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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/95240
--- Citazione ---BOSNIA: Il lungo inverno dei profughi bloccati al confine UE
redazione 11 ore fa
Sono oltre 4.000 le persone bloccate per l’inverno in Bosnia Erzegovina. Profughi dal Pakistan, Iran, Afghanistan, Iraq e Siria, che risalendo la rotta balcanica sono arrivati alle porte dell’Unione europea – e lì hanno dovuto fermarsi, almeno per ora.
La situazione dei profughi bloccati in Bosnia Erzegovina
Nel corso del 2018, circa 24.000 persone hanno attraversato i confini bosniaci, proveniendo da Serbia e Montenegro. Alcune sono in cammino già da anni, arrivate a piedi attraverso la Turchia e la Grecia o la Bulgaria. Altre sono arrivate nei Balcani direttamente, approfittando del breve periodo di assenza di visti tra Serbia e Iran. La maggior parte sono riuscite a proseguire, attraversando la frontiera nonostante il rischio di violenti e illegali respingimenti da parte dei gendarmi croati (come continuano a denunciare le ONG), per arrivare infine ai loro paesi di destinazione: Austria, Germania, paesi scandinavi, per alcuni anche l’Italia. Chi non ce l’ha fatta a superare il gioco, “the game“, ha dovuto fermarsi un giro.
Per mettere un tetto sulla testa a tutte queste persone, la Commissione europea ha investito 9,2 milioni di euro finora. Con questi soldi, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) e i suoi partner (UNHCR e UNICEF) hanno approntato tre centri d’accoglienza temporanea con tende riscaldate e container in due ex capannoni industriali nelle città di Bihać e Velika Kladuša, al confine nord-occidentale del paese, laddove i profughi si concentrano per provare poi a superare il confine croato.
La situazione, che in autunno appariva disperata, si è ora in qualche maniera stabilizzata. L’intervento politico e il sostegno finanziario dell’UE hanno permesso di scongiurare quella che si presentava come una catastrofe umanitaria annunciata.
Ultimo progresso in ordine di tempo è la riapertura a tempo di record, una volta ristrutturata, della “casa dello studente” di Bihać, un edificio già abbandonato ed occupato da un migliaio di profughi, ora destinato all’accoglienza delle famiglie di profughi, complementare agli spazi disponibili presso l’ex Hotel Sedra di Cazin. Segnale di normalità è che un centinaio di bambini di queste famiglie, alcuni dei quali da anni sul cammino verso l’Europa, potranno presto sedere di nuovo sui banchi di scuola, iscritti alle scuole elementari di Bihać e Cazin.
Le autorità locali tra accoglienza e pugno duro
Ma la situazione in queste città del cantone Una-Sana non è semplice: le autorità locali si sentono abbandonate dal governo di Sarajevo, che – nonostante asilo e migrazione siano tra le poche competenze esclusive del governo centrale bosniaco – non si è assunto alcuna responsabilità politica. Così, la polizia cantonale ha dichiarato raggiunto il limite massimo dell’accoglienza.
Ogni giorno l’autobus che da Sarajevo raggiunge Bihać attraversa il confine cantonale presso la cittadina di Ključ. Qui la polizia fa scendere i profughi, lasciandoli senza riparo con temperature che in questa stagione possono facilmente scendere sottozero. I migranti sono costretti ad aggirare l’improvvisato “checkpoint”, e a continuare a piedi, spesso nella neve, per gli ultimi venti chilometri fino a Bihać.
La denuncia del garante bosniaco
Una mancanza di responsabilità politica e di capacità amministrative che è stata denunciata dalle stesse istituzioni bosniache: l’ufficio del Difensore Civico (Ombudsman) ha pubblicato un rapporto speciale sulla situazione dei migranti nel paese. L’Ombudsman Jasminka Džumhur ha sottolineato come il 90% dei profughi in Bosnia si trovi in un limbo legale, avendo espresso l’intenzione di richiedere asilo ma non potendo di fatto deporre domanda, poiché per farlo dovrebbe presentarsi a Sarajevo in orario d’ufficio.
Nonostante gli impegni internazionali, infatti il settore per l’asilo del ministero della Sicurezza bosniaco dispone di due soli impiegati per trattare tutte le domande d’asilo – oltre mille nel solo 2018, ma con un potenziale di varie volte superiore. Non è un caso che l’ultima volta che la Bosnia Erzegovina ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un richiedente asilo fosse il 2014.
“Il problema delle migrazioni è un problema europeo – ha ricordato Džumhur – e la soluzione deve venire dall’Europa”. Per il momento, l’unica cosa che le istituzioni bosniache sembrano fare è lasciare che l’Europa copra i costi per la permanenza temporanea di queste persone sul territorio bosniaco, nella speranza che con la primavera, così come sono arrivati, altrettanto spontaneamente svaniscano.
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/95217
--- Citazione ---SERBIA: A un anno dall’omicidio di Oliver Ivanovic, ancora nessuna giustizia
Angelo Massaro 1 giorno fa
E’ passato un anno esatto dall’omicidio di Oliver Ivanović, uno dei leader dei serbi del Kosovo, e i suoi responsabili non sono stati ancora individuati. In ricordo di Ivanović, parenti, amici e compagni di partito si sono riuniti a Nord Mitrovica davanti alla sede del suo partito, “Srbija, pravda, demokratija”, luogo in cui Ivanović si stava recando al momento dell’omicidio. Anche i cittadini di Belgrado hanno reso omaggio al politico serbo-kosovaro, nell’ambito delle proteste antigovernative organizzate nelle ultime settimane. E alle 18 di oggi, nella capitale serba, si terrà una marcia in ricordo di Ivanović.
Un anno di indagini
Le indagini sull’omicidio di Ivanović hanno finora indicato numerosi sospetti provenienti da settori diversi della comunità serba del Kosovo. Al momento risultano in stato di arresto tre indiziati a seguito di una retata delle unità speciali della polizia kosovara avvenuta a Nord Mitrovica lo scorso 23 novembre. Il fermo ha coinvolto due poliziotti, Dragiša Marković e Nedjelko Spasojević, e Marko Rosić, un tifoso appartenente al locale fan club del Partizan Belgrado.
Agli inizi di gennaio 2019 la corte d’appello di Pristina ha poi esteso la durata della custodia cautelare fino al 23 febbraio per i tre serbo-kosovari. Nell’elenco dei sospettati, però, c’è soprattutto Milan Radoičić, uomo d’affari serbo-kosovaro e vicepresidente di Srpska lista, il principale partito politico serbo del Kosovo, da sempre strettamente collegato al governo di Belgrado.
Le impressioni di Ivanović
A differenza degli altri tre accusati, Radoičić è riuscito a evitare l’arresto rifugiandosi in Serbia, paese verso cui Pristina ha già emesso un mandato d’arresto. In un’intervista rilasciata al portale Balkan Insight pochi mesi prima del suo omicidio, Oliver Ivanović menzionava proprio Radoičić come una figura centrale nel sistema informale di potere che detiene il reale controllo sulle municipalità kosovare a maggioranza serba.
Ivanović nell’intervista si era inoltre detto preoccupato che Radoičić fosse riconosciuto da Belgrado come un esempio di chi si batte per la sopravvivenza dei serbi in Kosovo. Va ricordato che Ivanović era entrato da tempo in rotta di collisione con il governo di Belgrado denunciando il clima di tensioni e minacce che si era creato già durante le elezioni locali kosovare del 2017.
Nel frattempo, il presidente Aleksandar Vučić ha negato ogni accusa, sostenendo che Radoičić non avrebbe preso parte all’omicidio di Ivanović. A provarlo sarebbero infatti un interrogatorio e un esame poligrafico effettuati dalla polizia serba al momento dell’arrivo a Belgrado del vicepresidente di Srpska lista. Secondo Vučić il governo di Pristina avrebbe tentato di incastrare Radoičić in quanto principale difensore dei serbi del Kosovo, cercando persino la sua uccisione.
Le autorità kosovare non hanno tardato a esprimere il proprio giudizio in merito alla vicenda. Per il presidente del Kosovo Hashim Thaçi i “maggiori sospettati dell’assassinio di Ivanović si troverebbero a Belgrado e le autorità serbe dovrebbero consegnare queste figure alla giustizia”. Mentre il premier kosovaro Ramush Haradinaj ha precisato che il caso dell’omicidio di Ivanović non si potrà risolvere velocemente senza la cooperazione della Serbia. Secondo alcune speculazioni, Haradinaj avrebbe in realtà un rapporto ambiguo con Radoičić, come dimostrato da un incontro ufficiale tra i due, lo scorso luglio a Nord Mitrovica. Per il premier Haradinaj sarebbe infatti essenziale preservare il supporto ricevuto dai rappresentati di Srpska lista alla coalizione di governo.
Le manifestazioni di Belgrado
Mentre le indagini vanno avanti, sono diverse le voci critiche nella società civile serba e kosovara a chiedere l’individuazione dei responsabili dell’omicidio di Ivanović. Il clima è particolarmente teso a Belgrado, dove a seguito del pestaggio del politico di opposizione Borko Stefanović si sono tenute diverse manifestazioni di protesta nel corso delle ultime settimane, sotto lo slogan “Stop alle camicie insanguinate”, nonché “1 di 5 milioni” – in riferimento a quando Vučić disse che non avrebbe ascoltato le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero cinque milioni. Il corteo di oggi prenderà simbolicamente il nome di “il primo di 5 milioni”, alludendo a come Ivanović si schierasse in opposizione all’attuale governo serbo.
I manifestanti, che danno voce ad un crescente malcontento per la gestione autocratica del potere da parte del Partito Progressista Serbo guidato dal presidente serbo Aleksandar Vučić e per la scarsa copertura dei media del paese rispetto alle manifestazioni, hanno più volte sottolineato la necessità di fare luce sull’assassinio di Ivanović e sui rapporti tra Vučić e Radoičić.
Un quadro confuso
Dalle indagini sull’omicidio di Oliver Ivanović emerge al momento un quadro estremamente confuso. Nonostante siano state avanzate diverse ipotesi sui responsabili dell’assassinio non sono stati ancora trovati i mandanti. A complicare lo scenario è poi il gioco di accuse tra Kosovo e Serbia che rappresenta un ostacolo ulteriore per le analisi giudiziarie.
Quello che invece sembra essere fortemente sostenuto dalla società civile è il desiderio di giungere al più presto alla verità sul caso Ivanović. A tal riguardo, le iniziative in memoria del politico serbo-kosovaro rappresentano un monito affinché episodi del genere non diventino una prassi consolidata nella politica balcanica.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Balcani-a-tutto-smog
--- Citazione ---Le città dei Balcani sono tra quelle dove si respira l'aria più inquinata d'Europa. Un problema aggravato dalla lentezza con cui le istituzioni stanno prendendo coscienza della gravità della situazione. Un dossier di OBCT
--- Termina citazione ---
Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/75501
--- Citazione ---ALBANIA: 25 anni fa, quando la Rai parlò di noi
Lavdrim Lita 9 Agosto 2016
25 anni fa cominciava il grande esodo dei profughi albanesi verso l’Italia. Tra la notte del 6 e la mattina del 7 marzo del 1991, una prima ondata di persone in fuga dall’Albania si riversò sulle coste pugliesi. Era il preludio al drammatico viaggio verso Bari della nave Vlora che ad agosto attraccò in Puglia con 20 mila passeggeri a bordo.
La storia
Il crollo del muro Berlino e la morte violenta dei coniugi Ceausescu in Romania nel 1989 aveva scosso i regimi comunisti nell’ est Europa e sopratutto Tirana. Per 45 anni l’Albania fu sottomessa a dura prova da un regime stalinista guidata con metodi spietati dal dittatore Enver Hoxha. Questa prova consisteva nell’impoverimento materiale e spirituale di tre milioni di persone. Centinaia di chiese, mosche e altri luoghi di culto furono distrutte e decine di chierici persero la vita perla volontà cieca di estirpare con la violenza la fede nelle persone per sostituirla con il culto del partito.
L’Albania arrivava nei primi anni ‘90 come il terzo paese più povero del mondo dopo l’Uganda e l’Angola e dove la proprietà privata, la libera impresa, la libertà e i diritti umani fondamentali erano stati vietati per Costituzione. Durante il regime comunista la mobilità interna ed esterna erano totalmente proibite. La propaganda contro la migrazione e immigrazione era massiccia e rappresentata come una piaga sociale frutto del capitalismo. La propaganda totalitaria fino alla morte di Enver Hoxha nel 1985 rappresentava nell’immaginario collettivo albanese il fenomeno migratorio come una deportazione territoriale simile a quella per gli oppositori politici.
Il regime comunista del post-Hoxha guidata da Ramiz Alia cercò di allentare la presa della repressione dando l’idea di prossime riforme economiche e sociali, ma l’ incapacità e l’atrofia politica della classe dirigente deluse subito le aspettative. In condizioni di povertà diffusa, di disoccupazione crescente e di mancanza di reali prospettive per il futuro,l’emigrazione sembrava l’unica strada percorribile per una generazione che non aveva nulla da perdere.
Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso i cancelli delle ambasciate occidentali come fossero una casa sicura per chiedere asilo politico e una nave che li avrebbe guidati verso l’occidente. I primi dati sono spaventosi per la credibilità del regime, circa tremila persone si rifugiarono all’ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ecc.
A Tirana il malcontento si manifestò ormai apertamente e diversi gruppi sociali e sindacali organizzarono scioperi e manifestazioni. Quelli che diedero un colpo definitivo al regime comunista furono gli studenti universitari che scesero in piazza in numero sempre maggiore: anche se in un primo momento le loro richieste erano limitate alle condizioni di studio, ben presto acquisirono una maggiore connotazione politica. Il passaggio da un regime totalitario a un sistema democratico di tipo liberale coincise con una grave crisi economica del paese, in un momento storico in cui la globalizzazione cominciava a far sentire i suoi effetti. Alla povertà ereditata si aggiunse la piaga della disoccupazione che in una società molto giovane come quella albanese incentivò le forti spinte migratorie.
Verso l’Italia
In questa confusione politica, economica e sociale, alla vigilia delle prime elezioni libere nel marzo del 1991, l’Albania era un paese in rovina, in cui regnava il caos e il sogno dell’occidente,in particolare l’ Italia, vista solo alla televisione. La Rai e i canali mediaset, anche se il fenomeno non e’ ancora scientificamente studiato, furono uno dei più importanti spiragli che mantenne vivo nell’immaginario collettivo il desiderio di libertà e la possibilità di una alternativa.
Nella primavera del 1991 l’Italia scoprì di essere la terra promessa per migliaia di albanesi.Dal 7 marzo 1991, gli albanesi entrarono a pieno titolo sulla scena continentale con quello che fu denominato “l’ esodo biblico”. I legami con l’Italia erano stati sempre di amore e odio. L’amore per essere cosi simili: “due popoli, un mare”. Anche nel medioevo, gli albanesi per scappare all’ invasione ottomana sbarcavano in Sicilia o in Puglia come ci dimostra la presenza della comunità arberesh nel sud Italia. L’Italia era sempre stata vista come un porto sicuro. Tuttavia, gli albanesi residenti in Italia nel lontano 1980 erano appena 514; nel 1990, 2.034.
Tutto questo stava per cambiare.La prima calorosa accoglienza nelle ambasciate occidentali confermò il desiderio di molti giovani di provare a scappare dal non-vivere. La voce per la partenza delle navi dal porto di Durazzo aveva fatto sì che centinaia di giovani di Tirana percorressero a piedi o in bicicletta 40 chilometri che dividono la capitale dalla città di mare. Una maratona verso la libertà. In quei giorni migliaia di giovani albanesi “assaltarono” la nave “Vlora”, una bellissima nave italiana costruita a Genova negli anni 60. La Rai stava finalmente parlando di loro. Per la prima volta, loro erano la notizia.
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Chi è Lavdrim Lita
Lavdrim Lita
Giornalista albanese, classe 1985, per East Journal si occupa di Albania, Kosovo, Macedonia e Montenegro. Cofondatore di #ZeriIntegrimit, piattaforma sull'Integrazione Europea. Policy analyst, PR e editorialista con varie testate nei Balcani. Per 4 anni è stato direttore del Centro Pubblicazioni del Ministero della Difesa Albanese. MA in giornalismo alla Sapienza e Alti Studi Europei al Collegio Europeo di Parma.
--- Termina citazione ---
Frank:
Non ha a che fare con i paesi dell'Europa dell'est, bensì con la Cina e i cinesi, che comunque sono sempre ad est...
Il commento è di un italiano e non potrebbe essere altrimenti, perché in Europa, sia dell'ovest che dell'est (nel mondo non saprei), non esistono persone talmente esterofile e sprezzanti verso i propri connazionali.
--- Citazione ---I cinesi hanno sempre lavorato, ovunque, tanto e a ritmi massacranti.
Non hanno sabati, domeniche o vacanze.
Lavorare, per loro, è una questione di orgoglio, onore. Status sociale.
Incassare, fare affari va oltre un atteggiamento tipico di alcuni italiani del ''Devo farlo per sopravvivere, altrimenti passerei tutta la giornata a non fare un cazzo..''.
Per molti di loro, lavorare è una questione che ''rende felici'' e non di noiosa routine.
Molti di loro sono imprenditori nati, col fiuto per gli affari.
Spesso alcuni cinesi ci disprezzano perchè noi italiani non sappiamo sacrificarci per il lavoro, ci considerano dei pelandroni nati.
Analizzando questi atteggiamenti culturali, non diventa facilissimo capire il perchè di così tanto successo?
Naturalmente, concludo dicendo che dietro alcuni cinesi c'è sicuramente delinquenza, mafia, omertà e mazzette.
Ma quando sei italiano e la parola stessa ''ITALIANO'' all'estero fa pensare subito ad un altra parola, ''MAFIA'', quando la metà dei tuoi parlamentari è stata arrestata per inciuci con organizzazioni delinquenziali e varie tangentopoli, ha davvero senso puntare il dito contro i cinesi?
--- Termina citazione ---
--- Citazione ---Ma quando sei italiano e la parola stessa ''ITALIANO'' all'estero fa pensare subito ad un altra parola, ''MAFIA'',
--- Termina citazione ---
Un altro coglione che fa di tutta l'erba un fascio e che parla di "estero"...
Ed anche qui sorge spontanea la ferale domanda:
"Quale cazzo di estero? Di quali paesi parli, idiota?"
Tralascio il discorso relativo al fatto che in Italia non c'è una attività cinese, che sia una, che non sia finanziata dalla loro mafia, che peraltro ha radici ben più antiche di quella italiana (al pari della yakuza giapponese).
Ma tanto il disprezzo di sé, del proprio popolo, delle proprie radici, della propria storia, è talmente profondo e radicato nella mente dell'italiano medio, che è sostanzialmente inutile evidenziare certi dati di fatto.
E' come lottare contro i mulini a vento.
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