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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Non-si-e-mai-stati-cosi-bene-in-Serbia-192577


--- Citazione ---Non si è mai stati così bene in Serbia

Un commento sarcastico e tagliente, un ritratto della Serbia di oggi visto da chi ha vissuto le proteste degli anni ‘90 contro quello che pensava fosse il peggiore regime possibile

08/02/2019 -  Petra Tadić   Belgrado
In Serbia non si è mai vissuto meglio. Già da tre anni le casse pubbliche registrano un avanzo. L’élite al potere sta conseguendo un successo dopo l’altro. Non c’è stato alcun taglio alle pensioni. Le persone non lasciano il paese in massa. I rapporti con i paesi vicini sono ottimi, non sono mai stati migliori. Omicidi e crimini non avvengono quasi mai. E quelli avvenuti in passato sono stati ormai risolti. La polizia arresta e il tribunale emette subito la sentenza.

Siamo quasi diventati membri dell’Unione europea, ancora uno, due passi e ci siamo. Manteniamo ottimi rapporti con la Russia e nessuno ce lo rimprovera. Siamo un fattore di stabilità. Risolveremo presto anche la questione del Kosovo, perché il nostro presidente non dorme ed è costantemente impegnato nella ricerca di una soluzione pacifica, sostenibile e reciprocamente accettabile.

Le minoranze godono di tutti i diritti. Anche le ultime due edizioni del Gay Pride si sono svolte senza problemi. E i media? Non sono mai stati così liberi! Ognuno può dire quello che vuole e quando vuole, senza suscitare alcuna protesta. Le conferenze stampa straordinarie convocate d’urgenza appartengono ormai al passato.

Il parlamento funziona benissimo. I deputati della maggioranza, non quelli dell’opposizione, presentano diverse centinaia di emendamenti ad ogni singola legge. Svolgono il loro lavoro con coscienza. Leggono attentamente le proposte di legge, individuano le lacune e le correggono in tempo. Così i deputati dell’opposizione non devono fare nulla. Possono tranquillamente stare seduti e ricevere il loro stipendio parlamentare.

Il sistema sanitario e quello scolastico funzionano alla grande. Negli ultimi tre anni nessun medico è partito per la Germania, la Slovenia o qualche altro paese. Tutto funziona. In Serbia non si è mai stati meglio.

Proteste
Sabato, 2 febbraio. Una giornata sorprendentemente bella e calda per questo periodo dell’anno. Mio marito e io stiamo aspettando l’autobus. Vediamo alcuni conoscenti avvicinarsi. Ci scambiamo sguardi. Noi chiediamo: “Andate alla protesta?”. Loro rispondono: “Andiamo alla protesta”. Non ci siamo visti per anni. Ed eccoci di nuovo qui, spinti dagli stessi motivi, pronti ad andare alla manifestazione di protesta che da diverse settimane viene organizzata a Belgrado, in Piazza degli Studenti, dove negli anni Novanta protestavamo contro l’allora governo serbo, che pensavamo fosse il peggiore possibile.

Per quelli che non lo sanno – ed è del tutto normale che ci siano persone che non lo sanno, perché si tratta di fatti appartenenti al passato – , a Belgrado e in tutta la Serbia, per un intero decennio, dal 1991 al 2000, i cittadini hanno protestato contro un governo che li ha umiliati, ridotti in miseria, sotto le sanzioni e spinti in conflitto coi vicini; un governo che ha combattuto e perso guerre; un governo che ha ucciso i suoi oppositori politici.

Poi nel 2000 abbiamo finalmente vinto. Noi, cittadini “normali” di questo paese. E pensavamo che fosse finita, che fosse finalmente giunto il momento di tirare un sospiro di sollievo, che non saremmo mai stati costretti ad andarcene dal paese, che sarebbe bastato avere un po’ di pazienza finché la nuova élite politica non fosse riuscita a ricostruire il sistema, che non avremmo più dovuto scendere in piazza, che avremmo potuto dedicarci alle nostre vite, lavorare, costruire una famiglia, goderci la pensione.

Ho passato la mia giovinezza a quelle proteste. E non me ne pento. È stato difficile. È stato pericoloso. Ma è stato anche bello. Ed è stato necessario.

Pensavo che non avrei mai più dovuto protestare. Lo pensava la maggior parte dei miei coetanei. E di quelli un po’ più vecchi di me. E di quelli molto più vecchi di me che anche adesso, ogni sabato scendono in strada per protestare; alcuni sono ormai in età avanzata, altri camminano a malapena.

Déjà vu
Sabato, 2 febbraio. Siamo arrivati in piazza. Questa volta abbiamo portato anche i nostri figli. Ovunque mi girassi vedevo facce familiari. Vedevo le stesse persone che avevano partecipato alle proteste del 1996. Siamo un po’ invecchiati ma ci riconosciamo ancora. Siamo molti. Molti di più rispetto ai sabati precedenti, così dicono. Pian piano sempre più persone si aggiungono alla manifestazione, perché evidentemente non sanno ancora che in Serbia oggi si vive meglio che mai.

L’atmosfera è noiosa. Non c’è quell’energia degli anni Novanta. Il tutto è organizzato in modo amatoriale. I relatori sono in ritardo. Li conosciamo quasi tutti. Tenevano discorsi anche negli anni Novanta. Parlano troppo a lungo. Ci fanno male i piedi. Dopotutto, abbiamo vent’anni in più.

Non c’è alcun palco, ma un camion con altoparlanti. Anche se volessi ascoltarli, non riuscirei a sentire niente. Per capire quello che stanno dicendo dovrei raggiungere le prime fila. Non so molto sugli organizzatori delle proteste. Sono giovani. Non sono membri di alcun partito politico. Non mi sembrano molto creativi e non sono sicura che abbiano idee chiare su cosa fare. Eppure, eccomi qui, alla manifestazione di protesta. Che si fa sempre più grande. E, guarda caso, ci sarò anche il prossimo weekend con la mia famiglia e i miei amici. E non si protesterà solo a Belgrado. Pian piano le proteste si estendono, come piccoli incendi, a tutto il paese. Novi Sad, Niš, Kragujevac, Požega, Kula, e anche Kosovska Mitrovica.

Protestiamo perché in Serbia non si riesce più a respirare. È stato cancellato quel poco di democrazia che avevamo conquistato. Un uomo decide tutto. Gli esponenti del partito al governo assomigliano a clown. Ogni notizia pubblicata viene accompagnata da elogi ad Aleksandar Vučić. Siamo stufi di ascoltare che Vučić non dorme di notte perché si preoccupa di noi. Ci viene la nausea a sentirlo parlare a mezza voce di come si dimetterà quando glielo chiederà il popolo. O quando dice che non cederà alle richieste dei cittadini che protestano nemmeno se fossero in cinque milioni.

Siamo di nuovo diventati – come diceva anche la propaganda del regime di Milošević – mercenari al soldo degli stranieri e traditori della patria. Ci tornano in mente tutte le immagini degli anni Novanta, quando l’attuale presidente diceva quello che pensava veramente, cioè, giusto per ricordare, l’ideologia dell’odio nei confronti del diverso. Dall’odio non può nascere l’amore.

Perché protestare
Protestiamo per le pensioni tagliate e per gli stipendi che non ci permettono di vivere dignitosamente, e questo nonostante un surplus di bilancio. Protestiamo perché non abbiamo più né il parlamento, né il governo, né i tribunali, né le procure, né alcuna istituzione indipendente.

Abbiamo solo il presidente. E quelli che la pensano come lui e non temono nulla. I media non sono liberi, ad eccezione di poche emittenti che coprono solo Belgrado e la Vojvodina e alcuni giornali a bassa tiratura. La Radio televisione della Serbia ha quasi superato quello che faceva negli anni Novanta. Chi si informa attraverso il servizio pubblico forse non sa nemmeno che in Serbia sono in corso le proteste. Ogni notizia, su qualsiasi emittente televisiva inizia con queste parole “Il presidente Aleksandar Vučić…” e così per venti minuti.

Protestiamo contro la crescente povertà dei cittadini e contro l’arricchimento vergognoso delle persone vicine al governo. Protestiamo per le leggi abolite, per il progetto Belgrado sull’acqua e il caso Savamala, per i criminali con dei passamontagna in testa che di notte distruggono quello che vogliono, per i criminali che decidono delle nostre vite, per le luminarie natalizie a Belgrado che brillano da settembre ad aprile, mentre i soldi spesi per acquistarle potrebbero essere usati per risolvere problemi sempre più numerosi.

Siamo scesi in strada a causa dell’arroganza che non conosce limiti, a causa di politici incapaci, semianalfabeti e analfabeti che non fanno altro che accondiscendere al volere del leader.

Protestiamo anche in nome dell’opposizione penosa, disorganizzata e colpevole di molte cose.

Protestiamo perché non abbiamo altra scelta. Protestiamo per salvare la nostra vita e quel poco di dignità che ci è rimasta.

Dicono che in Serbia non si è mai vissuto meglio.

Mentono spudoratamente.
--- Termina citazione ---

Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/96065


--- Citazione ---Bucarest non vuole una romena a capo della Procura europea anti-corruzione
Francesco Magno  5 ore fa

Due settimane fa Bruxelles ha reso noti i nomi dei candidati selezionati per la carica di procuratore capo europeo anti-corruzione. In cima alla lista troneggiava il nome di Laura Codruta Kovesi, romena di Transilvania, ex capo della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA), rimossa dalla sua funzione per volere del governo social-democratico. La Kovesi, che ha già ricevuto il sostegno di Francia, Germania, Olanda e Austria, è la grande favorita per la nomina; le battaglie condotte in Romania hanno sicuramente arricchito il suo pedigree, rendendola gradita a buona parte dell’establishment europeo occidentale. Tuttavia, venuto a conoscenza della notizia, il governo romeno ha immediatamente fatto sapere che farà tutto quello che è in suo potere per impedirne la nomina. Non si tratta di minacce vacue. Nella giornata di mercoledì, “casualmente”, è stato reso noto che la Kovesi è indagata a Bucarest per abuso d’ufficio e per concussione. La diretta interessata ha commentato accusando il governo e la voglia di vendetta nei suoi confronti. Ma perché l’esecutivo vuole bloccare la nomina di un’illustre connazionale ad una prestigiosa carica europea?

Laura Codruta Kovesi, l’incubo dei politici romeni

Laura Codruta Kovesi, ex promessa del basket femminile romeno, sposata con un ungherese di Transilvania, venne nominata capo della DNA nel 2013 dall’ex presidente Traian Basescu. Da allora, si è distinta per le sue lotte senza quartiere alla corruzione annidata nei più alti ambienti della politica e dell’amministrazione nazionale; molti politici di spicco sono stati arrestati a seguito delle sue inchieste, sebbene molti le abbiano spesso imputato una condotta troppo dura e al limite delle regole consentite dalla legge. Nel 2018, su iniziativa del ministro della Giustizia, la Kovesi è stata rimossa dalla sua carica, lasciando la DNA priva di una guida. Il suo allontanamento è stato salutato come una vittoria dal leader del partito social-democratico, Liviu Dragnea, coinvolto anch’egli in numerose inchieste per reati di corruzione. In Romania, l’ex procuratrice capo è assurta a simbolo di quella parte di paese che vuole combattere il malaffare del passato, tanto da diventare una delle personalità con il più alto indice di gradimento tra la popolazione, più del presidente della Repubblica Klaus Iohannis.

Portare in Europa conflitti interni

Liviu Dragnea e il governo temono che da Bruxelles la Kovesi possa riprendere la battaglia interrotta a Bucarest qualche mese fa, minando quindi il microcosmo di potere che il PSD è riuscito a creare in patria. Molti esponenti della coalizione di governo, a partire dallo stesso Dragnea, hanno problemi con la giustizia. Contando su parti della magistratura fortemente politicizzate (compresa la Corte Costituzionale) essi riescono spesso a evitare processi e condanne in Romania, garantendosi l’impunità. Un’impunità che sarebbe molto più difficile da conservare in caso di un’azione forte e mirata condotta da Bruxelles e sostenuta dai più importanti paesi del continente. La notizia, uscita mercoledì, del coinvolgimento della Kovesi in loschi affari in cui lei stessa avrebbe ricevuto tangenti, assomiglia troppo ad una bomba ad orologeria, fatta esplodere nel momento più opportuno, a una settimana esatta dalla decisione finale sulla nomina di procuratore capo anti-corruzione.

Forse aveva ragione Juncker

L’ostilità governativa nei confronti della Kovesi è così forte da aver portato all’opposizione ad una connazionale in un grande concorso pubblico europeo. Il fatto diventa ancor più singolare se ricordiamo che la Romania regge attualmente la presidenza di turno dell’UE. Non meno di un mese e mezzo fa Juncker aveva dichiarato il paese impreparato ad assolvere tale funzione. Visti gli ultimi avvenimenti, forse il presidente della Commissione non aveva tutti i torti.

--- Termina citazione ---

Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/96063


--- Citazione ---RUSSIA: Ucciso un attivista anticorruzione
Amedeo Amoretti  7 ore fa

Lunedì 11 febbraio, a Vinogradovo, l’attivista russo Dmitry Gribov è stato assalito da un gruppo di persone mascherate, armate di mazze da baseball. Gribov si stava dirigendo verso casa della madre, quando ha subito l’attacco. Un passante, rendendosi conto della situazione, ha messo in fuga gli assalitori, minacciando di chiamare la polizia. Nonostante i soccorsi, tuttavia, Gribov è morto in ospedale alcune ore più tardi.

Le indagini

Dmitry Gribov era il responsabile del centro per combattere la corruzione nel governo, un’ONG attiva nell’oblast di Mosca. Il centro si occupa di denunciare casi di corruzione e di dare supporto alle persone che vogliano accusare di tali atti sia dei privati che le autorità. Secondo quando affermato dal Presidente della ONG, Viktor Kostromin, l’attacco sarebbe “connesso alle attività pubbliche e di anticorruzione di Gribov”. Kostromin, però, ammette anche la possibilità di un collegamento a una vicenda avvenuta due anni fa. Tre uomini avevano avuto una discussione accesa con Gribov, la quale era terminata con l’incendio dell’auto dell’attivista. La questione è stata successivamente portata in giudizio e il tribunale si è espresso a riguardo proprio poche ore prima dell’attacco.

Un uomo di 57 anni, sospettato di aver fatto parte del gruppo che ha attaccato Gribov, ha confessato di aver picchiato l’attivista a causa di questioni private. Gli investigatori sono ora in cerca dei complici – come riportato da Olga Vrady, assistente del capo della direzione del Comitato Investigativo.

Un problema sociale

La vicenda che ha coinvolto Gribov non è un caso isolato. Già a ottobre 2018, il report “Apologia of protest” aveva presentato un’analisi relativa alla violenza politica in Russia. Il comunicato, redatto da Agora International, denunciava un aumento, rispetto al 2014, di minacce e di attacchi verbali e fisici contro attivisti, giornalisti e politici. Si erano infatti registrati 21 casi nel 2015, 35 nel 2016, 77 nel 2017 – mentre nell’ottobre 2018 il numero era salito a più di 80. Tra le città più pericolose, Mosca si occupava il primo posto con 52 casi, seguita da San Pietroburgo (23) e Krasnodar (15). L’analisi riportava i dati affermando che “la realtà di oggi è tale che se hai deciso di impegnarti in attivismo sociale, preparati a minacce e attacchi, oltre alla detenzione per proteste pacifiche”.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Da-Katmandu-a-Bucarest-per-un-futuro-migliore-192123


--- Citazione ---Da Katmandu a Bucarest, per un futuro migliore

Negli ultimi trent'anni milioni di rumeni sono emigrati all'estero. Ma per far girare l'economia la Romania ha ora bisogno di manodopera, che sta drenando da paesi orientali. Un reportage

11/02/2019 -  Mircea Barbu,    David Muntean   Bucarest
(Pubblicato originariamente da Recorder  , selezionato e riadattato da Le Courrier des Balkans  )

Nel ristorante Pescăruș, a Bucarest, Sagar Chhetri sguscia tra i tavoli portando dei piatti. Poi si ferma e si rivolge ad alcuni clienti con un rumeno essenziale. Li serve e poi riparte verso la cucina. Sagar ha 30 anni. “Lavoro come cameriere per avere un futuro migliore, ed è per questo che ho scelto la Romania. Vado verso i clienti e dico loro bună ziua, bună dimineața, bună seara. Loro s'accorgono del mio accento e mi chiedono da dove vengo. Nepal, dico loro. Loro dicono frumos, io rispondo mulțumesc”.

“Sono venuto in Romania per un futuro migliore”. Parole che possono suonare strane in un paese che ha vissuto l'emigrazione recente di milioni dei suoi abitanti. Ma la dinamica della povertà nel mondo è una storia complicata. Mentre i rumeni emigrano massicciamente verso ovest, nel Sud-est asiatico la Romania è considerata come la terra promessa.

Crisi della manodopera
“Mi chiamo Ramesh Shrestha e lavoro in cucina. Guardo le trasmissioni di cucina alla tv, guardo come lavorano gli chef... Aiutavo mia madre da piccolo. Mi sono detto: andare in Romania è ok, è un paese europeo e c'è molto da imparare da altre culture culinarie. Quindi ho deciso di venire qui e sto facendo buona esperienza. La gente reagisce in modo variegato, alcuni bene altri male. In generale incontrano un nepalese per la prima volta. Alcuni ci accolgono calorosamente, altri in modo molto duro. E' normale, è nella natura umana, l'accetto. Anch'io penso farei la stessa cosa con persone che non conosco”.

Sagar e Ramesh fanno parte delle centinaia di nepalesi che lavorano in Romania. La mancanza di forza lavoro che caratterizza l'economia rumena spinge le aziende a rivolgersi all'estero e molti lavoratori provengono da paesi lontani come Filippine, Vietnam o Nepal. I nepalesi fanno parte del più recente flusso migratorio di lavoratori asiatici nel paese e trovano occupazione in ristoranti e hotel delle città più grandi, assunti da agenzie interinali.

“I cittadini rumeni non sono pronti a fare alcuni lavori, a volte per motivi psicologici altre fisici”, spiega Daniel Mischie, amministratore delegato di City Grill. “Mentre chi è originario di paesi non europei dimostrano la volontà di fare bene. E' questa la ragione per cui scegliamo cittadini stranieri. La sola differenza tra un nepalese e un rumeno è che i primi non parlano la nostra stessa lingua, ma col tempo si adattano. Alcuni lavorano anche a contatto con la clientela. Iniziano a parlare rumeno e lavorano altrettanto bene che un qualsiasi cittadino rumeno”.

“Inviano ogni mese circa 100 euro a casa loro, in Nepal, una somma con la quale la loro famiglia vive”, continua. “Per loro i soldi hanno un valore diverso rispetto ad un rumeno per il quale 100 euro non permettono di mantenere una famiglia o pensare di costruire una casa. All'inizio degli anni '90, quando un rumeno mandava a casa propria 100 marchi guadagnati in Germania, poteva si aiutare la sua famiglia. In breve il Nepal è come la Romania 30 anni fa, o l'Italia 80 anni fa. Queste persone sono venute qui per lavorare e per far vivere la loro famiglia, sono venuti per fare una buona cosa e non per fare del male a qualcuno”.

Il Nepal ha 30 milioni di abitanti, dieci milioni in più della Romania, ed un Pil di 13 volte inferiore. Quindi, un salario di 400-500 euro in un ristorante di Bucarest può essere un motivo sufficiente per lasciare Katmandu e trasferirsi a 5000 chilometri di distanza.

Sagar e Ramesh fanno le loro spese alla Lidl. E' un anno che sono in Romania. Le ragioni che li hanno spinti a lasciare il Nepal non sono diverse da quelle dei milioni di rumeni partiti per lavorare nell'Europa dell'ovest. I loro appartamenti a Militari, periferia ovest di Bucarest, assomigliano a quelli dei lavoratori rumeni a Madrid, Torino o Londra. A differenza che invece di sentire il timo, le stanze profumano di curry piccante, soprattutto durante i giorni liberi quando i nepalesi cucinano i loro piatti tradizionali.

Rientrando nel loro appartamento i nepalesi incrociano un anziano vicino che si lamenta. “Siete al nono piano? Non lasciate la porta dell'ascensore aperta il mattino. Mi sveglio alle 4 e la porta è aperta”. “E' qualcun altro, non noi”, risponde Sagar in rumeno. “Non lo so, la porta è aperta alle 4 e mezza del mattino”. “Non c'è nessuno di noi che esce alle 4 e 30 del mattino, non siamo noi”, ribadisce Sagar prima di entrare in ascensore con le borse della spesa.

Sagar e Ramesh vivono assieme ad altri tre nepalesi. L'appartamento è stato affittato loro dal datore di lavoro. E' quasi vuoto: una vecchia poltrona, letti a castello, valige, sembra più un dormitorio che un appartamento. Almeno la visuale dalle finestre è aperta e entra della luce. Gli amici lavorano tutti nello stesso ristorante di Bucarest. Alla fine del mese inviano la gran parte dello stipendio alle famiglie in Nepal. “Ne conservo un po' per me ma la maggior parte, il 70%, lo invio alla mia famiglia”, spiega Sagar. “Io spendo il 25% del totale, loro ne spendono il 25% per vivere e il 50% rimanente lo risparmiamo per il futuro”.

“In Nepal è impossibile trovare un buon lavoro e quando se ne trova uno il salario è a malapena sufficiente per pagare le bollette. E' per questo che molti giovani partono per l'estero. Se trovassi a casa mia un lavoro da funzionario, guadagnerei dai 175 ai 190 euro al mese. Lavorando in un ristorante invece non guadagnerei proprio niente, lavorerei solo in cambio di cibo”.

Famiglie divise
Nei giorni liberi gli uomini cucinano dei piatti nepalesi e parlano al telefono con famiglia ed amici. “Mi ha chiamato mia moglie dicendomi che le manco”, racconta Ramesh. “Ma cosa posso farci? Non ho altre possibilità. Mi manca trascorrere del tempo con lei. Mi chiama ogni volta che ho un po' di tempo e sono a casa. E' stata recentemente nel villaggio dove siamo cresciuti entrambi. A volte mi sento male a pensarla tutta sola là. Speriamo a breve di poter ritornare a stare assieme”.

“Mi manca mia figlia, la mia famiglia, i miei amici”, racconta Sagar. “Ho una figlia di un anno e mezzo. Quando vedo bambini al ristorante mi vien voglia di chiamare a casa. Sono partito in modo da dare a loro un futuro migliore. Voglio che mia figlia studi, che rimanga in Nepal. Non voglio che sia obbligata a partire all'estero e per questo che lavoro e che sono tutto solo qui”.

Sagar e Ramesh dicono di essersi abituati alla Romania. Si sono abituati ai loro colleghi, all'inverno e agli inquilini del loro stabile. Considerano questa stagione della loro vita come un sacrificio fatto in nome dei loro figli.
--- Termina citazione ---

gluca:

--- Citazione da: Frank - Febbraio 15, 2019, 17:56:19 pm ---Forse aveva ragione Juncker

L’ostilità governativa nei confronti della Kovesi è così forte da aver portato all’opposizione ad una connazionale in un grande concorso pubblico europeo. Il fatto diventa ancor più singolare se ricordiamo che la Romania regge attualmente la presidenza di turno dell’UE. Non meno di un mese e mezzo fa Juncker aveva dichiarato il paese impreparato ad assolvere tale funzione. Visti gli ultimi avvenimenti, forse il presidente della Commissione non aveva tutti i torti.


--- Termina citazione ---
Ambè, se lo dice lui, allora c'è da dargli retta  :D
https://it.wikipedia.org/wiki/Luxemburg_Leaks

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