/12/2018 - Knar Khudoyan
(Pubblicato originariamente da OC Media il 29 novembre 2018)
"Sono stati i metodi della Rivoluzione di velluto, cioè la de-centralizzazione, l'orizzontalità, che hanno permesso alle donne di partecipare. Nessuno ha dovuto spingere le donne a fare politica: è successo naturalmente. Perché la strada, se non era anarchica, non era nemmeno gerarchica". Così l'attivista femminista Maria Karapetyan, fra gli organizzatori del movimento "Reject Serzh", che ha rovesciato decenni di dominio del Partito Repubblicano nel paese, riassume il ruolo delle donne nella rivoluzione.
Mentre molte donne e ragazze hanno ancora la pelle d'oca quando sentono il famoso discorso "Viva le sorelle", pronunciato da Karapetyan in piazza della Repubblica a Yerevan il 18 aprile scorso, l'attivista ha preso la decisione – che definisce dura – di unirsi al Partito del "Contratto civile" e candidarsi per il parlamento.
Karapetyan non è l'unica donna che pensa che la Rivoluzione di velluto debba continuare nelle istituzioni statali e nei governi locali. Le prime elezioni post-rivoluzionarie nel paese, le elezioni per il sindaco e il consiglio comunale del 23 settembre a Yerevan, hanno visto la partecipazione di alcune attiviste che hanno aderito all'alleanza "Il mio passo", sostenuta dal primo ministro Nikol Pashinyan.
Con uno schiacciante 81%, "Il mio passo" ha ottenuto 57 dei 65 seggi in ballo, fra cui 15 donne.
Elezioni parlamentari
Il premier uscente armeno Nikol Pashinyan, ha ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni parlamentari tenutesi domenica 9 dicembre in Armenia.
L'alleanza da lui guidata, 'Il mio passo', che include il suo partito 'Contratto civile', ha ottenuto il 70,4% dei voti.
Addirittura fuori dal parlamento l'ex partito di governo, il Partito repubblicano dell'Armenia, che non è riuscito a superare il 5%, quota di sbarramento, fermandosi al 4,7% dei voti. Uniche forze all'opposizione parlamentare saranno 'Armenia prospera' e 'Rinascimento armeno', che hanno raccolto rispettivamente l'8,27% e il 6,37% delle preferenze.
A seguito del voto Nikol Pashinyan ha scritto sulla propria pagina Facebook: "Cittadini forti, forti, forti. Vi amo e sono fiero di voi e mi inchino a tutti voi!".
Dal canto suo, Eduard Sharmazanov, portavoce del Partito Repubblicano, all'uscita dei risultati preliminari che dichiarato che il 9 dicembre è un "Giorno di resurrezione per il partito che non è affatto 'finito' come dicono alcuni ma che ha 60.000 sostenitori fedeli".
Il 10 ottobre, Diana Gasparyan ha vinto le elezioni a Vagharshapat (Ejmiatsin), una città appena ad ovest di Yerevan, diventando la prima donna sindaco dell'Armenia. Le elezioni parlamentari previste per dicembre [tenutesi lo scorso 9 dicembre, ndr] vedranno ancora più donne candidate.
Ciò porterà ad una maggiore presenza femminile negli organi decisionali del paese, ma alcuni si chiedono se ciò porterà automaticamente ad una maggiore protezione dei diritti delle donne.
Una fascia del femminismo armeno considera infatti in contraddizione con l'obiettivo della liberazione delle donne lavorare con lo stato, protettore della proprietà privata e della famiglia (la proprietà appartiene agli uomini e la famiglia è il principale luogo di sfruttamento delle donne).
Sostengono invece che la lotta per le donne come "classe" deve passare attraverso l'empowerment delle comunità femminili, creando modelli cooperativi per le relazioni sociali, e non attraverso individuali storie di successo di ragazze che sono riuscite a rompere il soffitto di vetro.
Il patriarcato gentile
Il nuovo primo ministro Nikol Pashinyan ha espresso le sue opinioni sull'uguaglianza di genere. Sottolineando il ruolo delle donne nel suo discorso dell'8 maggio, il giorno del suo insediamento, Pashinyan ha affermato che "la partecipazione massiccia delle donne è un fattore che ci ha permesso di chiamare ciò che è accaduto una rivoluzione di 'Amore e solidarietà'".
Tuttavia, ha poi aggiunto qualcosa che ha fatto trasalire le femministe in tutto il paese. "La rivoluzione ha dimostrato che la partecipazione attiva delle donne [in politica] è compatibile con la nostra identità nazionale, la nostra percezione nazionale della famiglia".
La maggior parte delle femministe è conscia che il nuovo governo non è molto informato sui movimenti delle donne. Molte sono state comprensive, almeno per ora, nella convinzione che sia prioritario combattere il rischio di controrivoluzione.
"In epoca pre-rivoluzionaria, abbiamo dovuto infrangere la legge per partecipare, ad esempio, ad una discussione sulla legge sulla violenza domestica al ministero della Giustizia", ricorda Lara Aharonyan, co-fondatrice del Women's Resource Center di Erevan. "Sì, i membri del nuovo governo sono prodotti della stessa società patriarcale. Sono anche persone dalla mentalità patriarcale. La differenza è che sono pronti ad ascoltare, a educare se stessi, a collaborare con la società civile, a differenza dei loro predecessori".
Aharonyan pensa che, per ottenere la partecipazione delle donne, lo stato deve prima fare alcuni passi avanti. Uno di questi, afferma, sarebbe aumentare le quote per alleviare lo squilibrio di genere in parlamento. Nel parlamento sciolto il primo novembre solo il 18% dei deputati erano donne.
"Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento", sostiene Aharonyan.
Dall'attivismo alla politica di partito
Membro di lunga data del partito della Federazione Rivoluzionaria Armena, Sevan Petrosyan concorda sul fatto che il sistema dei partiti è un compromesso per le femministe convinte.
"Come raccontava Simone de Beauvoir in quanto donna nel Partito comunista francese, doveva combattere su due fronti; all'interno del partito e al di fuori di esso. Questa è l'unica soluzione. Non mi illudevo che questa rivoluzione avrebbe portato le donne in politica a tutta forza. Non era la priorità. A differenza di molte altre femministe, non sono rimasta delusa dal fatto che Pashinyan abbia nominato solo due ministri donne, perché non nutrivo grandi aspettative".
"Il mio problema era che questo non era un movimento dei poveri. Era un movimento per liberarsi del Partito Repubblicano, della corruzione, della mancanza di trasparenza, e basta. Sì, lo stato si è fatto più vicino a me, posso scrivere una breve domanda al mio amico, che ora è vice ministro. Ma non si può dire lo stesso per un abitante di un villaggio della provincia", dice Sevan Petrosyan.
Molto prima della Rivoluzione di velluto, un'alleata chiave di Pashinyan, Lena Nazaryan, fu una delle prime donne a lasciare l'attivismo per la politica di partito. Attivista ambientalista e giornalista critica per molti anni, Nazaryan è fra i fondatori del Partito del "Contratto civile" di Pashinyan nel 2015.
Nazaryan è ora alla guida della fazione Way Out in parlamento. Modello per molte giovani donne, è spesso tormentata da adolescenti in cerca di selfie.
"Non mi piace quando le donne vengono presentate come deboli, come se dovessero essere spinte ad essere attive. No, le donne dovrebbero essere presenti perché sono necessarie. E quando lo sono, dovrebbero provarlo nel loro lavoro", dice Nazaryan.
"Personalmente preferisco collaborare con le donne, se ne ho la possibilità, perché giocano meglio in squadra, sono interessate al risultato, non a gareggiare".
Trasformare le relazioni sociali, non le singole donne
Le attiviste che si rifiutano di scendere a compromessi con lo stato lo fanno senza condannare le donne che lo fanno.
"Non dico che le donne non dovrebbero impegnarsi in politica, ma la loro partecipazione non dovrebbe essere fine a se stessa", dice Anna Shahnazaryan.
"Se una donna entra in parlamento, dovrebbe mettere in discussione il modo in cui le decisioni vengono prese lì. Se una donna entra in un'istituzione per smantellarla dall'interno, per renderla più democratica e centrata sulla persona, è una cosa che incoraggio".
"Personalmente non mi interessa se il sindaco di Ejmiatsin è una donna se non rappresenta il suo genere [...] Il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali è una donna, Mane Tandilyan, ma per me è un problema che lei non parli del lavoro domestico non retribuito delle donne".
Shahnazaryan e la sua collega Arpine Galfayan sono coinvolte nell'attivismo su molti fronti, tra cui la creazione di movimenti di resistenza collettiva nelle comunità per combattere progetti minerari come quello di Teghut, Amulsar.
Galfayan mette in guardia dalla "trappola" di essere usate come pedine in politica.
"Le donne vengono utilizzate per riempire le quote, per dare la falsa speranza che stia andando meglio", dice.
"Credo che le istituzioni della democrazia rappresentativa abbiano la logica di mantenere il pieno controllo e non condividere il potere con gli altri", sostiene Galfayan.
Dice che, a livello globale, il sistema "promuove gli interessi delle élite aziendali più ricche e più inumane. In definitiva è gerarchico; gli uomini (specialmente gli uomini eterosessuali benestanti) hanno da sempre posizioni privilegiate in queste gerarchie, e quindi le donne faticano a diventare parte del 'club'. Infine, anche quelle poche donne che raggiungono il vertice devono comunque fare gli interessi di questo sistema gerarchico e ingiusto".
"Preferisco lavorare per smantellare questo sistema piuttosto che renderlo più accattivante. Preferisco sostenere e rafforzare sistemi che ritengo equi e liberatori", dice Galfayan.
Shahnazaryan sostiene che il punto sia se una donna è consapevole della subordinazione che affronta a causa del suo genere.
"Una donna non deve essere in parlamento per fare politica. Se una casalinga protegge la sua vicina, ostacolando e prevenendo la violenza domestica, sta facendo un'azione politica".
Smantellare il patriarcato a tutti i livelli
Tuttavia, la maggior parte delle femministe in Armenia concorda sul fatto che non vi è una dicotomia fra "riformismo e femminismo radicale" e che il cambiamento è sempre arrivato da una combinazione delle due forze. Ad esempio, nel movimento delle suffragette nell'Inghilterra del primo Ottocento secolo, i movimenti militanti delle donne hanno lavorato in parallelo con i gruppi femministi conservatori.
Poche donne politicamente attive in Armenia negherebbero che la rivoluzione debba continuare, e che il famoso slogan femminista "il personale è politico" sia ancora valido. Alcune si concentrano sul "personale" della frase; lavorare sodo su di sé per vincere in una battaglia impari con uomini privilegiati, mentre altre lottano per trasformare le relazioni sociali esistenti.
--- Termina citazione ---
--- Citazione ---"Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento", sostiene Aharonyan.
--- Termina citazione ---
Fanno gli stessi identici discorsi delle femmine occidentali.
Questo per chi ancora credesse che al di fuori dell'Occidente le donne... "son diverse".
Sì, come no.
Tornando nel merito, sarebbe interessante conoscere la percentuale delle armene interessate e impegnate nella politica.
Molto probabilmente la suddetta percentuale somiglierà moltissimo a quella di casa nostra e di tanti altri paesi, occidentali e non...
https://questionemaschile.forumfree.it/?t=8366653
--- Citazione ---seiper1
view post Inviato il 21/5/2006, 11:19
Ok. Andiamo per ordine.
Tu dici che la percentuale di donne in politica attiva dipende da un complotto (più o meno oscuro) della parte maschile (segreterie di partito, classi dirigenti etc.) per garantirsene il monopolio.
Ma prima di fare un'affermazione così banale, che è quella che sentiamo tutti i giorni dai media, sapresti dirmi quello che non viene mai detto?
Ossia, quale sia la percentuale di donne che frequentano la politica e partecipano attivamente nelle sezioni, nelle segreterie, sul territorio, nelle circoscrizioni, nei comuni e in tutti quei luoghi dove la politica si svolge?
Io, pur senza avere dati certi (che nessuno dice esplicitamente, perché, questa sì, è una realtà occultata) so che in molti partiti (molti, non tutti) la semplice percentuale delle iscritte non va oltre il 15/20 percento, ad essere generosi. E questo dato ancora non dice quanta parte di queste abbia un impegno effettivo o possegga solo una semplice tessera. A questo riguardo, sarebbe utile ed importante se qualcuno di noi (io non ho tempo sufficiente per farlo) svolgesse una piccola ricerca sul web per raccogliere questi dati sin dove possibile. Sono convinto che ne uscirebbe un quadro significativo.
Poi, chiunque conosca minimamente la politica sa perfettamente che la carriera e la sua ascesa sono garantite solamente dal seguito personale dell’attivista, dal numero di tessere che riesce a far sottoscrivere e dal suo bacino di consenso.
Se una segreteria di partito dovesse sostituire a questi criteri per formare le candidature quelli del sesso di appartenenza, pregiudicherebbe il rapporto effettivo con l’elettorato perdendo voti e rappresentanza. E’ quello che sta succedendo ai DS che, privilegiando in astratto la componente femminile, ad ogni tornata perdono quote di elettorato.
Secondo: tu dici che un ulteriore impedimento alle donne sarebbe dato dal dover crescere i figli.
Intanto, io non riesco più a capire come si faccia seriamente ad invocare, da un lato, la maternità come valore aggiunto della donna e, dall’altro, ad additarla come fattore di impedimento al suo sviluppo sociale. Da questa contraddizione, secondo me, si stanno producendo quei guasti psicologici individuali, che hanno il loro sintomo più drammatico nelle ormai numerose madri che sopprimono i figli a calci nella schiena o infilandoli nella lavatrice. Neanche questo aspetto viene mai considerato dai media, che preferiscono parlare, invece, di astratte depressioni post-partuum…….
Ma, a parte questo (che meriterebbe un approfondimento a parte), secondo te e molti altri, data questa evidenza biologica bisognerebbe alterare le regole del gioco democratico e della rappresentanza, nonché dei criteri meritocratici di selezione, solo per consentire alle donne una maggiore partecipazione sine titulo alla vita politica. E’ un punto di vista; sicuramente non il mio che lo considero una pericolosa falsificazione della rappresentanza politica.
Ma ci si dimentica di osservare, soprattutto, che questa eventualità poggia, in ultima analisi, sul sacrificio di altrettanti uomini che si guadagnano la carriera sul campo e non sull’appartenenza di genere e che si vedrebbero scavalcati da altrettante donne con la semplice giustificazione che “sono donne”.
Le chiamano esplicitamente “discriminazioni positive”, quindi ben comprendendo l’intimo aspetto discriminatorio che comportano, che sarebbe reso accettabile, chissà perché, dall’aggettivo positive. Naturalmente la positività della cosa non è estesa a tutti i cittadini, unico fattore che la renderebbe tollerabile, ma solo ad una parte di essi: quella femminile.
Io credo che qualunque discriminazione, anche a mente del dettato Costituzionale che tu stesso hai ricordato, non abbia mai alcun aspetto positivo, ma sia solo la legittimazione di un nuovo sistema di privilegi di una parte a danno dell’altra.
Se per te questo è progresso e civiltà siamo ben lontani dal comprenderci.
--- Termina citazione ---
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