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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Frank:
http://www.askanews.it/esteri/2019/01/05/serbia-sabato-di-proteste-contro-il-presidente-vucic-autocrate-pn_20190105_00309/


--- Citazione ---SERBIA Sabato 5 gennaio 2019 - 21:48
Serbia, sabato di proteste contro il presidente Vucic “autocrate”

Belgrado, 5 gen. (askanews) – Migliaia di persone hanno manifestato per il quinto sabato consecutivo a Belgrado contro lo strapotere del presidente Aleksandar Vucic, accusato di autoritarismo, il quale a sua volta accusa l’opposizione di voler “prendere il potere”. “La Serbia insorge lentamente, l’intera città sta insorgendo (…) saremo sempre più numerosi”, ha detto l’attore Branislav Trifunovic, uno dei leader del movimento, alla televisione privata N1. Come sabato scorso, i manifestanti hanno sfilato per le strade della capitale dietro un grande striscione con il nome del movimento: “1 su 5 milioni”. Questo slogan si riferisce a una dichiarazione del presidente Vucic che aveva detto dopo la prima manifestazione che non avrebbe ceduto alle richieste dell’opposizione “anche se cinque milioni di persone fossero scese in piazza”. (segue) (fonte Afp)
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Banja-Luka-assedio-al-movimento-Pravda-za-Davida-191876


--- Citazione ---Banja Luka, assedio al movimento Pravda za Davida
In Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina, il passaggio dal vecchio al nuovo anno si è svolto all'insegna di arresti e tentativi di repressione del movimento Giustizia per David

07/01/2019 -  Alfredo Sasso
La mattina del 25 dicembre, nelle ore in cui una parte del mondo celebra il Natale cattolico, la piazza centrale di Banja Luka si tinge di scuro. Prende forma una specie di presepe all’incontrario: una coppia di genitori arrestata, un altare di fiori smontato rapidamente, una piazza svuotata e circondata, persone sbattute a terra da agenti antisommossa, altri arresti e scontri nel corso delle ore e nei giorni successivi, fino a un’inquietante sparizione su cui a tutt’oggi non si è fatta luce.

Dopo 275 giorni di occupazione ininterrotta di Piazza Krajina viene così sgomberato manu militari il presidio di Pravda za Davida, il movimento che chiede giustizia e verità per David Dragičević, ragazzo di 21 anni ucciso in circostanze irrisolte nel marzo 2018. La serie impressionante di depistaggi e omissioni da parte delle istituzioni della Republika Srpska (una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina) aveva subito indotto il sospetto che alcuni membri della polizia locale fossero coinvolti nell’omicidio di David, cosa di cui il movimento si è dichiarato sempre più certo. Da allora il caso Dragičević ha tenuto banco nell’attualità del paese, arrivando a essere uno dei temi principali della recente campagna elettorale. Ma è con gli eventi di queste settimane che si segna un punto di non ritorno, con risvolti determinanti per tutti i livelli del paese: libertà di manifestazione, equilibri istituzionali e persino il ruolo degli attori internazionali.

Le autorità della Republika Srpska da tempo attendevano l’occasione di un’azione di forza contro il volto più energico e carismatico di Pravda za Davida: Davor Dragičević, il papà del ragazzo ucciso, instancabile nel chiedere le dimissioni dei vertici dell’ordine pubblico in Republika Srpska, dal ministro dell’Interno Dragan Lukač ai capi della polizia, che ritiene direttamente responsabili della morte del figlio. In questi mesi Davor Dragičević ha condotto una sfida aperta e persistente al sistema di potere di Milorad Dodik, l’autocrate della Republika Srpska che dalle elezioni di ottobre è uscito persino rafforzato e ora siede alla presidenza collettiva statale. Dodik ha cambiato tante volte atteggiamento verso Pravda za Davida: prima l’ha ignorato, poi ha provato invano ad addomesticarlo, poi è passato alle minacce, come quando in campagna elettorale disse che il presidio di Piazza Krajina sarebbe stato presto “spazzato via”.

Nel mese di dicembre, sono state probabilmente due circostanze a fare di Pravda za Davida una spina nel fianco definitivamente insopportabile per Dodik. La prima è stata la serie di viaggi che Davor Dragičević ha condotto a Sarajevo per incontrare diversi ambasciatori dei paesi UE nonché Željko Komšić - omologo di Dodik nella presidenza collettiva bosniaca e suo grande rivale politico -. La seconda è stata la promessa di Pravda za Davida di mantenere il presidio di Piazza Krajina nonostante i diversi eventi di massa che si sarebbero organizzati in città: dai concerti di Capodanno alle celebrazioni del Natale ortodosso – il 7 gennaio – e, soprattutto, alla parata militare del Giorno della Republika Srpska il 9 gennaio, un evento di grande importanza per la legittimazione ultra-nazionalista del partito di Dodik. La sfida del movimento dunque si estendeva al comune di Banja Luka il cui sindaco, Igor Radojičić, è del partito di Dodik e in passato è stato indicato come il suo potenziale erede.

Stato d’emergenza
La mattina del 25 dicembre, Davor Dragičević viene arrestato. La motivazione è una mancata comparizione a un’udienza, per un corteo non autorizzato tenutosi alcuni giorni prima davanti al parlamento della Republika Srpska. Con lui, sono messi in custodia Suzana Radanović - la madre di David Dragičević, anch’essa molto presente nel movimento – e una decina di altri attivisti, tra cui quattro esponenti dei partiti di opposizione anti-Dodik: Adam Šukalo, Draško Stanivuković, Vojin Mijatović e Branislav Borenović. Tutto questo accade mentre i servizi municipali protetti da un imponente cordone di poliziotti antisommossa ritirano il cosiddetto “Davidovo srce” (Il “cuore di David”), l’imponente altare di foto, candele, fiori e altri oggetti in memoria del ragazzo ucciso. L’altare occupava la centralissima Piazza Krajina da più di nove mesi, sormontato da un grande pugno chiuso in metallo, il simbolo visivo della protesta.

Centinaia di manifestanti inermi subiscono ripetute cariche della polizia e restano increduli di fronte alla brutale solerzia delle autorità che da nove mesi non hanno intrapreso nessuna iniziativa, e nessun arresto, per l’omicidio di David. Le immagini   degli scontri fanno il giro della regione post-jugoslava e giungono reazioni preoccupate della comunità internazionale, tra cui quella dell’ambasciatore dell’Unione Europea  . Diversi analisti sostengono  che la scelta del 25 dicembre per questa operazione sia stata presa di proposito per approfittare del calo di attenzione di media e funzionari internazionali nel giorno di Natale.

Da quel giorno, Banja Luka entra in una specie di stato d’emergenza permanente. Il 26 dicembre, il ministro dell’Interno della Republika Srpska Lukač lancia il divieto ad hoc contro “qualunque manifestazione del collettivo Pravda za Davida”, affermando con sprezzo come questo sia stato “tollerato” fino ad ora nonostante abbia “agito nell’illegalità”. Davor Dragičević, nel frattempo rilasciato insieme agli altri attivisti, snobba il divieto e guida un corteo di un migliaio di persone sul luogo in cui lo scorso 24 marzo fu trovato il corpo del figlio, sulla riva del torrente Crkvena. “Sono il padre più orgoglioso di un figlio che è stato assassinato. Conosco gli assassini e i loro complici”, scrive  quel giorno su twitter.

Il 30 dicembre, durante l’ennesimo grande corteo, il movimento si concentra nella piazza dove è previsto il concerto del cantante Haris Džinović. Il sindaco Radojičić decide a quel punto di annullare tutte le celebrazioni e annuncia che chiederà a Pravda za Davida “risarcimenti milionari” per il danno economico e d’immagine alla città. Tuttavia, Džinović spiega in seguito che “non aveva la minima intenzione” di esibirsi in quelle condizioni, smentendo così la versione data dal sindaco che attribuiva al movimento la responsabilità di interrompere l’evento. In precedenza, la nota cantante serba Marija Šerifović, (vincitrice dell’Eurovision 2007) aveva già annullato il suo concerto, di fatto acconsentendo alla richiesta di boicottaggio da parte di Pravda za Davida. A margine del corteo, si producono ancora scontri, arresti e un nuovo, più inquietante, colpo di scena.

Giustizia per David, Giustizia per Davor
Alle 23.00 del 30 dicembre Davor Dragičević, il papà di David, scompare nel nulla e a tutt’oggi non si sa dove si trovi. Inizialmente circola la notizia del suo arresto a margine della manifestazione, ma la polizia della RS smentisce. Poi si parla di un possibile rifugio di Dragičević presso l’ambasciata del Regno Unito a Sarajevo. È un’ipotesi rilanciata soprattutto dai media vicini a Milorad Dodik, che da tempo accusa Londra di ingerenza negli affari interni della Bosnia Erzegovina e soprattutto della Republika Srpska, in quanto i britannici starebbero combattendo un “conflitto per procura” contro la Russia, partner privilegiato di Dodik. Ma l’ambasciatore britannico Matt Field nega prontamente, smentendo “ogni coinvolgimento nell’organizzazione delle proteste”.


Dalle istituzioni della RS filtra che l’avvocato di Dragičević, Ifet Feraget, avrebbe cercato una trattativa con il tribunale locale per fare costituire il suo assistito. Ma Feraget non conferma e insiste di non sapere nulla. Negli ultimi giorni non emergono elementi chiari, anche se il 5 gennaio alcuni media citano dei messaggi dal gruppo FB del movimento secondo cui Davor si troverebbe “al sicuro”, “due passi avanti rispetto agli assassini, come sempre”.

Un possibile scenario è dunque che Davor Dragičević si trovi all’estero, per evitare il mandato di cattura su di lui e i pesanti capi d’imputazione (si parla addirittura di “tentato colpo di stato”) che si stanno preparando contro lui ed altri esponenti del movimento. In questo caso è plausibile che Davor stia attendendo un determinato momento (forse il 9 gennaio, giorno della Republika Srpska?) per un’apparizione pubblica ad effetto. Più volte nei mesi scorsi – tra cui nell’intervista a OBC Transeuropa dello scorso ottobre - esponenti di Pravda za Davida hanno citato la possibilità di intraprendere un esilio volontario in caso di una azione di forza delle istituzioni. L’altro scenario, decisamente più inquietante, è invece che Davor sia stato rapito, e che dunque gli “sia successo qualcosa di brutto” come alcuni sostenitori del movimento ripetono, per pudore o per esorcizzare la terribile eventualità.

In questa incertezza, preoccupano le allusioni di un consigliere politico di Dodik, Srđan Perišić, secondo cui alcuni stranieri occidentali “strateghi delle rivoluzioni colorate” (sic) starebbero pianificando gli omicidi di oppositori politici per poi dare la colpa al governo della RS e forzare un cambio di regime  . Queste parole lasciano intendere l’atmosfera di paranoia e insicurezza che le autorità di Banja Luka, invece di smorzare, sembrano volere propagare a tutti i costi. In questi ultimi giorni, la polizia della Republika Srpska non risparmia controlli di documenti e cordoni antisommossa nemmeno davanti alla Cattedrale di Cristo Salvatore, il luogo dove Pravda za Davida sta convocando i presidi dopo lo sgombero di Piazza Krajina. Presidi silenziosi, senza simboli né slogan, pur di non incorrere in denunce e detenzioni.

Contro il silenzio
Pravda za Davida ha sempre affermato, e continua a affermare, la sua a-politicità di principio e la propria estraneità alle dinamiche di partito. Sono state le istituzioni della Republika Srpska, con le loro ostruzioni alle indagini sulla morte di David, che hanno contribuito a trasformare Pravda za Davida da un collettivo per la giustizia su un singolo caso a un vero e proprio movimento per la libertà di espressione e il diritto al dissenso. Vi è poi un problema più ampio. Il sistema di Dodik ha annichilito l’opposizione, consolidando l’egemonia assoluta sui media, sugli enti culturali, su quasi tutte le municipalità locali dell’entità serbo-bosniaca. Pravda za Davida ha, a modo suo, aperto uno spazio di espressione unico.

“Dodik ha tutto il potere in Republika Srpska. L’unica cosa che non controlla è David Dragičević e la gente intorno a lui”, ha scritto   l’analista Srđan Puhalo. “Ora è vietato protestare a Banja Luka, perché la polizia ogni sera controlla qualunque raggruppamento di persone, grazie a leggi ad hoc che sarebbero anticostituzionali. Se queste proteste verranno soffocate, nei prossimi cinque anni a Banja Luka non ci sarà nessun’altra protesta su nulla. Se la gente in queste settimane non si difenderà, ci aspettano cinque anni di dittatura”, ha spiegato  l’editorialista Dragan Bursač in un’intervista.

In queste settimane, Pravda za Davida continua a ottenere un sostegno trasversale in Bosnia Erzegovina e nel resto della regione post-jugoslava. Il 25 dicembre e nei giorni successivi, manifestazioni di solidarietà si sono tenute a Sarajevo, Tuzla, Mostar, Belgrado, Novi Sad e Zagabria, nonché in diverse città europee in cui è presente la diaspora ex-jugoslava. L’ondata di solidarietà per il movimento sembra crescere ancora, attratta dai tanti significati universali di questa causa: l’empatia per dei genitori che hanno perso un figlio; l’ammirazione per una sofferenza privata che si fa impegno e indignazione; la fiducia per uno spazio libero da minacce, discorsi d’odio e segregazioni etniche; il riconoscersi nella più pre-politica delle domande, ovvero il chiedere alle istituzioni null’altro che di “fare il proprio lavoro”.

In Bosnia Erzegovina, vi è poi la causa comune dei cosiddetti “casi silenziati”, le morti dovute a abusi di autorità che le istituzioni coprono con ogni mezzo. Nel paese vi sono quasi una decina di casi silenziati negli ultimi anni. La presenza di due cause sorelle e che si sostengono reciprocamente, quella di Davor Dragičević a Banja Luka e quella di Muriz Memić a Sarajevo (papà rispettivamente di David e Dženan, anche quest’ultimo ucciso nell’ambito di un sospetto abuso di potere; il primo “serbo ucciso da serbi”, il secondo “musulmano ucciso da musulmani”, come di solito ripetono gli stessi due padri per sottolineare la necessità di superare le gabbie etniche) ha aperto un inedito canale di solidarietà tra le due principali città della Bosnia Erzegovina. Città che, dalla guerra degli anni Novanta, si erano tenute reciprocamente distanti ed estranee.

Nonostante questi segnali positivi, è lecito pensare che cresceranno le difficoltà per Pravda za Davida. Come avviene per qualunque movimento sociale che deve affrontare una repressione, gli attivisti sono ora costretti a sparpagliarsi in tante condizioni diverse, tra fughe e isolamenti, chiusi in tanti piccoli dilemmi del prigioniero. Non sarà facile mantenere una strategia comune. E soprattutto, ora che cominciano a pendere accuse di alto tradimento e condanne pluridecennali, non sarà facile mantenere l’attenzione sul caso originario, l’omicidio ancora senza colpevoli di un ragazzo di 21 anni che studiava elettrotecnica e suonava reggae e hip hop.
--- Termina citazione ---

Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/94789


--- Citazione ---ROMANIA: Un paese nazional-comunista alla presidenza dell’Unione
Francesco Magno  1 giorno fa

A partire dall’1 gennaio 2019 la Romania ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea; in questi sei mesi, i rappresentanti romeni a Bruxelles si ritroveranno a gestire dossier scottanti (Brexit su tutti) e le elezioni europee. Jean Claude Juncker ha aspramente criticato i governi di Bucarest, giudicando il paese inadatto a reggere la presidenza di turno del consiglio. I motivi di una presa di posizione così netta sono ormai risaputi: una pubblica amministrazione dilaniata dalla corruzione, un governo dominato da personaggi dalla fedina penale tutt’altro che immacolata, un panorama infrastrutturale semi-disastroso.

Un caso più unico che raro

La Romania del 2019 è sicuramente un unicum nel panorama europeo. Paese semi-sconosciuto a occidente se non per vampiresche reminiscenze e una massiccia immigrazione nei centri più sviluppati del continente, la Romania racchiude al suo interno tutte le contraddizioni dell’est europeo; transizione post-comunista irrisolta, nazionalismo onnipresente, corruzione, volontà di modernizzazione, contrasto tra caratteristiche autoctone e occidentalizzazione.

La politica romena è, in occidente, ancor più indecifrabile. Gli attuali governanti romeni, meno rumorosi dei loro colleghi ungheresi o polacchi, portano avanti politiche non meno “populiste” che, tuttavia, hanno radici diverse da quelle degli esecutivi di Budapest o Varsavia. Si può a ragione affermare che in Romania il comunismo non sia mai morto, ma si sia soltanto camaleonticamente trasformato e raffinato, adattandosi alle esigenze dei tempi, per conservare potere e sfere di influenza.

Finire in coma nel 1989

A dicembre sono stati celebrati i 29 anni dalla rivoluzione che ha rovesciato il governo dispotico di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena, decretandone al contempo la morte. Se un romeno medio finito in coma nel 1989 si svegliasse oggi e guardasse soltanto agli indicatori macro-economici, vedrebbe chiaramente la transizione dal comunismo al capitalismo come un fatto ormai compiuto, irreversibile. Tuttavia, gli basterebbe qualche giorno per ritrovare segni familiari, per riascoltare parole a cui era abituato, per decifrare una politica non diversa da quella che aveva imparato a conoscere negli anni ’80. Vedrebbe sicuramente volti nuovi e sigle sconosciute, ma dietro questi nuovi contenitori, dietro queste facce mai viste, riconoscerebbe presto la “sua” Romania comunista.

Il nostro romeno “redivivo”, che per comodità chiameremo Ovidiu, si era assopito nel 1989 ascoltando Ceausescu spronare i cittadini a tirare la cinghia, a soffrire ancora un po’ perché il debito stava finalmente per essere pagato, e la Romania avrebbe potuto finalmente cominciare il suo impetuoso sviluppo. Estinguere il debito era fondamentale per l’indipendenza del paese dai poteri occulti occidentali e non, che usavano l’arma economica per schiavizzare i romeni e costringerli a uno stato di perenne arretratezza. Grazie al partito comunista e al suo fiero leader, la Romania si sarebbe ripresa il posto che le spettava nel consesso internazionale, riottenendo finalmente voce in capitolo nei grandi affari internazionali. Per raggiungere questo obiettivo, i romeni dovevano dare prova di patriottismo e resistere di fronte alle difficoltà materiali.

Risvegliarsi trent’anni dopo, cos’è cambiato?

Ovidiu era già in coma quando nel dicembre 1989 Ceausescu venne arrestato e ucciso; dormiva profondamente negli anni ’90 politicamente monopolizzati da Iliescu, e non ha mai avuto l’onore di apprezzare Traian Basescu. Ovidiu si è svegliato nel dicembre 2018, e domenica 16, guardando la televisione nazionale, ha visto qualcosa di nuovo, ma non troppo. La tv trasmetteva una riunione plenaria di partito, come spesso faceva anche negli anni ’80, ma la sigla che troneggiava sul pulpito dell’oratore non era più PCR (partito comunista romeno), bensì PSD (partito social-democratico), e il leader che parlava di fronte alla folla osannante non era “il più amato figlio del popolo”, ma un uomo brizzolato, senza cravatta, con un baffo che lo rende vagamente somigliante al gestore di un bar costiero sudamericano. Il nostro Ovidiu è all’inizio sconcertato: che ne è stato di Ceausescu, del partito, della grande lotta patriottica? Ma basteranno poche parole del baffuto brizzolato a tranquillizzarlo.

Un nuovo Conducator

Anche il nuovo Conducator parla di patriottismo, di unione del partito, di difesa della romenità, di progresso e sviluppo. Dice che la Romania non è un paese di Serie B all’interno dell’Unione Europea, e pertanto merita rispetto. Ovidiu all’inizio non capisce cosa sia l’Unione Europea; ma sì, sarà una specie di organismo plutocratico finanziario che vuole schiavizzare i romeni, come il Fondo Monetario Internazionale, come la Banca Mondiale, come la Comunità Economica Europea; tutte istituzioni che negli anni ’80 volevano la morte economica della Romania, che difesa solamente dal suo leader cercava di sopravvivere. Sì, l’Unione Europea deve essere uno dei nuovi nemici. Menomale che il nuovo condottiero baffuto difende i poveri cittadini. Parla di virilità: il buon romeno deve essere maschio, forte, non dedito a inutili sollazzi culturali. Ovidiu è d’accordo, anche lui è stato educato così: gli hanno insegnato ad essere un duro lavoratore, a non risparmiarsi, a dare tutto per la patria e per il partito. Ma sì, dice Ovidiu tra sé e sé, Ceausescu probabilmente è morto, il partito ha cambiato nome per “modernizzarsi”, ma in fondo è rimasto tutto uguale.

Una transizione infinita?

Una transizione, per essere tale, deve trascinare il paese da un regime politico a un altro. Ma se i due regimi di passaggio sono di fatto speculari, possiamo realmente parlare di transizione? In Romania farebbe molto bene la lettura del Gattopardo. Cambiare tutto, affinché non cambi niente. Parole che perfettamente si adattano alla Romania del 2019, un paese dove le grandi multinazionali spostano i propri uffici, dove ci si diverte con pochi euro, con un dinamismo innegabile.

Dietro questa grande superficie dorata sopravvivono i drammi della Romania comunista: un’élite di partito che governa il paese in modo dispotico, un culto del notabile locale che ricalca esattamente quello rivolto ai maggiorenti del partito comunista nei vari villaggi del paese, una massa enorme di contadini semi-analfabeti che basa la sua esistenza esclusivamente sugli aiuti statali.

Nel paese ribolle una piccola ma vivace società civile che cerca di combattere le storture del sistema, con risultati alterni, dovuti anche a una chiara disparità di forze. Difficile dire cosa ne sarà della Romania nel 2019, un anno che inizia con la presidenza del consiglio UE e che si concluderà con le elezioni presidenziali, l’appuntamento elettorale più importante della politica romena. Una cosa è certa; forse per capire meglio l’est europeo, bisognerebbe spostarsi più a sud-est, e abbandonare le ormai trite e ritrite categorie del populismo anti-europeista e sovranista. Purtroppo per tutti, la situazione è un po’ più complessa.

--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Via-dai-Balcani-191525


--- Citazione ---Via dai Balcani
Centinaia di migliaia di persone lasciano i Balcani, dove non vedono un futuro. Le cause oltre che economiche sono anche sociali e politiche

09/01/2019 -  Kosovo 2.0
(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0  )

Ogni giorno, nelle prime ore del pomeriggio, gli autobus verso l'Unione Europea partono dalla stazione principale della città di Subotica, Serbia settentrionale.

Tra i passeggeri in attesa di partire per Vienna c'è una ventenne di Novi Kneževac che ha intenzione di continuare la sua formazione in Austria. Non è disposta a parlare della sua partenza, ma suo padre dice a K2.0 che la madre è andata in Austria cinque anni fa e ora lavora come addetta alle pulizie in un hotel, per uno stipendio mensile di circa 1.500 Euro. Per lo stesso lavoro, in Serbia, riceveva da 16.000 a 20.000 dinari (circa 160 Euro).

"Con quello stipendio non puoi nemmeno mantenerti, e che dire di tutto il resto?", dice il padre, che ha preferito rimanere anonimo, mentre saluta la figlia. Aggiunge che lui rimarrà in Serbia con il figlio minore, ma crede che qualcosa dovrà cambiare nel Paese "perché altrimenti tutti se ne andranno".

Scene simili nelle stazioni degli autobus e dei treni, così come negli aeroporti – decine di persone che dicono addio ai propri cari che partono a tempo indeterminato – sono all'ordine del giorno in tutti i Balcani. Secondo il recente Rapporto alternativo sulle esigenze della gioventù in Serbia, il 71% degli intervistati ha dichiarato di voler lasciare il luogo in cui vive. I paesi dell'Europa occidentale rappresentano di gran lunga le destinazioni più popolari (45%).

Il rapporto rileva che la situazione è simile in tutta la regione e afferma che, sfortunatamente, i paesi non hanno risposte adeguate, né politiche demografiche per prevenire esodi di massa dei cittadini.

"La ricerca demografica dimostra che i giovani dei paesi della regione se ne vanno non solo a causa delle condizioni economiche, o come si dice 'trbuhom za kruhom' [per cercare fortuna], ma a causa dell'instabilità del sistema politico e del deterioramento dei valori", affermano le conclusioni del rapporto, basato su un sondaggio con 1200 intervistati.

Il numero esatto di coloro che lasciano la regione è praticamente impossibile da determinare con precisione a causa della mancanza di statistiche affidabili, ma la tendenza è comune a Serbia, Kosovo, Albania, Macedonia, Montenegro e Bosnia Erzegovina, nonché alla Croazia, l'unico paese della regione che è anche membro dell'UE.

Secondo i dati dell'Ufficio statistico tedesco, tra il 2013 e il 2017 quasi 240.000 persone si sono trasferite in Germania dalla sola Croazia: all'incirca la popolazione combinata di Spalato e Zara, le più grandi città della Dalmazia.

Circa 100.000 persone si sono trasferite nella direzione opposta, ma ciò lascia una migrazione netta dalla Croazia alla Germania di circa 140.000 persone in mezzo decennio. Secondo i dati ufficiali dalla Croazia, la maggior parte di chi lascia il paese ha fra i 20 e i 39 anni.

Nello stesso periodo 2013-2017, la migrazione netta dal Kosovo alla Germania è stata di circa 39.000 persone, dalla Serbia circa 29.000, dall'Albania circa 28.000, dalla Macedonia circa 24.000 e dal Montenegro oltre 3.000.


Diagnosi
Dalla Bosnia Erzegovina se ne sono andati oltre 2 milioni di abitanti dai primi anni '90, collocando il paese al 16° posto globale in termini di tasso di emigrazione secondo la Banca Mondiale. Mentre gran parte di questa migrazione si è verificata durante gli anni della guerra 1992-95, il numero sembra di nuovo in aumento.

La migrazione netta dalla Bosnia Erzegovina verso la Germania negli ultimi cinque anni è stata ufficialmente di circa 40.000 persone, 14.000 solo nel 2017.

Nel frattempo, le stime fatte localmente dall'ONG di Sarajevo Unione per il Ritorno e l'Integrazione Sostenibile indicano che oltre 160.000 dei 3,5 milioni di cittadini della Bosnia Erzegovina hanno lasciato il paese negli ultimi cinque anni, in numero sempre crescente di anno in anno.

Secondo i loro calcoli, nel 2014 se ne sono andate circa 27.000 persone, 29.000 l'anno successivo e 34.000 nel 2016. Nel 2017 si parla di circa 35.000 persone, mentre il direttore della ONG Mirhunisa Komarica Zukić ha recentemente dichiarato ai media locali che, secondo le stime, nella prima metà del 2018 se ne sono già andate 18.000.

I demografi avvertono che le cifre disponibili per il pubblico sono incomplete e, in quanto tali, particolarmente allarmanti.

Secondo uno studio del 2017, la causa principale dell'emigrazione è la disoccupazione, ma fra i motivi ci sono anche l'ambiente socio-economico, un sistema sanitario debole e l'instabilità dello stato. In alcune città le scuole sono semivuote e così le facoltà universitarie.

In una tendenza comune a diverse parti della regione, il personale (para)medico sembra particolarmente incline a lasciare il paese. "Secondo alcune stime, ogni giorno 1-2 medici lasciano il paese", ha dichiarato ai media locali Kristina Bevanda, presidente del Sindacato dei medici e del personale sanitario del Cantone di Erzegovina-Neretva. "A livello statale parliamo di circa 360 medici l'anno: un intero ospedale".

Simili le storie dalla Macedonia, anche se, secondo le ricerche disponibili, la "fuga dei cervelli" nelle università non riguarda più esclusivamente il personale medico e tecnico, ma anche discipline come legge, politica ed economia. Allo stesso tempo, solo lo 0,2 per cento del PIL è destinato alla scienza.

Tornando a Subotica, anche la professione sanitaria è colpita dall'emigrazione. Žolt Sendi, presidente del Sindacato infermieri e tecnici del Centro sanitario locale, afferma che il numero di chi chiede un congedo temporaneo non retribuito o un'aspettativa è in aumento: oltre 1.000 di questi lavoratori lasciano la Serbia ogni anno, stima.

"Chi parte ha per lo più fra i 30 e i 40 anni, parliamo di operatori sanitari esperti con diversi anni di servizio", afferma Sendi. "Partono quando sono più produttivi e le ragioni sono il sovraccarico, lo stress e la situazione economica. La loro partenza indebolisce il sistema di assistenza sanitaria sia primario che secondario".

Nenad Ivanišević, direttore del Centro di gerontologia di Subotica, afferma che questa istituzione è di fronte ad un esodo di dipendenti.

Ivanišević dice che ha dovuto fare una richiesta di "mediazione interregionale" al Servizio nazionale per l'occupazione, che ha reindirizzato i candidati che avevano fatto domanda di lavoro nelle professioni mediche in altre città in Serbia. Senza questo tipo di rinforzo, dice, la capacità di fornire servizi sarebbe stata compromessa.

Il Sindacato infermieri e tecnici stima che il 2-5% dei dipendenti, per lo più infermieri e tecnici, emigra ogni anno. Fra loro c'è il tecnico Zlatko Prćić, che dice di essersi trasferito in Inghilterra per poter vivere con dignità, "sia personalmente che professionalmente".

"In Serbia ho perso l'integrità come persona e come professionista", dice Prćić. "È diventato irrilevante che tu faccia il tuo lavoro in modo responsabile o meno".

Dice che la vita in Inghilterra non è perfetta, ma che almeno ha uno stipendio che gli consente di mantenersi e di aiutare i suoi genitori in Serbia.

"Fuga organizzata"
Secondo Viktorija Aladžić, docente presso la Facoltà di ingegneria civile di Subotica, gli studenti nelle facoltà universitarie locali sono in diminuzione. Crede che la ragione principale non sia solo uno stato non funzionale, ma anche le dinamiche sociali.

"La qualità delle relazioni sociali e interpersonali all'interno della famiglia, con gli amici, con i colleghi e così via è tra i fattori più importanti per la felicità individuale e collettiva", dice Aladžić.

Secondo la docente, in una società in cui queste relazioni sono disfunzionali, dove è normale che i datori di lavoro abusino dei lavoratori o che i membri di una famiglia si maltrattino a vicenda, dove le persone si trattano con odio, disprezzo, sottovalutazione e mancanza di rispetto, è naturale per i cittadini – soprattutto i giovani – voler andare a vivere altrove.

Fra chi ha lasciato Subotica c'è Tamara Olman. Laureata in economia, ha lasciato la Serbia all'inizio dei trent'anni e da quattro vive a Vienna. "Ora vivo in un paese dove le regole sono rispettate, dove esiste l'ordine, dove lo Stato si prende cura dei suoi cittadini, dove ci sono molte opportunità e privilegi e dove il sistema sociale è regolato correttamente", dice.

Olman lavora come cameriera mentre impara la lingua locale e dice che, all'arrivo a Vienna, lo stato austriaco le ha dato l'opportunità di frequentare un corso di contabilità.

In Serbia, trovare lavoro con una laurea in economia è stato "impossibile", dice. "Ho bussato a mille porte, ma invano. Sono arrabbiata e delusa per non essere riuscita a trovare lavoro tramite la normale procedura, e questo è il motivo per cui ho lasciato il mio paese".

Storie come quelle di Olman sono comuni a Subotica.

Il sociologo Branislav Filipović ritiene che la ragione principale dell'esodo dei giovani dalla città sia la scarsa politica economica e demografica, mentre gli indicatori dagli altri paesi dei Balcani occidentali ritraggono una situazione simile in tutta la regione.

"I giovani di Subotica non se ne vanno semplicemente", dice. "È meglio parlare di fuga organizzata".

Secondo Filipović, le cause sono l'insicurezza, la corruzione, l'apparato statale disfunzionale, i bassi salari e tutto quanto caratterizza la vita di tutti i giorni.

"Con la partenza di professionisti e giovani istruiti, la città e lo stato stanno perdendo l'essenza sociale dei possibili cambiamenti", dice Filipović.

Anche Nevena Miljački Ristić ha lasciato Subotica negli ultimi anni, vedendo l'opportunità di una vita più confortevole lontano dal paese d'origine. Oggi vive negli Stati Uniti, in una "bellissima cittadina" chiamata Woodlands, ai margini di Houston, in Texas.

"Il motivo principale per cui siamo partiti è stato puramente economico: nonostante il lavoro di mio marito e i due che facevo io, non potevamo avere più dello stretto necessario, forse nemmeno quello", dice. "Con un bambino in arrivo, non avevamo altra scelta che andare da qualche parte dove saremmo stati pagati per il nostro lavoro".

Ristić punta il dito sul nepotismo e la conseguente limitazione delle opportunità disponibili attraverso il semplice duro lavoro. "La disponibilità e l'affiliazione a determinati partiti o gruppi sono molto più apprezzate rispetto all'esperienza o alla voglia di avanzare", dice, aggiungendo che altri suoi conoscenti che hanno lasciato la Serbia lo hanno fatto dopo aver già perso troppi anni "sperando che le cose sarebbero migliorate".

Partire per sempre

Molti degli stessi problemi che affliggono la Serbia sono presenti nel vicino Kosovo. Le code davanti alle ambasciate sono lunghe da molti anni e sono formate in particolare da giovani.

Ciò è dovuto in gran parte alla mancanza di un regime liberalizzato di visti con i paesi dell'Unione europea; dal 2010, i cittadini kosovari sono gli unici nella regione a dover ancora richiedere il visto per recarsi nell'area Schengen.

Inoltre, di fronte alle scarse prospettive economiche, alla corruzione politica endemica e ad uno stato di diritto a malapena funzionante, negli ultimi anni decine di migliaia di kosovari hanno tentato di lasciare il paese definitivamente.

Il più notevole è stato l'esodo di massa del 2014-15, quando centinaia di kosovari partivano ogni giorno, principalmente diretti a Belgrado in autobus prima di tentare di attraversare l'Ungheria e poi proseguire verso altri paesi dell'Unione europea. A febbraio 2015, 1.400 kosovari attraversavano ogni giorno il confine dalla Serbia verso l'Ungheria, mentre nei primi mesi di quell'anno 42.000 kosovari hanno presentato domanda di asilo nell'UE.

Sono state adottate diverse misure politiche per cercare di impedire ai kosovari di andarsene e incentivare il loro ritorno, ma poco è stato fatto per cambiare il fatto che un gran numero di kosovari non riesce a vedere un futuro nel paese d'origine.

Tra il 2012 e il 2016 122.657 persone sono emigrate dal Kosovo, legalmente o illegalmente, per la maggior parte dirette in Germania. Secondo l'Eurostat, i kosovari hanno acquisito permessi di soggiorno principalmente in Germania (47%), Italia (12%), Francia e Austria (circa 9%) e Slovenia (circa 7%). Nel 2016, oltre 21.000 kosovari avevano permessi di soggiorno validi nei paesi dell'UE.

Nel tepore autunnale di un giorno di ottobre, la fila è come sempre lunga di fronte all'ambasciata svizzera.

Fra coloro che restano in fila per ore, in attesa di presentare la domanda di visto, c'è Jetlir, 21 anni. Dice a K2.0 che è uno studente e vuole andarsene perché non vede un futuro in Kosovo. "Non vedo nulla", dice. "Anche quando prenderò la laurea, non riuscirò a trovare un lavoro".

Jetlir crede di avere poche possibilità di ottenere un visto, ma deve comunque provare. "Se approveranno la mia domanda di visto, andrò da mio zio in Svizzera, che ha promesso di aiutarmi a trovare lavoro in un cantiere edile", dice.

Nonostante la tanto attesa esenzione dal visto per i cittadini kosovari – quando e se arriverà – solo per i viaggi turistici di breve durata, Jetlir, come molti dei suoi compatrioti, equipara la liberalizzazione dei visti con l'opportunità di lasciare il paese a più lungo termine. "Spero che la liberalizzazione del regime dei visti accada presto, perché fare la fila sta diventando molto stancante", dice. "Allora partiremo da esseri umani".

Nella linea vicino a Jetlir c'è Enver, quasi il doppio della sua età. Anche lui vuole lasciare il Kosovo e non tornare indietro.

"Spero che mi diano un visto e spero di riuscire a trovare un lavoro, perché qui non c'è lavoro per me", dice. "Il tempo per la nostra generazione sta per scadere, ma almeno possiamo fare qualcosa perché i nostri figli abbiano ciò che ci è mancato negli ultimi 20 anni".

Alla ricerca di ispirazione
Oltre confine, in Montenegro, le prospettive economiche per i giovani sono equamente cupe. La disoccupazione giovanile nello stato meno popoloso della regione è oltre il 40% e gli studi dimostrano che oltre la metà dei giovani (tra i 16 e i 27 anni) vuole andarsene.

Molti lo hanno già fatto. Secondo il Forum locale delle ONG di istruzione informale, nell'ultimo decennio 10.000 giovani hanno lasciato il paese, che ha solo poco più di 620.000 abitanti.

Fra loro c'è Dušan, 30 anni, che ha lasciato il paese quasi 10 anni fa e non pensa ancora a tornare.

"Lo stato non ispira i giovani", dice riferendosi all'onnipresente problema regionale del nepotismo. "Lo stato ci dice che è OK usare qualsiasi tipo di legame per ottenere qualcosa nella vita".

Stufo della situazione nel suo paese d'origine, Boris, 30 anni, laureato in scienze politiche, ha deciso di fare le valigie e lasciare il Montenegro l'anno scorso. Si è diretto negli Stati Uniti, dove ha un lavoro, e dice che non ha intenzione di tornare nei Balcani.

Come Dušan, Boris indica nel nepotismo il fattore chiave che impedisce ai giovani di entrare nel mercato del lavoro, ma afferma anche che mancano efficaci politiche del lavoro.

"L'alto livello di influenza politica, come favorire un partito rispetto all'altro e la mancanza di armonizzazione dei profili di esperti e professionisti con le esigenze del mercato del lavoro, sono le ragioni principali per cui i giovani non trovano lavoro o realizzarsi come esperti o professionisti nel loro settore", dice.

Boris ritiene che le attuali politiche statali non dimostrino interesse a mantenere realmente i giovani nel paese. "Se consideriamo che il Montenegro, nonostante sia membro della NATO e candidato all'adesione all'UE, continua a mostrare enormi segni di debolezza nell'area dello stato di diritto e della discriminazione politica... non sorprende che, secondo la ricerca, più della metà della popolazione giovanile totale voglia lasciare il Paese", dice.

Alcuni passi sono stati fatti nel tentativo di migliorare le prospettive economiche dei giovani.

Sei anni fa, il ministero della Pubblica Istruzione ha avviato un programma di formazione professionale. Questo schema offre ai laureati la possibilità di avere uno stage di nove mesi in media, banche o altre società con uno stipendio mensile di 250 Euro fornito dallo stato.

Finora sono stati investiti in questo progetto più di 30 milioni di Euro, ma ci sono stati problemi con l'implementazione. Voci critiche nella società civile parlano di mancanza di informazioni sui datori di lavoro e su chi controlla il sistema di domande e stage. Ci sono anche interrogativi sull'efficacia formativa del programma.

Ulteriori sforzi per ridurre la disoccupazione giovanile sono stati compiuti due anni fa, quando il Montenegro ha introdotto la Legge sui giovani e adottato una Strategia per la gioventù 2017-21, che ha riconosciuto che "il mercato del lavoro in Montenegro ha un grave problema di assorbimento dei giovani che hanno completato la scuola".

Sempre nel 2016 è stata istituita una Direzione per la Gioventù presso il ministero dello Sport, incaricata di "promozione, sviluppo e miglioramento della politica giovanile a livello nazionale e locale".

Nenad Koprivica, direttore generale dell'ente, spiega a K2.0 che è della massima importanza che tutte le istituzioni coinvolte nella promozione dell'occupazione giovanile "coordinino le attività e sviluppino capacità istituzionali". Per ora, tale coordinamento sembra carente e i cittadini hanno visto pochi segni di miglioramento.

Nella sua ultima relazione sui progressi del Montenegro, la Commissione europea sottolinea che le donne, i giovani e i disoccupati di lungo periodo trovano più difficile trovare lavoro. Nel frattempo, secondo i dati dell'Agenzia per il lavoro del Montenegro, 5.779 laureati sono attualmente disoccupati, così come 243 persone con un master e 10 con un dottorato.

Nonostante le misure adottate sulla carta per aumentare le opportunità economiche, la mancanza di risultati concreti ha portato molti cittadini del Montenegro, così come le loro controparti in tutta la regione, a vedere il proprio futuro altrove.

Una scelta personale
L'impatto su coloro che hanno preso la decisione di lasciare la regione varia da persona a persona.

Alcuni, come Ervin Heđi, 26 anni, del villaggio di Palić vicino a Subotica, sono certi di aver preso la decisione giusta, e non guardano indietro.

Heđi ora lavora come operaio edile a Vienna per uno stipendio mensile compreso tra i 2.600 e 2.800 Euro. Dice di avere più conoscenze all'estero che in patria, e quando torna a casa non c'è quasi nessuno da visitare. "Ho vissuto all'estero per un anno e non ho intenzione di tornare a casa", dice.

Per altri, però, la decisione di allontanarsi suscita sentimenti contrastanti.

Marko Makivić è stato per 10 anni attore del Teatro Nazionale di Subotica, dove è apparso in oltre 25 rappresentazioni. Stanco del "degrado della società... in favore di una minoranza di nuovi ricchi arrampicatori sociali", ha lasciato la Serbia l'anno scorso e ha vissuto a Bangkok, in Thailandia, lavorando come insegnante di inglese.

"La maggior parte delle persone è acutamente insensibile e la loro passività si è metastatizzata", dice Makivić della situazione in patria. "Certo, c'è un piccolo numero di persone attive che stanno cercando, nelle proprie possibilità, di rinvigorire e svegliare le persone intorno a sé".

La decisione di andarsene è stata dura per Makivić e, come per molti altri che hanno lasciato la regione, rimane per lui un grosso peso.

"Sono triste per gli amici che non vedo da molto tempo, sono triste perché mi manca il mio pubblico... ci sono molte cose per cui sono triste", dice. "In qualche modo, tutto si riduce a due opzioni: essere felice, ma legato, o essere libero, ma a volte triste. Ognuno deve fare la propria scelta, me compreso".

Scritto da Natalija Jakovljević, Sanja Rašović, Nidžara Ahmetašević i Fitim Salihu.

Revisione/editing: Jack Butcher

Elaborazione grafici Roberta Bertoldi - OBCT
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Croazia-genere-e-spazio-urbano-le-donne-dimenticate-191667


--- Citazione ---Croazia: genere e spazio urbano, le donne dimenticate

Lo spazio urbano è fondamentale nel processo di creazione di una memoria collettiva e per immaginare il futuro. In Croazia, nella toponomastica, non vi è però traccia di nomi femminili

08/01/2019 -  Ana Kuzmanić,  Ivana Perić      Zagabria
Le visualizzazioni dello spazio pubblico urbano giocano un ruolo importante nel plasmare la memoria collettiva e nell’immaginare un futuro (diverso). Nella toponomastica delle città croate non vi è quasi alcuna traccia delle donne. Delle 64 città croate incluse nell’analisi di H-Alter, solo in 9 la percentuale di strade intitolate a donne è pari o superiore al 5%. In più della metà delle città analizzate, comprese alcune delle più grandi città del paese, questa percentuale è inferiore al 2%. In 11 città non esiste alcuna strada intitolata a donne.

Europa, non c’è spazio per le donne nella memoria urbana
Questa prassi vergognosa non è circoscritta esclusivamente alla Croazia. A giudicare dai nomi delle strade nelle principali città europee, la storia appartiene agli uomini. Se l’identità delle città è “maschile”, dov’è il posto (e quando arriverà il tempo) delle donne?

Le città in Croazia, e in tutta Europa, tuttora rispecchiano il sistema patriarcale che relega la donna all’ambito domestico, dove il suo ruolo primario è quello di generatrice della vita, ovvero di madre.

Nell’agosto di quest’anno, migliaia di donne hanno protestato a Parigi perché solo il 2,6% delle strade nella capitale francese è intitolato a donne. Delle 166 donne a cui sono dedicate  le strade di Parigi, la maggior ha avuto questo riconoscimento solo perché erano mogli o figlie di uomini famosi. Pertanto, il gruppo femminista “Osez le Féminisme” ha deciso di impegnarsi per cambiare la situazione, cominciando col proporre una lista di donne meritevoli – tra scienziate, artiste e donne rivoluzionarie – a cui dedicare nuove strade di Parigi.

Nel 2012, Maria Pia Ercolini, insegnante di geografia di Roma, ha analizzato le titolazioni delle strade della capitale e i risultati sono scoraggianti. Dall’analisi è emerso, infatti, che a Roma solo il 3,5% delle strade è dedicato a donne. Ercolini ha creato su Facebook il gruppo “Toponomastica femminile”, come un punto di partenza per una campagna finalizzata a porre rimedio a questo squilibrio. Migliaia di cittadini e cittadine di Roma hanno aderito alla sua iniziativa.

Sulla base di una legge approvata nel 2007, le città spagnole hanno revocato le titolazioni di strade ai membri del regime franchista. Il messaggio è stato chiaro: non c’è spazio per il fascismo nelle strade. In alcune città, come Léon e Valencia, le autorità hanno deciso di sfruttare l’occasione per dare adeguata visibilità alla storia delle donne, titolando le strade rimaste senza nome alle donne che meritano di essere omaggiate.

Di recente, la città di Bruxelles ha lanciato una campagna di crowdsourcing per la titolazione di nuove strade. La città sta realizzando 28 nuove strade e i cittadini del paese sono stati invitati a fare proposte. È stata la prima volta che la capitale belga ha dato ai cittadini l’opportunità di proporre un nome per le nuove strade, e tra le numerose proposte c’erano molti nomi di donne, sistematicamente marginalizzate nella titolazione di nuove strade.

Croazia, l’assenza simbolica delle donne a Zagabria
L’anno scorso Katja Vretenar e Zlatan Krajina della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Zagabria hanno condotto una ricerca i cui risultati hanno mostrato che Zagabria si è trasformata in una città degli uomini: le donne, nonostante la loro presenza fisica, sono “simbolicamente assenti”.

Nel maggio 2018, reagendo all’iniziativa del consiglio comunale di Zagabria di intitolare il parco di fronte al caffè letterario “Booksa” in via Martićeva a uno scrittore, l’associazione “Kulturtreger” ha lanciato una petizione intitolata “Park književnicama!” [Parco alle scrittrici!].

Gli organizzatori della petizione hanno sottolineato che sarebbe ora che la città ponesse fine alla discriminazione e all’ingiustizia nei confronti delle donne meritevoli che hanno lasciato tracce significative nella vita letteraria e culturale di Zagabria. Tuttavia, il consiglio comunale ha deciso di ignorare la petizione e, nel luglio 2018, ha dedicato il parco allo scrittore Enver Čolaković, marginalizzando ancora una volta non solo le tre scrittrici proposte nella petizione (che ha raccolto oltre 1600 firme), ma tutte le donne che meritano di essere ricordate dalla città di Zagabria.

Spinte dal desiderio di stimolare un cambio di rotta su questo fronte, abbiamo analizzato le intitolazioni delle strade in 64 delle 128 città croate. Nella nostra analisi non abbiamo preso in considerazione le strade intitolate ai coniugi (marito e moglie) perché riteniamo che tale percezione della donna rifletta la logica patriarcale. Abbiamo inoltre escluso dall’analisi le strade intitolate alle figure femminili che possono essere considerate fittizie, come le fate o quelle intitolate alle donne sante.

Va inoltre sottolineato che, nei casi in cui le autorità locali non ci hanno consegnato elenchi completi delle strade, abbiamo usato i dati disponibili su Internet, che possono non corrispondere fedelmente alla situazione attuale, ma crediamo che tali variazioni siano trascurabili, tali da non poter incidere sul risultato finale.

Abbiamo analizzato 15.010 intitolazioni, di cui solo 297, ovvero il 2,37% è femminile.

Le città migliori e peggiori
Delle 64 città analizzate, in 11 non esiste alcuna strada intitolata a una donna. Si tratta delle seguenti città: Benkovac, Buje, Buzet, Čazma, Duga Resa, Gospić, Imotski, Ivanec, Novi Marof, Sinj e Slunj.

In cima alla classifica è la città di Belišće, dove 4 delle 49 strade sono intitolate a donne (8,16%). Solo in 9 città la percentuale delle strade intitolate a donne è pari o superiore al 5%: Belišće (8,16 %), Čakovec (5.14 %), Hvar (5,20 %), Krapina (5,33 %), Opatija (5,15 %), Orahovica (5,06 %), Požega (6,83 %), Pregrada (5,13 %) e Slatina (6,45 %).

In più della metà delle città analizzate, comprese alcune delle principali città del paese, questa percentuale è inferiore al 2%.


Più grande è la città, più profondo è l’oblio
Nell’analisi sono state incluse le 8 principali città croate: Zagabria, Spalato, Fiume, Osijek, Zara, Pola, Slavonski Brod e Karlovac. È emerso che a Zagabria solo lo 0,95% delle strade è dedicato a donne, a Spalato 1,89%, a Fiume 3,75%, a Osijek 1,89%, a Zara 3,68%, a Pola 1,61%, a Slavonski Brod 2,84% e a Karlovac 1,46%.

Quindi, in 5 delle 8 principali città, la percentuale delle strade dedicate alle donne è inferiore al 2%. La situazione peggiore è a Zagabria (lo 0,95%), e la migliore, anche se lungi dall’essere ideale, a Fiume (3,75%).

È da notare inoltre che, oltre ad essere completamente marginalizzate nelle titolazioni di strade, alle donne non vengono quasi mai dedicati grandi spazi pubblici, come piazze e parchi. La maggior parte delle città analizzate non ha nemmeno un parco o una piazza a nome di una donna.


Chi sono le donne a cui vengono intitolate le strade?
La maggior parte delle strade con nomi di donne nelle città analizzate è dedicato alla scrittrice Ivana Brlić Mažuranić (16), alla scrittrice e giornalista Marija Jurić Zagorka (13), alla pittrice Slava Raškaj (12) e alla compositrice Dora Pejačević (11).

Molte strade nelle città croate sono intitolate alla donne sante (via Santa Lucia a Novi Vinodolski; via Sant’Agata a Novigrad; via Santa Maria a Novalja, Dubrovnik e Zara; via Santa Margherita a Karlovac; strada di Sant’Anna a Bjelovar, ecc.), alla Vergine Maria (via della Natività di Maria a Novigrad, via della Madonna di Zečevo a Nin, via della Madonna della Neve a Požega, via dell’Assunzione a Slavonski Brod, via della Madonna della Pace a Sebenico, via della Madonna del Mare a Trogir, ecc.), nonché alle fate (via della Fata di Velebit a Metković e Nin).


Al posto di una conclusione
Nelle città analizzate non abbiamo riscontrato nessuna strada dedicata ad alcune delle donne più importanti nella storia croata, per cui abbiamo creato la seguente lista come una fonte di ispirazione per le future e (speriamo) tempestive (re)intitolazioni delle strade in tutto il paese: Nada Dimić, Daša Drndić, Božena Begović, Anka Berus, Paula Landsky, Marija Braut, Mirjana Gross, Nada Mihelčić, Vesna Krmpotić, Mare Žebon, Katarina Dujšin Ribar, Mara Čop Marlet, Dunja Rihtman-Auguštin, Vinka Bulić, Elza Kučera, Ivana Tomljenović Meller, Žarana Papić, Olga Pavlinović, Vera Dajht Kralj, Nada Klaić, Jelena Krmpotić-Nemanić, Vanda Kochansky-Devidé, Jasenka Kodrnja, Zoja Dumengjić, Nives Kavurić-Kurtović...

Quest'articolo è stato originariamente pubblicato da H-Alter. E' pubblicato in collaborazione con l'European Data Journalism Network  e ripubblicabile con licenza CC BY-SA 4.0  .
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