Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78091 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #165 il: Gennaio 02, 2019, 20:31:19 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-quel-cazzuto-trio-del-Feral-191825

Citazione
Croazia: quel cazzuto trio del Feral

Due giornalisti di punta e un famoso caricaturista. Sono tra i fondatori dello storico settimanale satirico croato Feral Tribune. In questa intervista, il trio commenta senza peli sulla lingua la situazione in Croazia, lo stato di salute dei media e altro ancora

31/12/2018 -  Giovanni Vale,    Srđan Sandić Zagabria
I giornalisti Boris Dežulović e Viktor Ivančić e il caricaturista Alem Ćurin sono tra i fondatori della celebre rivista satirica Feral Tribune. Li abbiamo incontrati a Pola, al Festival del libro, per una chiacchierata sulla libertà di espressione e la politica in Croazia.

Il Festival del libro di Pola è dedicato quest’anno al lavoro di Predrag Lucić, vostro collega e amico, recentemente scomparso. Com’è iniziata l’avventura del Feral Tribune?

Boris: Questa è una domanda per Viktor. È lui il colpevole di tutto.

Viktor: (ride) Ho cominciato a collaborare con Predrag ancora prima che il Feral nascesse all’interno di Nedjeljna Dalmacija [un settimanale legato a Slobodna Dalmacija, oggi scomparso, ndr]. Lui lavorava come giovane studente (aveva vent’anni), mentre io lavoravo per una rivista studentesca presso la mia facoltà. Abbiamo iniziato a scrivere assieme al Feral per un po’ di tempo, poi, nel 1987, sono dovuto partire per il servizio di leva obbligatoria. Boro [Boris Dežulović, ndr] gestiva intanto una fenomenale rubrica satirica all’interno della rivista Omladiska Iskra [una rivista giovanile locale, ndr] e così ci siamo in qualche modo incrociati. Ci siamo come riconosciuti, c’era la stessa poetica e lo stesso spirito. E così, finché io ero nell’esercito loro hanno continuato a lavorare assieme e io li ho raggiunti non appena ho finito la leva. Dal Nedjeljna siamo passati a Slobodna Dalmacija, ma l’HDZ era già attivo e nel 1993, quando l’HDZ si è preso anche Slobodna Dalmacija, ce ne siamo andati e abbiamo creato il Feral Tribune, con un gruppo più ampio: c’era Alem e un paio di giornalisti provenienti da altre redazioni. Alem era presente dal primo numero.

Qual era l’accordo iniziale di collaborazione? Potevi fare quello che volevi in quanto alle vignette?

Alem: Loro mi piacevano molto, ma erano più giovani di me, per cui io non li ascoltavo, mentre loro ascoltavano me (ride). Non mi hanno mai censurato, in generale avevo carta bianca.

Il fatto che il Feral sia nato a Spalato significa qualcosa? C’è chi dice che solo lì poteva nascere una cosa del genere..., è vero?

Boris: No, no, si tratta di un mito. A Spalato siamo stati un incidente.

Viktor: È come se fossimo atterrati da Marte.

Boris: Davvero, è successo per caso.

Alem: E solo a Spalato hanno bruciato le copie del Feral!

Boris: Posso capire che la gente abbia creduto a questa storia della Spalato ribelle, è una storia che seduce, ma non è la verità. Noi non siamo nati da quella tradizione, ma al contrario dalla ribellione contro la tradizione di Spalato. Il Feral non è mai stato tanto odiato ed ignorato come a Spalato. Conosco per nome gli spalatini a cui piaceva il Feral. Non esagero. Era una setta, non era Spalato.

Viktor: Quando uscivo per strada per andare alla redazione a Bačvice, passavano meno di dieci minuti prima che qualcuno mi dicesse “vaffanculo”. E ricevevo due o tre attacchi del genere ogni giorno.

Boris: Detto questo, quello non era niente rispetto a quanto succede oggi.

Oggi è peggio?

Viktor: È una cosa dettata dall’alto. Ci sono stati degli anni tranquilli.

Boris: Gli anni 1998, 1999, 2000, 2001… sono stati anni comodi all’opposizione. Diciamo fino a che è arrivato Sanader, poi è iniziato il casino. Oggi, è peggio che mai.

Si può dire davvero che c’era più libertà di espressione nella Croazia degli anni Novanta che oggi?

Boris: La risposta breve sarebbe “sì”. Perché allora c’erano dei media e quindi poteva esserci una “libertà dei media”. Oggi non ci sono più media veri e propri. Tuttavia, quando si dice che c’era più libertà di espressione negli anni Novanta, questo suona bene, ma la verità è che c’era libertà di espressione al Feral. E per puro caso, il Feral era un media e per puro caso era croato. Il fatto che fosse pubblicato in questo paese ci fa dire che la Croazia autorizzava allora una certa libertà di espressione, ma è l’unico motivo. Oggi, il Feral sarebbe impossibile, infatti siamo qui in un bar di Pola a parlare del suo passato. Gli altri media non sono neanche lontanamente liberi, non sono nemmeno media o comunque non nel modo in cui li intendiamo, ovvero come mediatori tra la realtà socio-politica e i lettori. Oggi i media sono dei volantini di marketing.

Oggi lavorate tutti e tre al Novosti, il settimanale della minoranza serba in Croazia. Come mai?

Boris: Il motivo è più semplice di quel che potrebbe sembrare in una gloriosa storiografia: stando alle regole dell’Unione europea, la Croazia è obbligata a dare dei soldi alle minoranze nazionali e noi abbiamo occupato quello spazio mediatico.

Viktor: Siamo un errore nel sistema. E non siamo nemmeno serbi, cazzo!

Boris: Per la prima volta in 30 anni di carriera, siamo riconosciuti come croati e sentiamo la gente dire: “Come possono dei croati lavorare per una rivista serba?!”. Ma com’è che fino a un attimo fa ci dicevate che eravamo dei cetnici, porca puttana? (ride). Le autorità cercano in continuazione di interrompere questo finanziamento [al Novosti, ndr] ma vogliono farlo senza dispiacere a Bruxelles. Una cosa che, se pensiamo a come le cose evolvono nella storia, diventerà sempre più possibile. Penso che con questo tipo di Unione europea, troveranno un modo per interrompere il finanziamento al Novosti.

Da un lato, il Novosti è stato bruciato diverse volte nel centro di Zagabria, dall’altro voi siete costantemente sotto attacco. Per non parlare delle azioni legali nei vostri confronti…

Viktor: Abbiamo smesso di contare le multe dopo aver superato i due milioni di marchi ai tempi del Feral.

Boris: I tribunali e le azioni legali fanno parte del lavoro, anche se si fa giornalismo in Finlandia. È un meccanismo efficiente per far chiudere il becco alla gente. Qui, se ne sono accorti e lo usano contro chiunque metta in discussione, anche lontanamente, l’ordine esistente. Non è per forza di cose l’alta politica a farlo, i croati, i serbi, l’HDZ, può bastare anche un giudice locale o un piccolo mafioso. E quando anche i giudici cominciano a farti causa, allora sei davvero fregato. È un sistema chiuso, in cui diventa sempre più difficile parlare ad alta voce, senza pagarne il prezzo e sparire.

Cosa rispondete a chi dice che c’è bisogno di un nuovo Feral Tribune in Croazia?

Viktor: Il Feral era uno spazio creativo, diverso da ciò che è il Novosti oggi. Sono dei grandi al Novosti, ma l’infrastruttura è cambiata. I media hanno cominciato a vivere di pubblicità e quello è stato un errore strutturale. È come se tu facessi un lavoro, ma vivessi di qualcos’altro. Quello ci trascina in una rete di obbedienza. Se cominciassimo oggi un nuovo Feral, non riceveremmo neanche una pagina di pubblicità e faremmo subito bancarotta. Molto più in fretta che in passato.

Boris: Se qualcuno mi avesse detto 30 anni fa, che 30 anni dopo io avrei detto che lo Stato deve finanziare la stampa, l’avrei mandato a cagare. Che lo Stato mi finanzi, mi sembrava un insulto di per sé. Ma l’informazione è diventata un bene pubblico, come l’acqua corrente o l’aria pulita: è un servizio pubblico che dev’essere protetto. L’unico giornalismo possibile in futuro sarà quello finanziato dai soldi dei cittadini, che pagheranno per il proprio diritto all’informazione e alla critica. Così come si paga per l’acqua.

Alem, cos’è cambiato negli anni nel tuo modo di disegnare il potere?

Alem: Beh, il fatto che sono arrivato in prima pagina. Non ho più la libertà che avevo quand’ero nelle pagine interne. Prima, potevo fare di tutto. Ma sulla prima pagina, cazzi e fighe non sono più permessi. Ecco che ora più che mai, tante delle mie vignette sono rifiutate dal Nacional (una rivista croata, ndr.).

Qual è il rapporto, oggi, tra satira e fake news? Spesso chi è vittima della satira, l’accusa di essere semplicemente una “fake news”…

Viktor: Quello è fascismo. Una delle caratteristiche del fascismo è quella di confondere le categorie di verità e menzogna. Oggi, fanno passare le balle per della satira. L’obiettivo, mi pare, è quello di togliere senso a queste categorie e creare uno spazio pubblico che sarà semplicemente fatto di pazzia e manipolazione. Dopodiché, lo si potrà giustificare come libertà di espressione o come satira. E poi le fake news diventeranno vere e tutto andrà a puttane.

Ma la gente ha ancora voglia di satira? O il politicamente corretto ci ha intontiti?

Alem: Personalmente, non me ne frega niente del politicamente corretto. È aria fritta. Io sono stato politicamente incorretto fin dall’inizio. È una definizione che proprio non riconosco.

Avete mai pensato di lasciare la Croazia?

Boris: Se potessi tornare indietro con le conoscenze di ora al 1989 o al 1990, probabilmente non mi passerebbe nemmeno per la testa di restare. Perché non potrei tollerare l’idea di aspettare la pensione scrivendo gli stessi testi. Sono trent’anni che scriviamo le stesse cose… Ma all’epoca no, non ci siamo posti la domanda.

Alem: Io sono rientrato subito prima che la guerra scoppiasse…

Boris: Abbiamo ricevuto delle offerte, ma la nostra decisione di restare era motivata dal fatto che non volevamo accettare la sconfitta. Non volevamo dare quel piacere a quei figli di puttana. Era il rifiuto di arrendersi di fronte a un nemico che ci sovrastava. “Non ce ne andiamo, che si fottano!”, ci sentivamo così. Ora potremmo anche andarcene…

Alem: Ma ora non serve a un cazzo partire. Io sono in pensione!

Parliamo di politica, cosa pensate della sinistra di oggi in Croazia?

Boris: In Croazia, la sinistra non c’è mai stata, se parliamo della Croazia moderna. Quello che chiamiamo SDP è nato dal programma machiavellico di Ivica Račan e dei suoi compagni nel 1990. È un altro partito dell’establishment, ma con un simbolo diverso e un’altra retorica. L’unica differenza con l’HDZ è che nell’SDP non ci sono criminali di guerra, ma la vera sinistra non esiste. Tuttavia, non si tratta di un problema unicamente croato. Sinistra e destra sono vecchie creature dell’establishment, dei modelli usati per dividere il mondo. E oggi più che mai, perché il capitalismo è più brutale che mai. Oggi, tuttavia, la destra è diventata mainstream, mentre la sinistra non la si vede nemmeno all’orizzonte.

Quindi qual è la via d’uscita? Che si può fare?

Boris: All’età di 54 anni ho capito delle cose che a 25 non si capiscono, ovvero che non si può cambiare il mondo. Trent’anni dopo, quello che ho capito è che devo creare la mia piccola oasi personale. L’ho trovata in un piccolo paesino, dove le persone più belle, intelligenti ed importanti dell’ex Jugoslavia vengono a trovarmi. Passiamo del tempo assieme, parliamo, io faccio la grappa e il vino e quella è la nostra piccola isola di libertà. Purtroppo, non si può liberare il mondo o l’Europa e nemmeno questa cazzo di Croazia. Però, puoi liberare i tuoi 500 metri quadri. Diciamo che questo mondo è andato a puttane e che l’ultima speranza che abbiamo è quella di investire nei bambini, di piantare in loro il seme del dubbio, della critica e della libertà.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #166 il: Gennaio 03, 2019, 00:11:09 am »
Citazione
Boris: All’età di 54 anni ho capito delle cose che a 25 non si capiscono, ovvero che non si può cambiare il mondo. Trent’anni dopo, quello che ho capito è che devo creare la mia piccola oasi personale. L’ho trovata in un piccolo paesino, dove le persone più belle, intelligenti ed importanti dell’ex Jugoslavia vengono a trovarmi. Passiamo del tempo assieme, parliamo, io faccio la grappa e il vino e quella è la nostra piccola isola di libertà. Purtroppo, non si può liberare il mondo o l’Europa e nemmeno questa cazzo di Croazia. Però, puoi liberare i tuoi 500 metri quadri. Diciamo che questo mondo è andato a puttane e che l’ultima speranza che abbiamo è quella di investire nei bambini, di piantare in loro il seme del dubbio, della critica e della libertà.
Parole sacrosante, è il tempo dell'Arca di Noè. Come suggerisce questo film su una civiltà abbandonata al suo destino, in cui le donne appaiono irrecuperabili senza eccezioni.

« Ultima modifica: Gennaio 03, 2019, 06:33:13 am da Vicus »
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #167 il: Gennaio 05, 2019, 19:26:30 pm »
Come direbbe il solito italiano medio, perennemente impegnato a prendersi a martellate i genitali:
"Certe cose accadono solo in Italia", bla bla bla...

Sì, infatti.
...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-la-devastazione-del-Tara-191610

Citazione
Montenegro: la devastazione del Tara

Con la costruzione dell’autostrada del Montenegro si sta devastando un’area protetta dall’Unesco: l’alveo del fiume Tara. Mentre il governo tiene segreti documenti relativi al progetto l’ong MANS rivela i danni ambientali che causerebbe

03/01/2019 -  Zoran Radulović
(Originariamente pubblicato dal settimanale Monitor  )

Chi crede di più ai propri occhi che alle parole dei politici, vede che lungo corso superiore del fiume Tara è successo qualcosa di, a dir poco, strano e brutto.

“Io non vedo nulla di strano per un cantiere di questo tipo”, ha dichiarato il ministro dello Sviluppo sostenibile Pavle Radulović dopo aver visitato il cantiere nell’alveo del fiume Tara, che dal 1976 è protetto dall’UNESCO nell’ambito del programma “L’uomo e la biosfera”.

“I lavori di costruzione dei ponti Tara 1 e Tara 2 procedono in piena conformità al Progetto definitivo revisionato sulla base del quale è stato rilasciato il permesso di costruire”, ha precisato il ministro, giustificando i controversi interventi col fatto che vengono eseguiti in una “zona transizionale del fiume Tara” dove presumibilmente è possibile distruggere e costruire “allo stesso modo in cui sul territorio di Mojkovac e Kolašin venivano costruiti viali e fortezze lungo il fiume”.

L’espressione “zona transizionale del fiume” il ministro l’ha sentita dal geologo Mihailo Burić, professore dell’Università di Podgorica. “Il tratto dell’autostrada in questione si trova lontano dal canyon del fiume Tara rigorosamente protetto”, sostiene Burić. “Dal punto di vista della tutela, il bacino del fiume Tara è suddiviso in tre grandi aree: l’area di confluenza dei fiumi Veruša e Opasnica [da cui nasce il Tara], poi la parte del bacino che ricade nel territorio dei comuni di Mateševo, Kolašin e Mojkovac (che rappresenta una zona di transito), e infine il canyon del Tara protetto dall’UNESCO. Il corso del fiume Tara a monte della zona rigorosamente protetta costituisce un’area transizionale, con un regime di tutela meno rigoroso, dove si può costruire alle condizioni stabilite dalla legge”, ha spiegato Burić, dando una lezione a tutti quei malinformati che hanno alzato la propria voce in difesa del fiume.

Ha ragione?
“Il parlamento del Montenegro rifiuta qualsiasi intervento nel canyon del fiume Tara. Come cittadini, siamo consapevoli del fatto che il Tara è il nostro futuro e ciò per cui siamo conosciuti”, si legge nella Dichiarazione sulla difesa del fiume Tara, approvata dal parlamento montenegrino nell’agosto 2004. “Qualsiasi tentativo di modificare il Tara richiede che tutti i cittadini del Montenegro si esprimano liberamente in merito e l’unico modo corretto per prendere una decisione sul destino del fiume sarebbe attraverso un referendum, sia oggi che in futuro”, si constata nella Dichiarazione, precisando inoltre che “la costruzione della centrale idroelettrica di Buk-Bijela, così come altri eventuali interventi lungo l’intero corso del fiume Tara rappresenterebbero un fattore di disturbo, non solo nella parte di canyon che verrebbe sommersa, ma nell’intera regione che per il suo sviluppo dipende dal canyon”.

L’approvazione della Dichiarazione sulla difesa del Tara ha segnato l’abbandono del progetto di costruzione della centrale idroelettrica di Buk-Bijela e una sconfitta dell’allora premier Filip Vujanović che aveva (segretamente) firmato, a nome del Montenegro, un documento che prevedeva la sommersione di quello che è probabilmente il tratto più bello del canyon del Tara, lungo circa 14 chilometri. È stata una grande vittoria dei cittadini contro la cosiddetta mafia dell’energia.

Una decina di anni più tardi, la cosiddetta mafia delle costruzioni non ha voluto rischiare. La decisione di costruire un’autostrada attraverso il bacino del fiume Tara è stata quindi presa senza alcun coinvolgimento del parlamento e dell’opinione pubblica.

“Non ricordo che il fiume Tara sia mai stato menzionato in parlamento durante le discussioni sui contratti relativi alla costruzione e al finanziamento dell’autostrada”, dice Mladen Bojanić, allora deputato di opposizione. “All’epoca non era ancora stato deciso il tracciato dell’autostrada, per cui non era possibile sapere con certezza se e in quale misura avrebbe interferito con il fiume. Successivamente, il governo ha reso note alcune informazioni relative al progetto, ma nonostante tutti i tentativi di nascondere i principali punti di questo affare, è emerso che i nostri negoziatori erano dei dilettanti. Ora sappiamo con quanta ignoranza e improvvisazione si erano avventurati in questo progetto. Quello che ancora non si sa è quanto ci costerà la loro ignoranza”, spiega Bojanić.

I rappresentanti del potere continuano a essere riluttanti nel rendere note le informazioni sui lavori progettati, eseguiti e ancora da fare. Capita che anche i presunti esperti si trovino aggrovigliati in una rete di mezze verità e bugie, proprie e altrui.

Dopo che l’organizzazione non governativa MANS (Rete per l’affermazione del settore non governativo) ha pubblicato alcuni video  che testimoniano la devastazione  (ir)reparabile dell’alveo del fiume Tara nel punto dove sono in corso i lavori di costruzione dello svincolo di Mateševo (per ragioni ignote, due dei quattro svincoli previsti su questo tratto dell’autostrada sono stati progettati negli alvei dei fiumi: lo svincolo di Smokovac sul fiume Morača, e quello di Mateševo sul fiume Tara), il ministro Radulović ha dichiarato che non c’è stata alcuna deviazione del corso del fiume.

Ma i rappresentanti dell’impresa CRBC (China Road and Bridge Corporation), esecutrice dei lavori, lo hanno smentito: “Nella zona dello svincolo di Mateševo l’alveo del fiume Tara è stato spostato, come previsto dal Progetto definitivo e dal tracciato dell’autostrada. Si tratta di spostamenti provvisori e, una volta conclusi i lavori, il fiume verrà riportato nel suo alveo naturale”.

Allora il ministro si è detto “convinto” che tutto sia stato fatto secondo le regole: “Se il progetto prevede uno spostamento provvisorio [del fiume] e se l’elaborato progettuale è stato realizzato da esperti, non posso che confermare le informazioni contenute nei rapporti che ricevo”, ha dichiarato il ministro.

Nel frattempo si è saputo che i rapporti che il ministro riceve, e nasconde all’opinione pubblica, dimostrano che molte cose non vanno bene. A quel punto il ministro ha cercato di difendere la sua posizione e quella della coalizione al governo affermando che l’esecutore dei lavori si è più volte discostato dal Progetto definitivo. “Problemi simili c’erano anche prima. L’anno scorso i lavori sono rimasti bloccati per 154 giorni”, ha precisato il ministro.

Quindi, non c’è nessun problema particolare, solo quelli che “c’erano anche prima”, e non c’è nulla di strano nel fatto che i lavori siano stati bloccati per quasi sei mesi, nonostante siano già in ritardo di quasi un anno. Il quotidiano di Podgorica Dan è venuto in possesso di documenti dai quali emerge che gli ispettori ambientali hanno presentato 16 richieste di avvio del procedimento sanzionatorio nei confronti dell’impresa CRBC per “irregolarità accertate”.

“Il Tara rimarrà la lacrima d’Europa, non c’è alternativa”, ha dichiarato il ministro schiacciato sotto il peso delle prove che suggeriscono che la vicenda potrebbe non finire bene.

Non è però riuscito a convincere la direttrice di MANS Vanja Ćalović-Marković e i suoi collaboratori. “L’attenzione suscitata dalle immagini del Tara pubblicate da MANS la dice lunga sul fatto che l’opinione pubblica era pressoché all’oscuro di quello che stava succedendo nei cantieri di CRBC”, dice la Ćalović. “Solo ora abbiamo saputo che ci sono dei problemi relativi al mancato rispetto da parte di CRBC di quanto previsto nella documentazione progettuale. Finora l’opinione pubblica era al corrente solo di poche informazioni sulla costruzione dell’autostrada, perché i rapporti di monitoraggio della documentazione tecnica e dell’esecuzione dei lavori sono stati dichiarati segreti dal governo. Questo è uno dei principali motivi per cui l’opinione pubblica non ha saputo prima che il Tara viene devastato, ed è uno dei principali ostacoli che impediscono un’adeguata vigilanza pubblica sui lavori di costruzione dell’autostrada”.

Anche Mladen Bojanić è dello stesso parere. “È quasi impossibile, ormai da tempo, polemizzare con le posizioni del governo su molte questioni, perché l’arroganza dei suoi esponenti cresce in assenza di argomenti che potrebbero giustificare le loro posizioni rigide. Questo è particolarmente evidente in relazione alla costruzione e al finanziamento dell’autostrada, ed è ancora più palese nel caso della devastazione del Tara. Quando il ministro tira fuori, come ultimo asso nella manica, alcuni documenti dichiarati segreti dal governo, allora è chiaro che la situazione è molto grave. Purtroppo non c’è responsabilità e i cittadini si sono ormai rassegnati al fatto di dover pagare ogni errore del governo”, spiega Bojanić.

Le argomentazioni del governo sono ulteriormente indebolite dal fatto che il professor Burić, uno dei più accesi sostenitori del progetto dello svincolo di Mateševo, è autore di uno studio, commissionato da CRBC, intitolato “Proposta di misure di rimedio e progetto di monitoraggio dello stato ambientale del fiume Tara”.

Da questo documento siamo venuti a sapere che il professor Burić si aspetta che la futura autostrada, compreso lo svincolo di Mateševo, renda più bello l’ambiente. “Questo progetto stradale porterà a un miglioramento del paesaggio, che sarà più bello di quello attuale. Un ambiente caotico diventerà un paesaggio coltivato”, afferma Burić, per poi concludere che “il paesaggio incontrollato e caotico di un corso d’acqua impetuoso non è da ritenersi piacevole”.

Ma non tutti sono d’accordo
“L’attuale stato idrologico del fiume Tara nel tratto compreso tra Jabuka e Mateševo, lungo più di 5 chilometri, è catastrofico”, dice Nataša Kovacević dell’associazione ambientalista Green Home. “Vediamo l’alveo del fiume devastato, l’area intorno al fiume devastata, la perdita di quella biodiversità a cui siamo abituati, la meccanizzazione pesante…”.

Ad esprimere preoccupazione è anche un gruppo di professori della Facoltà di Scienze naturali e matematiche dell’Università di Podgorica che dal 2016 monitora lo stato di salute della fauna dei fondali del fiume Tara. “La popolazione di animali che abitano il fondale si è notevolmente ridotta rispetto al 2017. Anche la diversità è diminuita in modo considerevole e la maggior parte dei gruppi di specie non è stata rilevata durante la nostra ricerca svolta nel 2018”, ha dichiarato il professor Vladimir Pešić al quotidiano Vijesti, commentando i risultati dell’ultimo monitoraggio effettuato. “Il ripristino della popolazione di fauna del fondale su questo tratto sarà un processo lungo, potrebbe durare fino a 10 anni. Tuttavia, rimane aperta la domanda se le popolazioni di alcune specie rare ed endemiche riusciranno mai a riprendersi”.

“Il canyon del fiume Tara gode di una tutela particolare in quanto parte del patrimonio mondiale dell’umanità. Su questo tratto del Tara sono consentite alcune attività, ma quello che abbiamo visto in loco non può essere definito come sviluppo economico sostenibile secondo i criteri dell’UNESCO”, dice Vanja Ćalović-Marković. E sottolinea: “Assistiamo a un totale cambiamento del paesaggio, ad interventi che hanno completamente modificato l’alveo del Tara, e i rapporti dei professori universitari parlano di devastazioni della flora e della fauna di grandi dimensioni. È allarmante il fatto che il governo sia stato informato in tempo che i lavori previsti potrebbero danneggiare quest’area protetta, e ha fatto ben poco per evitare che accadesse quello che sta accadendo”.

Poteva andare diversamente?
Abbiamo chiesto ai nostri interlocutori se l’autostrada avrebbe potuto essere realizzata senza interferire con il fiume.

“La risposta a questa domanda si nasconde nel progetto dell’autostrada, un altro documento coperto da segreto che il governo da anni tiene nascosto ai cittadini”, dice la Ćalović, aggiungendo: “Penso che oggi nel settore delle costruzioni quasi nulla sia impossibile, è solo questione di prezzo. Perché si è deciso che il Tara deve pagare questo prezzo, insieme a tutti i cittadini del Montenegro, è una domanda a cui le autorità prima o poi dovranno rispondere”.

Mladen Bojanić dice: “Non mi intendo di tracciati autostradali. Ma allo stesso modo in cui chiedo al muratore di non costruire un muro inclinato, anche se non so come si costruiscono i muri, così ho il diritto di chiedere al ministro di proteggere il Tara pur non essendo né ecologo né ingegnere. Ho il diritto di esigere il meglio per quello che pago, sia che si tratti di un muratore o di un ministro”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #168 il: Gennaio 07, 2019, 00:27:18 am »
http://www.eastjournal.net/archives/94717

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UNGHERIA: Quarto giorno di proteste contro la “legge schiavitù”
Gian Marco Moisé  21 giorni fa

Dopo mercoledì, giovedì e venerdì, domenica 16 dicembre Budapest ha visto il suo quarto giorno di proteste. Con la più alta partecipazione di persone finora, 10 mila secondo le stime, un corteo di manifestanti ha marciato da Piazza degli Eroi, nel sesto distretto della città, fino di fronte al parlamento ungherese al grido di: “Buon Natale signor primo ministro”.

Le ragioni della manifestazione

Le proteste sono iniziate mercoledì 12 dicembre, quando il parlamento ungherese ha approvato una legge per la riforma delle condizioni lavorative, soprannominata dai manifestanti “legge schiavitù”. La normativa propone un aumento delle ore di straordinari da 250 a 400 l’anno, e la possibilità del pagamento ritardato delle stesse fino a tre anni, aumentando di ben due anni il precedente limite. Secondo i manifestanti questa modifica è pensata a favore delle case automobilistiche tedesche, ma peggiora la condizione dei lavoratori ungheresi.

La seconda legge, approvata durante la stessa sessione parlamentare, riguarda l’adozione di corti amministrative che avranno funzioni di revisione giudiziaria rispetto a decisioni governative riguardanti tasse, permessi di costruzione, proteste, scioperi e divulgazione di informazioni di pubblico interesse. Il sistema non è nuovo per l’Ungheria, che ne ha avuto uno simile fino al 1949, con la successiva abolizione da parte del regime comunista. Ciò che crea problematiche è che il ministero della giustizia avrà influenza diretta rispetto: al budget delle corti, alla nomina dei giudici e dei presidenti di corte, alle loro promozioni e aumenti di stipendio. Questa normativa compromette definitivamente l’indipendenza del potere giudiziario in Ungheria.

La protesta

I manifestanti hanno indossato sciarpa e cappello bianchi per segnalare la natura non-violenta della protesta, si sono riuniti alle tre del pomeriggio in Piazza degli Eroi e hanno marciato fino a piazza Kossuth, sede del parlamento. Lì, membri di tutti i partiti d’opposizione, un ex giudice e il vicepresidente della federazione ungherese dei sindacati hanno fatto discorsi caratterizzati dal richiamo all’unità per la difesa della democrazia. La manifestazione è stata organizzata come un evento Facebook dai partiti d’opposizione MSZP, DK e Momentum. Oltre a Budapest, le proteste hanno avuto luogo a Győr, Debrecen, Békéscsaba, Szeged, Nagykanizsa, ed Eger. Le richieste dei manifestanti includono:

L’abolizione della “legge schiavitù”
Meno straordinari per la polizia
L’indipendenza del potere giudiziario
L’adesione dell’Ungheria alla Procura europea
L’indipendenza dei mass media statali
M1, primo canale della televisione pubblica ungherese, ha dato la notizia delle proteste bollandole come l’espressione di un’opposizione ai governi sovranisti anti-migranti e promosse da sostenitori delle idee di George Soros.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #169 il: Gennaio 07, 2019, 00:31:20 am »
http://www.eastjournal.net/archives/93172

Citazione
BALCANI BALCANI ORIENT. RUSSIE BALTICO MEDIO ORIENTE CAUCASO ASIA CENTRALE EUROPA(e)
BALCANI: Come i media serbi insultano gli albanesi (e vengono condannati)
Pietro Aleotti  12 Novembre 2018

Utilizzare il termine “šiptar”, termine dispregiativo per definire gli albanesi, è qualificabile come incitamento all’odio e, pertanto, da considerarsi offensivo. Lo ha stabilito la corte di Belgrado in una sentenza di primo grado per l’uso a mezzo stampa di questo termine.

La decisione arriva nell’ambito del processo intentato da Anita Mitić, all’epoca dei fatti direttrice della Youth Initiative for Human Rights (YIHR, un’associazione attiva in tutti i Balcani occidentali nel campo della difesa dei diritti umani), contro Dragan J. Vučićević, direttore dell’Informer, il più diffuso tabloid belgradese, assai vicino al presidente serbo Aleksandar Vučić. La corte ha sanzionato Vučićević, peraltro non nuovo a queste condanne, al pagamento di un risarcimento per aver leso l’immagine e la reputazione della Mitić e dell’intera organizzazione. Il direttore del tabloid in passato era già stato accusato dall’autorità garante per l’uguaglianza per aver violato la legge sul divieto di discriminazione impiegando il termine šiptar sulle prime pagine del giornale.

Sebbene si tratti solo di un giudizio di primo grado, la sentenza potrebbe essere destinata a fare giurisprudenza come raro esempio di sanzione contro l’impiego di termini discriminatori e ingiuriosi – quel discorso d’odio che trova spazio giornaliero sui tabloid serbi. Anche se Vučićević non sembra aver appreso la lezione; Informer ha già fatto una nuova copertina definendo nello stesso modo il calciatore svizzero Shaqiri.

I fatti

I fatti risalgono al gennaio 2017, quando alcuni membri della YIHR irruppero nel corso di una manifestazione organizzata nella cittadina di Beška dal Partito Progressista Serbo (SNS) di governo: a parlare era stato invitato anche Veselin Šljivančanin, ex ufficiale dell’esercito jugoslavo (JNA) già condannato a 17 anni di reclusione (poi ridotti a 10) dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia per crimini di guerra durante l’assedio di Vukovar. Gli attivisti tentarono di interrompere il discorso di Šljivančanin srotolando uno striscione di protesta con la frase “i criminali di guerra dovrebbero essere zittiti cosicché la voce delle vittime possa essere ascoltata” ma furono attaccati dal servizio d’ordine e malmenati.

All’indomani dell’episodio, l’Informer aveva pubblicato un articolo sprezzante in cui qualificava la Mitić e i membri della YIHR come fascisti, nemici della Serbia e sostenitori degli šiptari. Non una novità, dato che il termine in questione è ampiamente utilizzato da molta stampa e l’Informer stesso l’avrebbe impiegato per ben 196 volte nei primi nove mesi del 2017, secondo una ricerca dell’OSCE sulle percezioni reciproche tra serbi e albanesi. A tale definizione ricorrono spesso anche i siti internet dei gruppi di estrema destra per indicare con disprezzo un albanese.

La retorica nazionalista (e, spesso, razzista) permea molta parte della stampa serba, specie quella filo-governativa: non è confinata al solo Informer, non si limita all’uso di qualche termine dispregiativo e, ancora, non si rivolge ai soli albanesi. E, soprattutto, viene impiegata nella sostanziale impunità e, con rare eccezioni, nell’ignavia delle élite culturali e politiche serbe.

E’ anche per questa ragione che la sentenza della corte di Belgrado assume un significato simbolico ancora più rilevante: non è un caso, infatti, che la stampa kosovara l’abbia accolta come una sentenza storica dandole un certo risalto mediatico. Se è vero, infatti, che si sta parlando di un singolo caso, è altresì vero che essa costituisce un precedente importante con il quale d’ora in poi la stampa serba dovrà fare i conti.

Le origini e l’uso del termine

L’Albania in albanese è Shqipëria, termine che deriva verosimilmente da shqiponja, ovvero aquila, animale molto rappresentato nella simbologia delle antiche dinastie albanesi al punto da essere raffigurato, bicefala, sulla bandiera nazionale. Per questa ragione gli albanesi si autodefiniscono shqip(ë)tar – da cui il termine šiptar nelle lingue slave meridionali.

Ma la parola šiptar, pronunciata con accento slavo volutamente calcato, assume oggi una connotazione pesantemente razzista alludendo a una presunta inferiorità culturale degli albanesi, immaginati caricaturalmente alla stregua di cavernicoli, anzi di “moderni trogloditi, che come gli antenati dell’uomo, dormivano sugli alberi e vi si attaccavano con la coda” come già a fine ‘800 li descriveva Vladan Đorđević, politico e scrittore serbo.

All’atto della formazione della federazione jugoslava, il termine šiptar veniva, anche formalmente, impiegato per indicare gli appartenenti alla comunità albanese, perlopiù kosovari, come inserito nei censimenti del 1948, del 1953 e del 1961. Solo successivamente, su pressione della dirigenza kosovara albanese desiderosa di enfatizzare in questo modo una sorta di autonomia nazionale piuttosto che etnica, il termine šiptari fu sostituito da albanci nei censimenti del 1971, del 1981 e nel 1991. Nella Serbia post-jugoslava la definizione albanci  è stata mantenuta ed è tuttora utilizzata ufficialmente.

E’ così che l’impiego di šiptar assume, oltre alle prerogative negative anzi dette, anche una valenza sottilmente politica: utilizzarlo, oggi, significa negare una qualsivoglia connotazione nazionale rimarcando, al contrario, l’appartenenza ad un gruppo minoritario.


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3 commenti

Marco 12 Novembre 2018 at 14:01
Vi basta fare un giro sui social e su diversi gruppi per vedere come agisce si manifesta il nazionalismo albanese: odio per Greci, serbi e croati; manipolazione della storia, revisionismo e sciovinismo terribile. La narrazione che vede solamente i serbi come i cattivoni nei balcani mi è particolarmente indigesta (anche se ovviamente è principalmente dalla loro parte che avvengono le maggiori provocazioni). Da un sito cosi autorevole come il vostro mi aspetto una copertura a 30 gradi delle vicende. Grazie

Giorgio Fruscione
Giorgio Fruscione 13 Novembre 2018 at 12:29
caro Marco, su nazionalismo albanese e temi correlati abbiamo scritto in passato. Tuttavia, questo non è un articolo sui “serbi cattivoni dei Balcani” e sarebbe meglio non dare queste letture troppo generalizzate su singoli articoli. Il tema è molto specifico: il modo in cui si esprime un quotidiano – il più venduto nel paese – che è stato condannato per incitamento all’odio. L’articolo non contiene quindi accuse contro il popolo serbo.


Rifat 15 Novembre 2018 at 12:01
Mi sembra una buona azione di liberazione e giustissima del tribunale di Belgrado. Incitamento all’odio e disprezzo verso gli altri popoli e un gesto di una scarsa cultura e ignoranza politica. Non esistono popoli * nemici * sono i governi,politici,che fanno * nemici * i popoli,e dietro di loro giornali e media. Amicia e rispetto verso i altri popoli porta in pace e stabilità.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #170 il: Gennaio 07, 2019, 00:38:05 am »
http://www.askanews.it/esteri/2019/01/05/serbia-sabato-di-proteste-contro-il-presidente-vucic-autocrate-pn_20190105_00309/

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SERBIA Sabato 5 gennaio 2019 - 21:48
Serbia, sabato di proteste contro il presidente Vucic “autocrate”

Belgrado, 5 gen. (askanews) – Migliaia di persone hanno manifestato per il quinto sabato consecutivo a Belgrado contro lo strapotere del presidente Aleksandar Vucic, accusato di autoritarismo, il quale a sua volta accusa l’opposizione di voler “prendere il potere”. “La Serbia insorge lentamente, l’intera città sta insorgendo (…) saremo sempre più numerosi”, ha detto l’attore Branislav Trifunovic, uno dei leader del movimento, alla televisione privata N1. Come sabato scorso, i manifestanti hanno sfilato per le strade della capitale dietro un grande striscione con il nome del movimento: “1 su 5 milioni”. Questo slogan si riferisce a una dichiarazione del presidente Vucic che aveva detto dopo la prima manifestazione che non avrebbe ceduto alle richieste dell’opposizione “anche se cinque milioni di persone fossero scese in piazza”. (segue) (fonte Afp)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #171 il: Gennaio 07, 2019, 14:46:23 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Banja-Luka-assedio-al-movimento-Pravda-za-Davida-191876

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Banja Luka, assedio al movimento Pravda za Davida
In Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina, il passaggio dal vecchio al nuovo anno si è svolto all'insegna di arresti e tentativi di repressione del movimento Giustizia per David

07/01/2019 -  Alfredo Sasso
La mattina del 25 dicembre, nelle ore in cui una parte del mondo celebra il Natale cattolico, la piazza centrale di Banja Luka si tinge di scuro. Prende forma una specie di presepe all’incontrario: una coppia di genitori arrestata, un altare di fiori smontato rapidamente, una piazza svuotata e circondata, persone sbattute a terra da agenti antisommossa, altri arresti e scontri nel corso delle ore e nei giorni successivi, fino a un’inquietante sparizione su cui a tutt’oggi non si è fatta luce.

Dopo 275 giorni di occupazione ininterrotta di Piazza Krajina viene così sgomberato manu militari il presidio di Pravda za Davida, il movimento che chiede giustizia e verità per David Dragičević, ragazzo di 21 anni ucciso in circostanze irrisolte nel marzo 2018. La serie impressionante di depistaggi e omissioni da parte delle istituzioni della Republika Srpska (una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina) aveva subito indotto il sospetto che alcuni membri della polizia locale fossero coinvolti nell’omicidio di David, cosa di cui il movimento si è dichiarato sempre più certo. Da allora il caso Dragičević ha tenuto banco nell’attualità del paese, arrivando a essere uno dei temi principali della recente campagna elettorale. Ma è con gli eventi di queste settimane che si segna un punto di non ritorno, con risvolti determinanti per tutti i livelli del paese: libertà di manifestazione, equilibri istituzionali e persino il ruolo degli attori internazionali.

Le autorità della Republika Srpska da tempo attendevano l’occasione di un’azione di forza contro il volto più energico e carismatico di Pravda za Davida: Davor Dragičević, il papà del ragazzo ucciso, instancabile nel chiedere le dimissioni dei vertici dell’ordine pubblico in Republika Srpska, dal ministro dell’Interno Dragan Lukač ai capi della polizia, che ritiene direttamente responsabili della morte del figlio. In questi mesi Davor Dragičević ha condotto una sfida aperta e persistente al sistema di potere di Milorad Dodik, l’autocrate della Republika Srpska che dalle elezioni di ottobre è uscito persino rafforzato e ora siede alla presidenza collettiva statale. Dodik ha cambiato tante volte atteggiamento verso Pravda za Davida: prima l’ha ignorato, poi ha provato invano ad addomesticarlo, poi è passato alle minacce, come quando in campagna elettorale disse che il presidio di Piazza Krajina sarebbe stato presto “spazzato via”.

Nel mese di dicembre, sono state probabilmente due circostanze a fare di Pravda za Davida una spina nel fianco definitivamente insopportabile per Dodik. La prima è stata la serie di viaggi che Davor Dragičević ha condotto a Sarajevo per incontrare diversi ambasciatori dei paesi UE nonché Željko Komšić - omologo di Dodik nella presidenza collettiva bosniaca e suo grande rivale politico -. La seconda è stata la promessa di Pravda za Davida di mantenere il presidio di Piazza Krajina nonostante i diversi eventi di massa che si sarebbero organizzati in città: dai concerti di Capodanno alle celebrazioni del Natale ortodosso – il 7 gennaio – e, soprattutto, alla parata militare del Giorno della Republika Srpska il 9 gennaio, un evento di grande importanza per la legittimazione ultra-nazionalista del partito di Dodik. La sfida del movimento dunque si estendeva al comune di Banja Luka il cui sindaco, Igor Radojičić, è del partito di Dodik e in passato è stato indicato come il suo potenziale erede.

Stato d’emergenza
La mattina del 25 dicembre, Davor Dragičević viene arrestato. La motivazione è una mancata comparizione a un’udienza, per un corteo non autorizzato tenutosi alcuni giorni prima davanti al parlamento della Republika Srpska. Con lui, sono messi in custodia Suzana Radanović - la madre di David Dragičević, anch’essa molto presente nel movimento – e una decina di altri attivisti, tra cui quattro esponenti dei partiti di opposizione anti-Dodik: Adam Šukalo, Draško Stanivuković, Vojin Mijatović e Branislav Borenović. Tutto questo accade mentre i servizi municipali protetti da un imponente cordone di poliziotti antisommossa ritirano il cosiddetto “Davidovo srce” (Il “cuore di David”), l’imponente altare di foto, candele, fiori e altri oggetti in memoria del ragazzo ucciso. L’altare occupava la centralissima Piazza Krajina da più di nove mesi, sormontato da un grande pugno chiuso in metallo, il simbolo visivo della protesta.

Centinaia di manifestanti inermi subiscono ripetute cariche della polizia e restano increduli di fronte alla brutale solerzia delle autorità che da nove mesi non hanno intrapreso nessuna iniziativa, e nessun arresto, per l’omicidio di David. Le immagini   degli scontri fanno il giro della regione post-jugoslava e giungono reazioni preoccupate della comunità internazionale, tra cui quella dell’ambasciatore dell’Unione Europea  . Diversi analisti sostengono  che la scelta del 25 dicembre per questa operazione sia stata presa di proposito per approfittare del calo di attenzione di media e funzionari internazionali nel giorno di Natale.

Da quel giorno, Banja Luka entra in una specie di stato d’emergenza permanente. Il 26 dicembre, il ministro dell’Interno della Republika Srpska Lukač lancia il divieto ad hoc contro “qualunque manifestazione del collettivo Pravda za Davida”, affermando con sprezzo come questo sia stato “tollerato” fino ad ora nonostante abbia “agito nell’illegalità”. Davor Dragičević, nel frattempo rilasciato insieme agli altri attivisti, snobba il divieto e guida un corteo di un migliaio di persone sul luogo in cui lo scorso 24 marzo fu trovato il corpo del figlio, sulla riva del torrente Crkvena. “Sono il padre più orgoglioso di un figlio che è stato assassinato. Conosco gli assassini e i loro complici”, scrive  quel giorno su twitter.

Il 30 dicembre, durante l’ennesimo grande corteo, il movimento si concentra nella piazza dove è previsto il concerto del cantante Haris Džinović. Il sindaco Radojičić decide a quel punto di annullare tutte le celebrazioni e annuncia che chiederà a Pravda za Davida “risarcimenti milionari” per il danno economico e d’immagine alla città. Tuttavia, Džinović spiega in seguito che “non aveva la minima intenzione” di esibirsi in quelle condizioni, smentendo così la versione data dal sindaco che attribuiva al movimento la responsabilità di interrompere l’evento. In precedenza, la nota cantante serba Marija Šerifović, (vincitrice dell’Eurovision 2007) aveva già annullato il suo concerto, di fatto acconsentendo alla richiesta di boicottaggio da parte di Pravda za Davida. A margine del corteo, si producono ancora scontri, arresti e un nuovo, più inquietante, colpo di scena.

Giustizia per David, Giustizia per Davor
Alle 23.00 del 30 dicembre Davor Dragičević, il papà di David, scompare nel nulla e a tutt’oggi non si sa dove si trovi. Inizialmente circola la notizia del suo arresto a margine della manifestazione, ma la polizia della RS smentisce. Poi si parla di un possibile rifugio di Dragičević presso l’ambasciata del Regno Unito a Sarajevo. È un’ipotesi rilanciata soprattutto dai media vicini a Milorad Dodik, che da tempo accusa Londra di ingerenza negli affari interni della Bosnia Erzegovina e soprattutto della Republika Srpska, in quanto i britannici starebbero combattendo un “conflitto per procura” contro la Russia, partner privilegiato di Dodik. Ma l’ambasciatore britannico Matt Field nega prontamente, smentendo “ogni coinvolgimento nell’organizzazione delle proteste”.


Dalle istituzioni della RS filtra che l’avvocato di Dragičević, Ifet Feraget, avrebbe cercato una trattativa con il tribunale locale per fare costituire il suo assistito. Ma Feraget non conferma e insiste di non sapere nulla. Negli ultimi giorni non emergono elementi chiari, anche se il 5 gennaio alcuni media citano dei messaggi dal gruppo FB del movimento secondo cui Davor si troverebbe “al sicuro”, “due passi avanti rispetto agli assassini, come sempre”.

Un possibile scenario è dunque che Davor Dragičević si trovi all’estero, per evitare il mandato di cattura su di lui e i pesanti capi d’imputazione (si parla addirittura di “tentato colpo di stato”) che si stanno preparando contro lui ed altri esponenti del movimento. In questo caso è plausibile che Davor stia attendendo un determinato momento (forse il 9 gennaio, giorno della Republika Srpska?) per un’apparizione pubblica ad effetto. Più volte nei mesi scorsi – tra cui nell’intervista a OBC Transeuropa dello scorso ottobre - esponenti di Pravda za Davida hanno citato la possibilità di intraprendere un esilio volontario in caso di una azione di forza delle istituzioni. L’altro scenario, decisamente più inquietante, è invece che Davor sia stato rapito, e che dunque gli “sia successo qualcosa di brutto” come alcuni sostenitori del movimento ripetono, per pudore o per esorcizzare la terribile eventualità.

In questa incertezza, preoccupano le allusioni di un consigliere politico di Dodik, Srđan Perišić, secondo cui alcuni stranieri occidentali “strateghi delle rivoluzioni colorate” (sic) starebbero pianificando gli omicidi di oppositori politici per poi dare la colpa al governo della RS e forzare un cambio di regime  . Queste parole lasciano intendere l’atmosfera di paranoia e insicurezza che le autorità di Banja Luka, invece di smorzare, sembrano volere propagare a tutti i costi. In questi ultimi giorni, la polizia della Republika Srpska non risparmia controlli di documenti e cordoni antisommossa nemmeno davanti alla Cattedrale di Cristo Salvatore, il luogo dove Pravda za Davida sta convocando i presidi dopo lo sgombero di Piazza Krajina. Presidi silenziosi, senza simboli né slogan, pur di non incorrere in denunce e detenzioni.

Contro il silenzio
Pravda za Davida ha sempre affermato, e continua a affermare, la sua a-politicità di principio e la propria estraneità alle dinamiche di partito. Sono state le istituzioni della Republika Srpska, con le loro ostruzioni alle indagini sulla morte di David, che hanno contribuito a trasformare Pravda za Davida da un collettivo per la giustizia su un singolo caso a un vero e proprio movimento per la libertà di espressione e il diritto al dissenso. Vi è poi un problema più ampio. Il sistema di Dodik ha annichilito l’opposizione, consolidando l’egemonia assoluta sui media, sugli enti culturali, su quasi tutte le municipalità locali dell’entità serbo-bosniaca. Pravda za Davida ha, a modo suo, aperto uno spazio di espressione unico.

“Dodik ha tutto il potere in Republika Srpska. L’unica cosa che non controlla è David Dragičević e la gente intorno a lui”, ha scritto   l’analista Srđan Puhalo. “Ora è vietato protestare a Banja Luka, perché la polizia ogni sera controlla qualunque raggruppamento di persone, grazie a leggi ad hoc che sarebbero anticostituzionali. Se queste proteste verranno soffocate, nei prossimi cinque anni a Banja Luka non ci sarà nessun’altra protesta su nulla. Se la gente in queste settimane non si difenderà, ci aspettano cinque anni di dittatura”, ha spiegato  l’editorialista Dragan Bursač in un’intervista.

In queste settimane, Pravda za Davida continua a ottenere un sostegno trasversale in Bosnia Erzegovina e nel resto della regione post-jugoslava. Il 25 dicembre e nei giorni successivi, manifestazioni di solidarietà si sono tenute a Sarajevo, Tuzla, Mostar, Belgrado, Novi Sad e Zagabria, nonché in diverse città europee in cui è presente la diaspora ex-jugoslava. L’ondata di solidarietà per il movimento sembra crescere ancora, attratta dai tanti significati universali di questa causa: l’empatia per dei genitori che hanno perso un figlio; l’ammirazione per una sofferenza privata che si fa impegno e indignazione; la fiducia per uno spazio libero da minacce, discorsi d’odio e segregazioni etniche; il riconoscersi nella più pre-politica delle domande, ovvero il chiedere alle istituzioni null’altro che di “fare il proprio lavoro”.

In Bosnia Erzegovina, vi è poi la causa comune dei cosiddetti “casi silenziati”, le morti dovute a abusi di autorità che le istituzioni coprono con ogni mezzo. Nel paese vi sono quasi una decina di casi silenziati negli ultimi anni. La presenza di due cause sorelle e che si sostengono reciprocamente, quella di Davor Dragičević a Banja Luka e quella di Muriz Memić a Sarajevo (papà rispettivamente di David e Dženan, anche quest’ultimo ucciso nell’ambito di un sospetto abuso di potere; il primo “serbo ucciso da serbi”, il secondo “musulmano ucciso da musulmani”, come di solito ripetono gli stessi due padri per sottolineare la necessità di superare le gabbie etniche) ha aperto un inedito canale di solidarietà tra le due principali città della Bosnia Erzegovina. Città che, dalla guerra degli anni Novanta, si erano tenute reciprocamente distanti ed estranee.

Nonostante questi segnali positivi, è lecito pensare che cresceranno le difficoltà per Pravda za Davida. Come avviene per qualunque movimento sociale che deve affrontare una repressione, gli attivisti sono ora costretti a sparpagliarsi in tante condizioni diverse, tra fughe e isolamenti, chiusi in tanti piccoli dilemmi del prigioniero. Non sarà facile mantenere una strategia comune. E soprattutto, ora che cominciano a pendere accuse di alto tradimento e condanne pluridecennali, non sarà facile mantenere l’attenzione sul caso originario, l’omicidio ancora senza colpevoli di un ragazzo di 21 anni che studiava elettrotecnica e suonava reggae e hip hop.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #172 il: Gennaio 09, 2019, 20:45:30 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/94789

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ROMANIA: Un paese nazional-comunista alla presidenza dell’Unione
Francesco Magno  1 giorno fa

A partire dall’1 gennaio 2019 la Romania ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea; in questi sei mesi, i rappresentanti romeni a Bruxelles si ritroveranno a gestire dossier scottanti (Brexit su tutti) e le elezioni europee. Jean Claude Juncker ha aspramente criticato i governi di Bucarest, giudicando il paese inadatto a reggere la presidenza di turno del consiglio. I motivi di una presa di posizione così netta sono ormai risaputi: una pubblica amministrazione dilaniata dalla corruzione, un governo dominato da personaggi dalla fedina penale tutt’altro che immacolata, un panorama infrastrutturale semi-disastroso.

Un caso più unico che raro

La Romania del 2019 è sicuramente un unicum nel panorama europeo. Paese semi-sconosciuto a occidente se non per vampiresche reminiscenze e una massiccia immigrazione nei centri più sviluppati del continente, la Romania racchiude al suo interno tutte le contraddizioni dell’est europeo; transizione post-comunista irrisolta, nazionalismo onnipresente, corruzione, volontà di modernizzazione, contrasto tra caratteristiche autoctone e occidentalizzazione.

La politica romena è, in occidente, ancor più indecifrabile. Gli attuali governanti romeni, meno rumorosi dei loro colleghi ungheresi o polacchi, portano avanti politiche non meno “populiste” che, tuttavia, hanno radici diverse da quelle degli esecutivi di Budapest o Varsavia. Si può a ragione affermare che in Romania il comunismo non sia mai morto, ma si sia soltanto camaleonticamente trasformato e raffinato, adattandosi alle esigenze dei tempi, per conservare potere e sfere di influenza.

Finire in coma nel 1989

A dicembre sono stati celebrati i 29 anni dalla rivoluzione che ha rovesciato il governo dispotico di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena, decretandone al contempo la morte. Se un romeno medio finito in coma nel 1989 si svegliasse oggi e guardasse soltanto agli indicatori macro-economici, vedrebbe chiaramente la transizione dal comunismo al capitalismo come un fatto ormai compiuto, irreversibile. Tuttavia, gli basterebbe qualche giorno per ritrovare segni familiari, per riascoltare parole a cui era abituato, per decifrare una politica non diversa da quella che aveva imparato a conoscere negli anni ’80. Vedrebbe sicuramente volti nuovi e sigle sconosciute, ma dietro questi nuovi contenitori, dietro queste facce mai viste, riconoscerebbe presto la “sua” Romania comunista.

Il nostro romeno “redivivo”, che per comodità chiameremo Ovidiu, si era assopito nel 1989 ascoltando Ceausescu spronare i cittadini a tirare la cinghia, a soffrire ancora un po’ perché il debito stava finalmente per essere pagato, e la Romania avrebbe potuto finalmente cominciare il suo impetuoso sviluppo. Estinguere il debito era fondamentale per l’indipendenza del paese dai poteri occulti occidentali e non, che usavano l’arma economica per schiavizzare i romeni e costringerli a uno stato di perenne arretratezza. Grazie al partito comunista e al suo fiero leader, la Romania si sarebbe ripresa il posto che le spettava nel consesso internazionale, riottenendo finalmente voce in capitolo nei grandi affari internazionali. Per raggiungere questo obiettivo, i romeni dovevano dare prova di patriottismo e resistere di fronte alle difficoltà materiali.

Risvegliarsi trent’anni dopo, cos’è cambiato?

Ovidiu era già in coma quando nel dicembre 1989 Ceausescu venne arrestato e ucciso; dormiva profondamente negli anni ’90 politicamente monopolizzati da Iliescu, e non ha mai avuto l’onore di apprezzare Traian Basescu. Ovidiu si è svegliato nel dicembre 2018, e domenica 16, guardando la televisione nazionale, ha visto qualcosa di nuovo, ma non troppo. La tv trasmetteva una riunione plenaria di partito, come spesso faceva anche negli anni ’80, ma la sigla che troneggiava sul pulpito dell’oratore non era più PCR (partito comunista romeno), bensì PSD (partito social-democratico), e il leader che parlava di fronte alla folla osannante non era “il più amato figlio del popolo”, ma un uomo brizzolato, senza cravatta, con un baffo che lo rende vagamente somigliante al gestore di un bar costiero sudamericano. Il nostro Ovidiu è all’inizio sconcertato: che ne è stato di Ceausescu, del partito, della grande lotta patriottica? Ma basteranno poche parole del baffuto brizzolato a tranquillizzarlo.

Un nuovo Conducator

Anche il nuovo Conducator parla di patriottismo, di unione del partito, di difesa della romenità, di progresso e sviluppo. Dice che la Romania non è un paese di Serie B all’interno dell’Unione Europea, e pertanto merita rispetto. Ovidiu all’inizio non capisce cosa sia l’Unione Europea; ma sì, sarà una specie di organismo plutocratico finanziario che vuole schiavizzare i romeni, come il Fondo Monetario Internazionale, come la Banca Mondiale, come la Comunità Economica Europea; tutte istituzioni che negli anni ’80 volevano la morte economica della Romania, che difesa solamente dal suo leader cercava di sopravvivere. Sì, l’Unione Europea deve essere uno dei nuovi nemici. Menomale che il nuovo condottiero baffuto difende i poveri cittadini. Parla di virilità: il buon romeno deve essere maschio, forte, non dedito a inutili sollazzi culturali. Ovidiu è d’accordo, anche lui è stato educato così: gli hanno insegnato ad essere un duro lavoratore, a non risparmiarsi, a dare tutto per la patria e per il partito. Ma sì, dice Ovidiu tra sé e sé, Ceausescu probabilmente è morto, il partito ha cambiato nome per “modernizzarsi”, ma in fondo è rimasto tutto uguale.

Una transizione infinita?

Una transizione, per essere tale, deve trascinare il paese da un regime politico a un altro. Ma se i due regimi di passaggio sono di fatto speculari, possiamo realmente parlare di transizione? In Romania farebbe molto bene la lettura del Gattopardo. Cambiare tutto, affinché non cambi niente. Parole che perfettamente si adattano alla Romania del 2019, un paese dove le grandi multinazionali spostano i propri uffici, dove ci si diverte con pochi euro, con un dinamismo innegabile.

Dietro questa grande superficie dorata sopravvivono i drammi della Romania comunista: un’élite di partito che governa il paese in modo dispotico, un culto del notabile locale che ricalca esattamente quello rivolto ai maggiorenti del partito comunista nei vari villaggi del paese, una massa enorme di contadini semi-analfabeti che basa la sua esistenza esclusivamente sugli aiuti statali.

Nel paese ribolle una piccola ma vivace società civile che cerca di combattere le storture del sistema, con risultati alterni, dovuti anche a una chiara disparità di forze. Difficile dire cosa ne sarà della Romania nel 2019, un anno che inizia con la presidenza del consiglio UE e che si concluderà con le elezioni presidenziali, l’appuntamento elettorale più importante della politica romena. Una cosa è certa; forse per capire meglio l’est europeo, bisognerebbe spostarsi più a sud-est, e abbandonare le ormai trite e ritrite categorie del populismo anti-europeista e sovranista. Purtroppo per tutti, la situazione è un po’ più complessa.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #173 il: Gennaio 09, 2019, 21:35:26 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Via-dai-Balcani-191525

Citazione
Via dai Balcani
Centinaia di migliaia di persone lasciano i Balcani, dove non vedono un futuro. Le cause oltre che economiche sono anche sociali e politiche

09/01/2019 -  Kosovo 2.0
(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0  )

Ogni giorno, nelle prime ore del pomeriggio, gli autobus verso l'Unione Europea partono dalla stazione principale della città di Subotica, Serbia settentrionale.

Tra i passeggeri in attesa di partire per Vienna c'è una ventenne di Novi Kneževac che ha intenzione di continuare la sua formazione in Austria. Non è disposta a parlare della sua partenza, ma suo padre dice a K2.0 che la madre è andata in Austria cinque anni fa e ora lavora come addetta alle pulizie in un hotel, per uno stipendio mensile di circa 1.500 Euro. Per lo stesso lavoro, in Serbia, riceveva da 16.000 a 20.000 dinari (circa 160 Euro).


"Con quello stipendio non puoi nemmeno mantenerti, e che dire di tutto il resto?", dice il padre, che ha preferito rimanere anonimo, mentre saluta la figlia. Aggiunge che lui rimarrà in Serbia con il figlio minore, ma crede che qualcosa dovrà cambiare nel Paese "perché altrimenti tutti se ne andranno".

Scene simili nelle stazioni degli autobus e dei treni, così come negli aeroporti – decine di persone che dicono addio ai propri cari che partono a tempo indeterminato – sono all'ordine del giorno in tutti i Balcani. Secondo il recente Rapporto alternativo sulle esigenze della gioventù in Serbia, il 71% degli intervistati ha dichiarato di voler lasciare il luogo in cui vive. I paesi dell'Europa occidentale rappresentano di gran lunga le destinazioni più popolari (45%).

Il rapporto rileva che la situazione è simile in tutta la regione e afferma che, sfortunatamente, i paesi non hanno risposte adeguate, né politiche demografiche per prevenire esodi di massa dei cittadini.

"La ricerca demografica dimostra che i giovani dei paesi della regione se ne vanno non solo a causa delle condizioni economiche, o come si dice 'trbuhom za kruhom' [per cercare fortuna], ma a causa dell'instabilità del sistema politico e del deterioramento dei valori", affermano le conclusioni del rapporto, basato su un sondaggio con 1200 intervistati.

Il numero esatto di coloro che lasciano la regione è praticamente impossibile da determinare con precisione a causa della mancanza di statistiche affidabili, ma la tendenza è comune a Serbia, Kosovo, Albania, Macedonia, Montenegro e Bosnia Erzegovina, nonché alla Croazia, l'unico paese della regione che è anche membro dell'UE.

Secondo i dati dell'Ufficio statistico tedesco, tra il 2013 e il 2017 quasi 240.000 persone si sono trasferite in Germania dalla sola Croazia: all'incirca la popolazione combinata di Spalato e Zara, le più grandi città della Dalmazia.

Circa 100.000 persone si sono trasferite nella direzione opposta, ma ciò lascia una migrazione netta dalla Croazia alla Germania di circa 140.000 persone in mezzo decennio. Secondo i dati ufficiali dalla Croazia, la maggior parte di chi lascia il paese ha fra i 20 e i 39 anni.

Nello stesso periodo 2013-2017, la migrazione netta dal Kosovo alla Germania è stata di circa 39.000 persone, dalla Serbia circa 29.000, dall'Albania circa 28.000, dalla Macedonia circa 24.000 e dal Montenegro oltre 3.000.


Diagnosi
Dalla Bosnia Erzegovina se ne sono andati oltre 2 milioni di abitanti dai primi anni '90, collocando il paese al 16° posto globale in termini di tasso di emigrazione secondo la Banca Mondiale. Mentre gran parte di questa migrazione si è verificata durante gli anni della guerra 1992-95, il numero sembra di nuovo in aumento.

La migrazione netta dalla Bosnia Erzegovina verso la Germania negli ultimi cinque anni è stata ufficialmente di circa 40.000 persone, 14.000 solo nel 2017.

Nel frattempo, le stime fatte localmente dall'ONG di Sarajevo Unione per il Ritorno e l'Integrazione Sostenibile indicano che oltre 160.000 dei 3,5 milioni di cittadini della Bosnia Erzegovina hanno lasciato il paese negli ultimi cinque anni, in numero sempre crescente di anno in anno.

Secondo i loro calcoli, nel 2014 se ne sono andate circa 27.000 persone, 29.000 l'anno successivo e 34.000 nel 2016. Nel 2017 si parla di circa 35.000 persone, mentre il direttore della ONG Mirhunisa Komarica Zukić ha recentemente dichiarato ai media locali che, secondo le stime, nella prima metà del 2018 se ne sono già andate 18.000.

I demografi avvertono che le cifre disponibili per il pubblico sono incomplete e, in quanto tali, particolarmente allarmanti.

Secondo uno studio del 2017, la causa principale dell'emigrazione è la disoccupazione, ma fra i motivi ci sono anche l'ambiente socio-economico, un sistema sanitario debole e l'instabilità dello stato. In alcune città le scuole sono semivuote e così le facoltà universitarie.

In una tendenza comune a diverse parti della regione, il personale (para)medico sembra particolarmente incline a lasciare il paese. "Secondo alcune stime, ogni giorno 1-2 medici lasciano il paese", ha dichiarato ai media locali Kristina Bevanda, presidente del Sindacato dei medici e del personale sanitario del Cantone di Erzegovina-Neretva. "A livello statale parliamo di circa 360 medici l'anno: un intero ospedale".

Simili le storie dalla Macedonia, anche se, secondo le ricerche disponibili, la "fuga dei cervelli" nelle università non riguarda più esclusivamente il personale medico e tecnico, ma anche discipline come legge, politica ed economia. Allo stesso tempo, solo lo 0,2 per cento del PIL è destinato alla scienza.

Tornando a Subotica, anche la professione sanitaria è colpita dall'emigrazione. Žolt Sendi, presidente del Sindacato infermieri e tecnici del Centro sanitario locale, afferma che il numero di chi chiede un congedo temporaneo non retribuito o un'aspettativa è in aumento: oltre 1.000 di questi lavoratori lasciano la Serbia ogni anno, stima.

"Chi parte ha per lo più fra i 30 e i 40 anni, parliamo di operatori sanitari esperti con diversi anni di servizio", afferma Sendi. "Partono quando sono più produttivi e le ragioni sono il sovraccarico, lo stress e la situazione economica. La loro partenza indebolisce il sistema di assistenza sanitaria sia primario che secondario".

Nenad Ivanišević, direttore del Centro di gerontologia di Subotica, afferma che questa istituzione è di fronte ad un esodo di dipendenti.

Ivanišević dice che ha dovuto fare una richiesta di "mediazione interregionale" al Servizio nazionale per l'occupazione, che ha reindirizzato i candidati che avevano fatto domanda di lavoro nelle professioni mediche in altre città in Serbia. Senza questo tipo di rinforzo, dice, la capacità di fornire servizi sarebbe stata compromessa.

Il Sindacato infermieri e tecnici stima che il 2-5% dei dipendenti, per lo più infermieri e tecnici, emigra ogni anno. Fra loro c'è il tecnico Zlatko Prćić, che dice di essersi trasferito in Inghilterra per poter vivere con dignità, "sia personalmente che professionalmente".

"In Serbia ho perso l'integrità come persona e come professionista", dice Prćić. "È diventato irrilevante che tu faccia il tuo lavoro in modo responsabile o meno".

Dice che la vita in Inghilterra non è perfetta, ma che almeno ha uno stipendio che gli consente di mantenersi e di aiutare i suoi genitori in Serbia.

"Fuga organizzata"
Secondo Viktorija Aladžić, docente presso la Facoltà di ingegneria civile di Subotica, gli studenti nelle facoltà universitarie locali sono in diminuzione. Crede che la ragione principale non sia solo uno stato non funzionale, ma anche le dinamiche sociali.

"La qualità delle relazioni sociali e interpersonali all'interno della famiglia, con gli amici, con i colleghi e così via è tra i fattori più importanti per la felicità individuale e collettiva", dice Aladžić.

Secondo la docente, in una società in cui queste relazioni sono disfunzionali, dove è normale che i datori di lavoro abusino dei lavoratori o che i membri di una famiglia si maltrattino a vicenda, dove le persone si trattano con odio, disprezzo, sottovalutazione e mancanza di rispetto, è naturale per i cittadini – soprattutto i giovani – voler andare a vivere altrove.

Fra chi ha lasciato Subotica c'è Tamara Olman. Laureata in economia, ha lasciato la Serbia all'inizio dei trent'anni e da quattro vive a Vienna. "Ora vivo in un paese dove le regole sono rispettate, dove esiste l'ordine, dove lo Stato si prende cura dei suoi cittadini, dove ci sono molte opportunità e privilegi e dove il sistema sociale è regolato correttamente", dice.


Olman lavora come cameriera mentre impara la lingua locale e dice che, all'arrivo a Vienna, lo stato austriaco le ha dato l'opportunità di frequentare un corso di contabilità.

In Serbia, trovare lavoro con una laurea in economia è stato "impossibile", dice. "Ho bussato a mille porte, ma invano. Sono arrabbiata e delusa per non essere riuscita a trovare lavoro tramite la normale procedura, e questo è il motivo per cui ho lasciato il mio paese".


Storie come quelle di Olman sono comuni a Subotica.

Il sociologo Branislav Filipović ritiene che la ragione principale dell'esodo dei giovani dalla città sia la scarsa politica economica e demografica, mentre gli indicatori dagli altri paesi dei Balcani occidentali ritraggono una situazione simile in tutta la regione.

"I giovani di Subotica non se ne vanno semplicemente", dice. "È meglio parlare di fuga organizzata".

Secondo Filipović, le cause sono l'insicurezza, la corruzione, l'apparato statale disfunzionale, i bassi salari e tutto quanto caratterizza la vita di tutti i giorni.

"Con la partenza di professionisti e giovani istruiti, la città e lo stato stanno perdendo l'essenza sociale dei possibili cambiamenti", dice Filipović.

Anche Nevena Miljački Ristić ha lasciato Subotica negli ultimi anni, vedendo l'opportunità di una vita più confortevole lontano dal paese d'origine. Oggi vive negli Stati Uniti, in una "bellissima cittadina" chiamata Woodlands, ai margini di Houston, in Texas.

"Il motivo principale per cui siamo partiti è stato puramente economico: nonostante il lavoro di mio marito e i due che facevo io, non potevamo avere più dello stretto necessario, forse nemmeno quello", dice. "Con un bambino in arrivo, non avevamo altra scelta che andare da qualche parte dove saremmo stati pagati per il nostro lavoro".

Ristić punta il dito sul nepotismo e la conseguente limitazione delle opportunità disponibili attraverso il semplice duro lavoro. "La disponibilità e l'affiliazione a determinati partiti o gruppi sono molto più apprezzate rispetto all'esperienza o alla voglia di avanzare", dice, aggiungendo che altri suoi conoscenti che hanno lasciato la Serbia lo hanno fatto dopo aver già perso troppi anni "sperando che le cose sarebbero migliorate".

Partire per sempre

Molti degli stessi problemi che affliggono la Serbia sono presenti nel vicino Kosovo. Le code davanti alle ambasciate sono lunghe da molti anni e sono formate in particolare da giovani.

Ciò è dovuto in gran parte alla mancanza di un regime liberalizzato di visti con i paesi dell'Unione europea; dal 2010, i cittadini kosovari sono gli unici nella regione a dover ancora richiedere il visto per recarsi nell'area Schengen.

Inoltre, di fronte alle scarse prospettive economiche, alla corruzione politica endemica e ad uno stato di diritto a malapena funzionante, negli ultimi anni decine di migliaia di kosovari hanno tentato di lasciare il paese definitivamente.

Il più notevole è stato l'esodo di massa del 2014-15, quando centinaia di kosovari partivano ogni giorno, principalmente diretti a Belgrado in autobus prima di tentare di attraversare l'Ungheria e poi proseguire verso altri paesi dell'Unione europea. A febbraio 2015, 1.400 kosovari attraversavano ogni giorno il confine dalla Serbia verso l'Ungheria, mentre nei primi mesi di quell'anno 42.000 kosovari hanno presentato domanda di asilo nell'UE.


Sono state adottate diverse misure politiche per cercare di impedire ai kosovari di andarsene e incentivare il loro ritorno, ma poco è stato fatto per cambiare il fatto che un gran numero di kosovari non riesce a vedere un futuro nel paese d'origine.

Tra il 2012 e il 2016 122.657 persone sono emigrate dal Kosovo, legalmente o illegalmente, per la maggior parte dirette in Germania. Secondo l'Eurostat, i kosovari hanno acquisito permessi di soggiorno principalmente in Germania (47%), Italia (12%), Francia e Austria (circa 9%) e Slovenia (circa 7%). Nel 2016, oltre 21.000 kosovari avevano permessi di soggiorno validi nei paesi dell'UE.

Nel tepore autunnale di un giorno di ottobre, la fila è come sempre lunga di fronte all'ambasciata svizzera.

Fra coloro che restano in fila per ore, in attesa di presentare la domanda di visto, c'è Jetlir, 21 anni. Dice a K2.0 che è uno studente e vuole andarsene perché non vede un futuro in Kosovo. "Non vedo nulla", dice. "Anche quando prenderò la laurea, non riuscirò a trovare un lavoro".

Jetlir crede di avere poche possibilità di ottenere un visto, ma deve comunque provare. "Se approveranno la mia domanda di visto, andrò da mio zio in Svizzera, che ha promesso di aiutarmi a trovare lavoro in un cantiere edile", dice.

Nonostante la tanto attesa esenzione dal visto per i cittadini kosovari – quando e se arriverà – solo per i viaggi turistici di breve durata, Jetlir, come molti dei suoi compatrioti, equipara la liberalizzazione dei visti con l'opportunità di lasciare il paese a più lungo termine. "Spero che la liberalizzazione del regime dei visti accada presto, perché fare la fila sta diventando molto stancante", dice. "Allora partiremo da esseri umani".

Nella linea vicino a Jetlir c'è Enver, quasi il doppio della sua età. Anche lui vuole lasciare il Kosovo e non tornare indietro.

"Spero che mi diano un visto e spero di riuscire a trovare un lavoro, perché qui non c'è lavoro per me", dice. "Il tempo per la nostra generazione sta per scadere, ma almeno possiamo fare qualcosa perché i nostri figli abbiano ciò che ci è mancato negli ultimi 20 anni".

Alla ricerca di ispirazione
Oltre confine, in Montenegro, le prospettive economiche per i giovani sono equamente cupe. La disoccupazione giovanile nello stato meno popoloso della regione è oltre il 40% e gli studi dimostrano che oltre la metà dei giovani (tra i 16 e i 27 anni) vuole andarsene.

Molti lo hanno già fatto. Secondo il Forum locale delle ONG di istruzione informale, nell'ultimo decennio 10.000 giovani hanno lasciato il paese, che ha solo poco più di 620.000 abitanti.

Fra loro c'è Dušan, 30 anni, che ha lasciato il paese quasi 10 anni fa e non pensa ancora a tornare.


"Lo stato non ispira i giovani", dice riferendosi all'onnipresente problema regionale del nepotismo. "Lo stato ci dice che è OK usare qualsiasi tipo di legame per ottenere qualcosa nella vita".

Stufo della situazione nel suo paese d'origine, Boris, 30 anni, laureato in scienze politiche, ha deciso di fare le valigie e lasciare il Montenegro l'anno scorso. Si è diretto negli Stati Uniti, dove ha un lavoro, e dice che non ha intenzione di tornare nei Balcani.

Come Dušan, Boris indica nel nepotismo il fattore chiave che impedisce ai giovani di entrare nel mercato del lavoro, ma afferma anche che mancano efficaci politiche del lavoro.

"L'alto livello di influenza politica, come favorire un partito rispetto all'altro e la mancanza di armonizzazione dei profili di esperti e professionisti con le esigenze del mercato del lavoro, sono le ragioni principali per cui i giovani non trovano lavoro o realizzarsi come esperti o professionisti nel loro settore", dice.

Boris ritiene che le attuali politiche statali non dimostrino interesse a mantenere realmente i giovani nel paese. "Se consideriamo che il Montenegro, nonostante sia membro della NATO e candidato all'adesione all'UE, continua a mostrare enormi segni di debolezza nell'area dello stato di diritto e della discriminazione politica... non sorprende che, secondo la ricerca, più della metà della popolazione giovanile totale voglia lasciare il Paese", dice.

Alcuni passi sono stati fatti nel tentativo di migliorare le prospettive economiche dei giovani.

Sei anni fa, il ministero della Pubblica Istruzione ha avviato un programma di formazione professionale. Questo schema offre ai laureati la possibilità di avere uno stage di nove mesi in media, banche o altre società con uno stipendio mensile di 250 Euro fornito dallo stato.

Finora sono stati investiti in questo progetto più di 30 milioni di Euro, ma ci sono stati problemi con l'implementazione. Voci critiche nella società civile parlano di mancanza di informazioni sui datori di lavoro e su chi controlla il sistema di domande e stage. Ci sono anche interrogativi sull'efficacia formativa del programma.

Ulteriori sforzi per ridurre la disoccupazione giovanile sono stati compiuti due anni fa, quando il Montenegro ha introdotto la Legge sui giovani e adottato una Strategia per la gioventù 2017-21, che ha riconosciuto che "il mercato del lavoro in Montenegro ha un grave problema di assorbimento dei giovani che hanno completato la scuola".

Sempre nel 2016 è stata istituita una Direzione per la Gioventù presso il ministero dello Sport, incaricata di "promozione, sviluppo e miglioramento della politica giovanile a livello nazionale e locale".

Nenad Koprivica, direttore generale dell'ente, spiega a K2.0 che è della massima importanza che tutte le istituzioni coinvolte nella promozione dell'occupazione giovanile "coordinino le attività e sviluppino capacità istituzionali". Per ora, tale coordinamento sembra carente e i cittadini hanno visto pochi segni di miglioramento.

Nella sua ultima relazione sui progressi del Montenegro, la Commissione europea sottolinea che le donne, i giovani e i disoccupati di lungo periodo trovano più difficile trovare lavoro. Nel frattempo, secondo i dati dell'Agenzia per il lavoro del Montenegro, 5.779 laureati sono attualmente disoccupati, così come 243 persone con un master e 10 con un dottorato.

Nonostante le misure adottate sulla carta per aumentare le opportunità economiche, la mancanza di risultati concreti ha portato molti cittadini del Montenegro, così come le loro controparti in tutta la regione, a vedere il proprio futuro altrove.

Una scelta personale
L'impatto su coloro che hanno preso la decisione di lasciare la regione varia da persona a persona.

Alcuni, come Ervin Heđi, 26 anni, del villaggio di Palić vicino a Subotica, sono certi di aver preso la decisione giusta, e non guardano indietro.

Heđi ora lavora come operaio edile a Vienna per uno stipendio mensile compreso tra i 2.600 e 2.800 Euro. Dice di avere più conoscenze all'estero che in patria, e quando torna a casa non c'è quasi nessuno da visitare. "Ho vissuto all'estero per un anno e non ho intenzione di tornare a casa", dice.


Per altri, però, la decisione di allontanarsi suscita sentimenti contrastanti.

Marko Makivić è stato per 10 anni attore del Teatro Nazionale di Subotica, dove è apparso in oltre 25 rappresentazioni. Stanco del "degrado della società... in favore di una minoranza di nuovi ricchi arrampicatori sociali", ha lasciato la Serbia l'anno scorso e ha vissuto a Bangkok, in Thailandia, lavorando come insegnante di inglese.

"La maggior parte delle persone è acutamente insensibile e la loro passività si è metastatizzata", dice Makivić della situazione in patria. "Certo, c'è un piccolo numero di persone attive che stanno cercando, nelle proprie possibilità, di rinvigorire e svegliare le persone intorno a sé".

La decisione di andarsene è stata dura per Makivić e, come per molti altri che hanno lasciato la regione, rimane per lui un grosso peso.

"Sono triste per gli amici che non vedo da molto tempo, sono triste perché mi manca il mio pubblico... ci sono molte cose per cui sono triste", dice. "In qualche modo, tutto si riduce a due opzioni: essere felice, ma legato, o essere libero, ma a volte triste. Ognuno deve fare la propria scelta, me compreso".

Scritto da Natalija Jakovljević, Sanja Rašović, Nidžara Ahmetašević i Fitim Salihu.

Revisione/editing: Jack Butcher

Elaborazione grafici Roberta Bertoldi - OBCT

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #174 il: Gennaio 10, 2019, 00:12:44 am »
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Croazia-genere-e-spazio-urbano-le-donne-dimenticate-191667

Citazione
Croazia: genere e spazio urbano, le donne dimenticate

Lo spazio urbano è fondamentale nel processo di creazione di una memoria collettiva e per immaginare il futuro. In Croazia, nella toponomastica, non vi è però traccia di nomi femminili

08/01/2019 -  Ana Kuzmanić,  Ivana Perić      Zagabria
Le visualizzazioni dello spazio pubblico urbano giocano un ruolo importante nel plasmare la memoria collettiva e nell’immaginare un futuro (diverso). Nella toponomastica delle città croate non vi è quasi alcuna traccia delle donne. Delle 64 città croate incluse nell’analisi di H-Alter, solo in 9 la percentuale di strade intitolate a donne è pari o superiore al 5%. In più della metà delle città analizzate, comprese alcune delle più grandi città del paese, questa percentuale è inferiore al 2%. In 11 città non esiste alcuna strada intitolata a donne.

Europa, non c’è spazio per le donne nella memoria urbana
Questa prassi vergognosa non è circoscritta esclusivamente alla Croazia. A giudicare dai nomi delle strade nelle principali città europee, la storia appartiene agli uomini. Se l’identità delle città è “maschile”, dov’è il posto (e quando arriverà il tempo) delle donne?

Le città in Croazia, e in tutta Europa, tuttora rispecchiano il sistema patriarcale che relega la donna all’ambito domestico, dove il suo ruolo primario è quello di generatrice della vita, ovvero di madre.


Nell’agosto di quest’anno, migliaia di donne hanno protestato a Parigi perché solo il 2,6% delle strade nella capitale francese è intitolato a donne. Delle 166 donne a cui sono dedicate  le strade di Parigi, la maggior ha avuto questo riconoscimento solo perché erano mogli o figlie di uomini famosi. Pertanto, il gruppo femminista “Osez le Féminisme” ha deciso di impegnarsi per cambiare la situazione, cominciando col proporre una lista di donne meritevoli – tra scienziate, artiste e donne rivoluzionarie – a cui dedicare nuove strade di Parigi.

Nel 2012, Maria Pia Ercolini, insegnante di geografia di Roma, ha analizzato le titolazioni delle strade della capitale e i risultati sono scoraggianti. Dall’analisi è emerso, infatti, che a Roma solo il 3,5% delle strade è dedicato a donne. Ercolini ha creato su Facebook il gruppo “Toponomastica femminile”, come un punto di partenza per una campagna finalizzata a porre rimedio a questo squilibrio. Migliaia di cittadini e cittadine di Roma hanno aderito alla sua iniziativa.

Sulla base di una legge approvata nel 2007, le città spagnole hanno revocato le titolazioni di strade ai membri del regime franchista. Il messaggio è stato chiaro: non c’è spazio per il fascismo nelle strade. In alcune città, come Léon e Valencia, le autorità hanno deciso di sfruttare l’occasione per dare adeguata visibilità alla storia delle donne, titolando le strade rimaste senza nome alle donne che meritano di essere omaggiate.

Di recente, la città di Bruxelles ha lanciato una campagna di crowdsourcing per la titolazione di nuove strade. La città sta realizzando 28 nuove strade e i cittadini del paese sono stati invitati a fare proposte. È stata la prima volta che la capitale belga ha dato ai cittadini l’opportunità di proporre un nome per le nuove strade, e tra le numerose proposte c’erano molti nomi di donne, sistematicamente marginalizzate nella titolazione di nuove strade.

Croazia, l’assenza simbolica delle donne a Zagabria
L’anno scorso Katja Vretenar e Zlatan Krajina della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Zagabria hanno condotto una ricerca i cui risultati hanno mostrato che Zagabria si è trasformata in una città degli uomini: le donne, nonostante la loro presenza fisica, sono “simbolicamente assenti”.

Nel maggio 2018, reagendo all’iniziativa del consiglio comunale di Zagabria di intitolare il parco di fronte al caffè letterario “Booksa” in via Martićeva a uno scrittore, l’associazione “Kulturtreger” ha lanciato una petizione intitolata “Park književnicama!” [Parco alle scrittrici!].

Gli organizzatori della petizione hanno sottolineato che sarebbe ora che la città ponesse fine alla discriminazione e all’ingiustizia nei confronti delle donne meritevoli che hanno lasciato tracce significative nella vita letteraria e culturale di Zagabria. Tuttavia, il consiglio comunale ha deciso di ignorare la petizione e, nel luglio 2018, ha dedicato il parco allo scrittore Enver Čolaković, marginalizzando ancora una volta non solo le tre scrittrici proposte nella petizione (che ha raccolto oltre 1600 firme), ma tutte le donne che meritano di essere ricordate dalla città di Zagabria.

Spinte dal desiderio di stimolare un cambio di rotta su questo fronte, abbiamo analizzato le intitolazioni delle strade in 64 delle 128 città croate. Nella nostra analisi non abbiamo preso in considerazione le strade intitolate ai coniugi (marito e moglie) perché riteniamo che tale percezione della donna rifletta la logica patriarcale. Abbiamo inoltre escluso dall’analisi le strade intitolate alle figure femminili che possono essere considerate fittizie, come le fate o quelle intitolate alle donne sante.

Va inoltre sottolineato che, nei casi in cui le autorità locali non ci hanno consegnato elenchi completi delle strade, abbiamo usato i dati disponibili su Internet, che possono non corrispondere fedelmente alla situazione attuale, ma crediamo che tali variazioni siano trascurabili, tali da non poter incidere sul risultato finale.

Abbiamo analizzato 15.010 intitolazioni, di cui solo 297, ovvero il 2,37% è femminile.

Le città migliori e peggiori
Delle 64 città analizzate, in 11 non esiste alcuna strada intitolata a una donna. Si tratta delle seguenti città: Benkovac, Buje, Buzet, Čazma, Duga Resa, Gospić, Imotski, Ivanec, Novi Marof, Sinj e Slunj.

In cima alla classifica è la città di Belišće, dove 4 delle 49 strade sono intitolate a donne (8,16%). Solo in 9 città la percentuale delle strade intitolate a donne è pari o superiore al 5%: Belišće (8,16 %), Čakovec (5.14 %), Hvar (5,20 %), Krapina (5,33 %), Opatija (5,15 %), Orahovica (5,06 %), Požega (6,83 %), Pregrada (5,13 %) e Slatina (6,45 %).

In più della metà delle città analizzate, comprese alcune delle principali città del paese, questa percentuale è inferiore al 2%.


Più grande è la città, più profondo è l’oblio
Nell’analisi sono state incluse le 8 principali città croate: Zagabria, Spalato, Fiume, Osijek, Zara, Pola, Slavonski Brod e Karlovac. È emerso che a Zagabria solo lo 0,95% delle strade è dedicato a donne, a Spalato 1,89%, a Fiume 3,75%, a Osijek 1,89%, a Zara 3,68%, a Pola 1,61%, a Slavonski Brod 2,84% e a Karlovac 1,46%.

Quindi, in 5 delle 8 principali città, la percentuale delle strade dedicate alle donne è inferiore al 2%. La situazione peggiore è a Zagabria (lo 0,95%), e la migliore, anche se lungi dall’essere ideale, a Fiume (3,75%).

È da notare inoltre che, oltre ad essere completamente marginalizzate nelle titolazioni di strade, alle donne non vengono quasi mai dedicati grandi spazi pubblici, come piazze e parchi. La maggior parte delle città analizzate non ha nemmeno un parco o una piazza a nome di una donna.


Chi sono le donne a cui vengono intitolate le strade?
La maggior parte delle strade con nomi di donne nelle città analizzate è dedicato alla scrittrice Ivana Brlić Mažuranić (16), alla scrittrice e giornalista Marija Jurić Zagorka (13), alla pittrice Slava Raškaj (12) e alla compositrice Dora Pejačević (11).

Molte strade nelle città croate sono intitolate alla donne sante (via Santa Lucia a Novi Vinodolski; via Sant’Agata a Novigrad; via Santa Maria a Novalja, Dubrovnik e Zara; via Santa Margherita a Karlovac; strada di Sant’Anna a Bjelovar, ecc.), alla Vergine Maria (via della Natività di Maria a Novigrad, via della Madonna di Zečevo a Nin, via della Madonna della Neve a Požega, via dell’Assunzione a Slavonski Brod, via della Madonna della Pace a Sebenico, via della Madonna del Mare a Trogir, ecc.), nonché alle fate (via della Fata di Velebit a Metković e Nin).


Al posto di una conclusione
Nelle città analizzate non abbiamo riscontrato nessuna strada dedicata ad alcune delle donne più importanti nella storia croata, per cui abbiamo creato la seguente lista come una fonte di ispirazione per le future e (speriamo) tempestive (re)intitolazioni delle strade in tutto il paese: Nada Dimić, Daša Drndić, Božena Begović, Anka Berus, Paula Landsky, Marija Braut, Mirjana Gross, Nada Mihelčić, Vesna Krmpotić, Mare Žebon, Katarina Dujšin Ribar, Mara Čop Marlet, Dunja Rihtman-Auguštin, Vinka Bulić, Elza Kučera, Ivana Tomljenović Meller, Žarana Papić, Olga Pavlinović, Vera Dajht Kralj, Nada Klaić, Jelena Krmpotić-Nemanić, Vanda Kochansky-Devidé, Jasenka Kodrnja, Zoja Dumengjić, Nives Kavurić-Kurtović...

Quest'articolo è stato originariamente pubblicato da H-Alter. E' pubblicato in collaborazione con l'European Data Journalism Network  e ripubblicabile con licenza CC BY-SA 4.0  .

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #175 il: Gennaio 10, 2019, 20:55:27 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/95005

Citazione
MITTELEUROPA BALCANI BALCANI ORIENT. RUSSIE BALTICO MEDIO ORIENTE CAUCASO ASIA CENTRALE EUROPA(e)
CROAZIA: L’epilogo del caso Agrokor, il colosso agroalimentare evita il fallimento
Pierluca Merola  4 ore fa

Nel corso dell’autunno 2018 si è consumato l’epilogo del caso Agrokor in Croazia, apertosi nell’aprile 2017, quando il colosso agroalimentare a forte rischio fallimento fu commissariato con una legge ad hoc dal governo croato.

Lo scorso 7 novembre, dopo un anno dalla sua iscrizione nel registro degli indagati per falso in bilancio e appropriazione indebita, Ivica Todoric, ex-presidente e proprietario di maggioranza dell’Agrokor, è stato finalmente estradato in Croazia. Nel frattempo, si è concluso il commissariamento straordinario dell’Agrokor e i creditori internazionali hanno rilevato il conglomerato croato.

Continuano invece gli scambi di accuse tra Todoric e il governo croato. Con l’arresto di Todoric, l’ex-ministro dell’economia Martina Dalic celebra la fine del “capitalismo clientelare” in Croazia. Mentre, dal canto suo, Todoric, in libertà vigilata, si candida alle elezioni e accusa la leadership croata di svendere il paese al capitale straniero.

L’estradizione di Todoric

Il magnate Ivica Todoric è stato estradato in Croazia un anno dopo la sua fuga all’estero dell’ottobre 2017, che seguì il mandato d’arresto emesso dalla corte distrettuale di Zagabria per i reati di falso in bilancio e appropriazione indebita. Dopo un mese di latitanza, a novembre 2017, Todoric si era consegnato alla polizia di Londra, dichiarando di essere un perseguitato politico. A ciò seguirono un anno di verifiche da parte dei tribunali di Londra, che hanno poi confermato l’estradizione il 25 ottobre 2018.

Secondo l’accusa, Ivica Todoric avrebbe coperto le perdite dell’Agrokor gonfiando il valore delle controllate della compagnia e alterando i libri contabili. Inoltre, mentre la compagnia era virtualmente fallita, la famiglia Todoric si sarebbe appropriata di circa 133 milioni di euro.

Va qui ricordato che l’Agrokor, con un fatturato di 6,5 miliardi di euro l’anno, è la più grande società per azioni dell’Europa sud-orientale. La società è presente in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Ungheria, Slovenia e Serbia, dove impiega più di 130.000 persone. Infine, il valore dell’Agrokor è pari da solo al 16% del PIL croato.

La scambio di accuse tra Todoric e il governo croato

Da quando è fuggito nell’ottobre 2017, Todoric ha sempre dichiarato di essere vittima di una congiura internazionale, orchestrata dal governo croato e dal fondo di investimento americano Knighthead Capital Investments, per privarlo della propria compagnia.

Nella realtà, nel corso dell’estate del 2017, in seguita all’analisi approfondita dei libri contabili e all’emersione dei falsi in bilancio, è avvenuta una rottura tra il governo croato e Ivica Todoric fino ad allora d’accordo sulle modalità di salvataggio statale dell’Agrokor. In seguito a questa rottura, Todoric cominciò a inviare alla stampa croata i diversi scambi di mail che precedettero l’adozione della legge ad hoc per il salvataggio statale della compagnia.

La pubblicazione di queste mail portò allo scoppio di uno scandalo quando fu chiaro che i professionisti che a vario titolo fornirono una consulenza gratuita all’allora ministro dell’Economia Martina Dalic furono poi ricompensati con posizioni di rilievo nel commissariamento straordinario e nella ristrutturazione dell’Agrokor. A stretto giro, il primo ministro Andrej Plenkovic, benché rifiutando le accuse di clientelismo e conflitto di interessi nei confronti della Dalic, ha comunque riconosciuto il metodo non ortodosso con cui fu gestito il commissariamento e quindi richiesto le dimissioni al suo ministro a maggio 2018.

Il reciproco scambio d’accuse tra Ivica Todoric e Martina Dalic è proseguito anche dopo le dimissioni di quest’ultima. Tanto che, dopo le dimissioni, costei si è fiondata nella stesura di un libro dal titolo altisonante: “la fine del capitalismo clientelare in Croazia”. Dove per “capitalismo clientelare” si intende un tipico sistema economico dei paesi post-comunisti in cui le grandi imprese nazionali prosperano e accumulano risorse grazie alla commistione tra potere politico e oligarchie economiche.

In questo libro, la Dalic inscrive quindi l’episodio del collasso dell’Agrokor, del suo commissariamento e dell’arresto di Todoric, nell’onda lunga di quella transizione economica che dall’economia socialista jugoslava, attraverso le oligarchie e le clientele di era Tudjmaniana, starebbe finalmente portando la Croazia a divenire una piena economia di mercato. In disaccordo con questa lettura, Todoric, in libertà vigilata, ha dichiarato che si candiderà alle elezioni nazionali “per cambiare veramente il paese”.

La fine del commissariamento

Nel frattempo, i creditori internazionali hanno raggiunto a luglio 2017 un accordo sul nuovo assetto societario dell’Agrokor, poi confermato dalla corte commerciale di Zagabria a ottobre 2018. Secondo l’accordo raggiunto, i crediti nei confronti dell’Agrokor sono stati convertiti in azioni della società. Tre società sono state quindi fondate in Olanda per ripartire i proventi della compagnia tra gli ex-creditori, ora azionisti, per gestire il ripagamento dei debiti rimanenti pari a 1,3 miliardi di euro e pianificare le ulteriori dismissioni, e per la possibile futura uscita dei creditori dall’azionariato dell’Agrokor.

Il nuovo assetto societario vede la banca russa Sberbank come socio di maggioranza con il 39,2% delle azioni, seguita dagli ex-obbligazionisti con il 25% delle azioni, la cui maggioranza è gestita dalla Knighthead Capital Investments. Partecipazioni minori sono poi detenute dalla russa VTB bank (7,5%) e dall’italiana Unicredit (2,3%).

In capo a quasi due anni, l’Agrokor è quindi uscita dal rischio fallimento. Il governo croato ha effettivamente raggiunto il suo principale obbiettivo: evitare che il collasso dell’Agrokor colpisse altri settori economici e assicurare il pagamento dei crediti ai piccoli fornitori agricoli. Tuttavia, il nuovo assetto societario è ora composto da fondi speculativi e banche d’investimento poco interessati alla gestione a lungo termine. È quindi probabile che l’azienda venga ulteriormente spacchettata e svenduta per permettere a quest’ultimi di rientrare dell’investimento.

La saga del collasso dell’Agrokor volge così al termine: un ex-ministro in odore di conflitto di interessi celebra la fine del “capitalismo clientelare” in Croazia, un ex-proprietario sotto processo si candida alle elezioni, mentre viene spostata verso il nord Europa la sede deputata a distribuire i proventi del maggior conglomerato dell’Europa sudorientale. Probabilmente l’epilogo più scontato per una storia di transizione economica in un paese post-comunista d’Europa: dalle acquisizioni di proprietà statali a prezzi simbolici, agli abusi finanziari coperti dal potere politico, alla sede in Olanda.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #176 il: Gennaio 10, 2019, 20:59:30 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-un-analisi-della-crescita-demografica-191886

Citazione
Cecenia: un'analisi della crescita demografica
Perché in Cecenia come in altre repubbliche del nord del Caucaso si registrano tassi di natalità molto superiori alla media della Russia?

10/01/2019 -  Marat Iliyasov
Nel contesto di declino generale o crescita quasi zero della popolazione in Russia (si veda tabella 1), sono poche le regioni che mostrano la tendenza opposta. Tra queste vi sono le repubbliche politicamente instabili del Caucaso settentrionale: Cecenia, Inguscezia e Daghestan.

Demografia e sicurezza
"Hai tantissimi bambini", commenta un sorpreso giornalista europeo in visita in Cecenia, ospite di una famiglia cecena per una notte. "Sai, la guerra... niente elettricità... niente da fare...", risponde scherzosamente il padrone di casa.

In effetti, tre o più figli per famiglia sono la norma in Cecenia, Inguscezia e Daghestan. Come dimostrano le tabelle seguenti, queste tre repubbliche del Caucaso del Nord sono molto vicine in diversi indicatori demografici, fra cui gli alti tassi di natalità, bassi tassi di mortalità e rapida crescita naturale (che non include la migrazione). Quest'ultimo fattore causa le solite preoccupazioni alle amministrazioni locali, che devono garantire alla popolazione in crescita sufficienti asili nido, scuole, parchi giochi, stadi, ospedali, luoghi di lavoro, ecc..


Oltre alla crescita demografica, queste repubbliche condividono anche l'instabilità politica. Negli anni 2008-2010 la testata online Caucasian Knot  , che monitora la situazione nella regione, ha registrato perfino un minor numero di morti legate alla violenza in Cecenia rispetto all'Inguscezia e al Daghestan. Ciò ha spinto gli analisti a parlare di una ramificazione della guerra russo-cecena, che stava diventando una nuova guerra caucasica.

Tuttavia, all'inizio del 2010, i governi locali supportati da Mosca sono riusciti a imporre un controllo più stretto sul territorio e calmierare la violenza. Queste dure politiche hanno causato maggiore emigrazione e trasformato la regione nel principale fornitore dalla Russia di combattenti per l'Isis.

La ricetta: limitare i tassi di natalità
L'instabilità, purtroppo, è rimasta. Un numero enorme di giovani è rimasto in patria, aumentando il numero di persone deluse dall'incapacità dei governi locali di garantire un impiego o una qualità di vita soddisfacente. A causa degli alti tassi di natalità, questi numeri aumentano ogni anno, il che delinea un'altra preoccupazione, questa volta direttamente correlata al governo federale russo.

Vladimir Zhirinovsky, politico russo di dubbia reputazione e idee radicali, ha ripetutamente espresso questa preoccupazione sulla TV russa e altri media: gli alti tassi di natalità e l'educazione che i bambini ricevono nel Caucaso settentrionale aumentano la minaccia del terrorismo. "Allevano i loro figli preparandoli a morire uccidendo russi e cristiani... Costruire nuove fabbriche e migliorare la situazione occupazionale non risolverà questo problema. Perché faranno sempre più figli... Dobbiamo limitare i loro tassi di natalità. Devono dare alla luce solo uno o due bambini come l'umanità intera. Dovrebbero essere multati per il terzo figlio...".

Dal discorso di Zhirinovsky si evince che le due guerre russo-cecene del 1994-1996 e 1999-2009 hanno lasciato il timore che nel Caucaso settentrionale si stiano preparando i figli ad una nuova guerra. La mia ricerca condotta con i ceceni nel periodo 2014-2017 si poneva queste domande: quali sono le ragioni principali dell'alto tasso di natalità ceceno? La crescita della popolazione cecena è collegata alle recenti guerre nella regione? Se sì, in che modo?

"Sopravvivere ed essere forti"
La ricerca ha confermato il legame tra la demografia e la minaccia esistenziale. Tuttavia, "la preparazione" alla prossima guerra per i ceceni significa piuttosto aumentare la capacità difensiva o la possibilità di sopravvivenza della nazione rafforzandosi numericamente. È stata questa la ragione che ha incoraggiato i ceceni a scegliere famiglie più numerose anche durante la guerra, contrariamente a quanto si potesse prevedere. In effetti, il tasso di natalità medio durante la fase più dura della seconda guerra (si veda tabella 2) è rimasto simile alla situazione prebellica. Il declino dell'intensità della guerra ha poi quasi raddoppiato i tassi di natalità.

La spiegazione più comune di questo fenomeno da parte dei miei intervistati è riassunta nella seguente narrazione. "Siamo costantemente in guerra con la Russia. Ci saremmo estinti se non avessimo famiglie numerose. E questa è la ragione principale. Abbiamo bisogno di famiglie numerose, così la nostra nazione sarà forte e nessuno oserà attaccarci. Inoltre, più grande è la nazione, meglio è. Se abbiamo più persone, significa che abbiamo più possibilità di avere buoni studiosi, musicisti, scrittori, ecc.. Più grande è la nazione, maggiori sono le probabilità che possa prosperare. Voglio che la mia nazione sia forte e quindi voglio molti bambini".

La connessione tra guerra e tassi di nascita di cui parlavano i miei intervistati non era sempre correlata al patriottismo, come espresso nella citazione precedente. Alcuni facevano riferimento al tramandare il cognome. La guerra mette a rischio anche questa possibilità. "Avevo già più di trent'anni quando è iniziata la guerra, e mi dicevo... E se muoio? Non ci sarà nessuno a prendere il nome di famiglia... Non mi sembra giusto".


Il patriottismo dei maschi ceceni era condiviso anche dalle donne intervistate. Erano anche loro consapevoli delle piccole dimensioni della nazione cecena e volevano che fosse più forte. Tuttavia, un'intervista con una delle donne cecene ha rivelato che anche altri fattori giocano un ruolo importante. L'intervistata era in stretto contatto con altre donne cecene rifugiate e ha riportato una delle conversazioni che ha avuto con loro. Questa conversazione ha dimostrato il forte desiderio di avere famiglie numerose, ma non ha chiaramente articolato la fonte di tale desiderio. "Una donna mi ha detto: 'Gli assistenti sociali qui non vogliono che facciamo bambini. Cercano di 'educarci'. Ci suggeriscono di usare i contraccettivi, ma noi vogliamo avere molti bambini... Le ho chiesto, perché? E lei mi ha detto: 'Che strana domanda... non sei una donna cecena?'".

Altri motivi
In effetti, anche gli uomini ceceni citano altri fattori che spingono alla procreazione, principalmente religione, tradizioni, motivi economici e stile di vita rurale. Le spiegazioni fornite possono essere riassunte in poche frasi.

La religione ha un ruolo importante secondo molti intervistati. L'Islam (la religione principale in Cecenia e nel Caucaso settentrionale), secondo loro, incoraggia la procreazione. Dio promette di dare a ciascuno ciò che gli appartiene e quindi non ci si preoccupa molto delle finanze.

Gli intervistati che hanno citato il ruolo delle tradizioni (il secondo gruppo più numeroso) sottolineano che una famiglia numerosa significa migliori possibilità in un probabile scontro per qualsiasi motivo. "Se hai molti figli, hai delle persone che ti sostengono", hanno affermato molti intervistati.

Le ragioni economiche sono state citate da un minor numero di intervistati. "Più ricco sei, più bambini puoi permetterti", era l'atteggiamento generale.

Meno intervistati hanno citato il fattore dello stile di vita rurale, affermando che favorisce famiglie più numerose e che i nord caucasici sono per lo più contadini.

Infine, solo pochi intervistati hanno menzionato un istinto naturale, il bisogno di diventare genitori.

È importante notare che, nel caso analizzato (i ceceni), tutte queste ragioni venivano dopo la necessità di sopravvivere come nazione. È discutibile se questo possa essere esteso a Inguscezia e Daghestan, ma il coinvolgimento parziale nel confronto violento con la Russia suggerisce che potrebbe essere così.

 
Fonte: ufficio statistico della Russia.Consultabile online http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_13/IssWWW.exe/Stg/d1/04-06.htm  ; http://www.statdata.ru/russia  Consultato il 20 novembre 2016

 
Fonti: censimenti in URSS e Russia degli anni 1959, 1970, 1979, 1989, 2002 e 2010. (Il prossimo censimento è previsto per il 2020). Consultabile online http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_13/IssWWW.exe/Stg/d1/04-06.htm ; http://www.statdata.ru/russia  Consultato il 20 novembre 2016

 
Fonte: Badoyeva et al. (2012), Surinov (2010: 76), Dianov 2015. Vedi anche le statistiche statali consultabili al sito http://www.statdata.ru/largest_regions_russia  (ultimo accesso 06/12/2018), Rossiyan uzhe men’she, vainakhov I dagestantsev bol’she consultabile al sito https://riaderbent.ru/rossiyan-uzhe-menshe-vajnahov-i-dagestantsev-bolshe.html   (ultimo accesso 07/12/18)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #177 il: Gennaio 10, 2019, 21:02:34 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-inverno-del-malcontento-civile-191968

Citazione
Serbia, l’inverno del malcontento civile

Da settimane migliaia di persone si radunano nelle vie centrali della capitale serba per manifestare il proprio dissenso contro il governo e lo strapotere del presidente Aleksandar Vučić, il quale annuncia elezioni anticipate

10/01/2019 -  Dragan Janjić
Ogni sabato sera, nonostante il freddo e la neve, migliaia di persone marciano nel centro di Belgrado per protestare contro il governo e il presidente serbo Aleksandar Vučić. Si tratta di una sorta di rivolta dei gruppi sociali scontenti, soprattutto della classe media, ovvero di quella parte più istruita della popolazione urbana che sostiene fortemente i valori europei e l’ingresso della Serbia nell’Unione europea. Il movimento di rivolta è privo di una (visibile) organizzazione solida, non ci sono arrivi organizzati di manifestanti da altre città, mentre i principali media serbi praticamente tacciono sulle proteste. Gli oppositori del governo si radunano perlopiù in modo spontaneo e si informano sulle manifestazioni soprattutto tramite i social network.

Questi cittadini che protestano sono stati particolarmente marginalizzati dopo l’arrivo al potere di Aleksandar Vučić e del suo Partito progressista serbo (SNS) nel 2012. Chiedono il rafforzamento dello stato di diritto e la fine della partitocrazia, e con la partecipazione massiccia alle proteste hanno dimostrato volontà e prontezza a impegnarsi per il cambiamento. Finora sono state organizzate cinque manifestazioni di protesta, ognuna più massiccia della precedente.

Uno dei motivi per cui la rivolta cresce rapidamente risiede nel fatto che le autorità reagiscono alle proteste in modo molto duro e offensivo. “Siete venuti così numerosi in risposta all’invito di Aleksandar Vučić”, ha detto l’attore Branislav Trifunović rivolgendosi ai manifestanti durante una delle proteste, alludendo al fatto che il modo offensivo in cui le autorità parlano dei manifestanti ha spinto molte persone a scendere in strada.

Subito dopo l’inizio delle proteste, il presidente Vučić ha dichiarato che non verrà incontro alle richieste dei manifestanti nemmeno se ci fossero cinque milioni di persone in strada. Questa dichiarazione ha spinto gli oppositori di Vučić a creare lo slogan “Uno dei cinque milioni”, scritto sui cartelli e badge portati dai manifestanti.

Il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović durante una conferenza stampa ha cercato di convincere l’opinione pubblica serba che alle proteste stiano partecipando solo 3500 persone. Dal momento però che in occasione di ogni manifestazione di protesta le strade nel centro di Belgrado sono invase dai dimostranti e che le fotografie e i video mostrano una folla di persone in marcia, la dichiarazione del ministro è stata accolta da chi protesta come un “segnale di panico” in seno alla coalizione al governo.

Le autorità hanno ben presto rinunciato ai tentativi di scoraggiare le proteste presentandole come un capriccio di “una manciata di scontenti” manipolati dall’opposizione (e probabilmente anche dai servizi segreti stranieri) perché questo approccio, come già dimostrato in passato, di solito porta alla crescita del movimento di protesta. Tuttavia, i manifestanti continuano a essere duramente criticati sui media mainstream, senza avere la possibilità di difendersi ed esprimere la propria posizione. Delle proteste i media parlano poco, perlopiù nell’ultima parte dei notiziari televisivi e sulle pagine interne dei giornali.

Pressioni
Dall’affermazione secondo cui non avrebbe reagito nemmeno se cinque milioni di persone dovessero scendere in strada, attraverso il tentativo di sminuire la portata delle manifestazioni, Vučić è arrivato al punto di ridurre la protesta alla richiesta di elezioni anticipate. “A me interessa la legittimità. La legalità c’è, ma se qualcuno ha dubbi sulla legittimità, non c’è nessun problema, sono sempre pronto per una verifica”, ha dichiarato Vučić.

“Se il governo dovesse scegliere, sicuramente preferirebbe andare subito alle elezioni, piuttosto che aspettare sei mesi, perché nel frattempo l’opposizione si sarebbe rafforzata sull’onda delle proteste. E' quindi logico sia quello che sta facendo l’opposizione sia che il governo paventi elezioni anticipate. Staremo a vedere se si terranno davvero”, sottolinea l’analista politico Dragomir Anđelković.

Abbandonata la strategia di contare i manifestanti e cercare di dimostrare che sono pochi, la leadership al potere ha ora adottato un approccio diverso: sostiene che si tratti di raduni politici organizzati dai partiti di opposizione, e li accusa di aver derubato la Serbia quando erano al potere. Gli esponenti dell’opposizione non hanno avuto occasione di rispondere a queste accuse sui media mainstream, che invece danno ampio spazio alle dichiarazioni dei rappresentanti del potere. Nonostante l’opposizione non abbia mai menzionato le elezioni, al governo affermano che i partecipanti alle proteste chiedono elezioni anticipate che, secondo quanto annunciato in via ufficiosa, potrebbero tenersi già in primavera.

I rappresentanti del potere continuano a ripetere che sono disposti a parlare con i cittadini, ma non con l’opposizione, affermando implicitamente che i membri dell’opposizione non sono cittadini, negando così uno dei principi fondamentali della democrazia. La leadership al potere ha scelto di rispondere alle proteste con elezioni politiche anticipate, di cui però non c’è alcun reale bisogno dato che la maggioranza di governo è molto stabile.

Le elezioni sono un terreno su cui la coalizione al governo ha un dominio assoluto, dal momento che controlla gli organi statali e i principali media del paese, dispone di mezzi finanziari necessari per condurre la campagna elettorale e non esita a usare risorse pubbliche per l’autopromozione politica.

Le elezioni anticipate inevitabilmente sposterebbero l’attenzione sui partiti di opposizione, lasciando così ampio spazio ai tentativi di stemperare il crescente malcontento, alimentando disaccordi tra diversi gruppi politici e altre organizzazioni che, direttamente o indirettamente, sostengono i manifestanti e prendono parte alle proteste. La spontaneità, che tuttora caratterizza le proteste, è evidentemente un grande nemico del potere populista fondato sull’autorità del leader e del partito al governo e sulla marginalizzazione dello stato di diritto.

Resta tuttavia il fatto che tra quei gruppi sociali che in teoria dovrebbero dare un grande contributo al progresso e allo sviluppo del paese, inesorabilmente cresce il malcontento, che non svanirà facilmente, a prescindere dall’esito delle eventuali elezioni anticipate. Qualora l’opposizione non mostrasse maturità e prontezza a organizzarsi e unirsi in un unico fronte contro un regime populista e incline all’autoritarismo, i cittadini scontenti sicuramente cercheranno un altro modo per esprimere resistenza. Quindi, se il governo dovesse decidere di organizzare elezioni anticipate, guadagnerebbe tempo ma non riuscirebbe a “pacificare” la classe media che sta cominciando a svegliarsi.

Elezioni
La protesta civile è uno dei più potenti mezzi di cui attualmente dispongono gli oppositori del governo. Finora sono state organizzate cinque proteste. La prima manifestazione ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone. Il secondo sabato il numero di partecipanti è raddoppiato, mentre la terza e la quarta volta decine di migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Belgrado. La quinta manifestazione, tenutasi lo scorso 5 gennaio, ha visto riunirsi circa 10mila persone. Bisogna tuttavia tener presente che è stata una giornata molto fredda e che le festività natalizie erano ancora in corso, per cui molte persone erano fuori città. Quel giorno per la prima volta sono state organizzate proteste anche a Niš, Kragujevac e in altre città della Serbia.

A scatenare le proteste è stato l’aggressione violenta da parte di ignoti a Borko Stefanović, leader della Sinistra serba (LS) e uno dei fondatori dell’Alleanza per la Serbia (SZS, al momento la più forte coalizione dei partiti di opposizione in Serbia), avvenuto lo scorso 23 novembre a Kruševac. Da allora le proteste si svolgono sotto lo slogan “Contro la violenza – stop alle camicie insanguinate” perché Stefanović è stato colpito alla testa con un’asta in ferro, perdendo molto sangue, per cui la sua camicia era tutta insanguinata.

Lo slogan “Uno dei cinque milioni” è stato aggiunto in un secondo momento, dopo la summenzionata affermazione di Vučić secondo cui non accetterebbe le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero in cinque milioni. Gli esponenti dell’opposizione partecipano alle proteste, ma restano mescolati alla folla e non tengono discorsi, mentre in primo piano ci sono attori, intellettuali e giovani attivisti.

Tuttavia, questa situazione non può durare a lungo, soprattutto se le autorità decidono di indire elezioni anticipate a primavera. L’opposizione è consapevole del fatto che la coalizione di governo è avvantaggiata nella campagna elettorale e nelle elezioni, per cui dovrà scegliere tra due opzioni: boicottare le elezioni o parteciparvi pur sapendo in anticipo che si svolgeranno in condizioni ad essa sfavorevoli e che una vittoria delle forze di opposizioni rappresenterebbe un vero e proprio miracolo politico. Entrambe le opzioni richiedono l’ideazione di un’ampia piattaforma politica, la creazione di un’organizzazione forte e capillare e il mantenimento della “temperatura politica” con le proteste come espressione del malcontento degli oppositori del governo.

Al momento non c’è alcuna intesa solida tra i partiti di opposizione, ma è evidente che, per la prima volta dall’arrivo al potere di Vučić e del suo SNS, si è aperto uno spazio per una seria azione politica dell’opposizione. Il primo ostacolo che i partiti di opposizione devono superare è quello di raggiungere un accordo sulla scelta di partecipare alle elezioni anticipate o boicottarle attivamente. Nessuna delle due opzioni è particolarmente favorevole all’opposizione, da tempo fortemente indebolita, ma semplicemente non c’è una terza via.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-economia-lumaca-dei-Balcani

Citazione
Serbia, l’economia lumaca dei Balcani
10 gennaio 2019

Dopo la Croazia e la Grecia, la Serbia è, considerando gli ultimi dieci anni, il paese con la crescita economica più lenta di tutti i Balcani. A dirlo è Vladimir Gligorov, professore presso l’Istituto di studi economici internazionali di Vienna.

In una recente intervista per l’agenzia serba Beta  , l’economista afferma che la posizione della Serbia “è in parte dovuta alle correzioni del tasso di cambio e dei redditi reali dopo il 2008, e poi legata al consolidamento fiscale, effettuato dopo il 2015”.

Gligorov ritiene che il maggior errore nel processo del consolidamento fiscale sia stata la diminuzione di salari e pensioni, che ha incoraggiato l'emigrazione, così come la conferma di sussidi alle aziende statali e agli investitori.

“Al posto di questo – prosegue il professore di economia – si sarebbero dovute adottare delle riforme del settore pubblico e delle istituzioni economiche e garantire lo stato di diritto”, aggiungendo che quest’ultimo per gli “investitori ambiziosi” è molto più importante delle sovvenzioni.

Riguardo la finanziaria del 2019, Gligorov fa notare che “non è certo che lo stato possa spendere di più, per esempio, nella costruzione di infrastrutture, perché finora ha ritardato la realizzazione di quasi tutti i progetti, per non parlare della loro qualità”.

Critico anche nei confronti delle spese militari. “Potrebbero acquistare materiale didattico per la scuola o per altri scopi pubblici, ma a quanto pare si crede che comprare armi sia più gradito all’opinione pubblica”, conclude Gligorov.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #178 il: Gennaio 13, 2019, 23:11:22 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/95126

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L’ultima puntata di Kiosk, la radio sintonizzata sull’est!
redazione  1 giorno fa

Tra Russia, Ungheria e Polonia

Nella puntata numero 12, la prima del 2019, Kiosk viaggia tra la Russia e l’Europa centro-orientale.

Si parte dalla Russia, per parlare del “meccanismo di Mosca”. Uno strumento previsto l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che prevede l’istituzione di una commissione di esperti indipendenti per indagare su un determinato tema. Invocato solo sette volte in passato, questa volta il meccanismo è servito per lanciare un’indagine relativamente alla situazione della comunità LGBT nella repubblica russa della Cecenia, che nel 2017 fu teatro di sparizioni, omicidi e torture nei confronti di centinaia di cittadini ceceni omosessuali. Yuri Guaiana, attivista per la ong All Out, ci aiuta a capire di più su questa indagine e sull’importanza per il movimento LGBT e per tutto il movimento per i diritti umani.

Ci spostiamo in Ungheria, dove si continua a protestare contro la cosiddetta “Legge sulla schiavitù”. La normativa consente ai datori di lavoro di chiedere 400 ore di straordinari all’anno e dà loro la possibilità di pagare le ore extra entro 3 anni. L’approvazione della legge e il rifiuto di discutere gli emendamenti presentati dall’opposizione hanno dato il via a enormi proteste di massa. Il governo Orbán vacillerà?

Sempre in Ungheria, le autorità hanno rimosso il monumento in bronzo dedicato ad Imre Nagy da piazza dei Martiri, di fronte al parlamento ungherese, per ricollocarlo a piazza Jaszai Mari. Nagy è considerato dalla maggior parte degli ungheresi un eroe nazionale e fu primo ministro durante la rivoluzione del 1956. La sua figura, è parte integrante dell’identità e della memoria storica dell’Ungheria contemporanea. Insieme a Matteo Zola, direttore responsabile di East Journal, cerchiamo di capire le motivazioni politiche di questo gesto.

Facciamo un altro tuffo nel passato per ricordare Simcha Rotem Ratajzer, l’ultimo sopravvissuto tra coloro che parteciparono alle rivolte del ghetto di Varsavia.

Infine, torna l’appuntamento con la nostra amatissima rubrica “Polveriera balcanica”.


PLAYLIST

• Idoli – Kenozoik |
• Motorama – Lottery | • Arkadij Kots – Byt’ rabočim ne stydno | • Pankow – Rock ‘n’ roll im Stadtpark | • Klezmafour – evet evet |

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #179 il: Gennaio 17, 2019, 23:50:32 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/95188

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STORIA: Il sacrificio di Jan Palach e il fallimento del socialismo dal volto umano
Donatella Sasso  1 giorno fa

Questo è il sesto di una serie di articoli dedicati agli avvenimenti legati alla Primavera di Praga. Clicca qui per leggere gli altri.

Il 16 gennaio 1969 era un giorno freddo. A Praga l’inverno sa essere molto rigido. Lo studente di filosofia Jan Palach si preparò con calma, quel pomeriggio. La determinazione dei suoi vent’anni, sarebbero stati 21 l’11 agosto, gli permise di riempire una sacca a tracolla con i suoi quaderni, debordanti di articoli, pensieri e dichiarazioni, e di prendere con sé una tanica di benzina.

Giunto di fronte al Museo Nazionale in Piazza Venceslao, quello che gli occupanti avevano trivellato di colpi nell’agosto dell’anno prima, posò a terra la sua sacca. Poi prese mentalmente le misure, le fiamme non avrebbero dovuto toccare i suoi preziosi appunti, si spostò a sufficienza, si cosparse di combustibile e si diede fuoco.

La sua agonia durò tre lunghi giorni. In ospedale confidò ai medici di avere preso a modello i monaci buddisti del Vietnam del Sud che, nel 1963, protestarono in quel modo contro le discriminazioni inflitte dal presidente cattolico. Fra i suoi scritti si lesse: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Poche settimane dopo altri giovani seguirono il suo esempio, ma ebbero molta meno risonanza mediatica perché il governo si impegnò a soffocare la diffusione di determinate notizie.

In effetti il suicidio di Jan Palach aveva procurato un’enorme commozione in tutto il paese. Il 25 gennaio ai funerali avevano partecipato centinaia di migliaia di persone, certo per rendere omaggio al giovane compatriota, ma anche per prendere una chiara posizione politica di fronte ai propri governanti e alla dirigenza sovietica.

Alexander Dubček, in quei giorni ricoverato all’ospedale a Bratislava per una virulenta influenza, fu molto colpito dall’estremo sacrificio del giovane. Tutto si stava sgretolando intorno a lui e le “torce umane” che cercavano drammaticamente di illuminare le coscienze glielo sottolineavano nel modo più duro e cruento possibile.

Poco prima del 16 gennaio, il presidente del Parlamento Smrkovský, fra i più fedeli sostenitori di Dubček, era stato costretto alle dimissioni, segnando un ulteriore passo verso la perdita di sovranità e autonomia della Cecoslovacchia. Intanto gli animi rimanevano accesi.

In marzo, a Stoccolma, si tennero i campionati mondiali di hockey su ghiaccio, sport nazionale cecoslovacco. Il 21 marzo vi fu la prima partita fra Cecoslovacchia e Unione Sovietica: in campo si percepiva molto di più della rivalità sportiva e, quando i primi vinsero, tutto il paese scese in strada a celebrare la propria rivalsa nazionale. Le cose furono un po’ più complesse una settimana dopo quando la Cecoslovacchia vinse la finale, sempre contro i sovietici, con un sofferto 4 a 3. Gi animi erano sovraeccitati e i servizi segreti non si lasciarono sfuggire l’occasione. Alcuni poliziotti, travestiti da operai, misero diverse pietre da pavimentazione di fronte alla sede della compagnia aerea sovietica, l’Aeroflot. Quando i praghesi scesero in piazza, alcuni di loro iniziarono a lanciare le pietre contro le vetrine degli uffici e in molti li imitarono. Non successe nulla di più, ma quest’episodio servì a scatenare altri scontri che si protrassero nei giorni successivi. Il 31 marzo, senza alcun preavviso, giunse a Praga il maresciallo Grečko che minacciò l’uso delle armi contro i provocatori e ribadì la doppia necessità di reintrodurre la censura e soffocare la “controrivoluzione”. Dubček incassò l’ennesima provocazione, ma comprese, in quel preciso momento, di aver esaurito forze e strumenti per far fronte allo stra-potere sovietico. Decise quindi di rassegnare le proprie dimissioni.

Lo comunicò durante la riunione di presidenza del Comitato centrale, il 17 aprile, nella consapevolezza che suo successore sarebbe stato Husák, fedele a Mosca e contrario alle riforme, al quale chiese, in extremis e senza alcuna speranza, di non tradire il Programma d’azione. Gli fu offerta la presidenza del Parlamento, che accettò solo per avere ancora un minimo di voce in capitolo.

Con Husák fu dato il via ai licenziamenti dei giornalisti scomodi, furono chiusi vari giornali, si ebbero arresti e destituzioni di segretari regionali noti per essere favorevoli alle riforme, le espulsioni dal Partito colpirono mezzo milione di persone. Ad agosto, in concomitanza con l’anniversario dell’invasione, in trenta città si organizzarono manifestazioni di protesta, tutte represse da 35.000 fra soldati e poliziotti. Almeno cinque persone persero la vita, fra cui una di soli 15 anni. Husák approfittò dei disordini, sobillati dai militari, per far approvare la cosiddetta “legge del manganello” sulla repressione, anche se non riuscì a far instaurare, come avrebbe auspicato, la legge marziale. Dubček, errore di cui si sarebbe pentito fino alla morte, pose la sua firma in calce alla legge. A metà settembre fu estromesso dalla carica di Presidente del Parlamento ed espulso dal Comitato centrale. Forse per motivi tattici o perché Husák non si sentiva ancora abbastanza forte, gli risparmiò l’espulsione dal Partito e lo mandò come ambasciatore ad Ankara. Fin da subito Dubček fiutò in quella decisione un tranello, una mossa per non farlo più tornare in patria, ma, sostenuto anche dalla moglie, non si oppose. I due coniugi giunsero in Turchia nel gennaio del 1970 e furono accolti con grande calore, sia dalle autorità sia dai cittadini. Verso maggio Dubček ebbe però conferma dei suoi sospetti: da Praga tramavano per imporgli un esilio perpetuo. Molti paesi gli offrirono asilo politico, ma lui era determinato a tornare a casa. Dopo alcuni tentativi di comprare un biglietto aereo per Praga, riuscì a trovarne uno per Budapest. Partì da solo, la moglie lo raggiunse con difficoltà un mese dopo, e, come mise piede a Praga, gli fu comunicata l’espulsione dal Partito.

Cominciò per lui e per la sua famiglia il periodo più duro. Nel dicembre 1970 trovò lavoro come meccanico nell’Azienda forestale della Slovacchia occidentale nei pressi di Bratislava, dove rimase fino alla pensione. In quello stesso periodo iniziò a essere costantemente pedinato, sia in auto sia a piedi, la sua casa fu riempita di cimici, rimase isolato, praticamente relegato in Slovacchia. La situazione era drammatica, ma non mancarono episodi divertenti, quanto surreali.

Un giorno andò a trovarlo nella sua casetta in campagna Václav Slavík, un vecchio amico dissidente. Per poter parlare tranquillamente decisero di fare un bagno nel vicino laghetto. Gli agenti, molto infastiditi, presero in fretta alcune barche e si misero a remare forsennatamente per non perdere alcuna parola. Uno di loro, stanco di quella situazione, a un certo punto urlò «Per quanto pensate di restare, ancora?». Dubček rispose senza scomporsi: «Sicuramente resisteremo più a lungo di voi!».

E non si sbagliò. A distanza di vent’anni vinsero quanti, come lui, seppero resistere più a lungo.