Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78121 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #225 il: Aprile 11, 2019, 20:49:30 pm »
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BIELORUSSIA: Cancellata a colpi di bulldozer la memoria delle vittime dello stalinismo
Laura Luciani  7 ore fa

“Nel ’37 li hanno fucilati. Ora distruggono la loro memoria a colpi di bulldozer”. Si apre così l’articolo firmato da Irina Chalip, corrispondente di Novaja Gazeta, che descrive cos’è accaduto pochi giorni fa a Kuropaty – una zona boschiva a pochi chilometri da Minsk, la capitale bielorussa.

Kuropaty è per i bielorussi uno dei più importanti luoghi della memoria delle vittime dello stalinismo: ogni anno a novembre, migliaia di persone sfilano in processione e si riuniscono attorno alle innumerevoli croci erette per ricordare coloro che furono sommariamente giustiziati in quel bosco per mano degli agenti dell’NKVD – la polizia segreta sovietica.

Un luogo della memoria che non è mai stato ufficialmente riconosciuto sotto il regime di Aleksandr Lukašenko. Proprio per ordine del presidente bielorusso, lo scorso 4 aprile sono arrivati trattori e bulldozer a demolire e rimuovere una settantina di croci a Kuropaty. Un gesto apparentemente insensato, che è stato definito “oltraggioso” dai cittadini e da numerose personalità politiche e pubbliche – tra cui Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura. Secondo quanto riportato dalla BBC, quindici attivisti che hanno cercato di impedire la distruzione del sito sono stati arrestati dalla polizia, che ha completamente bloccato e circondato la zona.

“La strada della morte”

Tra il 1937 e il 1941 Kuropaty fu il luogo di esecuzione di migliaia di bielorussi, vittime del “Grande Terrore” di epoca staliniana. Gli eccidi di Kuropaty furono resi noti già nel 1988, quando gli storici Zenon Poznjak (poi presidente del Fronte Popolare Bielorusso) ed Evgenij Šmygalëv pubblicarono l’articolo Kuropaty, la strada della morte, in cui riportavano i racconti degli abitanti della zona, che per anni erano stati testimoni involontari delle fucilazioni.

L’emozione e lo shock legati alla scoperta furono immensi, e il crimine non poté essere ignorato. Le conclusioni di una prima inchiesta, aperta da una commissione governativa della Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa, vennero pubblicate nel gennaio 1989: queste indicavano, su base degli scavi effettuati, la presenza a Kuropaty di oltre 500 fosse comuni contenenti i resti di almeno 30.000 civili, uccisi dagli ufficiali dell’NKVD tra il 1937 e l’estate del 1941. Di queste esecuzioni non era rimasta traccia negli archivi del Ministero della Giustizia, né in quelli del KGB, del Ministro degli Interni, o del Pubblico Ministero. Un’altra indagine venne condotta pochi anni dopo il crollo dell’URSS, nel 1994: questa suggerì che i carnefici di Kuropaty erano in realtà degli ufficiali nazisti, e le vittime in gran parte ebrei uccisi durante la seconda guerra mondiale. Questa versione dei fatti non venne però mai confermata dalle indagini che vennero svolte negli anni successivi (tra il 1997-98), e i cui risultati (parzialmente resi pubblici) sembrano invece comprovare la prima versione – quella delle purghe staliniane.

Alcuni storici indipendenti affermano oggi che sotto gli alberi di Kuropaty sarebbe stato fucilato un numero altamente superiore di civili, che oscillerebbe addirittura tra le 100.000 e le 200.000 persone. Nonostante tutto, ancora oggi l’interpretazione degli eccidi di Kuropaty rimane estremamente controversa in Bielorussia. Inoltre, nessuno ha mai pagato per i crimini commessi a Kuropaty: nel 1989 la procura chiuse l’indagine dichiarando che gli ufficiali dell’NKVD e gli altri responsabili degli eccidi erano stati a loro volta giustiziati durante l’epoca sovietica, oppure erano già morti.

Una memoria mai ufficializzata

Nel novembre del 1988 a Kuropaty si svolse una prima dimostrazione di massa che condannava apertamente lo stalinismo. A poco a poco, gli abitanti di Minsk iniziarono a costruirvi un luogo della memoria popolare: la prima croce, la “croce della sofferenza” fu eretta a Kuropaty nel 1989. Ma come spiega Andrej Strocev in un articolo del marzo 2017, “Kuropaty oggi ha uno status duplice, imprecisato. È un monumento storico statale, un territorio tutelato. Però dal 1994 né il presidente né nessun membro del governo bielorusso ha mai visitato anche una sola volta questo luogo in veste ufficiale“.

Già un paio di anni fa la tutela del sito di Kuropaty era stata minacciata dalla costruzione di un centro direzionale: per proteggerlo si erano mobilitati attivisti di tutti gli orientamenti politici, artisti, esponenti della società civile e semplici abitanti di Minsk, ed erano riusciti a fermare il cantiere.

Il 4 aprile scorso, il presidente Lukašenko ha dato l’ordine di demolire le croci di Kuropaty, dichiarandosi personalmente “disturbato” da quella che descrive come una “manifestazione eccessiva” contro lo stalinismo. “Siete sicuri che in quel posto i fascisti non abbiano ammazzato ebrei, bielorussi, polacchi, ucraini e russi?” avrebbe chiesto il presidente ai giornalisti. La distruzione delle croci di Kuropaty, delle quali per oltre 30 anni si sono occupati spontaneamente gli abitanti di Minsk, senza alcun sostegno né riconoscimento pubblico, servirebbe secondo il presidente a “ristabilire l’ordine”. Al momento, non è chiaro cosa sarà del sito, se le croci verranno sostituite da un altro monumento veicolante una versione più ‘equilibrata’ (cioè riscritta) dei fatti storici, o se non resterà più nulla.

E’ così, a colpi di trattori e i bulldozer, che nella Bielorussia di oggi si cancella un luogo della memoria – quella delle vittime della repressione staliniana – e uno dei legami più profondi che i bielorussi hanno con la propria terra e con la propria storia. Ma nella demolizione delle croci di Kuropaty c’è probabilmente anche altro: la volontà del regime di sopprimere uno dei (pochi) luoghi della resistenza politica e civile ancora visibili e viventi del paese.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #226 il: Aprile 11, 2019, 20:52:08 pm »
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“Non è un lavoro per donne”: le professioni proibite nell’ex Unione Sovietica
Laura Luciani  2 giorni fa

Dopo anni passati a studiare da ufficiale di rotta, con l’obiettivo finale di diventare capitano, nel 2012 Svetlana Medvedeva, abitante della città di Samara, aveva trovato il lavoro dei suoi sogni: una compagnia di navigazione privata l’aveva selezionata per essere al timone di un’imbarcazione commerciale. Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne. Svetlana Medvedeva era letteralmente caduta dalle nuvole: in molti le avevano detto che quello di timoniere era considerato un lavoro “da uomo”, ma nessuno l’aveva avvisata dell’esistenza di restrizioni legali che le avrebbero impedito, in quanto donna, di svolgere tale professione.

Dopo oltre quattro anni di battaglie legali portate avanti sia a livello nazionale che internazionale, nel febbraio 2016 il Comitato dell’Onu per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne ha riconosciuto che Svetlana Medvedeva era stata oggetto di discriminazione di genere. Secondo il Comitato, la legislazione russa le avrebbe vietato “di guadagnarsi da vivere attraverso la professione per cui aveva studiato”, nonché negato il diritto di “avere le stesse opportunità professionali degli uomini e la stessa libertà di scegliere il proprio lavoro”.

Quella di Svetlana Medvedeva è stata una vittoria giudiziaria storica su una forma di discriminazione nei confronti delle donne tanto radicata quanto sconosciuta al pubblico – non solo in Europa occidentale, ma anche in quei paesi dell’ex Unione Sovietica in cui le “liste delle professioni proibite” alle donne sono ancora una realtà.

Le liste delle professioni proibite

Le liste delle professioni proibite fecero la loro apparizione nel Codice del lavoro dell’Unione Sovietica già negli anni trenta e vennero in seguito aggiornate negli anni settanta. Dal 1991 in poi, dopo la fine dell’URSS, quasi tutte le repubbliche indipendenti adottarono dei nuovi codici del lavoro, copiandovi però queste norme. Come spiega Stefania Kulaeva, direttrice dell’Anti-Discrimination Centre (ADC) Memorial intervistata da Kiosk, l’idea che sta dietro a queste restrizioni risale all’epoca della rivoluzione industriale – un periodo in cui le condizioni di lavoro erano spesso estremamente nocive e pesanti per le donne, che lavoravano anche durante la gravidanza. I sindacati avevano quindi lottato per ottenere delle restrizioni sul lavoro femminile in situazioni di rischio per la salute riproduttiva.

“Da allora, però, – continua Stefania Kulaeva – sono cambiate le condizioni di lavoro, è cambiata la società e le idee legate ai ruoli di genere. Se cent’anni fa una donna sposata che lavorava in fabbrica poteva avere una gravidanza quasi una volta all’anno, oggi le donne possono avere una gravidanza una volta nella vita, o magari non vogliono affatto avere figli. Così questi divieti sono stati soppressi in molti paesi europei per una questione di inutilità, ma anche di ingiustizia. Nei paesi in cui sopravvivono, questi divieti sono fondati sulla pura discriminazione, che è racchiusa in primo luogo nell’idea che la donna debba fare figli, o che debba restare a casa per occuparsi dei figli dopo la gravidanza. Il progresso tecnico ha inoltre reso alcuni lavori, come la guida dei treni elettrici, molto meno pesanti rispetto al passato. Se queste norme avevano senso cento anni fa, ora sono solo discriminatorie. Oggi, quelli che si dicono contrari all’abolizione delle liste [delle professioni proibite] sono gli stessi che aggrediscono le manifestanti alle proteste dell’8 marzo, quelli che ritengono che le donne non siano predisposte al lavoro intellettuale”.

Per avere un’idea più concreta della discriminazione in atto, basta guardare i numeri: oggi in Kazakistan la lista delle “professioni proibite” include 219 lavori, mentre in Russia questi sono ben 456 (qui trovate i dati completi). Il Codice del lavoro russo stabilisce ad esempio che le donne non possano essere assunte per guidare camion o treni della metropolitana, spegnere incendi, lavorare nella produzione di strumenti musicali, o per fare lavori come quello di carpentiere, idraulico, o minatore. Vigono poi restrizioni assurde, come quella che vieta alle donne di guidare autobus che trasportano più di 15 passeggeri (se ne trasportano di meno, allora non c’è problema). A rendere il tutto ancora più discriminatorio è il fatto che molte delle professioni incluse nelle liste sono molto ben remunerate perché richiedono un alto livello di specializzazione – ad esempio le professioni del mare: secondo il Codice del lavoro russo, alle donne sono proibiti tutti i lavori sul ponte e in sala macchine.

Questa discriminazione nei confronti delle donne nel mondo del lavoro viene giustificata come una “preoccupazione per la loro salute riproduttiva”, ma in realtà (come dichiarato anche dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione di genere nel caso di Svetlana Medvedeva) non c’è alcuna base scientifica che giustifichi l’esclusione delle donne da determinate professioni. Inoltre, tale preoccupazione sembra non valere nel caso degli uomini, anche se la loro salute riproduttiva potrebbe ugualmente essere messa a rischio da alcune professioni: alle donne non viene lasciata scelta, è lo stato a decidere per loro.

La campagna “All Jobs for All Women”

Dal 2012, l’organizzazione ADC Memorial (che ha sostenuto Svetlana Medvedeva nelle sue battaglie legali) si è prefissa l’obiettivo di cambiare la legislazione chiedendo l’abolizione delle liste delle professioni proibite non solo in Russia, ma in tutti i paesi post-sovietici in cui sussiste questo tipo di discriminazione: Ucraina, Bielorussia, i cinque paesi dell’Asia centrale, Azerbaigian e Moldavia.

Lanciata in collaborazione con le organizzazioni per i diritti delle donne di questi paesi, nel giro di un paio di anni la campagna “All Jobs for All Women” ha già raggiunto dei risultati considerevoli. Ad esempio, nel 2017 la lista delle professioni proibite è stata abolita completamente in Ucraina: alcune donne hanno anche già cominciato a lavorare come pompieri, anche se una sfida ancora da affrontare resta quella della sensibilizzazione e dell’informazione – sia tra i datori di lavoro, sia tra le donne lavoratrici. Più di recente, la lista delle professioni proibite è stata abolita anche in Uzbekistan.

In Russia, il caso di Svetlana Medvedeva ha costituito un importante precedente e sembra aver posto le basi per un progressivo cambiamento a livello legislativo, così come dell’atteggiamento delle élite economiche e politiche riguardo alla questione delle professioni proibite. Ad esempio, il comitato per i trasporti della Duma di stato russa si è recentemente espresso a favore dell’abolizione del divieto per le donne di lavorare nella metro come conducenti e macchiniste. Anche la società delle ferrovie dello stato russa e il sindacato dei lavoratori marittimi hanno criticato le liste delle professioni proibite.

Come riconosce la stessa Stefania Kulaeva, questa presa di posizione è forse più dettata da ragioni economiche (vietare alle donne di svolgere determinati lavori non è “conveniente” in molti settori) che non dal riconoscimento della discriminazione di genere in quanto tale. In ogni caso, si tratta di un’evoluzione positiva in un contesto in cui fino a pochi anni fa chi si occupava di tali problematiche era tacciato di “isteria femminista”, e in cui l’emancipazione della donna e la piena parità dei diritti – anche nel mondo del lavoro – sembrano ancora lontane.

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #227 il: Aprile 11, 2019, 23:08:06 pm »
"Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne"
Fosse per me, io una normativa di quel tipo la adotterei pure in Italia.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #228 il: Aprile 12, 2019, 00:02:17 am »
A quando un condice del lavoro anche in Italia :wub:
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #229 il: Aprile 15, 2019, 00:24:40 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-la-caduta-di-Dusko-Knezevic-il-re-del-cemento-193668

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Montenegro: la caduta di Duško Knežević, il “re del cemento”

Si è allontanato dai suoi ex partner del Partito Democratico dei Socialisti (DPS) di Milo Đukanović ed ora potrebbe perdere il suo impero. Nel mirino della giustizia montenegrina l’uomo d’affari Duško Knežević ora accusa i suoi vecchi soci

12/04/2019 -  Branka Plamenac
(Originariamente pubblicato dal settimanale Monitor, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

Duško Knežević accusa il Presidente Milo Đukanović di voler metter le mani sul suo vasto impero commerciale e sui suoi beni. La holding di Duško Knežević raggruppa nello specifico società bancarie e finanziare, compagnie di assicurazione, media e imprese immobiliari. Tramite le filiali registrate in diversi paradisi fiscali, Duško Knežević possiede beni immobiliari su tutto il litorale montenegrino, da Herceg Novi a Bar.

Una fortuna inestimabile
Dalla celebre spiaggia di Jaz, a Budva, fino a Petrovac na Moru, la città costiera tra Budva e Bar, l’uomo è l’orgoglioso proprietario di alcuni tra i terreni più appetibili della riviera montenegrina. Di fatto, figurava tra i responsabili della cementificazione del litorale, quando le autorità locali del Dps, con la complicità dei ministri per lo Sviluppo sostenibile che si sono succeduti, Branimir Gvozdenović e Predrag Sekulić, hanno adottato piani urbanistici devastanti su ordine della potente lobby dell’edilizia che lui stesso dirige con altri oligarchi.

Soltanto nel territorio del comune di Budva, il gruppo Atlas possiede sei terreni di grande valore dove dovevano esser costruiti alberghi, appartamenti e locali commerciali su una superficie totale di più di 200.000 m². Nonostante tutti i permessi di costruzione siano stati rilasciati, nessuno di questi progetti ha visto luce per il momento. I potenziali investitori pare che abbiano bidonato Duško Knežević, malgrado le buone relazioni che intratteneva con la Russia, gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti, o ancora l’influente Clinton Global Initiative. Mentre gli investitori non danno segni di vita ed il suo sistema sta crollando, Duško Knežević rischia di perdere i suoi beni sul litorale e di essere rimpiazzato da nuovi proprietari.

Da amico a nemico
"Alcune tra le più alte autorità statali in relazione con gruppi criminali, hanno deciso di scagliare un attacco contro il gruppo Atlas", ha affermato Duško Knežević, il patrono di questa holding. Vecchio intimo di Milo Đukanović, l’uomo d’affari è attualmente in fuga. È lui ad aver rivelato di aver dato delle “bustarelle” di contanti per finanziare il Partito Democratico dei Socialisti (PDS), rivelazione che ha provocato una rivolta popolare inedita in Montenegro. Sospettato di malversazioni finanziarie e di riciclaggio di denaro attraverso Atlas Bank, Duško Knežević si è rifugiato a Londra. Le appropriazioni indebite a suo carico raggiungerebbero i parecchi milioni di euro secondo l’accusa. La procura ha aperto un’inchiesta.

Questi ultimi stanno già attendendo in agguato a Jadranski sajam, il vecchio parco delle esposizioni di Budva, dove Duško Knežević possiede due lotti per una superficie pari a 22.000 m². Vi sono previste tre unità di costruzione: un nuovo spazio espositivo (Budva New Expo), un hotel di lusso e un complesso di appartamenti residenziali, dei progetti della società Safiro Beach che, secondo Duško Knežević, apparterrebbe a Milo Djukanovć e al vicepresidente dell’Assemblea nazionale Branimir Gvozdenović.

Nella spiaggia di Kamenovo, sempre a Budva, la società Rekreaturs, appartenente sempre a Duško Knežević, gestisce un complesso di 33.000 m². La costruzione del Kamenovo Tourist Resort, del costo stimato di 120 milioni di euro, è sospesa per un procedimento giudiziario volto a determinare chi ne è il vero proprietario. L’Agenzia kosovara per la privatizzazione ritiene infatti che questo terreno appartenga alla Repubblica del Kosovo, ceduto dal comune di Budva da qui a mezzo secolo, in epoca jugoslava, per costruirci una casa di riposo destinata ai lavoratori kosovari.

Fragile come un castello di carte
Allo stesso modo, Atlas Invest possiede un terreno di 9.000 m² sovrastante l’Adriatico, tra l’albergo Avala e la spiaggia di Mogren. In realtà, questo terreno, nel comune di Budva, è proprietà della società offshore Attika Ian, citata nel controverso caso della privatizzazione di Crnogorski Telekom, il principale operatore di telecomunicazioni del paese. È in questa zona di macchia mediterranea che dovrebbe venir edificato un nuovo centro, Mogren Town. Non lontano da lì, sui pendii della collina di Spas, si trova un altro terreno di 21.000 m² di proprietà di Duško Knežević, dove dovrebbe esser eretto un lussuoso villaggio collegato alla spiaggia, Mogren Hill, attraverso una teleferica. Questi due progetti aspettano ancora degli investitori mentre ipoteche da parecchi milioni di euro riposano nella banca greca Piraeus.

Un altro progetto del gruppo Atlas è previsto nel villaggio di Pržno, che costeggia Miločer, un luogo di villeggiatura mondana. Nell’agosto del 2015, il diritto di proprietà del comune di Budva su tredici lotti di una superficie di 4.100 m² è stato trasferito ad Atlas Invest, grazie alla maggioranza dei voti dei deputati della coalizione Partito Democratico dei Socialisti (DPS)-Partito Socialdemocratico (SDP). Il terreno è stato venduto senza compensazioni né liquidazioni, sulla base di un contratto per la costruzione comune di un complesso turistico di 16.000 m², che comprende degli appartamenti ed otto ville dai 60 ai 300 m², con incluse delle piscine sui tetti… Questo accordo prevedeva 550 m² di locali per il comune e 100 posti parcheggio. A Petrovac, ancora, Duško Knežević possiede dei beni immobiliari. Qui la sua impresa alberghiera Atlas Hotels ha una stazione degli autobus di una superficie pari a 2.000 m² e vi dovrebbe esser costruito un parcheggio multipiano.

La fortuna del gruppo Atlas, che ha messo le mani sul litorale montenegrino nel corso di questi anni di transizione, è difficile da stimare. Oltre ai suoi progetti a Bar e a Meljine, nel comune di Herceg Novi, il gruppo prevede di costruire uno dei più grandi progetti immobiliari a Punta Mimoza, all’ingresso delle Bocche di Cattaro, accanto alla penisola di Prevlaka: niente meno di tre villaggi e un molo di 150 posti ormeggio, il tutto per un costo stimato di 500 milioni di euro. Duško Knežević aveva annunciato l’apertura del cantiere due anni fa, ma la sua realizzazione è rimasta ferma. Il “re del cemento” della costa montenegrina sarà in grado di gestire i suoi molteplici progetti urbanistici, come afferma da Londra, o i suoi affari saranno portati avanti da banche, creditori e vecchi partner d’affari? Lo scopriremo solo col tempo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #230 il: Aprile 15, 2019, 00:27:50 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-la-lotta-contro-l-estremismo-violento-e-la-radicalizzazione-193842

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Kosovo: la lotta contro l’estremismo violento e la radicalizzazione

Anche in Kosovo, come in molti paesi europei, sono state adottate misure per la de-radicalizzazione, in particolare, ma non esclusivamente, rivolte a chi è rientrato da fronti di guerra. Quali sono? E soprattutto, sono utili?

12/04/2019 -  Ervjola Selenica
Contro-terrorismo, de-radicalizzazione e contrasto all’estremismo violento sono diventati centrali nelle agende per la sicurezza di attori internazionali quali l’Unione europea, le Nazioni unite, Osce1. All’interno di molti paesi europei, misure di prevenzione contro l’estremismo violento sono state sviluppate nei quartieri, nelle comunità, nelle scuole e negli ospedali. Queste hanno incluso la partecipazione di attori tradizionalmente non-securitari quali insegnanti, operatori sociali, autorità religiose, personale sanitario e le famiglie2. In diversi paesi europei, le misure di de-radicalizzazione, contro-terrorismo e contrasto all’estremismo violento hanno sollevato dubbi e critiche riguardo alla loro efficienza e ai loro effetti sociali più ampi sui diritti fondamentali, la discriminazione religiosa e la coesione sociale. In particolare, diversi studiosi hanno enfatizzato il rischio di stigmatizzazione delle comunità musulmane3.

La partecipazione di combattenti islamici originari della Bosnia Erzegovina e del Kosovo nel conflitto siriano ha riportato la questione dello jihadismo e dei pericoli legati alla radicalizzazione e l’estremismo violento al centro delle agende di attori locali e donatori internazionali nei Balcani Occidentali. Molti dei concetti, misure e strategie inizialmente sviluppate all’interno dell’UE sono stati esportati, recepiti e implementati nei paesi balcanici. A partire dal 2014, in seguito all’arresto di 130 cittadini kosovari con l’accusa di terrorismo, le autorità kosovare hanno intensificato la lotta contro il terrorismo e la radicalizzazione. Nel 2015 è stato adottato il piano strategico Kosovo’s Strategy on Prevention of Violent Extremism and Radicalization Leading to Terrorism 2015-2020, basandosi prevalentemente sulle strategie europee.4 Mentre inizialmente la lotta contro il terrorismo era incentrata attorno a misure repressive e criminalizzazione dei soggetti radicalizzati, successivamente, in linea con un cambiamento di atteggiamento a livello globale, tale lotta si è spostata verso un approccio di prevenzione e reintegrazione sociale dei ritornati dalla guerra siriana.

I numeri
Circa 400 cittadini kosovari hanno viaggiato in Siria e Iraq nel periodo 2012-2017: di questi un terzo ha perso la vita nelle zone di conflitto e un terzo è tornato in Kosovo5. Alcuni cittadini kosovari sono stati arrestati in Germania e Kosovo nel 2018 con il sospetto che stessero preparando degli attacchi terroristici nel loro paese e in altri paesi europei. Nonostante non si sia registrato in Kosovo un singolo atto terroristico, il pericolo dell’estremismo violento e della radicalizzazione sta attirando crescenti attenzioni e fondi da parte di attori internazionali del paese balcanico. I dati sulla radicalizzazione e l’estremismo violento in Kosovo sono vaghi e spesso basati su un sensazionalismo mediatico sia locale che internazionale.

Interviste condotte in Kosovo nel settembre del 2018 riguardo la natura e la portata del pericolo estremista mostrano opinioni contrastanti con i numeri che fluttuano da un paio di centinaia di radicalizzati in prigione a quasi 20.000 radicalizzati identificati da fonti non verificate dei servizi di intelligence kosovara6. Una confusione ancora più significativa regna tra i vari portatori di interesse in merito al significato dei concetti usati: in particolare i termini estremismo violento e radicalizzazione nel caso kosovaro sono spesso equiparati all’Islam e all’ideologia islamista. Ciò contrasta con valutazioni del rischio condotti dalla Kosovar Center for Security Studies, che mostrano come il 40% della violenza avviene su basi etniche o politiche mentre solo il 25% è motivato da una matrice religiosa. Ciononostante, è la violenza politica associata all’estremismo religioso che attrae la maggiore attenzione mediatica e i più consistenti finanziamenti per la sua prevenzione. Anche se non esiste un profilo unico dei combattenti kosovari, molti di quelli che hanno viaggiato in Siria e Iraq appartongono alla fascia d’età tra i 20 e i 30 anni. Inoltre, il Kosovo ha un numero significativo di giovani maschi in condizioni socio-economiche di povertà e marginalità: il 43% della popolazione è sotto i 25 anni, mentre la disoccupazione giovanile è attorno al 57.7%.

Perché avviene la radicalizzazione? Il dibattito
Tra i vari fattori a spiegazione del fenomeno di radicalizzazione dei combattenti kosovari due sono quelli che spiccano nel dibattito pubblico: da una parte, la presenza di fondazioni straniere religiose che appartengono a diverse congregazioni islamiche e dall’altra le condizioni socio-economiche in cui versa il paese. Il ruolo svolto da fondazioni straniere finanziate dai paesi del Golfo o dalla Turchia è stato identificato da vari analisti come rilevante nel promuovere traiettorie di radicalizzazione e reclutamento di giovani kosovari attraverso una complessa e informale rete di mediatori privati, imam estremisti e donazioni7. Anche se promuovono agende e forme diverse di Islam, queste fondazioni hanno contribuito ad inserire nel contesto kosovaro una forma dell’Islam di matrice wahabita in contrasto con la forma localmente radicata in Kosovo e nei Balcani di tradizione Hanafi. Studi recenti condotti dal British Council hanno però mostrato come vi sia una scarsa evidenza che queste fondazioni abbiano direttamente reclutato giovani in gruppi di estremismo violento. Il reclutamento sembra essere stato veicolato tramite contatti personali fisici o virtuali diretti.

Le condizioni socio-economiche del paese e la combinazione tra alti livelli di povertà, disoccupazione giovanile e basi livelli di istruzione sono stati identificati come il secondo fattore più importante di radicalizzazione in Kosovo. Recenti studi hanno però sottolineato come l’istruzione non sia un fattore chiave esplicativo quanto la disoccupazione combinata all’immobilità sociale. Lo stesso rapporto del British Council identifica come spinta significativa della radicalizzazione un ‘vuoto d’identità, espressa in termini di distacco dal tessuto sociale”8. In altre parole, appartenere a un gruppo che abbraccia idee di estremismo violento diventa più importante della dottrina religiosa di per sé.

Settori e attori sociali quali l’istruzione e i giovani sono diventati centrali nei modelli sia esplicativi sia di contrasto dell’estremismo violento in Kosovo. In quest’ottica, tali settori sono visti sia come potenziale causa che soluzione al pericolo estremista. Mentre non ci sono dubbi sul fatto che la radicalizzazione in Kosovo sia un fenomeno giovanile, un fattore esplicativo ignorato è l’inattività diffusa e l’assenza di prospettive di quei giovani kosovari che hanno studiato e che non sono considerati economicamente poveri. In quest’ottica, ciò che è in gioco è una dinamica di frustrazione delle aspettative, e una promessa di ordine e significato in un contesto che è carente di entrambi. In altre parole, secondo la prospettiva analitica di Oliver Roy, ciò che si nota nel caso kosovaro non è un meccanismo di radicalizzazione basato su una matrice settaria e identitaria islamica, bensì una forma di radicalizzazione di altre questioni e rimostranze, un’identità radicalizzata tra percezioni di marginalizzazione e nichilismo.

Tra gli attori che identificano la radicalizzazione come un fenomeno sostenuto da un’ideologia religiosa, l’istruzione è identificata come uno spazio dove il fenomeno possa essere capito, prevenuto e contrastato. Una comprensione dell’indottrinamento estremista come sostenuto da un’informazione e consapevolezza inadeguata riguardo all’ideologia stessa e alle sue conseguenze ha reso l’istruzione un settore chiave nelle risposte e interventi di contro-radicalizzazione. Più del 40% delle attività previste dalla strategia governativa spettano per esempio al ministero dell’Istruzione. In pratica, ciò è stato tradotto in una molteplicità di interventi di fomrazione indirizzati dal livello delle scuole primarie a quello universitario, e implementati da un numero crescente di attori governativi e non-governativi e spesso carenti di coordinamento da parte del ministero dell’Istruzione.

Reintegrazione
Le misure sia locali che internazionali contro l’estremismo violento e la radicalizzazione in Kosovo si sono inizialmente focalizzate sui fattori trainanti dell’estremismo. Successivamente il focus si è spostato sulle comunità a rischio quali i giovani, le donne e le famiglie dei combattenti. Più recentemente, l’attenzione si è concentrata sulla reintegrazione dei combattenti ritornati e delle loro famiglie, così come sulla radicalizzazione nelle prigioni. La reintegrazione sociale dei combattenti ritornati è diventata un obiettivo centrale nella lotta contro l’estremismo in Kosovo ed è stata impostata sul modello tedesco e quello danese. Altri progetti si sono focalizzati sugli Imam che insegnano in prigione, dando centralità alla diffusione di narrazioni contro la radicalizzazione. Inoltre, i vari donatori internazionali hanno finanziato la creazione di meccanismi di segnalazione basati sui modelli statunitensi e danesi, in quali sono stati implementati congiuntamente dalle autorità municipali, gli imam e i funzionari di polizia.

La lotta contro l’estremismo violento in Kosovo solleva molte domande sul fenomeno stesso e sulle conseguenze di come è stato contrastato, domande che possono essere applicate anche a simili contesti balcanici quali l’Albania o la Bosnia. Mentre l’ammontare complessivo di fondi che è previsto in crescita suggerisce che vi sia un pericolo di radicalizzazione sempre presente, i dati su tale pericolo e il fenomeno stesso sono contraddittori e spesso solo sostenuti da un sensazionalismo mediatico. Inoltre, non c’è consenso riguardo a cosa estremismo violento e radicalizzazione significhino nel contesto kosovaro. Spesso le definizioni usate riproducono la stessa vaghezza problematica che si trova nei discorsi di politiche internazionali sullo stesso tema. L’equivalenza dell’estremismo violento con l’estremismo islamico religioso nel paese rischia di stigmatizzare la comunità musulmana che rappresenta anche la maggioranza della popolazione. Modelli esplicativi correnti enfatizzano il ruolo giocato da fondazioni straniere e allo stesso tempo trascurano altri fattori sottostanti il legame tra giovani e radicalizzazioni in Kosovo quali la questione dell’anomia, l’inattività e un’assenza di opportunità lavorative per la generazione nata dopo la guerra.

Il coinvolgimento di leader religiosi, famiglie, insegnanti, nelle politiche contro la radicalizzazione e l’estremismo violento può danneggiare l’inclusione, la fiducia e la coesione sociale in un paese fragile quale il Kosovo. Un’analisi critica delle politiche messe in campo mostra un inquadramento del ruolo dei giovani, dell’istruzione e di altri attori locali secondo una logica securitaria. In quest’ottica, i giovani rischiano di essere identificati tra due visioni opposte: da un lato, come oggetti di radicalizzazione e quindi potenzialmente pericolosi per la sicurezza del paese; dall’altro, come strumenti di prevenzione dell’estremismo e della radicalizzazione. Ciò ha portato a uno spostamento semantico secondo il quale i giovani non sono più visti come soggetti radicali ma come soggetti potenzialmente radicalizzati. Il rischio che tale spostamento comporta è che la loro immanente potenzialità a fungere come attori di cambiamento sociale, emancipazione e critica è ristretta significativamente. Allo stesso modo vi è il timore che la strumentalizzazione dell’istruzione nel servire scopi di contro-radicalizzazione possa minare la fiducia nel settore stesso e generare risentimento ed esclusione, e quindi generare più radicalizzazione. Inoltre, tale strumentalizzazione rischia di restringere la funzione dell’istruzione come un’istituzione fondamentale per la messa in discussione dei valori prestabiliti e delle autorità, così come il suo potere di sfidare e superare lo status quo.

 Note:

1. Kundnani A., Hayes B. 2018. The Globalisation of Countering Violent Extremism Policies, (Amsterdam: Transnational Institute).

2. Ragazzi, F. 2017. Students as Suspect. The challenges of counter-radicalisation policies in education in the Council of Europe member states. Interim report. Council of Europe. Strasbourg

3. Bigo, D., Bonelli, L., Guittet, E.P. and Ragazzi, and Ragazzi, F. 2014. “Preventing and Countering Youth Radicalisation in the EU,” PE 509.977

Council of Europe. 2014. Revised EU Strategy for Combating Radicalisation and Recruitment to Terrorism, 9956/14 (http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9956-2014-INIT/en/pdf, last access 15 December 2018).

4. Intervista dell'autrice con un giornalista investigativo, Pristina, 24 settembre 2018. 


5. Kursani, S. 2018. Kosovo Report. Western Balkans Extremism Research Forum, April 2018, funded by the British Council. 


6. Author's interview with a local scholar, Prishtina, 25 September 2018; Author's interview with a local o cial working with an international organization active in CVE, 26 September 2018.

7. Kursani, S. 2018. Kosovo Report. Western Balkans Extremism Research Forum, April 2018, funded by the British Council 


8. Kursani op cit.

* Questo studio è stato finanziato dalla Kosovo Foundation for Open Society come parte del progetto “Building knowledge about Kosovo (2.0), i cui risultati verranno pubblicati a breve.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #231 il: Aprile 15, 2019, 01:00:50 am »
E da chi pro viene ques'estremismo violento? Forse dagli ortodossi? :shifty:
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #232 il: Aprile 20, 2019, 18:08:03 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/97543

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UCRAINA: E se un comico potesse salvare il paese?
Oleksiy Bondarenko  1 giorno fa

A pochi giorni dal secondo turno elettorale che domenica prossima deciderà il futuro presidente del paese, sembra molto probabile che il vincitore possa essere davvero Volodymyr Zelensky, il comico che ha sorpreso gli osservatori internazionali dominando il primo turno con oltre il 30% di voti. Ad inseguire, sempre più in affanno, il presidente uscente, Petro Porošenko.

Una figura nuova

In molti, in Ucraina e all’estero, sostengono che Zelensky oltre ad essere un comico, giovane ed inesperto, sia anche una figura debole. “Ve lo immaginate un comico a negoziare con Putin?” ci è stato ripetuto nelle ultime settimane. Una domanda legittima, ma che ha il torto di dismettere troppo rapidamente quello che Zelensky potrebbe rappresentare.

Se da una parte Ze è sicuramente inesperto, dall’altra essere una figura nuova potrebbe rappresentare un grande vantaggio. In primo luogo perché difficilmente amici, colleghi e partner di vario tipo verranno a bussare alla porta chiedendo il conto dei vecchi favori. È sempre successo in Ucraina, e Porošenko non è un’eccezione, dato che ha disseminato i propri compagni politici e vecchi partner in affari tra le principali istituzioni dello stato. Anche se i nomi dei vari Kononenko e Svinarchuk (che ha cambiato il suo cognome in Gladkovskij, proprio quello coinvolto nel recente scandalo di UkrOboronProm) possono risultare sconosciuti ai molti, sono proprio loro ad aver beneficiato maggiormente della presidenza di Porošenko negli ultimi 5 anni, contribuendo in buona misura ad offuscare la sua immagine. Zelensky, al contrario, non ha un proprio clan politico-economico fatto da amici fidati e vecchi compagni di merende.

Un presidente debole e un ruolo nuovo per il parlamento?

Una delle conseguenze positive della probabile presidenza di Volodymyr Zelensky potrebbe toccare anche l’assetto istituzionale del paese. Non va dimenticato, infatti, che formalmente l’Ucraina è una repubblica semipresidenziale. Anche se quel ‘semi’ viene ricordato oggi soprattutto dai sostenitori di Porošenko che ci suggeriscono come il presidente, de jure, non sia responsabile dei problemi nella sfera economica (men che meno nella lotta alla corruzione!!!), spesso ci si dimentica che de facto i poteri del presidente oggi si estendono ben oltre i limiti formali. Uomini fidati al comando dei servizi di sicurezza (SBU), un amico a capo della procura generale e la posizione di Primo ministro occupata da un alleato di vecchia data (che non a caso ha rimpiazzato un meno malleabile Yatseniuk) hanno permesso, seppur informalmente, di concentrare il potere nelle mani del presidente rendendo l’Ucraina de facto una repubblica presidenziale.

Proprio da questo punto di vista la presidenza di Zelensky, uomo nuovo e per certi versi debole al cospetto dei vecchi squali della politica ucraina, potrebbe rappresentare una novità istituzionale positiva, avviando una lenta transizione verso il consolidamento di un modello veramente semipresidenziale. Non è nemmeno detto che questo passaggio debba avvenire per volontà dello stesso Zelensky. La storia dei regimi ibridi in transizione (soprattutto in Asia e America Latina) è piena di cambiamenti istituzionali ‘accidentali’.

L’importanza di questo fattore va ben oltre un ruolo più attivo del parlamento che dovrebbe rappresentare il principale limite ai poteri del presidente. Come sostengono numerosi studiosi, infatti, il principale effetto di un sistema semipresidenziale in contesti caratterizzati da un alto livello di corruzione e clientelismo, è proprio quello di limitare la concentrazione del potere nelle mani di una singola figura con la conseguente creazione di una singola piramide (di un singolo clan) intorno al presidente. Una presidenza più debole potrebbe così comportare la nascita di più centri di potere (parlamento e presidente) in competizione tra loro, limitando di conseguenza le possibilità di un nuovo accentramento del potere. Gli oligarchi non scompariranno certo con Zelensky, i cui legami con Igor Kolomoisky sono ben noti, ma un gioco più competitivo potrebbe paradossalmente consolidare l’assetto semipresidenziale del paese, promuovere un ruolo più attivo del parlamento e dare il via a una lenta transizione verso un modello più democratico, seppur mai ideale rispetto ai parametri delle democrazie consolidate.

Un candidato pro-russo?

Quello per Zelensky non appare solo un voto di protesta nei confronti dell’attuale politica economica, sociale e culturale, ma anche contro la posizione dell’attuale presidente sul conflitto. Il 63% degli ucraini, infatti, considerano la guerra in Donbass come il principale problema del paese.

Anche se la sua posizione sui rapporti con Mosca rimane poco strutturata e nonostante quello che dicono molti detrattori, difficilmente Zelensky come nuovo presidente potrà invertire il corso della politica internazionale e scendere ad accordi inaccettabili per Kiev (e per l’opinione pubblica) su Crimea e Donbass con il Cremlino. Sebbene il suo punto fermo sul tema più caldo – guerra in Donbass – sembra essere la consapevolezza di non poter determinare le sorti del conflitto con la forza, quindi lasciando le porte aperte ad un possibile dialogo con la Russia, ha sempre mantenuto una posizione piuttosto chiara, anche se pragmatica, nei confronti della direzione europea del paese. Pur partendo dall’idea che un allargamento dell’Unione non è in agenda per il prossimo futuro e che l’ingresso nella NATO non è tecnicamente possibile quando parte del territorio del paese è occupato dalla Russia, l’Ucraina continuerà a guardare all’Europa come punto di riferimento. Qualcuno può legittimamente gridare all’appeasement, ma quale altra soluzione realistica sia oggi disponibile, rimane una domanda senza risposta.

Se tutti sappiamo che sul piano internazionale le carte migliori non sono nelle mani di Kiev ma in quelle del residente del Cremlino, sul piano interno, però, la figura e la posizione di Zelensky potrebbe offrire più prospettive per la reintegrazione del Donbass. Il suo bilinguismo, nonostante un ucraino non perfetto e il russo come lingua principale, la sua posizione piuttosto moderata sulla natura multi-identitaria del paese – espresse anche tramite un sostegno selettivo alla decomunizzazione – e i suoi richiami ad una forma di ‘democrazia diretta’ secondo la quale le decisioni più importanti e controverse debbano essere sottoposte a referendum, potrebbero essere tutti elementi in un certo senso riconcilianti per una parte della popolazione dell’est del paese. Di certo sarebbe una cesura piuttosto chiara rispetto alla posizione sempre più etnonazionalista del presidente uscente (suo lo slogan: Esercito, Lingua, Fede). Non a caso, anche se il sostegno per il vincitore del primo turno è più forte nel sud-est, Zelensky è riuscito a vincere anche nella maggioranza delle regioni occidentali del paese, quelle storicamente più ucrainofone.

Tra populismo e società civile

È vero che il successo di Mr. Ze è probabilmente da attribuire alla sua vena che oggi chiameremmo populista. Il richiamo diretto alla contrapposizione tra popolo ed élite, l’uso dei social media, la grande popolarità tra i giovani sono solo alcuni degli elementi centrali del comico che vuole diventare presidente. Per capire davvero il suo successo però bisognerebbe fare attenzione ad usare semplici parallelismi con i populismi di matrice europea. La realtà in Ucraina è ben diversa e la qualità della classe politica e dei problemi legati ad essa (corruzione su tutti) sono imparagonabili con quelli delle democrazie europee, nonostante tutti i loro problemi. Nel contesto ucraino una possibile vittoria di Zelensky potrebbe essere letta come un segnale positivo per la società civile, quella reduce da EuroMaidan, che nonostante i numerosi problemi degli ultimi 5 anni, può ancora aspirare ad avere una voce senza per forza soccombere ai soliti volti noti della vecchia classe dirigente. Il punto quindi non riguarda tanto Zelensky e le sue capacità, quanto il fatto che la sua figura potrebbe rappresentare un punto di non ritorno nella lunghissima transizione del paese e nella complessa relazione tra società civile e politica nell’Ucraina post-sovietica.

Il giullare non cambierà di certo il paese in un baleno, ma gli effetti positivi potrebbero essere più di quelli che siamo capaci di vedere oggi.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #233 il: Aprile 20, 2019, 18:09:07 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/97528

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RUSSIA: La Duma approva la legge sul controllo di internet
Eleonora Febbe  3 giorni fa

L’isolamento del RuNet è sempre più realtà. La Duma ha votato per la terza e definitiva volta a favore della legge “per garantire un funzionamento stabile e sicuro di internet”. Una legge controversa, che implicherebbe un maggiore controllo statale dei contenuti condivisi sul web e che potrebbe “disconnettere” la Russia dalla rete internet mondiale in caso di non meglio precisati cyberattacchi.

La stretta del Cremlino su internet

La legge è stata approvata con 307 voti favorevoli e 68 contrari. Prevede che, nel caso in cui un cyberattacco minacci l’accesso a internet della Russia, il Roskomnadzor – l’agenzia statale che controlla connessioni e comunicazioni di massa – possa prendere il controllo di internet, filtrando tutto il traffico web del Paese.

Perché questo possa avvenire, sarà necessaria l’installazione di sistemi di sorveglianza, che il Cremlino consegnerà gratuitamente ai fornitori di servizi internet di tutta la Russia, i quali saranno tenuti a bloccare l’accesso a determinati siti qualora richiesto dal Roskomnadzor. Si tratta di un sistema che dovrebbe essere attivato soltanto in caso di cyberminacce, ma molti temono che le autorità possano sfruttarlo anche per bloccare contenuti di opposizione, implementando un modello di censura sul web sempre più simile a quello cinese.

Una Russia sempre più autoritaria, anche online

La libertà di espressione sul web è già da tempo sotto attacco in Russia: nel suo rapporto sulla Freedom of the Net del 2018, Freedom House ha piazzato Mosca al 53° posto su 65 Paesi, stabilmente nella categoria degli Stati “non liberi”. Già l’anno scorso, il Roskomnadzor aveva bloccato Telegram in Russia dopo il rifiuto del fondatore, Pavel Durov, di consentire all’FSB di accedere ai messaggi degli utenti. Il blocco però era stato molto poco preciso, con siti e sistemi di messaggistica che venivano accidentalmente bloccati insieme a Telegram.

E anche nel caso della legge appena votata, una sua implementazione capillare rischia di essere imprecisa e di causare disagi al traffico internet, se approvata in via definitiva. Per ora, sarà sottoposta al voto nella camera alta del parlamento, il Consiglio Federale, il prossimo 22 aprile, prima della firma di Putin. Entrerebbe in vigore a partire dal 1 novembre 2019.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #234 il: Aprile 20, 2019, 18:11:12 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Liberta-di-informazione-sempre-piu-giu

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Libertà di informazione: sempre più giù
19 aprile 2019

L'indice 2019 di Reporters senza frontiere mostra alcuni significativi peggioramenti. Anche in aree da cui ci si aspetterebbero situazioni meno problematiche. E nel Sud Est Europa si fanno notare - in negativo - Serbia e Ungheria

Il 6 ottobre 2018 la giornalista bulgara Viktoria Marinova veniva uccisa  . Quest’anno la Bulgaria rimane ferma al 111esimo posto  nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporter senza frontiere, su un totale di 180 paesi esaminati. Con la presidenza di turno del Consiglio d’Europa, che la Bulgaria ha tenuto nei primi sei mesi del 2018 - si legge nella pagina dedicata al paese - ci si poteva aspettare un miglioramento nella condizione della stampa, ma appunto così non è stato.

Secondo i dati appena pubblicati, 88 paesi hanno peggiorato la loro posizione nel ranking rispetto allo scorso anno, 12 sono rimasti stabili e 68 hanno registrato un qualche miglioramento. In generale, dunque, le cose non vanno bene per la libertà di informazione. In questa classifica, tra i paesi dell’area balcanica, si fa notare il calo di 14 posizioni registrato dalla Serbia, arrivata alla 90esima posizione e dove appunto la situazione per i giornalisti e l’informazione è definita “non sicura  ”. “Il numero di attacchi nei confronti dei media è in aumento, comprese le minacce di morte - si legge nella pagina sulla Serbia - retorica incendiaria nei confronti dei giornalisti viene sempre più utilizzata dai funzionari del governo”.

Altrettanto consistente (-14) la perdita di posizioni registrata dall’Ungheria, che a livello di classifica risulta all’89esimo posto. In evidente peggioramento anche la situazione dell’Albania, che perde 7 posizioni e si ritrova all’82esimo posto, tra campagne denigratorie e minacce di morte ai giornalisti, ma anche azioni legali intese a intimidire e usate come deterrente dall’attività investigativa sulla corruzione. Tra l’altro Reporters senza frontiere inserisce l’Albania tra i paesi su cui tenere sotto stretto controllo la situazione della proprietà dei media  , insieme a Serbia, Turchia e Ucraina per quanto riguarda la regione Europa e Asia centrale.

Solo l’8% dei paesi a livello internazionale risulta avere una situazione “buona” per la libertà di informazione. I paesi che rientrano in questa ristretta fetta sono quasi tutti europei, con l’unica aggiunta del Costa Rica. Tuttavia anche in Europa i problemi non mancano. Se per esempio si prende il punteggio assegnato in base alla presenza di abusi e atti di violenza nei confronti dei giornalisti, la situazione nell’area Unione Europea e Balcani  risulta peggiorata: l'indicatore registra infatti un aumento di 1,7 punti percentuali, una differenza da notare visto che si parla di una delle regioni da cui ci si aspettano standard elevati e in cui, almeno in teoria, è garantitoun livello di libertà dei giornalisti tra i più alti. Invece la situazione risulta problematica non solo per l’intensificarsi di atti intimidatori in zone con governi considerati autoritari, dove sono sempre più diffuse le azioni legali nei confronti della stampa investigativa e in particolare le inchieste sulla corruzione. Ma desta particolare preoccupazione anche l'emergere di un più generale atteggiamento ostile nei confronti dei reporter, come nel caso degli attacchi e delle minacce nei confronti dei giornalisti durante le proteste dei gilet gialli in Francia  .

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #235 il: Aprile 26, 2019, 14:39:21 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Florian-Bieber-l-UE-non-tollerera-all-infinito-gli-autocrati-dei-Balcani-194216

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Florian Bieber: l’UE non tollererà all’infinito gli autocrati dei Balcani

Esperto di Balcani ed Europa orientale, professore presso l'Università di Graz, Florian Bieber traccia un profilo dei rapporti tra Balcani e Unione europea, spiegando perché Bruxelles sostiene leader autoritari

26/04/2019 -  Darvin Murić
(Originariamente pubblicato dal quotidiano Vijesti  )

In uno dei suoi articoli ha affermato che l’Unione europea sostiene i leader autoritari dei paesi dei Balcani. Perché, secondo lei? Solo per mantenere la stabilità nella regione oppure c’è qualche altro motivo?

Il motivo principale risiede nel fatto che negli ultimi cinque/sei anni l’Unione europea si è concentrata su altre priorità, come Brexit, le relazioni con gli Stati uniti, diverse crisi, lasciando in secondo piano la questione dell’allargamento. L’UE non vuole occuparsi molto dei Balcani, per cui le va bene ogni leader balcanico che sostiene di tenere la situazione nel paese sotto controllo e di essere filoeuropeo.

Ovviamente, non tutti i politici europei sono uguali; ci sono governi che prestano attenzione a ciò che sta realmente accadendo nei Balcani. La questione dell’allargamento non sarà mai una priorità assoluta nell’agenda dell’UE, ma finché non le verrà prestata maggiore attenzione l’UE continuerà a sostenere i leader balcanici che si offrono come garanti di stabilità, a patto che si dichiarino filoeuropei.

La leadership al potere in Montenegro sta sfruttando questa situazione a proprio vantaggio, per nascondere i problemi interni sotto il tappeto. Lo stesso vale per Vučić e il governo serbo. Ma non si può andare avanti così all’infinito, non è questa la strada che porta all’Unione europea. Tale comportamento viene tollerato solo prima dell’adesione all’UE. Molti stati membri si opporrebbero all’ingresso nell’UE dei paesi guidati dai leader autocratici, soprattutto a causa dei problemi avuti con l’Ungheria, la Polonia, la Romania e la Bulgaria. Se parlate con i diplomatici tedeschi e francesi vi diranno che non vogliono altri paesi simili nell’UE. I funzionari europei non hanno nulla contro i leader autocratici fintanto che restano fuori dall’UE, ma molti di loro non vorranno sedere allo stesso tavolo con Đukanović e Vučić né farsi fotografare con loro. La domanda è in quale misura gli stati membri sono disposti ad accettare il Montenegro e la Serbia nell’UE. Questo tema ora non è sul tavolo, ma un giorno lo sarà.

La Commissione europea ha più volte definito il Montenegro e altri paesi dei Balcani occidentali come paesi imprigionati. Anche lei è dello stesso parere? Come i leader dei Balcani occidentali sono riusciti a imprigionare i loro paesi?

L’espressione “paese imprigionato” illustra bene l’attuale stato di cose nei Balcani. La situazione però non è uguale in tutti i paesi. In Montenegro questa fenomeno si manifesta in maniera molto più accentuata rispetto agli altri paesi perché non c’è mai stato un cambio ai vertici dello stato. Il potere esecutivo non è mai stato svincolato dal controllo del partito, come avvenuto in altri paesi della regione dopo la caduta del comunismo.

Il motivo principale di questa situazione risiede nella debolezza delle istituzioni. Nei Balcani, compresi quei paesi dove c’è stato un cambio di regime, le istituzioni non sono mai state sufficientemente rafforzate, non sono diventate abbastanza forti da poter operare in modo indipendente. È un processo difficile.

Alcune persone in Macedonia mi hanno raccontato quanto sia difficile cambiare questa dinamica, quando, ad esempio, i giudici si aspettano che il governo dica loro come procedere in determinati casi. Non si tratta solo di pressioni da parte del potere; il problema è che anche i dipendenti delle istituzioni statali sono abituati ad obbedire agli ordini.


Il secondo motivo riguarda il controllo esercitato dai principali partiti politici. In Serbia il Partito progressista serbo (SNS) ha più iscritti del primo partito in Germania, che è 12 volte più grande della Serbia. La situazione è simile anche in Montenegro e in Macedonia, dove il numero di iscritti ai partiti politici è molto superiore alla media europea. Ciò si spiega con il fatto che per ottenere un lavoro bisogna essere iscritti a un partito. Questo dimostra che lo stato non funziona in modo indipendente rispetto ai partiti politici, che non sono partiti democratici bensì agenzie per l’impiego controllate da una ristretta élite. È un problema che affligge l’intera regione. All’interno di questa struttura, i leader autoritari agiscono esclusivamente nel proprio interesse. E anche quando cadono, la struttura resta in piedi, come dimostra l’attuale situazione in Macedonia.


In Kosovo, invece, non c’è solo un leader come Đukanović o Vučić, ma ce ne sono tre, e si scontrano reciprocamente. Questa situazione in un certo senso contribuisce a rafforzare il pluralismo politico, ma le istituzioni restano comunque imprigionate, solo che non sono controllate da una, bensì da più persone. Un eventuale cambio di potere in Montenegro o in Serbia non comporterebbe alcun cambiamento immediato del quadro istituzionale. È un processo che richiede molto tempo, le istituzioni non si costruiscono da un giorno all’altro.

Milo Đukanović di solito reagisce alle critiche, proteste e altre mobilitazioni anti-governative sostenendo che siano orchestrate da un nemico esterno, ovvero dalla Russia. Pensa che la presenza della Russia nei Balcani sia davvero così forte da poter rappresentare una minaccia alla stabilità che Đukanović e altri leader dei Balcani pretendono di difendere?

La Russia svolge un ruolo distruttivo nei Balcani, questo è fuori di dubbio. Dall’altra parte, però, la leadership al potere in Montenegro utilizza la narrativa del nemico esterno in modo strumentale ai suoi interessi. Sono d’accordo sul fatto che, prima dell’ingresso del Montenegro nella Nato, la questione della presenza russa nel paese era molto delicata, perché la Russia aveva un forte interesse nell’impedire che il Montenegro aderisse alla Nato. Ma il Montenegro è ormai membro della Nato ed è una questione chiusa. Come anche la questione dell’indipendenza del Montenegro. La decisione è ormai presa e non si torna indietro.

La Russia era contraria anche alla proposta di risolvere la disputa sul nome tra la Macedonia e la Grecia, ma quando l’accordo è stato raggiunto, Mosca lo ha salutato positivamente. I russi sono pragmatici, non hanno interessi strategici nei Balcani, vogliono solo creare caos per causare problemi all’UE e impedire l’allargamento della Nato. Se falliscono si concentrano su altri obiettivi, perché non hanno interessi strategici nei Balcani come in Ucraina e in altri paesi confinanti con la Russia, dove vogliono ad ogni costo bloccare l’allargamento della Nato. In Serbia la situazione è un po’ diversa perché il paese non vuole aderire alla Nato. La stabilità può essere costruita solo in una democrazia dotata di istituzioni indipendenti che poggia le sue basi sullo stato di diritto. È il modo migliore per impedire derive autoritarie.

In Montenegro sono in corso proteste anti-governative, iniziate dopo lo scoppio del cosiddetto “scandalo della busta”, ovvero dopo la pubblicazione di video che mostra un uomo d’affari consegnare una busta piena di soldi a un alto funzionario del partito al governo. Nel frattempo sono scoppiati anche altri scandali che coinvolgono i vertici dello stato. Pensa che questi eventi potrebbero far vacillare la leadership politica montenegrina al potere da 30 anni?

Forse è questa l’occasione giusta per un vero cambiamento per quanto riguarda il sistema di governo e la democrazia in Montenegro. Tutto dipenderà dalla pazienza dei cittadini che protestano e dalla loro capacità di formulare le richieste che potrebbero portare a qualche risultato. Le mobilitazioni e manifestazioni di protesta si svolgono in tutta la regione, in Serbia, in Albania; anche in Macedonia qualche anno fa ci sono state proteste anti-governative. I movimenti di protesta a volte ottengono certi risultati, a volte falliscono. Molto dipende dalla pazienza e dalla prontezza dei cittadini a protestare per un periodo sufficientemente lungo, nonché dalla loro capacità di formulare richieste realistiche.

È inoltre necessario che il movimento di protesta instauri una qualche forma di collaborazione con le forze che offrono un’alternativa politica. In Serbia, come abbiamo visto, il problema principale è che le forze di opposizione sono deboli, nel senso che non offrono alcuna soluzione concreta e i cittadini non le percepiscono come una valida alternativa politica.

In Macedonia la situazione era diversa, perché i manifestanti avevano instaurato stretti rapporti con l’opposizione, e questa collaborazione aveva portato risultati concreti. Tutto era cominciato con lo scoppio di una serie di scandali, che avevano dimostrato come il governo abusasse dei suoi poteri; poi i cittadini erano scesi in strada ed era riuscita a imporsi una forza politica alternativa in grado di offrire un approccio diverso. Solo mettendo insieme tutti questi fattori è possibile giungere a un vero cambiamento politico, e in Montenegro evidentemente mancano ancora questi presupposti. Vedo che l’opposizione montenegrina è profondamente divisa; le forze di opposizione hanno idee diverse su come guidare il paese e godono di scarsa fiducia dei cittadini. I cittadini scendono in strada per protestare anche a dispetto dell’opposizione, non sulla spinta dell’opposizione.

L’opposizione montenegrina ha recentemente firmato un accordo con gli organizzatori delle proteste e ha appoggiato i cittadini che scendono in piazza per protestare. Pensa che i partiti di opposizione abbiano capito che le divisioni non portano da nessuna parte e che solo uniti possono combattere il potere?

Questo è sicuramente un segnale. È ovvio che un’opposizione divisa non può conseguire alcun risultato. Il problema è che tra i partiti di opposizione montenegrini esistono differenze sostanziali, nel senso che alcuni partiti offrono un’alternativa filoeuropea focalizzata sulle riforme, e altri invece una politica piuttosto retrograda e nazionalista, ed è molto difficile unire tutte le forze di opposizione quando ci sono alcuni politici, come Nebojša Medojević, che diffondono le teorie del complotto dell’estrema destra. Questa retorica è in contrasto con l’idea di un cambiamento finalizzato all’attuazione di riforme serie, alla creazione di istituzioni indipendneti e al miglioramento delle condizioni di vita. Questo è un problema per l’opposizione. Se l’opposizione dovesse decidere di ritirare l’appoggio alle proteste perderebbe ogni credibilità. Non intravedo nella situazione attuale alcuna possibilità che venga compiuto un passo decisivo verso un cambiamento della dinamica politica nel paese. Il Montenegro ha bisogno di un cambiamento sostanziale del sistema politico; è necessario separare lo stato dal partito al potere e rompere l’egemonia di quest’ultimo, ma è un processo che avanza un passo alla volta, e al momento non intravedo alcuna strategia finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo.

Secondo lei è possibile raggiungere questo obiettivo senza l’aiuto della comunità internazionale?

Penso che sia molto difficile. L’energia, le iniziative e le idee devono venire dal paese, se vengono da fuori non porteranno ad alcun risultato. Dall’altra parte, è molto difficile ottenere il sostegno della comunità internazionale, ma è altrettanto difficile riuscire senza di esso. Prendiamo l’esempio della Macedonia. All’inizio delle proteste, i principali attori internazionali, soprattutto l’Unione europea, erano piuttosto scettici. Per loro, purtroppo, in queste situazioni la stabilità è più importante dello stato di diritto. È sufficiente che il governo dichiari formalmente di essersi impegnato ad assicurare lo stato di diritto. Un altro aspetto che può rivelarsi problematico è legato al fatto che i governi possono sfruttare l’inerzia degli attori internazionali a proprio vantaggio, sostenendo di godere del loro appoggio. Questo ostacola ulteriormente ogni tentativo di introdurre cambiamenti interni.

Inoltre, se l’opposizione è favorevole all’ingresso del paese nell’Unione europea deve essere credibile, affermando di essere in grado di perseguire questo obiettivo con maggiore efficacia rispetto al governo, e deve cercare di ottenere il sostegno della comunità internazionale. Credo che ciò sia possibile, ma bisogna agire secondo una precisa strategia. Abbiamo visto che la cancelliera tedesca Angela Merkel non ha incontrato Milo Đukanović durante la sua recente visita a Berlino, e questo non senza motivo. La Merkel non ha voluto incontrare Đukanović, dimostrando in tal modo che Berlino sta perdendo la pazienza nei confronti dell’élite al potere in Montenegro. Bisogna sfruttare questo momento. Secondo me, l’opposizione montenegrina dovrebbe cercare di instaurare e rafforzare buoni rapporti non solo con i governi dei paesi occidentali ma anche con i partiti politici europei. Le coalizioni di partiti politici europei sono molti forti e possono giocare un ruolo negativo, fornendo sostegno ai regimi autoritari. Orbán gode del sostegno dell’Alleanza dei conservatori e dei riformisti europei, mentre il partito al governo in Montenegro, il Partito democratico dei socialisti, ha ottenuto il sostegno dell’Alleanza dei socialisti e democratici europei. Quindi, se volete criticare e cambiare la situazione politica nel paese dovete intrattenere buoni rapporti con i partiti politici europei.

Il Montenegro e la Serbia si trovano in una situazione simile per quanto riguarda sia i negoziati di adesione all’Unione europea sia il sistema di governo. Vučić e Đukanović a volte sembrano andare d’accordo, a volte si criticano a vicenda, ricorrendo alla retorica nazionalista. Pensa che questi scontri tra Vučić e Đukanović, ma anche tra gli altri leader dei paesi dei Balcani, siano solo una messinscena?

Vučić e Đukanović usano strategie molto simili. Ricorrono alla retorica nazionalista quando conviene loro, per provocare tensioni. Sono allo stesso tempo piromani e pompieri. Hanno sempre bisogno di crisi per poter presentarsi come garanti di stabilità. Se non ci fossero crisi, scontri, problemi bilaterali, nazionalismi, cosa farebbero Vučić e Đukanović? Il loro potere si nutre di crisi. Sono molto pragmatici, è proprio grazie al fatto di essersi dimostrati più pragmatici di altri leader politici che sono riusciti a salire al potere. Io non ci vedo alcuno scontro, è una messinscena. Anche per quanto riguarda le relazioni tra Serbia e Kosovo, non credo che Thaçi e Vučić siano migliori amici, ma quel gioco in cui si odiano a vicenda non è nient’altro che una messinscena, pensata soprattutto per il pubblico locale.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #236 il: Maggio 04, 2019, 20:11:50 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/97758

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RUSSIA: Primo maggio all’insegna di arresti e violenze
Leonardo Scanavino  2 giorni fa

Mercoledì primo maggio, durante le manifestazioni per la Festa dei Lavoratori, la polizia e i servizi di sicurezza hanno arrestato oltre cento persone in tutta la Russia, in particolare nella città di San Pietroburgo. Nella lista spuntano i nomi di attivisti dell’opposizione e membri dei sindacati, alcuni dei quali sono stati fermati ricorrendo all’uso della forza.

I disordini a San Pietroburgo

Nella seconda città più grande del paese, la polizia ha interrotto una protesta dell’opposizione e ha arrestato 66 persone dopo che i partecipanti, secondo quanto riportato da un attivista del gruppo di monitoraggio OVD-Info, avevano intonato dei cori critici nei confronti del presidente Vladimir Putin. Alcuni manifestanti gridavano “Putin è un ladro” oppure “questa è la nostra città”, mentre altri mostravano cartelli riportanti le scritte “Putin non è immortale”, “per libere elezioni” o “San Pietroburgo contro Russia Unita”, il partito che sostiene il presidente.

Secondo quanto riportato da Radio Free Europe, il primo maggio nella sola San Pietroburgo sarebbero stati presenti circa duemila sostenitori del leader dell’opposizione Aleksei Navalny, il quale su Twitter ha commentato gli arresti scrivendo “Tremendo. Sono stati catturati durante una manifestazione senza nessuna valida motivazione”. Il deputato locale Maksim Reznik, che è stato a sua volta arrestato e poi rilasciato, ha condiviso una foto che mostra gli agenti della polizia mentre lo trascinano violentemente sull’asfalto.

La situazione nel resto del paese

In altre città del paese, inclusa la capitale Mosca, migliaia di persone hanno manifestato all’interno dei cortei che erano in programma per la Festa dei Lavoratori. Alcuni sventolavano bandiere rosse, altri intonavano cori di protesta e altri ancora innalzavano cartelli con scritte contro il presidente Putin.

Secondo il conteggio riportato sul sito di OVD-Info, sarebbero 125 in totale le persone arrestate in tutto il paese. Anche se il maggior numero degli arresti è concentrato a San Pietroburgo, nel resto del paese la situazione non si è rivelata particolarmente tranquilla, con sedici persone arrestate e poi rilasciate  a Petropavlovsk-Kamchatsky, 10 a Tomsk, 8 a Kursk e altri ancora in diverse località. Alcuni non sarebbero ancora stati rilasciati.

Le proteste del primo maggio hanno luogo in un momento particolarmente complicato per Putin, il quale vede il suo consenso scivolare al di sotto del 60 percento, dopo aver toccato picchi di oltre il 90 percento. Secondo i sondaggisti, le motivazioni di questo abbassamento sarebbero parzialmente dovute all’annuncio del governo di voler alzare l’età pensionabile e aumentare l’imposta sul valore aggiunto dopo cinque anni di abbassamento costante dei redditi, misure poco gradite alla maggior parte dei russi.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #237 il: Maggio 04, 2019, 20:18:46 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Il-freno-alla-mobilita-dell-Europa-orientale-194263

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Il freno alla mobilità dell’Europa orientale

Le nuove norme europee sul trasporto di merci su strada, che impongono restrizioni all’accesso delle aziende dell’Europa orientale ai mercati occidentali, sono percepite da diversi paesi dell’Est come l’ennesimo tentativo di impedire ai cittadini dei nuovi stati membri Ue di beneficiare dei vantaggi del mercato unico

03/05/2019 -  Ilin Stanev
(Articolo pubblicato originariamente da Capital su EDJnet   il 16 aprile 2019)

"Oggi siamo testimoni di una grave tragedia". L'europarlamentare svedese Peter Lundgren non si riferisce alle terribili conseguenze della Brexit, l’attuale dramma che coinvolge l’Ue. Né all'incapacità dell'Europa di intervenire e prevenire la sanguinosa guerra civile in Siria. La disillusione di Lundgren è causata da qualcosa di completamente diverso: il voto fallito del 27 marzo per l’adozione delle modifiche al cosiddetto Mobility Package 1  , la normativa comunitaria che disciplina i tempi di lavoro e la retribuzione degli autotrasportatori. Gli emendamenti sono stati poi adottati una settimana più tardi.

Questo tema, a prima vista, non sembra meritare toni tanto drammatici. Ma il Mobility Package 1 costituisce una delle normative Ue più controverse degli ultimi tempi. Non ha attirato l'attenzione mondiale riscossa dalla riforma del diritto d’autore, in occasione della quale Bruxelles ha cercato di tenere a bada giganti come Google e Facebook; né le controversie hanno mai raggiunto il livello del dibattito sui migranti. Ma negli ultimi due anni, da quando la Commissione europea le ha proposte, le nuove regole per il trasporto di merci su strada contrappongono est e ovest, creando una nuova spaccatura tra i paesi più ricchi, che cercano di proteggere i loro posti di lavoro ben remunerati, e i paesi dell’ex blocco sovietico, che cercano a tutti i costi di recuperare il divario.

Cos’è e come funziona il Mobility Package
In sostanza la nuova legislazione pone restrizioni all’accesso delle aziende dell’est ai floridi mercati dell'Europa occidentale. Gli autotrasportatori dovranno infatti assicurarsi che i loro guidatori tornino a casa per riposare almeno una volta ogni quattro settimane (il Parlamento europeo ha votato un emendamento che richiede che anche i camion rientrino alla base). Ciò significa che le aziende dei paesi periferici come Bulgaria o Lettonia possono operare per non più di 2 settimane consecutive nei vantaggiosi mercati ad esempio di Francia e Paesi Bassi. Inoltre la retribuzione dei conducenti dovrà raggiungere il minimo salariale locale (se è superiore rispetto al livello del loro paese nativo) non appena attraversano il confine, e questo annullerà il vantaggio in termini di costi per gli autotrasportatori e i conducenti dell’Europa orientale.

Le imprese dell'est Europa sfruttano la vantaggiosa possibilità di avere dipendenti relativamente economici, soprattutto per i minori versamenti previdenziali nei loro paesi di origine, e per la loro disponibilità a trascorrere molto tempo sulla strada. Il vantaggio in termini di costi, chiaramente, mostra anche aspetti negativi: i camionisti raramente trascorrono la notte in hotel, dormendo all’interno dei loro mezzi, e spesso tornano dalle loro famiglie solo una volta ogni tre mesi. Nel quadro dell’attuale legislazione, dovrebbero essere adottati i congedi obbligatori richiesti. Molti dipendenti in ogni caso accettano questi lavori perché sono ben remunerati, almeno per gli standard dei loro paesi d’origine.

La domanda è dunque: dovremmo impedire ai lavoratori di accettare lavori più duri? 

I governi, i sindacati e le imprese dell’area occidentale dicono di sì. Secondo loro, i conducenti sono sfruttati dai datori di lavoro che si rifiutano di rispettare le norme sociali più stringenti tipiche dell’Europa occidentale.

I governi e le aziende di trasporti dell’est europeo, invece, dicono di no: sostenendo che il libero mercato consente a tutti di perseguire i propri interessi, dando agli autotrasportatori dell'est la possibilità di guadagnare salari equivalenti a quelli dei colleghi occidentali. 


Secondo la cosiddetta “Road Alliance" (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Svezia e Norvegia), il Mobility Package 1 impedirà la concorrenza sleale provocata dal social dumping, la pratica per cui le società creano sedi in paesi con salari più bassi e meno norme sociali. Nella sua recente lettera ai cittadini europei  , Emmanuel Macron ha dipinto l’immagine di un’Unione europea più forte e con nuove energie, ma ha minimizzato l'importanza del mercato unico del continente: “Un mercato unico è di certo utile, ma non dobbiamo dimenticare la necessità di mantenere frontiere di protezione e valori unificanti".

L'alleanza dei cosiddetti "paesi che condividono la stessa posizione"   (una variabile coalizione di paesi guidata da Polonia, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Estonia, Ungheria e Romania) ha assunto una posizione opposta: secondo loro, la nuova normativa è un altro esempio di politica protezionistica mascherata da preoccupazione sui diritti sociali, che mira a impedire alle aziende dell’Europa orientale di competere a parità di condizioni coi loro colleghi ad ovest. "Ho la sensazione che se le aziende con sede in grandi paesi svolgono attività commerciale in Europa orientale, questo si chiama libero mercato. Se invece le aziende orientali operano nei paesi occidentali, si tratta di concorrenza sleale e social dumping", sostiene l’europarlamentare socialista bulgaro Pietro Kouroumbashev, esprimendo i sentimenti condivisi da molti nell’est Europa.

Tuttavia, sembra che il Mobility Package 1 diventerà presto legge, malgrado l'opposizione dei paesi orientali. È stato approvato in prima lettura dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Entrambe le istituzioni dovranno trovare un compromesso dopo le elezioni di maggio, quando si comporrà il nuovo Parlamento europeo.

Ovest contro est
In ogni caso gli scontri non accennano a placarsi. Queste controversie continueranno a gettare ombre sul rapporto tra i paesi membri in Europa occidentale e in quella orientale.

La Commissione europea ha proposto  il Mobility Package 1 nel 2017 per rispondere all’adozione da parte di diversi paesi, come Francia e Germania, di normative che puntavano a limitare le operazioni delle imprese dell’est europeo nei loro mercati. Nel suo ruolo di custode dei trattati, la Commissione ha inizialmente risposto adottando azioni legali   nel 2016 nei confronti di entrambi i paesi, affermando che "l'applicazione sistematica delle norme relative al salario minimo da parte di Francia e Germania a tutte le operazioni di trasporto nei loro rispettivi territori limita in modo sproporzionato la libera prestazione di servizi e la libera circolazione delle merci". Tuttavia più tardi la Commissione europea ha assunto una posizione largamente a favore della "Road Alliance", adottando tutte le misure proposte dagli 8 stati membri. Improvvisamente, le nuove norme sono entrate nell’agenda “A Europe that Protects” dell'esecutivo dell’Unione europea.

Il cambiamento di opinione della Commissione europea è in gran parte determinato dalla Brexit: il referendum per l’uscita del Regno Unito, tenutosi poche settimane dopo l’avviamento delle procedure d’infrazione contro Francia e Germania, è stata una doccia fredda per le istituzioni di Bruxelles, impegnate a bloccare qualsiasi fonte reale o percepita di malcontento del Regno Unito verso l’Ue. Mentre uno di questi problemi è stata senza dubbio l'immigrazione, l'altro era la concorrenza da parte della manodopera proveniente dall’Europa orientale.

Di fronte al crescente sentimento antieuropeo in Francia e in Germania, la Commissione europea si è precipitata a smorzare eventuali voci riguardo alla Frexit, dando a Macron una potente arma contro i suoi avversari nelle elezioni presidenziali del 2017. Invece di combattere le disposizioni nella cosiddetta Loi Macron  , che ha introdotto una serie di misure percepibili come contrarie alla lettera e allo spirito del mercato unico, la Commissione europea ha deciso di approvarle, solo pochi giorni   dopo le elezioni presidenziali   in Francia. Questa mossa ha fornito a Macron un buon elemento di discussione sul social dumping durante la sua campagna, e un inizio in discesa come neo-eletto Presidente.

Questa successione di eventi non è stata accolta con piacere in Europa orientale. Attualmente, le norme abbastanza liberali del mercato unico dell'Unione hanno consentito al Pil pro capite della Romania di aumentare di oltre il 60% dal 2006, mentre la Repubblica Ceca risulta già più ricca del Portogallo. Qualsiasi misura che danneggi questo processo di recupero è considerata un affronto dalla maggior parte dei governi dell’est Europa. Mentre le politiche come Mobility Package 1 possono contribuire a calmare gli animi in Occidente, sempre più spesso fanno nascere sentimenti antieuropei nella parte orientale del continente.

Nel corso dell’ultimo decennio, i paesi più ricchi si sono lamentati sempre più riguardo al minor livello fiscale e retributivo che caratterizza i nuovi stati membri, accusati di favorire una forma di social dumping. I governi dei nuovi stati membri temono che una nuova serie di proposte legislative in materia, quali l'armonizzazione fiscale e il salario minimo, teoricamente positive, seguirà l’esempio del Mobility Package 1, soffocando il loro potenziale di crescita e provocando un'altra ondata di emigrazione di lavoratori qualificati.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #238 il: Maggio 04, 2019, 20:26:10 pm »
E' un articolo di sette anni fa; ma lo riporto ugualmente.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Le-strade-pericolose-dell-Albania-119957

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Le strade pericolose dell’Albania

In Albania circa 350 persone muoiono ogni anno in un incidente stradale. Questo è quanto hanno reso pubblico Open Data Albania, il ministero dei Trasporti e il ministero della Sanità del paese balcanico. Molte le cause, tra cui la rete stradale inadeguata all’enorme traffico attuale e l'indisciplina degli automobilisti albanesi che non sono proprio i più scrupolosi d’Europa

18/07/2012 -  Marjola Rukaj
Un bilancio da guerra, che riferendosi ai dati resi pubblici recentemente sembra peggiorare di anno in anno. L’Albania si aggiudica per via di queste statistiche sconcertanti, il primo posto nei Balcani per quanto riguarda la pericolosità stradale, e sprofonda nella lista nera con un bilancio comparabile a quello del Sudafrica. Nel 2010 secondo un preoccupante report reso pubblico da Open data Albania, sono rimasti coinvolti in incidenti stradali ben 1564 veicoli, facendo degli incidenti una normalità quotidiana, dall’incidenza di 39 su 10 mila veicoli ogni anno.

Oltre a numerosissimi incidenti di autovetture e motocicli, negli ultimi due anni sono avvenuti diversi incidenti gravi, dal bilancio fatale: un autobus di studenti è precipitato da uno strapiombo nella zona di Puka, nel nord del paese, un altro ha avuto la stessa sorte nell’Albania del sud percorrendo l’asse Tirana-Atene, mentre poche settimane fa il paese è rimasto sconvolto da un altro incidente avvenuto a Himara, sempre un autobus precipitato mentre trasportava degli studenti universitari di Elbasan in gita verso il sud del paese. Tutti episodi drammatici, che sono costati la vita a decine di passeggeri, e che hanno attirato l’attenzione degli albanesi su un fenomeno che oltre a essere cronaca quotidiana preoccupante, costituisce un problema da affrontare seriamente.

Orgoglio su quattro ruote
La causa principale: in Albania circolano troppe macchine. La rete stradale seppur notevolmente migliorata negli ultimi anni, rimane poco adeguata all’enorme traffico attuale e gli albanesi non sono proprio gli autisti più scrupolosi d’Europa.

Possedere una macchina, possibilmente una immortale Mercedes, è ormai una questione di prestigio. Che in questo paese ci siano più Mercedes che in Germania, è ormai una frase iperbolica strausata dal giornalismo mainstream nei reportage sull’Albania. Per un paese che prima degli anni '90 offriva un paesaggio urbano privo di macchine private, qua e là attraversato da qualche bicicletta austera di produzione cinese, ora possedere un'automobile è indispensabile, sia per chi proviene dallo spazio urbano sia per gli abitanti delle zone rurali.


Voglia di riscatto? Certamente. Occidentalizzazione e conti aperti con le frustrazioni del comunismo. Ma non solo. La causa principale è che dopo il crollo del comunismo, i trasporti pubblici albanesi sono sprofondati in una crisi irreversibile. Le stazioni interurbane si sono trasformate in luoghi malfamati abbandonati, rifugio per i senzatetto e per traffici poco decorosi, malgrado la loro centralità nello spazio urbano. I privati che si sono sostituiti al deceduto sistema dei trasporti pubblici statali, hanno contribuito a complicare ulteriormente la situazione in balia della disorganizzazione, e delle rivalità tra gli autisti e le compagnie di autobus o furgoni. Basti pensare che in quasi tutti i centri urbani albanesi trovare dove partono i mezzi per determinate destinazioni è un’impresa tutt’altro che facile per i forestieri. Se si vuole essere efficienti e autonomi, disporre di un'automobile propria è l’unica soluzione. Il risultato è il traffico perennemente caotico e le strade bloccate. A tutto ciò c’è da aggiungere il traffico proveniente dall’estero in particolar modo nei mesi estivi, mentre molti migranti rientrano in Albania per trascorrere le ferie tra il mare e i parenti.

Io parto in treno

Autostrade di campagna
La rete stradale albanese è notevolmente migliorata negli ultimi anni. In particolar modo gli assi più importanti del paese, come quello che collega Valona e Tirana, o Tirana e Morina - la famosa autostrada della nazione [vedi box sotto]. Numerosi anche gli assi secondari, e prossimamente tra diverse inaugurazioni gli albanesi avranno un miglior collegamento anche con la Macedonia e con la Grecia.

Questi due ultimi assi stradali, dove avviene il maggior flusso di trasporti internazionali dell’Albania, con i suoi partner economici principali per via terra, la Grecia e la Macedonia, sembrano essere le ultime priorità nella rete stradale albanese, nonostante l’importanza economica. Se ne è parlato circa un anno fa, quando nelle colline a sud-est di Fier un autobus della linea Tirana-Atene ha perso il controllo causando la morte di almeno una decina di passeggeri. Le scarse simpatie del governo Berisha per il sud socialista, la poca professionalità e l’arbitrarietà delle politiche intraprese sono solo alcune delle spiegazioni che circolano tra gli albanesi.

L’incidente sulla Tirana-Atene ha gettato luce anche sul fatto che il sistema stradale albanese rimane in parte in balia degli errori fatti dai progettisti durante il comunismo, in cui si cercava di lasciare liberi i pochi terreni agricoli del paese, costruendo in altitudine con minor costo possibile anche laddove il terreno è geologicamente poco stabile. Ma appunto le vecchie strade sono state progettate in tempi in cui l’Albania era un paese agricolo, isolato dal mondo, dal traffico assolutamente non paragonabile a quello odierno.

Spesso gli esperti denunciano che alcuni difetti di quel sistema dalle corte vedute non sono stati migliorati, tra cui le autostrade a due corsie che rimangono pur sempre insufficienti a lungo termine. Come in passato spesso sono considerate con enorme relativismo le misure di sicurezza, come le barriere ai bordi delle strade esposte in altitudine. Riguardo l’ultimo grave incidente a Himara, gli esperti hanno dichiarato ai media albanesi che l’incidente non sarebbe stato così grave se la nuova strada nel sud del paese fosse stata costruita rispettando tutte le norme di sicurezza. Inoltre sono numerosi gli errori progettuali, le deviazioni per via di conflitti con i proprietari dei terreni, o la segnaletica non ben studiata. Nonostante gli assi nazionali albanesi siano parte di vari corridoi geopolitici che attraversano i Balcani, il nuovo sistema stradale sembra appena sufficiente ai flussi attuali del paese.

La via della Nazione

Automobilisti si nasce
Gli albanesi scommettono sempre che non sarà lontano il giorno in cui nella Formula Uno sbarcherà qualche albanese che toglierà il fiato a tutti. Perché guidare spericolati sembra essere lo sport preferito e quotidiano degli albanesi. Sfidare la segnaletica, le regole e arrangiarsi è all’ordine del giorno. La polizia stradale è un ostacolo sormontabile, addirittura sulla corruzione dei suoi dipendenti circolano molti aneddoti divertenti. Ma spesso la relatività con cui gli albanesi trattano le regole della circolazione stradale poggia nelle scarse conoscenze, e nella pessima preparazione delle scuole guida. E’ facilissimo ottenere la patente in Albania, dopo solo un mese di scuola guida, e poca pratica, in scuole sovraffollate, mentre spesso gli istruttori sono solo degli autisti che hanno ben poco a che fare con la didattica. Secondo le statistiche rese pubbliche di recente dall’Associazione delle vittime degli incidenti stradali più della metà degli incidenti viene causata da cittadini che hanno la patente da meno di cinque anni. Mentre nel 40% dei casi le vittime sono dei pedoni che attraversano la strada.


La scarsa sicurezza stradale è un problema quotidiano degli albanesi. Diverse associazioni, e persino le autorità riconoscono la necessità di dover intervenire, ma per ora, oltre alla volontà più volte espressa nei media, passi concreti sembrano ancora lontani.



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Colpa degli automobilisti
Fatmir

(09/08/2012 11:15)

Più che colpa delle strade darei la colpa agli automobilisti albanesi che sono i peggiori che ho mai visto. La citta messa peggio è Tirana, per entrare nelle rotonde ti devi fare la crocce perchè sembra che la gente non abbia mai vista una rotonda in vita sua, per non dire che passano quasi sempre con il rosso, in Italia le loro patenti durerebbero si e no una settimana, altro che strade pericolose....

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Strade albanesi
Simona

(23/07/2012 12:15)

E' giusto dire quello di positivo c'è in Albania. Purtroppo circolano molte macchine con targhe italiane con autisti dalla guida che dire spericolata è un eufemismo. Vivo a Tirana e spesso mi dico che in Italia certe cose non le farebbero perchP a forza di punti sottratti la patente durerebbe pochi mesi: Purtroppo manca una repressionee punizione vera delle trasgressioni. Le strade sono molto migliorate e solo raramente sono la causa degli incidenti per lo più dovuti all'imperizia e alla prepotenza dei guidatori


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incidenti
daniel

(20/07/2012 08:30)

il caos delle machine e vero pero solo nella "metropoli" di Tirana e Durazzo e forse causato per di piu dall piano urbanistico che nn ha mai previsto i posti machina nei nuovi condomini, l'incidenti poi vengono causati per una massicia presenza di automobilisti che vivono all estero e tornano per le vacanze, il grande flusso che poi dal porto di durazzo porta a Kossova e oviamente come nel caso dei autobus un controlo mecanico da paura


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La causa principale è davvero il numero di macchine???
Leyla

(19/07/2012 09:00)

leggo sempre con molto interesse gli articoli delle Sig. Rukaj, trattano sempre temi e problemi reali, la cosa di cui mi spiaccio però è questo taglio negativo e pessimistico che viene sempre dato. Non vengono mai esaltati i cambiamenti postivi che questo Pese sta vivendo. Le strade sono tuttora un problema, è vero, però negli ultimi anni - autostrada a parte- vi sono state apportate molte migliorie, ad esempio è stato creato il nuovo ponte a Scutari utilissimo nel periodo estivo per i collegamenti con il MOntenegro, e la stessa strada per la capitale non è più la stessa di tre anni fa, i tempi di percorrenza si stanno abbreviando. Sul fatto di possedere troppe automobile bhe... non concorderei pienamente. Vada a farsi un giro al nord in periodo di bassa stagione e faccia un po' una stima tra il numero di biciclette e di auto in circolazione, poi mi sappia dire. Le do pienamente ragione sulla guida, alquanto spericolata e troppo spesso causa di incidenti mortali.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #239 il: Maggio 04, 2019, 20:55:37 pm »
In Russia circolano tutti con la telecamera
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.