Off Topic > Off Topic

La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

<< < (6/117) > >>

Hector Hammond:

--- Citazione da: Vicus - Ottobre 15, 2017, 22:44:31 pm ---Non esistono paradisi sulla Terra, ma Paesi in declino e Paesi in ascesa (o in recupero). Nel lungo periodo meglio vivere nei secondi.

--- Termina citazione ---
L'Europa il declino se l'è imposto, pure tramite il femminismo  :sick:  :cry: .

Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/87653


--- Citazione ---ARMENIA: Non è un paese per bambine. Il dramma degli aborti selettivi

Emanuele Cassano 6 giorni fa   

L’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, a causa dell’ossessiva ricerca di figli maschi. Un approfondimento

Mariam, 31 anni, è madre di due bambine ed è originaria della regione di Armavir, Armenia occidentale. Anche dopo la nascita della seconda figlia, ha continuato a inseguire il suo sogno, avere un maschio, affidandosi ad un calcolo di probabilità. Ma non appena saputo di essere rimasta incinta e che si sarebbe trattato di un’altra femmina ha scelto di ricorrere all’aborto. “Mi sento colpevole di aver preso questa decisione, ma continuo a sperare di avere un figlio maschio un giorno. Non voglio scoprire ancora una volta che si tratta di una femmina e abortire di nuovo, non posso… Continuo a ripetermi che la prossima volta sarà quella buona”.

Spesso, in Armenia, molte donne come Mariam ricorrono alla pratica dell’aborto selettivo – spesso spinte in questo dal marito o dalla famiglia – per assicurarsi figli maschi, mettendo però a serio rischio la loro salute e lo stesso equilibrio demografico del paese.

Tra i primi al mondo per tasso di aborti selettivi

Secondo il 2016 Global Gender Gap Report, l’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, dietro solo alla Cina. Come ricorda Garik Hayrapetyan, rappresentante di UNFPA Armenia – agenzia Onu che si occupa di politiche famigliari – il sesso del feto è alla base del 10% di tutti gli aborti indotti effettuati nel paese caucasico, dove ogni anno circa 1.400 nascite femminili vengono interrotte. Il problema degli aborti selettivi è emerso in seguito all’indipendenza del paese, negli anni Novanta, sebbene in Armenia l’aborto venisse largamente praticato come metodo contraccettivo fin dall’epoca dell’Unione Sovietica (il primo paese a legalizzare l’aborto, nel 1920).

Questo problema non riguarda solo l’Armenia, ma è comune a tutto il Caucaso, come conferma la presenza nelle prime dieci posizioni della classifica dei paesi con il più alto tasso di aborti selettivi dell’Azerbaijan (al 5° posto) e della Georgia (all’8°).

Secondo un rapporto di UNFPA Armenia del 2013, il paese ha inoltre il terzo più alto livello di mascolinità alla nascita osservato nel mondo, e una sex ratio tale per cui per ogni 114-115 maschi nascono solo 100 femmine (la media mondiale è di 105 maschi per 100 femmine). Questa stessa ricerca dimostra come il divario aumenti progressivamente a seconda dell’ordine di nascita: mentre il rapporto tra sessi è relativamente equilibrato per la prima nascita, esso aumenta a 173 maschi per 100 femmine al terzo figlio.

Quali sono le cause di questo fenomeno?

Per Ani Jilozian, attivista presso il Women’s Support Center di Yerevan, questo squilibrio è dovuto principalmente a tre fattori tra loro correlati. Il primo è la preferenza verso i figli maschi, che deriva da una struttura familiare in cui le ragazze e le donne hanno un ruolo sociale, economico e simbolico marginale, e di conseguenza godono di meno diritti. I figli maschi garantiscono inoltre una sicurezza per ogni famiglia, in quanto hanno il compito di prendersi cura dei propri genitori e assisterli nel corso della loro vecchiaia, poiché le donne, una volta sposate, vanno solitamente a vivere presso la famiglia del marito. Un secondo fattore è lo sviluppo tecnologico applicato alla diagnostica prenatale, che ha permesso ai genitori di conoscere il sesso del bambino ancor prima della nascita. L’ultimo fattore è la bassa fertilità (in media ogni donna armena partorisce 1,7 figli), che riduce la probabilità di avere un figlio maschio nelle famiglie più piccole aumentando di conseguenza la necessità di selezionare il sesso.

Sebbene una statistica di UNFPA Armenia (2012) stabilisca che nel 70% dei casi siano le donne a scegliere di abortire, non sempre esse sono messe in condizione di prendere questa decisione in piena autonomia. Secondo uno studio qualitativo condotto da Ani Jilozian, basato su una serie di interviste realizzate con alcune donne che hanno fatto ricorso all’aborto selettivo, la maggioranza delle intervistate, pur rivendicando inizialmente la decisione di abortire, ha successivamente ammesso che la scelta è stata di fatto indotta dalla forte volontà del marito o della sua famiglia di avere un figlio maschio. Talvolta sono gli stessi mariti a prendere la decisione per la moglie, ricorrendo in molti casi anche a pressioni psicologiche.

Una legislazione inefficace

Secondo la legge armena una donna può effettuare un aborto fino alla 12ma settimana di gravidanza, periodo nel quale il sesso del feto non può ancora essere determinato, il che dimostra come la maggior parte degli aborti selettivi siano illegali e rischiosi. Solo il 57% delle donne è però al corrente dell’illegalità di questo processo e dei rischi che esso comporta.

Recentemente il governo armeno ha introdotto una nuova legge per combattere il fenomeno degli aborti selettivi. Secondo la nuova norma, prima di poter effettuare un aborto, una donna deve partecipare a una sessione di consulenza con il proprio medico, e successivamente aspettare tre giorni prima di ricevere l’autorizzazione per l’intervento. Secondo il governo armeno questa legge dovrebbe aiutare a sensibilizzare le donne sui rischi che comporta l’aborto e a metterle nella condizione di riflettere meglio.

Come spiega però Ani Jilozian, questa legge è inadeguata, in quanto limita la libertà riproduttiva della donna e ne mette a rischio la stessa salute. Dichiarare illegali gli aborti selettivi non è una soluzione che può combattere efficacemente il problema, in quanto non elimina le cause principali di questa preferenza sessuale, le quali sono profondamente radicate nella società patriarcale armena. Il tentativo di limitare l’accesso all’aborto senza affrontare le principali cause della preferenza del sesso potrebbe quindi finire per provocare una maggiore domanda di aborti illegali o non sicuri, in particolare per le donne provenienti dalle comunità più emarginate.

Inoltre, seppure negli ultimi anni in Armenia il numero di aborti selettivi sia in leggera diminuzione, secondo alcune proiezioni, se nel lungo periodo questo fenomeno non verrà adeguatamente contrastato, entro il 2060 in un paese di soli tre milioni di abitanti verranno a mancare circa 93.000 donne, ovvero il 3% dell’attuale popolazione totale. Questo causerebbe un conseguente processo di emigrazione di una parte della popolazione maschile, destinata ad andare in cerca di una partner al di fuori del paese, mettendone a rischio l’equilibrio demografico.
--- Termina citazione ---

Frank:
http://www.eastjournal.net/archives/88036


--- Citazione ---POLONIA: Le donne tornano in piazza per il diritto d’aborto

Paola Di Marzo 7 giorni fa   

Dopo poco più di un anno dalle imponenti manifestazioni note come Czarny Protest, “protesta in nero“, contro la criminalizzazione e il divieto totale d’aborto proposto dal partito di governo Diritto e Giustizia (PiS), le donne polacche sono tornate in piazza sfilando nelle principali città del paese col sostegno del piccolo “Podemos polacco”, il movimento Partia Razem.

Il tentativo di liberalizzare l’aborto

Stavolta, però, a scatenare la rabbia dei manifestanti è stata proprio l’opposizione in Parlamento per non aver assicurato sufficienti voti alla proposta di liberalizzare la legge sull’aborto, alla Camera per una prima lettura il 10 gennaio. Infatti, 29 deputati di Piattaforma Civica (PO), il principale partito d’opposizione, si sono astenuti e tre hanno votato contro incorrendo nell’espulsione dal partito come capitato a altri tre parlamentari del liberale Nowoczesna. Ha sorpreso, invece, il voto a favore di 58 deputati di PiS. L’oggetto della disputa è stata la proposta chiamata “Salviamo le donne” che prevedeva tra altre ipotesi per così dire “minori” (introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, vendita della pillola del giorno dopo senza prescrizione medica) il diritto d’aborto senza restrizioni fino alla 12° settimana. Secondo quanto stabilito da una legge in vigore dal 1993, questa pratica ad oggi è esercitata solo nei casi in cui la vita della madre sia a rischio, la gravidanza sia frutto di stupro o incesto, oppure il feto sia gravemente malformato.

L’opposizione in parlamento lascia sole le donne

“L’opposizione ci ha abbandonato e ha perso fiducia e credibilità ai nostri occhi” ha dichiarato a East Journal Zofia Marcinek, studentessa di Varsavia e attivista su questo fronte dal 2016. “Mentre Razem condivide le nostre battaglie e ci ha sempre sostenuto nonostante gli sforzi siano limitati in quanto forza extra-parlamentare, il comportamento di PO e Nowoczesna è indicativo della distanza tra i partiti e i cittadini. Una volta eletti, i politici, abituati alla deferenza e a critiche blande, non si sentono più responsabili delle loro azioni e alcuni non ne prevedono nemmeno le conseguenze visto che conserveranno sempre la poltrona, almeno per questa legislatura. Nowoczesna, però, sta tentando di correre ai ripari promuovendo una proposta di legge simile alla nostra. Non è perfetta ma è già qualcosa. Non ci ha stupito invece il comportamento di PiS. Già in campagna avevano promesso che non avrebbero mai rigettato un’iniziativa cittadina al primo colpo e così è stato. Inoltre, anche se il loro obiettivo è un divieto totale, sanno che molti polacchi non sono d’accordo. A metà mandato assumersi un rischio del genere non sarebbe saggio. Anche in passato hanno fatto così: quando le elezioni si avvicinano, le loro misure si fanno meno drastiche e cambiano alcune personalità chiave, mentre altre si defilano”.

Ulteriori restrizioni in arrivo?

Nella stessa seduta del 10 gennaio, mentre la proposta “Save the Women” veniva rigettata, è avvenuta la prima lettura del progetto “Stop Abortion”, presentato dalla Fondazione “Vita e Famiglia” e approvato per un ulteriore riesame. Il disegno prevede la proibizione dell’aborto in caso di malformazioni fetali. I medici che non rispetteranno il divieto incorreranno in sanzioni penali.

Secondo le statistiche ufficiali del governo, nel 2016 sono stati effettuati 1088 aborti legali in Polonia, di cui 1042 dovuti a insufficienza irreversibile o malattia fetale incurabile. Ciò significa che alla luce dei cambiamenti che potrebbero arrivare, circa il 95% di queste donne lo farebbe illegalmente, e i medici che hanno eseguito questa procedura sarebbero esposti a accuse penali. “Già oggi le restrizioni all’aborto sono più severe che sulla carta” ci dice Zofia. “Molti dottori sono obiettori, altri pensano che praticandolo si farebbero brutta pubblicità. Così, in molti Voivodati diventa veramente impossibile esercitarlo. Alcune donne non vengono nemmeno informate sulle patologie fetali per evitare che ricorrano all’aborto”

In base alle le stime di varie organizzazioni non governative, il numero di aborti clandestini è compreso tra gli 80 e i 190 mila l’anno. Se la legge venisse approvata, questi numeri non farebbero che aumentare. Secondo un reportage del The Guardian, in Polonia l’aborto illegale costa quasi 895 dollari e per questa ragione sono molte le donne che decidono di recarsi all’estero, specie in Slovacchia dove la cifra media si aggira attorno ai 380 euro.

Il governo cambia il pelo ma non il vizio

Nonostante il rimpasto governativo delle scorse settimane e la messa in piedi di un esecutivo più moderato, non dovrebbero esserci passi in avanti al riguardo. Il nuovo ministro della Salute, Lukas Szumowski, è tra i 4000 dottori polacchi che hanno firmato una dichiarazione di fede impegnandosi a non partecipare “all’aborto, eutanasia, contraccezione, inseminazione artificiale, e fecondazione in vitro” per non violare i dieci comandamenti. Da quando al governo, il partito di Diritto e Giustizia ha messo fine ai finanziamenti per la fecondazione in vitro e sottoposto la pillola del giorno dopo a prescrizione medica, diversamente da quanto avveniva in passato. A ottobre dello scorso anno, alcune ONG polacche, attive nella protezione dei diritti delle donne e nel sostegno alle vittime di violenza domestica, hanno subito un raid della polizia che ha sequestrato documenti, hard disk, e computer. L’incursione avrebbe fatto parte di un’indagine sui finanziamenti stanziati dal Ministero della Giustizia nella precedente legislatura, ma le organizzazioni oggetto non hanno concordato sui modi, affermando che si sarebbe trattato di velate minacce per il mancato rispetto della linea di governo.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Italiani-in-Albania-diamo-i-numeri-185892


--- Citazione ---Italiani in Albania: diamo i numeri

Da anni i media italiani ripetono che 19.000 italiani vivono e lavorano in Albania. Ma secondo il ministero degli Interni albanese sono meno di 2.000. Come si spiega una differenza simile?
06/02/2018 -  Nicola Pedrazzi   

19.000. Che sia in articoli , in trasmissioni televisive o in semplici esternazioni social , quando si parla della migrazione italiana in Albania quella è la cifra che ci siamo abituati a riportare.

Ma dove e quando nasce questo numero? E soprattutto: chi l’ha mai verificato? Se l’affascinante narrazione dell’”inversione dei flussi” si è da tempo affermata nel giornalismo italiano, il primo articolo che si è azzardato a quantificare il fenomeno risale all’ottobre 2014: venne pubblicato online, con virale riscontro, dal Corriere della Sera. La fonte, che l’articolista riporta accuratamente tra virgolette, è albanese: si tratta di Erion Veliaj, al tempo ministro del Welfare, oggi sindaco di Tirana. Questo il passaggio: “’Nel nostro paese vivono e lavorano 19 mila italiani’, calcola Erion Veliaj, ministro albanese del benessere sociale e della gioventù nel governo socialista guidato da Edi Rama. Numeri che, al netto degli imprenditori, dei rappresentanti diplomatici e degli studenti iscritti ai corsi di medicina all’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, indicano in 15-16 mila quelli che hanno un contratto di lavoro dipendente”.

Ora, come ricorda lo stesso articolo del “Corriere”, similmente a quanto accade in Italia per tutti i cittadini provenienti da paesi extra Schengen, anche in Albania gli stranieri che vogliano rimanere nel paese per più di tre mesi consecutivi sono obbligati a richiedere il permesso di soggiorno: per motivi di lavoro, di studio o di ricongiungimento famigliare. Detto altrimenti, eccezion fatta per i diplomatici, un italiano che lavori o studi stabilmente in Albania ha il dovere di presentarsi presso la questura albanese e di dimostrare di essere in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Ne sanno qualcosa i pensionati italiani che sognano un economico (e detassato) riposo oltre Adriatico, e il cui progetto spesso si scontra con lo stato albanese , che alla pari di altri stati del mondo non considera un reddito da pensione un criterio sufficiente alla concessione del diritto di risiedere sul proprio territorio.
I dati ufficiali del ministero degli Interni albanese

Stiamo dunque alla legge albanese: se è vero che 19.000 cittadini italiani “vivono e lavorano” in Albania, 19.000 cittadini italiani devono aver richiesto e ottenuto un permesso di soggiorno dalle autorità. È qui che casca l’asino, perché stando all’ultimo rapporto pubblicato congiuntamente dal ministero degli Interni e dal ministero del Welfare albanese (il dicastero che fu di Veliaj), nel 2016 i cittadini stranieri con permesso di soggiorno erano 8692, tra cui solamente 1694 italiani. Sempre secondo il rapporto, al 1° gennaio 2017 si contavano sul suolo albanese 12.519 cittadini stranieri, pari allo 0,4% della popolazione. Tra questi 1854 italiani, ovvero qualche centinaio in più dei detentori di permesso di soggiorno annuale, ma meno di un decimo di quelli celebrati sui nostri giornali. Insomma, la “carica dei 19.000” descritta dal “Corriere” nel 2014 non si raggiunge nemmeno sommando agli italiani tutte le nazionalità straniere presenti in Albania nel 2017: 3954 turchi, 719 kosovari, 331 cinesi, 184 siriani….

In conclusione e a scanso di equivoci: che i cittadini italiani attualmente presenti in Albania siano di più dei permessi di soggiorno rilasciati dalla questura è probabile e presumibile. I casi sono molteplici: ci sarà, ad esempio, chi pendola tra i due paesi, o chi semplicemente il permesso non l’ha richiesto. A voler essere completi, in Albania vivono anche "albanesi di ritorno" provvisti di cittadinanza italiana. Vogliamo contare anche loro? Il problema è che qualunque criterio si scelga per approssimare per eccesso, quel 19.000 rimane incompatibile con l'ordine di grandezza indicato dai dati ufficiali.
Una “fake news” a fin di bene?

Se non siamo disposti a credere che il ministero degli Interni albanese pubblichi dati falsi, e se non siamo disposti a credere che in Albania risiedano illegalmente, senza permesso di soggiorno, più di 17.000 italiani, una sola conclusione rimane a nostra disposizione: nel 2014 Erion Veliaj ha diramato numeri esagerati, cui importanti testate italiane hanno fornito per anni una grancassa di pregio, senza mai verificarli. Perché?

Le motivazioni di Veliaj sono comprensibili: nel maggio 2014, quando per la prima volta ha dato in pasto all’ANSA il fatidico “19.000”, era a Roma per incontrare l’omologo ministro Poletti. Il suo obiettivo era quello di avviare i negoziati per un accordo sul mutuo riconoscimento delle pensioni, un problema “storico” delle relazioni italo-albanesi, perché se un cittadino albanese lascia l’Italia prima di avere maturato la pensione perde tutti i contributi che ha versato (ad oggi l’accordo tra i governi continua a mancare). Alla luce del saldo migratorio albanese, Veliaj aveva dunque tutto l’interesse a gonfiare i dati sugli italiani in Albania, al fine di crearsi un appiglio negoziale: riconoscete i contributi versati dagli albanesi, noi riconosceremo i contributi versati dagli italiani. Se la “bugia a fin di bene” nasce in quel contesto, la sua resistenza nel tempo si deve però a una ragione più profonda. L’idea di un’Albania nuova, ambita e desiderata proprio da chi, per decenni, ha associato l’Albania ai gommoni, è un guizzo di marketing in linea con la propaganda dei governi Rama: una strategia mirata al rinnovamento dell’immagine internazionale del paese e indirizzata tanto agli imprenditori stranieri quanto agli albanesi della diaspora, che grazie a questa politica godono finalmente di uno stereotipo positivo – e che un giorno, forse, potranno sdebitarsi votando dall’estero, proprio come propone la maggioranza socialista.
Gli albanesi e il voto estero

A fronte di 2.9 milioni di residenti nel paese (maggiorenni e minorenni insieme) risultano iscritti nelle liste elettorali albanesi 3.5 milioni di aventi diritto. Data la consistenza della diaspora albanese e considerando che alle scorse elezioni ha votato solamente 1 milione e mezzo degli aventi diritto, è evidente che la concessione del voto estero non è una questione tecnica ma politica. Nel momento in cui venisse concesso, e soprattutto nel caso in cui non si optasse per un meccanismo “all’italiana” (riservando ai residenti all’estero un numero limitato di seggi), il consenso del mezzo milione di albanesi residenti in Italia acquisirebbe un peso notevole sulla competizione elettorale in patria. Ecco perché i politici albanesi curano la loro immagine estera ed ecco perché già oggi le attenzioni che la stampa italiana dedica ai politici albanesi non sono politicamente innocue (si consideri poi che in Albania l’italiano è una lingua ancora molto diffusa).

Più difficile da comprendere sono le cause della credulità italiana. Con l’eccezione del portale EXIT – che pubblica anche in italiano , ma che è registrato a Tirana – al di qua del mare nessuna voce ha criticato le cifre provenienti dalla politica albanese, sebbene i dati dell’AIRE fossero di per sé già molto eloquenti: come ricordato dall’ambasciatore d’Italia Alberto Cutillo , gli italiani che al 1° gennaio 2017 hanno dichiarato di risiedere in Albania sono 1385 . Evitando di tirare in ballo il deterioramento della nostra politica e del nostro giornalismo – un problema più ampio del singolo episodio – l'incredibile leggerezza con cui in Italia abbiamo dato credito a un numero senza riscontri poggia nel caso specifico su due difetti tipici della relazione italo-albanese: lo spensierato disinteresse di parte italiana nei confronti dell’“Albania reale” (un paese di cui ci siamo sempre occupati tanto, ma a partire da noi stessi e dalle nostre emozioni, senza porci il problema di comprenderlo, né al tempo del fascismo, né al tempo del comunismo, né al tempo della democrazia); e per converso l’inamovibile importanza simbolica che l’”Albania dei migranti” ricopre nell’immaginario collettivo italiano. Ecco perché, per raccontare la nostra crisi (e non i progressi albanesi) siamo ricorsi volentieri alla barzelletta de “gli albanesi ora siamo noi ”. Un parallelo che non conosce il rispetto per la storia che evoca e che uno scaltro politico albanese, a quanto pare esperto conoscitore della mentalità dei suoi vicini, è stato lieto di suggerire, nella certezza che l’avremmo bevuto.
Un’amicizia retorica

Sia chiaro: l’immigrazione italiana in Albania rimane una novità degna di nota. È vero che la nostra imprenditoria frequenta assiduamente il paese, è vero che aerei per Tirana decollano tutti i giorni dai principali aeroporti italiani, è vero che ogni anno decine (centinaia? Qualcuno conosce le cifre esatte?) di studenti che non superano il test nazionale di medicina si iscrivono alla Buon Consiglio, è vero che il turismo italiano è in aumento esponenziale, è vero che dopo il terremoto un ristoratore de L’Aquila si è rifatto una vita a Tirana; insomma è vero che l’Adriatico di oggi è un confine poroso, soprattutto se pensiamo ai tempi della cortina di ferro e del regime enveriano. È tutto vero, e se si vuole dare a questa novità un giudizio di valore, ben venga: è tutto “positivo”! Tuttavia, nessun dato ufficiale ci consente di affermare che 19.000 italiani “vivono e lavorano” stabilmente in Albania. Continuare a ripeterlo è umiliante nei confronti della nostra professione, mentre sul piano politico non migliora le relazioni tra i due paesi, non contribuisce alla conoscenza dell’Albania in Italia, non abbatte gli stereotipi, non fa onore agli albanesi e non li aiuta a stare meglio dopo decenni di difficoltà – per la cronaca, il disagio e la migrazione albanese non sono finiti, basta dare uno sguardo alle richieste d’asilo in Europa.

È triste ammetterlo, ma questa retorica amicizia italo-albanese, vuota e improvvisata come le cifre con cui la raccontiamo, serve più che altro a dare un po’ di ossigeno mediatico ai governanti dell’altra sponda: politici in difficoltà nonostante la bella immagine che vendono agli albanesi che in Albania non ci vivono più, “amici” che in questa fase cruciale del cammino europeo avrebbero tanto bisogno di un serio partner adriatico, ma cui negli ultimi tempi l’Italia riserva soltanto selfie e falsi entusiasmi . Viene il serio dubbio che ciò accada anche perché non abbiamo molto di meglio da offrire.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Quanti-albanesi-in-Italia-Sembra-facile-dirlo-eppure-181428


--- Citazione ---Quanti albanesi in Italia? Sembra facile dirlo, eppure...

Più che letti e citati, i numeri andrebbero interpretati. Anche quelli riguardanti gli albanesi in Italia, una delle più "antiche" comunità immigrate del nostro paese. Un commento-glossario utile a fare un po' di chiarezza
25/08/2017 -  Rando Devole   

Nell'epoca digitale, quando le statistiche sembrano a portata di click, quando i numeri vengono sbattuti in prima pagina come mostri, quando le percentuali si inseguono come cani arrabbiati dalle proprie code, quando le diapositive ballano con la coreografia del PowerPoint, rispondere ad una domanda su quanti siano gli albanesi in Italia, sembra un gioco da ragazzi.

Allora, quanti sono gli albanesi in Italia? In risposta a questa domanda si ascoltano le risposte più strampalate. D'altronde, stando alla rappresentazione mediatica si direbbe che gli immigrati in Italia siano il doppio degli italiani. Il problema sta nella domanda. Quanti sono chi? Albanesi? Ma quali albanesi? I cittadini albanesi? Ecco, qui cominciano i guai...
Cittadinanza e nazionalità

Quando diciamo “albanesi”, intendiamo i cittadini albanesi o di nazionalità albanese? Perché la cittadinanza è un concetto giuridico. È uno "specifico vincolo giuridico tra un individuo e il suo stato di appartenenza, acquisito per nascita o naturalizzazione, tramite dichiarazione, per scelta, matrimonio o altre modalità, a seconda della legislazione nazionale", spiega il glossario della Commissione europea. Lo stesso glossario che ci ricorda una distinzione vecchia, ossia tra la cittadinanza e la nazionalità, sebbene i due termini vengano spesso usati come sinonimi. In verità, il mondo è pieno di paesi multietnici, con dentro diverse provenienze.

Ma perché ci offrono statistiche diverse? Per esempio, secondo l'Istat, al 1° gennaio 2016, in base ai dati forniti dal ministero dell’Interno, in Italia erano regolarmente soggiornanti 482.959 albanesi. Perfetto, tutto chiaro. Ma allora come mai, lo stesso Istituto scriveva poco prima che alla stessa data risiedevano 467.687 albanesi? Perché sono di meno? Qual è il numero giusto? Dove sono spariti gli altri albanesi? Che facciamo, diamo i numeri così, a caso?

In realtà, serve solo un po’ di attenzione e il rebus statistico si risolve da sé. Il fatto è che sono tutti cittadini albanesi, ma qualcuno ha la residenza, e quindi rientra nella categoria dei “residenti”, qualcun altro è soggiornante, in quanto semplicemente titolare di permesso di soggiorno. Anche le fonti dei dati sono diverse. Certamente, vivono tutti in Italia, ma non vanno sommati se no raddoppiano!

Chi volesse approfondire ulteriormente, potrà divertirsi con la definizione dell'Istat secondo cui "i cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti sono tutti gli stranieri non comunitari in possesso di valido documento di soggiorno (permesso di soggiorno con scadenza o carta di lungo periodo) e gli iscritti sul permesso di un familiare". Ma fermiamoci qui, tralasciando anche la differenza tra permesso di soggiorno e carta di lungo periodo, per evitare di perderci.

Ritorniamo invece alla domanda iniziale: quanti albanesi vivono in Italia? L'ultimo numero disponibile è: 448.407 albanesi regolarmente residenti.
Regolarmente soggiornanti, regolarmente residenti e… clandestini?

Ma i distinguo non sono finiti. Gli esperti non aggiungono inutilmente la parola "regolarmente" di fianco a “soggiornanti” e “residenti”. Esistono infatti anche albanesi soggiornanti senza permesso di soggiorno. Di conseguenza, gli albanesi che vivono in Italia sono di più di quelli individuati dalle statistiche. Quanti di più? Ci sono cose che non si possono conoscere, se non ex post, dopo una regolarizzazione, o “sanatoria” per i nostalgici. Altrimenti bisogna affidarsi alle stime, che sono sempre, inevitabilmente, approssimative.

Ora, non si esclude che a qualcuno, quando ha letto le parole "senza permesso di soggiorno", sia venuto in mente il termine "clandestino". Non per incasinarci la vita, ma il termine è sostanzialmente fuorviante, nonché semanticamente antipatico, per le connotazioni acquisite nel tempo. Ma, oltre all'amore, chi è clandestino? Colui che non ha documenti? Allora chi ha il passaporto, magari con il visto d'ingresso, cos'è? E poi, un permesso di soggiorno scaduto ti rende “irregolare” o “clandestino”? La verità è che ci sono albanesi di tutti i tipi, anche nella storia recente della migrazione. Ci sono stati albanesi profughi, richiedenti asilo, albanesi rifugiati, albanesi migranti economici... Qui il lessico diventa più complesso e i riferimenti all'attualità davvero non mancano.
Passaporto e identità

Infine, ci sono anche gli albanesi che nel frattempo sono diventati italiani. O no? Il dubbio esiste, in quanto , ne abbiamo già parlato, chi acquisisce la cittadinanza italiana sparisce dalle statistiche sugli albanesi. Negli ultimi anni più di 100.000 albanesi hanno ottenuto la cittadinanza italiana. Ma il passaporto cambia anche l'identità? Cioè, quando uno consegna il permesso di soggiorno dà automaticamente le dimissioni dall'essere e sentirsi albanese? Ecco, qui le domande cambiano piano, e cominciano a diventare molto complesse.

Ad esempio esistono albanesi che hanno acquisito la cittadinanza italiana e sono partiti per il Nord Europa, dove si sono registrati come cittadini italiani. Sicuramente l'avrà fatto anche chi ha solo il permesso di soggiorno. E poi si trova sempre qualche giovane, nato e cresciuto in Italia, con la cittadinanza italiana, che ti confessa che si sente albanese, oppure "anche" albanese. Va conteggiato anche lui tra “gli albanesi in Italia”, oppure no?

Tra moglie e marito non mettere il dito, dice il proverbio. Che vale soprattutto nel caso dei matrimoni misti. E sono tantissimi, tra donne albanesi e uomini italiani, e viceversa. Ma quanti figli nati da questi matrimoni si sentono albanesi? Inoltre, quanti albanesi hanno perso l'identità e non si sentono tali? Alcuni non conoscono più la lingua, la balbettano, non la parlano. Difficile trovarli sulle tabelle statistiche. Diciamo pure impossibile.

Allora, che facciamo, ci arrendiamo? Per nulla. Bisognerebbe interpretarli i numeri, insieme alla realtà sociale, e soprattutto prenderla con filosofia. Anche quando incontriamo un tifoso che sfoggia orgoglioso la bandiera albanese, quella rossa con l'aquila bicipite in mezzo, dobbiamo sapere che questo non ci dice nulla del suo passaporto, che potrebbe essere di un altro paese europeo, o addirittura di un altro paese balcanico…. Ecco, appena si parla dei Balcani le cose si complicano ulteriormente. I numeri sembrano facili, eppure...
--- Termina citazione ---

Navigazione

[0] Indice dei post

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente

Vai alla versione completa