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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Frank:
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--- Citazione ---BIELORUSSIA: Cancellata a colpi di bulldozer la memoria delle vittime dello stalinismo
Laura Luciani  7 ore fa

“Nel ’37 li hanno fucilati. Ora distruggono la loro memoria a colpi di bulldozer”. Si apre così l’articolo firmato da Irina Chalip, corrispondente di Novaja Gazeta, che descrive cos’è accaduto pochi giorni fa a Kuropaty – una zona boschiva a pochi chilometri da Minsk, la capitale bielorussa.

Kuropaty è per i bielorussi uno dei più importanti luoghi della memoria delle vittime dello stalinismo: ogni anno a novembre, migliaia di persone sfilano in processione e si riuniscono attorno alle innumerevoli croci erette per ricordare coloro che furono sommariamente giustiziati in quel bosco per mano degli agenti dell’NKVD – la polizia segreta sovietica.

Un luogo della memoria che non è mai stato ufficialmente riconosciuto sotto il regime di Aleksandr Lukašenko. Proprio per ordine del presidente bielorusso, lo scorso 4 aprile sono arrivati trattori e bulldozer a demolire e rimuovere una settantina di croci a Kuropaty. Un gesto apparentemente insensato, che è stato definito “oltraggioso” dai cittadini e da numerose personalità politiche e pubbliche – tra cui Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura. Secondo quanto riportato dalla BBC, quindici attivisti che hanno cercato di impedire la distruzione del sito sono stati arrestati dalla polizia, che ha completamente bloccato e circondato la zona.

“La strada della morte”

Tra il 1937 e il 1941 Kuropaty fu il luogo di esecuzione di migliaia di bielorussi, vittime del “Grande Terrore” di epoca staliniana. Gli eccidi di Kuropaty furono resi noti già nel 1988, quando gli storici Zenon Poznjak (poi presidente del Fronte Popolare Bielorusso) ed Evgenij Šmygalëv pubblicarono l’articolo Kuropaty, la strada della morte, in cui riportavano i racconti degli abitanti della zona, che per anni erano stati testimoni involontari delle fucilazioni.

L’emozione e lo shock legati alla scoperta furono immensi, e il crimine non poté essere ignorato. Le conclusioni di una prima inchiesta, aperta da una commissione governativa della Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa, vennero pubblicate nel gennaio 1989: queste indicavano, su base degli scavi effettuati, la presenza a Kuropaty di oltre 500 fosse comuni contenenti i resti di almeno 30.000 civili, uccisi dagli ufficiali dell’NKVD tra il 1937 e l’estate del 1941. Di queste esecuzioni non era rimasta traccia negli archivi del Ministero della Giustizia, né in quelli del KGB, del Ministro degli Interni, o del Pubblico Ministero. Un’altra indagine venne condotta pochi anni dopo il crollo dell’URSS, nel 1994: questa suggerì che i carnefici di Kuropaty erano in realtà degli ufficiali nazisti, e le vittime in gran parte ebrei uccisi durante la seconda guerra mondiale. Questa versione dei fatti non venne però mai confermata dalle indagini che vennero svolte negli anni successivi (tra il 1997-98), e i cui risultati (parzialmente resi pubblici) sembrano invece comprovare la prima versione – quella delle purghe staliniane.

Alcuni storici indipendenti affermano oggi che sotto gli alberi di Kuropaty sarebbe stato fucilato un numero altamente superiore di civili, che oscillerebbe addirittura tra le 100.000 e le 200.000 persone. Nonostante tutto, ancora oggi l’interpretazione degli eccidi di Kuropaty rimane estremamente controversa in Bielorussia. Inoltre, nessuno ha mai pagato per i crimini commessi a Kuropaty: nel 1989 la procura chiuse l’indagine dichiarando che gli ufficiali dell’NKVD e gli altri responsabili degli eccidi erano stati a loro volta giustiziati durante l’epoca sovietica, oppure erano già morti.

Una memoria mai ufficializzata

Nel novembre del 1988 a Kuropaty si svolse una prima dimostrazione di massa che condannava apertamente lo stalinismo. A poco a poco, gli abitanti di Minsk iniziarono a costruirvi un luogo della memoria popolare: la prima croce, la “croce della sofferenza” fu eretta a Kuropaty nel 1989. Ma come spiega Andrej Strocev in un articolo del marzo 2017, “Kuropaty oggi ha uno status duplice, imprecisato. È un monumento storico statale, un territorio tutelato. Però dal 1994 né il presidente né nessun membro del governo bielorusso ha mai visitato anche una sola volta questo luogo in veste ufficiale“.

Già un paio di anni fa la tutela del sito di Kuropaty era stata minacciata dalla costruzione di un centro direzionale: per proteggerlo si erano mobilitati attivisti di tutti gli orientamenti politici, artisti, esponenti della società civile e semplici abitanti di Minsk, ed erano riusciti a fermare il cantiere.

Il 4 aprile scorso, il presidente Lukašenko ha dato l’ordine di demolire le croci di Kuropaty, dichiarandosi personalmente “disturbato” da quella che descrive come una “manifestazione eccessiva” contro lo stalinismo. “Siete sicuri che in quel posto i fascisti non abbiano ammazzato ebrei, bielorussi, polacchi, ucraini e russi?” avrebbe chiesto il presidente ai giornalisti. La distruzione delle croci di Kuropaty, delle quali per oltre 30 anni si sono occupati spontaneamente gli abitanti di Minsk, senza alcun sostegno né riconoscimento pubblico, servirebbe secondo il presidente a “ristabilire l’ordine”. Al momento, non è chiaro cosa sarà del sito, se le croci verranno sostituite da un altro monumento veicolante una versione più ‘equilibrata’ (cioè riscritta) dei fatti storici, o se non resterà più nulla.

E’ così, a colpi di trattori e i bulldozer, che nella Bielorussia di oggi si cancella un luogo della memoria – quella delle vittime della repressione staliniana – e uno dei legami più profondi che i bielorussi hanno con la propria terra e con la propria storia. Ma nella demolizione delle croci di Kuropaty c’è probabilmente anche altro: la volontà del regime di sopprimere uno dei (pochi) luoghi della resistenza politica e civile ancora visibili e viventi del paese.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/96872


--- Citazione ---“Non è un lavoro per donne”: le professioni proibite nell’ex Unione Sovietica
Laura Luciani  2 giorni fa

Dopo anni passati a studiare da ufficiale di rotta, con l’obiettivo finale di diventare capitano, nel 2012 Svetlana Medvedeva, abitante della città di Samara, aveva trovato il lavoro dei suoi sogni: una compagnia di navigazione privata l’aveva selezionata per essere al timone di un’imbarcazione commerciale. Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne. Svetlana Medvedeva era letteralmente caduta dalle nuvole: in molti le avevano detto che quello di timoniere era considerato un lavoro “da uomo”, ma nessuno l’aveva avvisata dell’esistenza di restrizioni legali che le avrebbero impedito, in quanto donna, di svolgere tale professione.

Dopo oltre quattro anni di battaglie legali portate avanti sia a livello nazionale che internazionale, nel febbraio 2016 il Comitato dell’Onu per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne ha riconosciuto che Svetlana Medvedeva era stata oggetto di discriminazione di genere. Secondo il Comitato, la legislazione russa le avrebbe vietato “di guadagnarsi da vivere attraverso la professione per cui aveva studiato”, nonché negato il diritto di “avere le stesse opportunità professionali degli uomini e la stessa libertà di scegliere il proprio lavoro”.

Quella di Svetlana Medvedeva è stata una vittoria giudiziaria storica su una forma di discriminazione nei confronti delle donne tanto radicata quanto sconosciuta al pubblico – non solo in Europa occidentale, ma anche in quei paesi dell’ex Unione Sovietica in cui le “liste delle professioni proibite” alle donne sono ancora una realtà.

Le liste delle professioni proibite

Le liste delle professioni proibite fecero la loro apparizione nel Codice del lavoro dell’Unione Sovietica già negli anni trenta e vennero in seguito aggiornate negli anni settanta. Dal 1991 in poi, dopo la fine dell’URSS, quasi tutte le repubbliche indipendenti adottarono dei nuovi codici del lavoro, copiandovi però queste norme. Come spiega Stefania Kulaeva, direttrice dell’Anti-Discrimination Centre (ADC) Memorial intervistata da Kiosk, l’idea che sta dietro a queste restrizioni risale all’epoca della rivoluzione industriale – un periodo in cui le condizioni di lavoro erano spesso estremamente nocive e pesanti per le donne, che lavoravano anche durante la gravidanza. I sindacati avevano quindi lottato per ottenere delle restrizioni sul lavoro femminile in situazioni di rischio per la salute riproduttiva.

“Da allora, però, – continua Stefania Kulaeva – sono cambiate le condizioni di lavoro, è cambiata la società e le idee legate ai ruoli di genere. Se cent’anni fa una donna sposata che lavorava in fabbrica poteva avere una gravidanza quasi una volta all’anno, oggi le donne possono avere una gravidanza una volta nella vita, o magari non vogliono affatto avere figli. Così questi divieti sono stati soppressi in molti paesi europei per una questione di inutilità, ma anche di ingiustizia. Nei paesi in cui sopravvivono, questi divieti sono fondati sulla pura discriminazione, che è racchiusa in primo luogo nell’idea che la donna debba fare figli, o che debba restare a casa per occuparsi dei figli dopo la gravidanza. Il progresso tecnico ha inoltre reso alcuni lavori, come la guida dei treni elettrici, molto meno pesanti rispetto al passato. Se queste norme avevano senso cento anni fa, ora sono solo discriminatorie. Oggi, quelli che si dicono contrari all’abolizione delle liste [delle professioni proibite] sono gli stessi che aggrediscono le manifestanti alle proteste dell’8 marzo, quelli che ritengono che le donne non siano predisposte al lavoro intellettuale”.

Per avere un’idea più concreta della discriminazione in atto, basta guardare i numeri: oggi in Kazakistan la lista delle “professioni proibite” include 219 lavori, mentre in Russia questi sono ben 456 (qui trovate i dati completi). Il Codice del lavoro russo stabilisce ad esempio che le donne non possano essere assunte per guidare camion o treni della metropolitana, spegnere incendi, lavorare nella produzione di strumenti musicali, o per fare lavori come quello di carpentiere, idraulico, o minatore. Vigono poi restrizioni assurde, come quella che vieta alle donne di guidare autobus che trasportano più di 15 passeggeri (se ne trasportano di meno, allora non c’è problema). A rendere il tutto ancora più discriminatorio è il fatto che molte delle professioni incluse nelle liste sono molto ben remunerate perché richiedono un alto livello di specializzazione – ad esempio le professioni del mare: secondo il Codice del lavoro russo, alle donne sono proibiti tutti i lavori sul ponte e in sala macchine.

Questa discriminazione nei confronti delle donne nel mondo del lavoro viene giustificata come una “preoccupazione per la loro salute riproduttiva”, ma in realtà (come dichiarato anche dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione di genere nel caso di Svetlana Medvedeva) non c’è alcuna base scientifica che giustifichi l’esclusione delle donne da determinate professioni. Inoltre, tale preoccupazione sembra non valere nel caso degli uomini, anche se la loro salute riproduttiva potrebbe ugualmente essere messa a rischio da alcune professioni: alle donne non viene lasciata scelta, è lo stato a decidere per loro.

La campagna “All Jobs for All Women”

Dal 2012, l’organizzazione ADC Memorial (che ha sostenuto Svetlana Medvedeva nelle sue battaglie legali) si è prefissa l’obiettivo di cambiare la legislazione chiedendo l’abolizione delle liste delle professioni proibite non solo in Russia, ma in tutti i paesi post-sovietici in cui sussiste questo tipo di discriminazione: Ucraina, Bielorussia, i cinque paesi dell’Asia centrale, Azerbaigian e Moldavia.

Lanciata in collaborazione con le organizzazioni per i diritti delle donne di questi paesi, nel giro di un paio di anni la campagna “All Jobs for All Women” ha già raggiunto dei risultati considerevoli. Ad esempio, nel 2017 la lista delle professioni proibite è stata abolita completamente in Ucraina: alcune donne hanno anche già cominciato a lavorare come pompieri, anche se una sfida ancora da affrontare resta quella della sensibilizzazione e dell’informazione – sia tra i datori di lavoro, sia tra le donne lavoratrici. Più di recente, la lista delle professioni proibite è stata abolita anche in Uzbekistan.

In Russia, il caso di Svetlana Medvedeva ha costituito un importante precedente e sembra aver posto le basi per un progressivo cambiamento a livello legislativo, così come dell’atteggiamento delle élite economiche e politiche riguardo alla questione delle professioni proibite. Ad esempio, il comitato per i trasporti della Duma di stato russa si è recentemente espresso a favore dell’abolizione del divieto per le donne di lavorare nella metro come conducenti e macchiniste. Anche la società delle ferrovie dello stato russa e il sindacato dei lavoratori marittimi hanno criticato le liste delle professioni proibite.

Come riconosce la stessa Stefania Kulaeva, questa presa di posizione è forse più dettata da ragioni economiche (vietare alle donne di svolgere determinati lavori non è “conveniente” in molti settori) che non dal riconoscimento della discriminazione di genere in quanto tale. In ogni caso, si tratta di un’evoluzione positiva in un contesto in cui fino a pochi anni fa chi si occupava di tali problematiche era tacciato di “isteria femminista”, e in cui l’emancipazione della donna e la piena parità dei diritti – anche nel mondo del lavoro – sembrano ancora lontane.
--- Termina citazione ---

gluca:

--- Citazione da: Frank - Aprile 11, 2019, 20:45:19 pm ---"Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne"

--- Termina citazione ---
Fosse per me, io una normativa di quel tipo la adotterei pure in Italia.

Vicus:
A quando un condice del lavoro anche in Italia :wub:

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-la-caduta-di-Dusko-Knezevic-il-re-del-cemento-193668


--- Citazione ---Montenegro: la caduta di Duško Knežević, il “re del cemento”

Si è allontanato dai suoi ex partner del Partito Democratico dei Socialisti (DPS) di Milo Đukanović ed ora potrebbe perdere il suo impero. Nel mirino della giustizia montenegrina l’uomo d’affari Duško Knežević ora accusa i suoi vecchi soci

12/04/2019 -  Branka Plamenac
(Originariamente pubblicato dal settimanale Monitor, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

Duško Knežević accusa il Presidente Milo Đukanović di voler metter le mani sul suo vasto impero commerciale e sui suoi beni. La holding di Duško Knežević raggruppa nello specifico società bancarie e finanziare, compagnie di assicurazione, media e imprese immobiliari. Tramite le filiali registrate in diversi paradisi fiscali, Duško Knežević possiede beni immobiliari su tutto il litorale montenegrino, da Herceg Novi a Bar.

Una fortuna inestimabile
Dalla celebre spiaggia di Jaz, a Budva, fino a Petrovac na Moru, la città costiera tra Budva e Bar, l’uomo è l’orgoglioso proprietario di alcuni tra i terreni più appetibili della riviera montenegrina. Di fatto, figurava tra i responsabili della cementificazione del litorale, quando le autorità locali del Dps, con la complicità dei ministri per lo Sviluppo sostenibile che si sono succeduti, Branimir Gvozdenović e Predrag Sekulić, hanno adottato piani urbanistici devastanti su ordine della potente lobby dell’edilizia che lui stesso dirige con altri oligarchi.

Soltanto nel territorio del comune di Budva, il gruppo Atlas possiede sei terreni di grande valore dove dovevano esser costruiti alberghi, appartamenti e locali commerciali su una superficie totale di più di 200.000 m². Nonostante tutti i permessi di costruzione siano stati rilasciati, nessuno di questi progetti ha visto luce per il momento. I potenziali investitori pare che abbiano bidonato Duško Knežević, malgrado le buone relazioni che intratteneva con la Russia, gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti, o ancora l’influente Clinton Global Initiative. Mentre gli investitori non danno segni di vita ed il suo sistema sta crollando, Duško Knežević rischia di perdere i suoi beni sul litorale e di essere rimpiazzato da nuovi proprietari.

Da amico a nemico
"Alcune tra le più alte autorità statali in relazione con gruppi criminali, hanno deciso di scagliare un attacco contro il gruppo Atlas", ha affermato Duško Knežević, il patrono di questa holding. Vecchio intimo di Milo Đukanović, l’uomo d’affari è attualmente in fuga. È lui ad aver rivelato di aver dato delle “bustarelle” di contanti per finanziare il Partito Democratico dei Socialisti (PDS), rivelazione che ha provocato una rivolta popolare inedita in Montenegro. Sospettato di malversazioni finanziarie e di riciclaggio di denaro attraverso Atlas Bank, Duško Knežević si è rifugiato a Londra. Le appropriazioni indebite a suo carico raggiungerebbero i parecchi milioni di euro secondo l’accusa. La procura ha aperto un’inchiesta.

Questi ultimi stanno già attendendo in agguato a Jadranski sajam, il vecchio parco delle esposizioni di Budva, dove Duško Knežević possiede due lotti per una superficie pari a 22.000 m². Vi sono previste tre unità di costruzione: un nuovo spazio espositivo (Budva New Expo), un hotel di lusso e un complesso di appartamenti residenziali, dei progetti della società Safiro Beach che, secondo Duško Knežević, apparterrebbe a Milo Djukanovć e al vicepresidente dell’Assemblea nazionale Branimir Gvozdenović.

Nella spiaggia di Kamenovo, sempre a Budva, la società Rekreaturs, appartenente sempre a Duško Knežević, gestisce un complesso di 33.000 m². La costruzione del Kamenovo Tourist Resort, del costo stimato di 120 milioni di euro, è sospesa per un procedimento giudiziario volto a determinare chi ne è il vero proprietario. L’Agenzia kosovara per la privatizzazione ritiene infatti che questo terreno appartenga alla Repubblica del Kosovo, ceduto dal comune di Budva da qui a mezzo secolo, in epoca jugoslava, per costruirci una casa di riposo destinata ai lavoratori kosovari.

Fragile come un castello di carte
Allo stesso modo, Atlas Invest possiede un terreno di 9.000 m² sovrastante l’Adriatico, tra l’albergo Avala e la spiaggia di Mogren. In realtà, questo terreno, nel comune di Budva, è proprietà della società offshore Attika Ian, citata nel controverso caso della privatizzazione di Crnogorski Telekom, il principale operatore di telecomunicazioni del paese. È in questa zona di macchia mediterranea che dovrebbe venir edificato un nuovo centro, Mogren Town. Non lontano da lì, sui pendii della collina di Spas, si trova un altro terreno di 21.000 m² di proprietà di Duško Knežević, dove dovrebbe esser eretto un lussuoso villaggio collegato alla spiaggia, Mogren Hill, attraverso una teleferica. Questi due progetti aspettano ancora degli investitori mentre ipoteche da parecchi milioni di euro riposano nella banca greca Piraeus.

Un altro progetto del gruppo Atlas è previsto nel villaggio di Pržno, che costeggia Miločer, un luogo di villeggiatura mondana. Nell’agosto del 2015, il diritto di proprietà del comune di Budva su tredici lotti di una superficie di 4.100 m² è stato trasferito ad Atlas Invest, grazie alla maggioranza dei voti dei deputati della coalizione Partito Democratico dei Socialisti (DPS)-Partito Socialdemocratico (SDP). Il terreno è stato venduto senza compensazioni né liquidazioni, sulla base di un contratto per la costruzione comune di un complesso turistico di 16.000 m², che comprende degli appartamenti ed otto ville dai 60 ai 300 m², con incluse delle piscine sui tetti… Questo accordo prevedeva 550 m² di locali per il comune e 100 posti parcheggio. A Petrovac, ancora, Duško Knežević possiede dei beni immobiliari. Qui la sua impresa alberghiera Atlas Hotels ha una stazione degli autobus di una superficie pari a 2.000 m² e vi dovrebbe esser costruito un parcheggio multipiano.

La fortuna del gruppo Atlas, che ha messo le mani sul litorale montenegrino nel corso di questi anni di transizione, è difficile da stimare. Oltre ai suoi progetti a Bar e a Meljine, nel comune di Herceg Novi, il gruppo prevede di costruire uno dei più grandi progetti immobiliari a Punta Mimoza, all’ingresso delle Bocche di Cattaro, accanto alla penisola di Prevlaka: niente meno di tre villaggi e un molo di 150 posti ormeggio, il tutto per un costo stimato di 500 milioni di euro. Duško Knežević aveva annunciato l’apertura del cantiere due anni fa, ma la sua realizzazione è rimasta ferma. Il “re del cemento” della costa montenegrina sarà in grado di gestire i suoi molteplici progetti urbanistici, come afferma da Londra, o i suoi affari saranno portati avanti da banche, creditori e vecchi partner d’affari? Lo scopriremo solo col tempo.
--- Termina citazione ---

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