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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/95005
--- Citazione ---MITTELEUROPA BALCANI BALCANI ORIENT. RUSSIE BALTICO MEDIO ORIENTE CAUCASO ASIA CENTRALE EUROPA(e)
CROAZIA: L’epilogo del caso Agrokor, il colosso agroalimentare evita il fallimento
Pierluca Merola 4 ore fa
Nel corso dell’autunno 2018 si è consumato l’epilogo del caso Agrokor in Croazia, apertosi nell’aprile 2017, quando il colosso agroalimentare a forte rischio fallimento fu commissariato con una legge ad hoc dal governo croato.
Lo scorso 7 novembre, dopo un anno dalla sua iscrizione nel registro degli indagati per falso in bilancio e appropriazione indebita, Ivica Todoric, ex-presidente e proprietario di maggioranza dell’Agrokor, è stato finalmente estradato in Croazia. Nel frattempo, si è concluso il commissariamento straordinario dell’Agrokor e i creditori internazionali hanno rilevato il conglomerato croato.
Continuano invece gli scambi di accuse tra Todoric e il governo croato. Con l’arresto di Todoric, l’ex-ministro dell’economia Martina Dalic celebra la fine del “capitalismo clientelare” in Croazia. Mentre, dal canto suo, Todoric, in libertà vigilata, si candida alle elezioni e accusa la leadership croata di svendere il paese al capitale straniero.
L’estradizione di Todoric
Il magnate Ivica Todoric è stato estradato in Croazia un anno dopo la sua fuga all’estero dell’ottobre 2017, che seguì il mandato d’arresto emesso dalla corte distrettuale di Zagabria per i reati di falso in bilancio e appropriazione indebita. Dopo un mese di latitanza, a novembre 2017, Todoric si era consegnato alla polizia di Londra, dichiarando di essere un perseguitato politico. A ciò seguirono un anno di verifiche da parte dei tribunali di Londra, che hanno poi confermato l’estradizione il 25 ottobre 2018.
Secondo l’accusa, Ivica Todoric avrebbe coperto le perdite dell’Agrokor gonfiando il valore delle controllate della compagnia e alterando i libri contabili. Inoltre, mentre la compagnia era virtualmente fallita, la famiglia Todoric si sarebbe appropriata di circa 133 milioni di euro.
Va qui ricordato che l’Agrokor, con un fatturato di 6,5 miliardi di euro l’anno, è la più grande società per azioni dell’Europa sud-orientale. La società è presente in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Ungheria, Slovenia e Serbia, dove impiega più di 130.000 persone. Infine, il valore dell’Agrokor è pari da solo al 16% del PIL croato.
La scambio di accuse tra Todoric e il governo croato
Da quando è fuggito nell’ottobre 2017, Todoric ha sempre dichiarato di essere vittima di una congiura internazionale, orchestrata dal governo croato e dal fondo di investimento americano Knighthead Capital Investments, per privarlo della propria compagnia.
Nella realtà, nel corso dell’estate del 2017, in seguita all’analisi approfondita dei libri contabili e all’emersione dei falsi in bilancio, è avvenuta una rottura tra il governo croato e Ivica Todoric fino ad allora d’accordo sulle modalità di salvataggio statale dell’Agrokor. In seguito a questa rottura, Todoric cominciò a inviare alla stampa croata i diversi scambi di mail che precedettero l’adozione della legge ad hoc per il salvataggio statale della compagnia.
La pubblicazione di queste mail portò allo scoppio di uno scandalo quando fu chiaro che i professionisti che a vario titolo fornirono una consulenza gratuita all’allora ministro dell’Economia Martina Dalic furono poi ricompensati con posizioni di rilievo nel commissariamento straordinario e nella ristrutturazione dell’Agrokor. A stretto giro, il primo ministro Andrej Plenkovic, benché rifiutando le accuse di clientelismo e conflitto di interessi nei confronti della Dalic, ha comunque riconosciuto il metodo non ortodosso con cui fu gestito il commissariamento e quindi richiesto le dimissioni al suo ministro a maggio 2018.
Il reciproco scambio d’accuse tra Ivica Todoric e Martina Dalic è proseguito anche dopo le dimissioni di quest’ultima. Tanto che, dopo le dimissioni, costei si è fiondata nella stesura di un libro dal titolo altisonante: “la fine del capitalismo clientelare in Croazia”. Dove per “capitalismo clientelare” si intende un tipico sistema economico dei paesi post-comunisti in cui le grandi imprese nazionali prosperano e accumulano risorse grazie alla commistione tra potere politico e oligarchie economiche.
In questo libro, la Dalic inscrive quindi l’episodio del collasso dell’Agrokor, del suo commissariamento e dell’arresto di Todoric, nell’onda lunga di quella transizione economica che dall’economia socialista jugoslava, attraverso le oligarchie e le clientele di era Tudjmaniana, starebbe finalmente portando la Croazia a divenire una piena economia di mercato. In disaccordo con questa lettura, Todoric, in libertà vigilata, ha dichiarato che si candiderà alle elezioni nazionali “per cambiare veramente il paese”.
La fine del commissariamento
Nel frattempo, i creditori internazionali hanno raggiunto a luglio 2017 un accordo sul nuovo assetto societario dell’Agrokor, poi confermato dalla corte commerciale di Zagabria a ottobre 2018. Secondo l’accordo raggiunto, i crediti nei confronti dell’Agrokor sono stati convertiti in azioni della società. Tre società sono state quindi fondate in Olanda per ripartire i proventi della compagnia tra gli ex-creditori, ora azionisti, per gestire il ripagamento dei debiti rimanenti pari a 1,3 miliardi di euro e pianificare le ulteriori dismissioni, e per la possibile futura uscita dei creditori dall’azionariato dell’Agrokor.
Il nuovo assetto societario vede la banca russa Sberbank come socio di maggioranza con il 39,2% delle azioni, seguita dagli ex-obbligazionisti con il 25% delle azioni, la cui maggioranza è gestita dalla Knighthead Capital Investments. Partecipazioni minori sono poi detenute dalla russa VTB bank (7,5%) e dall’italiana Unicredit (2,3%).
In capo a quasi due anni, l’Agrokor è quindi uscita dal rischio fallimento. Il governo croato ha effettivamente raggiunto il suo principale obbiettivo: evitare che il collasso dell’Agrokor colpisse altri settori economici e assicurare il pagamento dei crediti ai piccoli fornitori agricoli. Tuttavia, il nuovo assetto societario è ora composto da fondi speculativi e banche d’investimento poco interessati alla gestione a lungo termine. È quindi probabile che l’azienda venga ulteriormente spacchettata e svenduta per permettere a quest’ultimi di rientrare dell’investimento.
La saga del collasso dell’Agrokor volge così al termine: un ex-ministro in odore di conflitto di interessi celebra la fine del “capitalismo clientelare” in Croazia, un ex-proprietario sotto processo si candida alle elezioni, mentre viene spostata verso il nord Europa la sede deputata a distribuire i proventi del maggior conglomerato dell’Europa sudorientale. Probabilmente l’epilogo più scontato per una storia di transizione economica in un paese post-comunista d’Europa: dalle acquisizioni di proprietà statali a prezzi simbolici, agli abusi finanziari coperti dal potere politico, alla sede in Olanda.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-un-analisi-della-crescita-demografica-191886
--- Citazione ---Cecenia: un'analisi della crescita demografica
Perché in Cecenia come in altre repubbliche del nord del Caucaso si registrano tassi di natalità molto superiori alla media della Russia?
10/01/2019 - Marat Iliyasov
Nel contesto di declino generale o crescita quasi zero della popolazione in Russia (si veda tabella 1), sono poche le regioni che mostrano la tendenza opposta. Tra queste vi sono le repubbliche politicamente instabili del Caucaso settentrionale: Cecenia, Inguscezia e Daghestan.
Demografia e sicurezza
"Hai tantissimi bambini", commenta un sorpreso giornalista europeo in visita in Cecenia, ospite di una famiglia cecena per una notte. "Sai, la guerra... niente elettricità... niente da fare...", risponde scherzosamente il padrone di casa.
In effetti, tre o più figli per famiglia sono la norma in Cecenia, Inguscezia e Daghestan. Come dimostrano le tabelle seguenti, queste tre repubbliche del Caucaso del Nord sono molto vicine in diversi indicatori demografici, fra cui gli alti tassi di natalità, bassi tassi di mortalità e rapida crescita naturale (che non include la migrazione). Quest'ultimo fattore causa le solite preoccupazioni alle amministrazioni locali, che devono garantire alla popolazione in crescita sufficienti asili nido, scuole, parchi giochi, stadi, ospedali, luoghi di lavoro, ecc..
Oltre alla crescita demografica, queste repubbliche condividono anche l'instabilità politica. Negli anni 2008-2010 la testata online Caucasian Knot , che monitora la situazione nella regione, ha registrato perfino un minor numero di morti legate alla violenza in Cecenia rispetto all'Inguscezia e al Daghestan. Ciò ha spinto gli analisti a parlare di una ramificazione della guerra russo-cecena, che stava diventando una nuova guerra caucasica.
Tuttavia, all'inizio del 2010, i governi locali supportati da Mosca sono riusciti a imporre un controllo più stretto sul territorio e calmierare la violenza. Queste dure politiche hanno causato maggiore emigrazione e trasformato la regione nel principale fornitore dalla Russia di combattenti per l'Isis.
La ricetta: limitare i tassi di natalità
L'instabilità, purtroppo, è rimasta. Un numero enorme di giovani è rimasto in patria, aumentando il numero di persone deluse dall'incapacità dei governi locali di garantire un impiego o una qualità di vita soddisfacente. A causa degli alti tassi di natalità, questi numeri aumentano ogni anno, il che delinea un'altra preoccupazione, questa volta direttamente correlata al governo federale russo.
Vladimir Zhirinovsky, politico russo di dubbia reputazione e idee radicali, ha ripetutamente espresso questa preoccupazione sulla TV russa e altri media: gli alti tassi di natalità e l'educazione che i bambini ricevono nel Caucaso settentrionale aumentano la minaccia del terrorismo. "Allevano i loro figli preparandoli a morire uccidendo russi e cristiani... Costruire nuove fabbriche e migliorare la situazione occupazionale non risolverà questo problema. Perché faranno sempre più figli... Dobbiamo limitare i loro tassi di natalità. Devono dare alla luce solo uno o due bambini come l'umanità intera. Dovrebbero essere multati per il terzo figlio...".
Dal discorso di Zhirinovsky si evince che le due guerre russo-cecene del 1994-1996 e 1999-2009 hanno lasciato il timore che nel Caucaso settentrionale si stiano preparando i figli ad una nuova guerra. La mia ricerca condotta con i ceceni nel periodo 2014-2017 si poneva queste domande: quali sono le ragioni principali dell'alto tasso di natalità ceceno? La crescita della popolazione cecena è collegata alle recenti guerre nella regione? Se sì, in che modo?
"Sopravvivere ed essere forti"
La ricerca ha confermato il legame tra la demografia e la minaccia esistenziale. Tuttavia, "la preparazione" alla prossima guerra per i ceceni significa piuttosto aumentare la capacità difensiva o la possibilità di sopravvivenza della nazione rafforzandosi numericamente. È stata questa la ragione che ha incoraggiato i ceceni a scegliere famiglie più numerose anche durante la guerra, contrariamente a quanto si potesse prevedere. In effetti, il tasso di natalità medio durante la fase più dura della seconda guerra (si veda tabella 2) è rimasto simile alla situazione prebellica. Il declino dell'intensità della guerra ha poi quasi raddoppiato i tassi di natalità.
La spiegazione più comune di questo fenomeno da parte dei miei intervistati è riassunta nella seguente narrazione. "Siamo costantemente in guerra con la Russia. Ci saremmo estinti se non avessimo famiglie numerose. E questa è la ragione principale. Abbiamo bisogno di famiglie numerose, così la nostra nazione sarà forte e nessuno oserà attaccarci. Inoltre, più grande è la nazione, meglio è. Se abbiamo più persone, significa che abbiamo più possibilità di avere buoni studiosi, musicisti, scrittori, ecc.. Più grande è la nazione, maggiori sono le probabilità che possa prosperare. Voglio che la mia nazione sia forte e quindi voglio molti bambini".
La connessione tra guerra e tassi di nascita di cui parlavano i miei intervistati non era sempre correlata al patriottismo, come espresso nella citazione precedente. Alcuni facevano riferimento al tramandare il cognome. La guerra mette a rischio anche questa possibilità. "Avevo già più di trent'anni quando è iniziata la guerra, e mi dicevo... E se muoio? Non ci sarà nessuno a prendere il nome di famiglia... Non mi sembra giusto".
Il patriottismo dei maschi ceceni era condiviso anche dalle donne intervistate. Erano anche loro consapevoli delle piccole dimensioni della nazione cecena e volevano che fosse più forte. Tuttavia, un'intervista con una delle donne cecene ha rivelato che anche altri fattori giocano un ruolo importante. L'intervistata era in stretto contatto con altre donne cecene rifugiate e ha riportato una delle conversazioni che ha avuto con loro. Questa conversazione ha dimostrato il forte desiderio di avere famiglie numerose, ma non ha chiaramente articolato la fonte di tale desiderio. "Una donna mi ha detto: 'Gli assistenti sociali qui non vogliono che facciamo bambini. Cercano di 'educarci'. Ci suggeriscono di usare i contraccettivi, ma noi vogliamo avere molti bambini... Le ho chiesto, perché? E lei mi ha detto: 'Che strana domanda... non sei una donna cecena?'".
Altri motivi
In effetti, anche gli uomini ceceni citano altri fattori che spingono alla procreazione, principalmente religione, tradizioni, motivi economici e stile di vita rurale. Le spiegazioni fornite possono essere riassunte in poche frasi.
La religione ha un ruolo importante secondo molti intervistati. L'Islam (la religione principale in Cecenia e nel Caucaso settentrionale), secondo loro, incoraggia la procreazione. Dio promette di dare a ciascuno ciò che gli appartiene e quindi non ci si preoccupa molto delle finanze.
Gli intervistati che hanno citato il ruolo delle tradizioni (il secondo gruppo più numeroso) sottolineano che una famiglia numerosa significa migliori possibilità in un probabile scontro per qualsiasi motivo. "Se hai molti figli, hai delle persone che ti sostengono", hanno affermato molti intervistati.
Le ragioni economiche sono state citate da un minor numero di intervistati. "Più ricco sei, più bambini puoi permetterti", era l'atteggiamento generale.
Meno intervistati hanno citato il fattore dello stile di vita rurale, affermando che favorisce famiglie più numerose e che i nord caucasici sono per lo più contadini.
Infine, solo pochi intervistati hanno menzionato un istinto naturale, il bisogno di diventare genitori.
È importante notare che, nel caso analizzato (i ceceni), tutte queste ragioni venivano dopo la necessità di sopravvivere come nazione. È discutibile se questo possa essere esteso a Inguscezia e Daghestan, ma il coinvolgimento parziale nel confronto violento con la Russia suggerisce che potrebbe essere così.
Fonte: ufficio statistico della Russia.Consultabile online http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_13/IssWWW.exe/Stg/d1/04-06.htm ; http://www.statdata.ru/russia Consultato il 20 novembre 2016
Fonti: censimenti in URSS e Russia degli anni 1959, 1970, 1979, 1989, 2002 e 2010. (Il prossimo censimento è previsto per il 2020). Consultabile online http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_13/IssWWW.exe/Stg/d1/04-06.htm ; http://www.statdata.ru/russia Consultato il 20 novembre 2016
Fonte: Badoyeva et al. (2012), Surinov (2010: 76), Dianov 2015. Vedi anche le statistiche statali consultabili al sito http://www.statdata.ru/largest_regions_russia (ultimo accesso 06/12/2018), Rossiyan uzhe men’she, vainakhov I dagestantsev bol’she consultabile al sito https://riaderbent.ru/rossiyan-uzhe-menshe-vajnahov-i-dagestantsev-bolshe.html (ultimo accesso 07/12/18)
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-inverno-del-malcontento-civile-191968
--- Citazione ---Serbia, l’inverno del malcontento civile
Da settimane migliaia di persone si radunano nelle vie centrali della capitale serba per manifestare il proprio dissenso contro il governo e lo strapotere del presidente Aleksandar Vučić, il quale annuncia elezioni anticipate
10/01/2019 - Dragan Janjić
Ogni sabato sera, nonostante il freddo e la neve, migliaia di persone marciano nel centro di Belgrado per protestare contro il governo e il presidente serbo Aleksandar Vučić. Si tratta di una sorta di rivolta dei gruppi sociali scontenti, soprattutto della classe media, ovvero di quella parte più istruita della popolazione urbana che sostiene fortemente i valori europei e l’ingresso della Serbia nell’Unione europea. Il movimento di rivolta è privo di una (visibile) organizzazione solida, non ci sono arrivi organizzati di manifestanti da altre città, mentre i principali media serbi praticamente tacciono sulle proteste. Gli oppositori del governo si radunano perlopiù in modo spontaneo e si informano sulle manifestazioni soprattutto tramite i social network.
Questi cittadini che protestano sono stati particolarmente marginalizzati dopo l’arrivo al potere di Aleksandar Vučić e del suo Partito progressista serbo (SNS) nel 2012. Chiedono il rafforzamento dello stato di diritto e la fine della partitocrazia, e con la partecipazione massiccia alle proteste hanno dimostrato volontà e prontezza a impegnarsi per il cambiamento. Finora sono state organizzate cinque manifestazioni di protesta, ognuna più massiccia della precedente.
Uno dei motivi per cui la rivolta cresce rapidamente risiede nel fatto che le autorità reagiscono alle proteste in modo molto duro e offensivo. “Siete venuti così numerosi in risposta all’invito di Aleksandar Vučić”, ha detto l’attore Branislav Trifunović rivolgendosi ai manifestanti durante una delle proteste, alludendo al fatto che il modo offensivo in cui le autorità parlano dei manifestanti ha spinto molte persone a scendere in strada.
Subito dopo l’inizio delle proteste, il presidente Vučić ha dichiarato che non verrà incontro alle richieste dei manifestanti nemmeno se ci fossero cinque milioni di persone in strada. Questa dichiarazione ha spinto gli oppositori di Vučić a creare lo slogan “Uno dei cinque milioni”, scritto sui cartelli e badge portati dai manifestanti.
Il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović durante una conferenza stampa ha cercato di convincere l’opinione pubblica serba che alle proteste stiano partecipando solo 3500 persone. Dal momento però che in occasione di ogni manifestazione di protesta le strade nel centro di Belgrado sono invase dai dimostranti e che le fotografie e i video mostrano una folla di persone in marcia, la dichiarazione del ministro è stata accolta da chi protesta come un “segnale di panico” in seno alla coalizione al governo.
Le autorità hanno ben presto rinunciato ai tentativi di scoraggiare le proteste presentandole come un capriccio di “una manciata di scontenti” manipolati dall’opposizione (e probabilmente anche dai servizi segreti stranieri) perché questo approccio, come già dimostrato in passato, di solito porta alla crescita del movimento di protesta. Tuttavia, i manifestanti continuano a essere duramente criticati sui media mainstream, senza avere la possibilità di difendersi ed esprimere la propria posizione. Delle proteste i media parlano poco, perlopiù nell’ultima parte dei notiziari televisivi e sulle pagine interne dei giornali.
Pressioni
Dall’affermazione secondo cui non avrebbe reagito nemmeno se cinque milioni di persone dovessero scendere in strada, attraverso il tentativo di sminuire la portata delle manifestazioni, Vučić è arrivato al punto di ridurre la protesta alla richiesta di elezioni anticipate. “A me interessa la legittimità. La legalità c’è, ma se qualcuno ha dubbi sulla legittimità, non c’è nessun problema, sono sempre pronto per una verifica”, ha dichiarato Vučić.
“Se il governo dovesse scegliere, sicuramente preferirebbe andare subito alle elezioni, piuttosto che aspettare sei mesi, perché nel frattempo l’opposizione si sarebbe rafforzata sull’onda delle proteste. E' quindi logico sia quello che sta facendo l’opposizione sia che il governo paventi elezioni anticipate. Staremo a vedere se si terranno davvero”, sottolinea l’analista politico Dragomir Anđelković.
Abbandonata la strategia di contare i manifestanti e cercare di dimostrare che sono pochi, la leadership al potere ha ora adottato un approccio diverso: sostiene che si tratti di raduni politici organizzati dai partiti di opposizione, e li accusa di aver derubato la Serbia quando erano al potere. Gli esponenti dell’opposizione non hanno avuto occasione di rispondere a queste accuse sui media mainstream, che invece danno ampio spazio alle dichiarazioni dei rappresentanti del potere. Nonostante l’opposizione non abbia mai menzionato le elezioni, al governo affermano che i partecipanti alle proteste chiedono elezioni anticipate che, secondo quanto annunciato in via ufficiosa, potrebbero tenersi già in primavera.
I rappresentanti del potere continuano a ripetere che sono disposti a parlare con i cittadini, ma non con l’opposizione, affermando implicitamente che i membri dell’opposizione non sono cittadini, negando così uno dei principi fondamentali della democrazia. La leadership al potere ha scelto di rispondere alle proteste con elezioni politiche anticipate, di cui però non c’è alcun reale bisogno dato che la maggioranza di governo è molto stabile.
Le elezioni sono un terreno su cui la coalizione al governo ha un dominio assoluto, dal momento che controlla gli organi statali e i principali media del paese, dispone di mezzi finanziari necessari per condurre la campagna elettorale e non esita a usare risorse pubbliche per l’autopromozione politica.
Le elezioni anticipate inevitabilmente sposterebbero l’attenzione sui partiti di opposizione, lasciando così ampio spazio ai tentativi di stemperare il crescente malcontento, alimentando disaccordi tra diversi gruppi politici e altre organizzazioni che, direttamente o indirettamente, sostengono i manifestanti e prendono parte alle proteste. La spontaneità, che tuttora caratterizza le proteste, è evidentemente un grande nemico del potere populista fondato sull’autorità del leader e del partito al governo e sulla marginalizzazione dello stato di diritto.
Resta tuttavia il fatto che tra quei gruppi sociali che in teoria dovrebbero dare un grande contributo al progresso e allo sviluppo del paese, inesorabilmente cresce il malcontento, che non svanirà facilmente, a prescindere dall’esito delle eventuali elezioni anticipate. Qualora l’opposizione non mostrasse maturità e prontezza a organizzarsi e unirsi in un unico fronte contro un regime populista e incline all’autoritarismo, i cittadini scontenti sicuramente cercheranno un altro modo per esprimere resistenza. Quindi, se il governo dovesse decidere di organizzare elezioni anticipate, guadagnerebbe tempo ma non riuscirebbe a “pacificare” la classe media che sta cominciando a svegliarsi.
Elezioni
La protesta civile è uno dei più potenti mezzi di cui attualmente dispongono gli oppositori del governo. Finora sono state organizzate cinque proteste. La prima manifestazione ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone. Il secondo sabato il numero di partecipanti è raddoppiato, mentre la terza e la quarta volta decine di migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Belgrado. La quinta manifestazione, tenutasi lo scorso 5 gennaio, ha visto riunirsi circa 10mila persone. Bisogna tuttavia tener presente che è stata una giornata molto fredda e che le festività natalizie erano ancora in corso, per cui molte persone erano fuori città. Quel giorno per la prima volta sono state organizzate proteste anche a Niš, Kragujevac e in altre città della Serbia.
A scatenare le proteste è stato l’aggressione violenta da parte di ignoti a Borko Stefanović, leader della Sinistra serba (LS) e uno dei fondatori dell’Alleanza per la Serbia (SZS, al momento la più forte coalizione dei partiti di opposizione in Serbia), avvenuto lo scorso 23 novembre a Kruševac. Da allora le proteste si svolgono sotto lo slogan “Contro la violenza – stop alle camicie insanguinate” perché Stefanović è stato colpito alla testa con un’asta in ferro, perdendo molto sangue, per cui la sua camicia era tutta insanguinata.
Lo slogan “Uno dei cinque milioni” è stato aggiunto in un secondo momento, dopo la summenzionata affermazione di Vučić secondo cui non accetterebbe le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero in cinque milioni. Gli esponenti dell’opposizione partecipano alle proteste, ma restano mescolati alla folla e non tengono discorsi, mentre in primo piano ci sono attori, intellettuali e giovani attivisti.
Tuttavia, questa situazione non può durare a lungo, soprattutto se le autorità decidono di indire elezioni anticipate a primavera. L’opposizione è consapevole del fatto che la coalizione di governo è avvantaggiata nella campagna elettorale e nelle elezioni, per cui dovrà scegliere tra due opzioni: boicottare le elezioni o parteciparvi pur sapendo in anticipo che si svolgeranno in condizioni ad essa sfavorevoli e che una vittoria delle forze di opposizioni rappresenterebbe un vero e proprio miracolo politico. Entrambe le opzioni richiedono l’ideazione di un’ampia piattaforma politica, la creazione di un’organizzazione forte e capillare e il mantenimento della “temperatura politica” con le proteste come espressione del malcontento degli oppositori del governo.
Al momento non c’è alcuna intesa solida tra i partiti di opposizione, ma è evidente che, per la prima volta dall’arrivo al potere di Vučić e del suo SNS, si è aperto uno spazio per una seria azione politica dell’opposizione. Il primo ostacolo che i partiti di opposizione devono superare è quello di raggiungere un accordo sulla scelta di partecipare alle elezioni anticipate o boicottarle attivamente. Nessuna delle due opzioni è particolarmente favorevole all’opposizione, da tempo fortemente indebolita, ma semplicemente non c’è una terza via.
--- Termina citazione ---
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-economia-lumaca-dei-Balcani
--- Citazione ---Serbia, l’economia lumaca dei Balcani
10 gennaio 2019
Dopo la Croazia e la Grecia, la Serbia è, considerando gli ultimi dieci anni, il paese con la crescita economica più lenta di tutti i Balcani. A dirlo è Vladimir Gligorov, professore presso l’Istituto di studi economici internazionali di Vienna.
In una recente intervista per l’agenzia serba Beta , l’economista afferma che la posizione della Serbia “è in parte dovuta alle correzioni del tasso di cambio e dei redditi reali dopo il 2008, e poi legata al consolidamento fiscale, effettuato dopo il 2015”.
Gligorov ritiene che il maggior errore nel processo del consolidamento fiscale sia stata la diminuzione di salari e pensioni, che ha incoraggiato l'emigrazione, così come la conferma di sussidi alle aziende statali e agli investitori.
“Al posto di questo – prosegue il professore di economia – si sarebbero dovute adottare delle riforme del settore pubblico e delle istituzioni economiche e garantire lo stato di diritto”, aggiungendo che quest’ultimo per gli “investitori ambiziosi” è molto più importante delle sovvenzioni.
Riguardo la finanziaria del 2019, Gligorov fa notare che “non è certo che lo stato possa spendere di più, per esempio, nella costruzione di infrastrutture, perché finora ha ritardato la realizzazione di quasi tutti i progetti, per non parlare della loro qualità”.
Critico anche nei confronti delle spese militari. “Potrebbero acquistare materiale didattico per la scuola o per altri scopi pubblici, ma a quanto pare si crede che comprare armi sia più gradito all’opinione pubblica”, conclude Gligorov.
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/95126
--- Citazione ---L’ultima puntata di Kiosk, la radio sintonizzata sull’est!
redazione 1 giorno fa
Tra Russia, Ungheria e Polonia
Nella puntata numero 12, la prima del 2019, Kiosk viaggia tra la Russia e l’Europa centro-orientale.
Si parte dalla Russia, per parlare del “meccanismo di Mosca”. Uno strumento previsto l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che prevede l’istituzione di una commissione di esperti indipendenti per indagare su un determinato tema. Invocato solo sette volte in passato, questa volta il meccanismo è servito per lanciare un’indagine relativamente alla situazione della comunità LGBT nella repubblica russa della Cecenia, che nel 2017 fu teatro di sparizioni, omicidi e torture nei confronti di centinaia di cittadini ceceni omosessuali. Yuri Guaiana, attivista per la ong All Out, ci aiuta a capire di più su questa indagine e sull’importanza per il movimento LGBT e per tutto il movimento per i diritti umani.
Ci spostiamo in Ungheria, dove si continua a protestare contro la cosiddetta “Legge sulla schiavitù”. La normativa consente ai datori di lavoro di chiedere 400 ore di straordinari all’anno e dà loro la possibilità di pagare le ore extra entro 3 anni. L’approvazione della legge e il rifiuto di discutere gli emendamenti presentati dall’opposizione hanno dato il via a enormi proteste di massa. Il governo Orbán vacillerà?
Sempre in Ungheria, le autorità hanno rimosso il monumento in bronzo dedicato ad Imre Nagy da piazza dei Martiri, di fronte al parlamento ungherese, per ricollocarlo a piazza Jaszai Mari. Nagy è considerato dalla maggior parte degli ungheresi un eroe nazionale e fu primo ministro durante la rivoluzione del 1956. La sua figura, è parte integrante dell’identità e della memoria storica dell’Ungheria contemporanea. Insieme a Matteo Zola, direttore responsabile di East Journal, cerchiamo di capire le motivazioni politiche di questo gesto.
Facciamo un altro tuffo nel passato per ricordare Simcha Rotem Ratajzer, l’ultimo sopravvissuto tra coloro che parteciparono alle rivolte del ghetto di Varsavia.
Infine, torna l’appuntamento con la nostra amatissima rubrica “Polveriera balcanica”.
PLAYLIST
• Idoli – Kenozoik | //www.youtube.com/watch?v=mN21_LXq1K0• Motorama – Lottery | //www.youtube.com/watch?v=tBurYDJpA9Q• Arkadij Kots – Byt’ rabočim ne stydno | //www.youtube.com/watch?v=BM58f7U-PS0• Pankow – Rock ‘n’ roll im Stadtpark | //www.youtube.com/watch?v=rNC1hld2e4A• Klezmafour – evet evet | //www.youtube.com/watch?v=5K_cX8O_E60
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/95188
--- Citazione ---STORIA: Il sacrificio di Jan Palach e il fallimento del socialismo dal volto umano
Donatella Sasso 1 giorno fa
Questo è il sesto di una serie di articoli dedicati agli avvenimenti legati alla Primavera di Praga. Clicca qui per leggere gli altri.
Il 16 gennaio 1969 era un giorno freddo. A Praga l’inverno sa essere molto rigido. Lo studente di filosofia Jan Palach si preparò con calma, quel pomeriggio. La determinazione dei suoi vent’anni, sarebbero stati 21 l’11 agosto, gli permise di riempire una sacca a tracolla con i suoi quaderni, debordanti di articoli, pensieri e dichiarazioni, e di prendere con sé una tanica di benzina.
Giunto di fronte al Museo Nazionale in Piazza Venceslao, quello che gli occupanti avevano trivellato di colpi nell’agosto dell’anno prima, posò a terra la sua sacca. Poi prese mentalmente le misure, le fiamme non avrebbero dovuto toccare i suoi preziosi appunti, si spostò a sufficienza, si cosparse di combustibile e si diede fuoco.
La sua agonia durò tre lunghi giorni. In ospedale confidò ai medici di avere preso a modello i monaci buddisti del Vietnam del Sud che, nel 1963, protestarono in quel modo contro le discriminazioni inflitte dal presidente cattolico. Fra i suoi scritti si lesse: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Poche settimane dopo altri giovani seguirono il suo esempio, ma ebbero molta meno risonanza mediatica perché il governo si impegnò a soffocare la diffusione di determinate notizie.
In effetti il suicidio di Jan Palach aveva procurato un’enorme commozione in tutto il paese. Il 25 gennaio ai funerali avevano partecipato centinaia di migliaia di persone, certo per rendere omaggio al giovane compatriota, ma anche per prendere una chiara posizione politica di fronte ai propri governanti e alla dirigenza sovietica.
Alexander Dubček, in quei giorni ricoverato all’ospedale a Bratislava per una virulenta influenza, fu molto colpito dall’estremo sacrificio del giovane. Tutto si stava sgretolando intorno a lui e le “torce umane” che cercavano drammaticamente di illuminare le coscienze glielo sottolineavano nel modo più duro e cruento possibile.
Poco prima del 16 gennaio, il presidente del Parlamento Smrkovský, fra i più fedeli sostenitori di Dubček, era stato costretto alle dimissioni, segnando un ulteriore passo verso la perdita di sovranità e autonomia della Cecoslovacchia. Intanto gli animi rimanevano accesi.
In marzo, a Stoccolma, si tennero i campionati mondiali di hockey su ghiaccio, sport nazionale cecoslovacco. Il 21 marzo vi fu la prima partita fra Cecoslovacchia e Unione Sovietica: in campo si percepiva molto di più della rivalità sportiva e, quando i primi vinsero, tutto il paese scese in strada a celebrare la propria rivalsa nazionale. Le cose furono un po’ più complesse una settimana dopo quando la Cecoslovacchia vinse la finale, sempre contro i sovietici, con un sofferto 4 a 3. Gi animi erano sovraeccitati e i servizi segreti non si lasciarono sfuggire l’occasione. Alcuni poliziotti, travestiti da operai, misero diverse pietre da pavimentazione di fronte alla sede della compagnia aerea sovietica, l’Aeroflot. Quando i praghesi scesero in piazza, alcuni di loro iniziarono a lanciare le pietre contro le vetrine degli uffici e in molti li imitarono. Non successe nulla di più, ma quest’episodio servì a scatenare altri scontri che si protrassero nei giorni successivi. Il 31 marzo, senza alcun preavviso, giunse a Praga il maresciallo Grečko che minacciò l’uso delle armi contro i provocatori e ribadì la doppia necessità di reintrodurre la censura e soffocare la “controrivoluzione”. Dubček incassò l’ennesima provocazione, ma comprese, in quel preciso momento, di aver esaurito forze e strumenti per far fronte allo stra-potere sovietico. Decise quindi di rassegnare le proprie dimissioni.
Lo comunicò durante la riunione di presidenza del Comitato centrale, il 17 aprile, nella consapevolezza che suo successore sarebbe stato Husák, fedele a Mosca e contrario alle riforme, al quale chiese, in extremis e senza alcuna speranza, di non tradire il Programma d’azione. Gli fu offerta la presidenza del Parlamento, che accettò solo per avere ancora un minimo di voce in capitolo.
Con Husák fu dato il via ai licenziamenti dei giornalisti scomodi, furono chiusi vari giornali, si ebbero arresti e destituzioni di segretari regionali noti per essere favorevoli alle riforme, le espulsioni dal Partito colpirono mezzo milione di persone. Ad agosto, in concomitanza con l’anniversario dell’invasione, in trenta città si organizzarono manifestazioni di protesta, tutte represse da 35.000 fra soldati e poliziotti. Almeno cinque persone persero la vita, fra cui una di soli 15 anni. Husák approfittò dei disordini, sobillati dai militari, per far approvare la cosiddetta “legge del manganello” sulla repressione, anche se non riuscì a far instaurare, come avrebbe auspicato, la legge marziale. Dubček, errore di cui si sarebbe pentito fino alla morte, pose la sua firma in calce alla legge. A metà settembre fu estromesso dalla carica di Presidente del Parlamento ed espulso dal Comitato centrale. Forse per motivi tattici o perché Husák non si sentiva ancora abbastanza forte, gli risparmiò l’espulsione dal Partito e lo mandò come ambasciatore ad Ankara. Fin da subito Dubček fiutò in quella decisione un tranello, una mossa per non farlo più tornare in patria, ma, sostenuto anche dalla moglie, non si oppose. I due coniugi giunsero in Turchia nel gennaio del 1970 e furono accolti con grande calore, sia dalle autorità sia dai cittadini. Verso maggio Dubček ebbe però conferma dei suoi sospetti: da Praga tramavano per imporgli un esilio perpetuo. Molti paesi gli offrirono asilo politico, ma lui era determinato a tornare a casa. Dopo alcuni tentativi di comprare un biglietto aereo per Praga, riuscì a trovarne uno per Budapest. Partì da solo, la moglie lo raggiunse con difficoltà un mese dopo, e, come mise piede a Praga, gli fu comunicata l’espulsione dal Partito.
Cominciò per lui e per la sua famiglia il periodo più duro. Nel dicembre 1970 trovò lavoro come meccanico nell’Azienda forestale della Slovacchia occidentale nei pressi di Bratislava, dove rimase fino alla pensione. In quello stesso periodo iniziò a essere costantemente pedinato, sia in auto sia a piedi, la sua casa fu riempita di cimici, rimase isolato, praticamente relegato in Slovacchia. La situazione era drammatica, ma non mancarono episodi divertenti, quanto surreali.
Un giorno andò a trovarlo nella sua casetta in campagna Václav Slavík, un vecchio amico dissidente. Per poter parlare tranquillamente decisero di fare un bagno nel vicino laghetto. Gli agenti, molto infastiditi, presero in fretta alcune barche e si misero a remare forsennatamente per non perdere alcuna parola. Uno di loro, stanco di quella situazione, a un certo punto urlò «Per quanto pensate di restare, ancora?». Dubček rispose senza scomporsi: «Sicuramente resisteremo più a lungo di voi!».
E non si sbagliò. A distanza di vent’anni vinsero quanti, come lui, seppero resistere più a lungo.
--- Termina citazione ---
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