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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Vicus:
Poteva mancare il pride anche nell'Europa dell'Est?

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/98871


--- Citazione ---ALBANIA: Il dopo elezioni, tutti vincenti, tutti perdenti
Pietro Aleotti  2 giorni fa

Mutuando la battuta di una nota campagna pubblicitaria, si potrebbe dire che a Edi Rama, primo ministro albanese socialista, in carica dal 2013, “piace vincere facile”. Questo perché alle elezioni amministrative di domenica scorsa, nei 61 comuni dove si è votato, i candidati del Partito Socialista (PS) hanno vinto a mani basse. Non si può dire che abbiano vinto sbaragliando la concorrenza, tuttavia, perché in oltre metà dei casi, il candidato socialista era l’unico in lizza e nelle rimanenti municipalità il contendente apparteneva a liste largamente minoritarie e poco rappresentative.

Astensione protagonista: una vittoria per l’opposizione?

Questa situazione, che ricordava vagamente (ma nemmeno troppo), i tempi in cui al governo c’era il partito unico, quello comunista di Enver Hoxha, e il muro di Berlino era ancora ben saldo al suo posto, si è venuta a creare, come noto, in conseguenza del boicottaggio promosso e portato fino a compimento dalle opposizioni. Lulzim Basha, leader del Partito Democratico (PD, compagine di centro destra) e Monika Kryemadhi, capo del Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI), nonché moglie del presidente della Repubblica Ilir Meta, entrambi all’opposizione, non hanno infatti anteposto alcun candidato: questo, all’apice di un periodo di proteste in atto da mesi in tutto il paese, non privo di manifestazioni violente e disordini di piazza.

Stanti così le cose, la vera cartina di tornasole per capire come effettivamente siano andate le elezioni, chi le abbia vinte e chi perse, è quella relativa al dato dell’affluenza: e ciò, anche, in ragione del fatto che Basha, alla vigilia del voto, aveva esortato i cittadini albanesi a disertare le urne restandosene a casa. E il dato dell’affluenza è, effettivamente, molto basso, poco superiore al 20%: una percentuale che appare in tutto il suo significato se raffrontata non solo al valore di affluenza media che in Albania è pari al 50% circa (elezioni nazionali), ma soprattutto, se comparato al risultato elettorale del Partito Socialista negli ultimi due decenni.

Dal 2001 il Partito Socialista è stabilmente oltre il 40% e alle ultime elezioni politiche, quelle del 2017, aveva addirittura sfiorato la maggioranza assoluta assicurandosi oltre il 48% dei consensi. Al netto del fatto che le elezioni politiche nazionali non sono quelle amministrative e che il boicottaggio delle opposizioni non ha certo incentivato la corsa ai seggi elettorali nemmeno dei fedelissimi di Rama, il dato politico resta, ed è, piuttosto impressionante. Ne è ben consapevole Rama stesso che, infatti, nelle dichiarazioni a caldo post-voto ha immediatamente dato disponibilità ad aprire un confronto con le opposizioni con toni concilianti che, in Albania, non si vedevano da un bel pezzo (“se l’opposizione vuole la pace, allora l’avrà”). E ne sono ben consapevoli i leader delle opposizioni: la Kryemadhi, in particolare, ha parlato di “tentativo fallito di istituire uno stato dittatoriale” dicendosi certa che “l’85% degli albanesi è nostro alleato”.

L’auto-esclusione: un favore alla maggioranza?

Vista da fuori, tuttavia, la presunta vittoria delle opposizioni appare in tutta evidenza come quella, epica, di Pirro. A riassumere perfettamente questo sentimento, per non dire questa certezza, è Jozefina Topalli, ex presidente del parlamento albanese ed esponente del Partito Democratico, che in un post pubblicato sulla propria pagina Facebook, definisce come “tradimento” dei propri sostenitori la linea dettata da Basha, annotando amaramente che “il PD non ha più alcun potere” e che, in pratica, “non esiste più”.

Difficile dare torto alla Topalli, difficile non vedere che il duo Basha- Kryemadhi si sia, nei fatti, infilato in un cul de sac: se l’atteggiamento “aventiniano” non dovesse cambiare, infatti, né il PD, né l’LSI potranno essere parte attiva nelle predisposizione di quelle riforme di cui l’Albania si dovrà dotare nei prossimi mesi, quella della giustizia in primis. Né, tanto meno, potranno giocare alcun ruolo nel definire la composizione di alcuni organi statali di fondamentale importanza, come la corte costituzionale, ad esempio, congelata da mesi per mancanza di giudici.

Un futuro di cooperazione?

L’auspicio, corroborato dall’approccio inusualmente accomodante di Rama, è che queste elezioni amministrative abbiano rappresentato il fondo del barile di una crisi politico-istituzionale senza precedenti nella storia recente albanese. Crisi ulteriormente fomentata dall’atteggiamento del presidente della Repubblica che, abbandonato il proprio ruolo super-partes, è diventato parte attiva della disputa politica, arrivando ad evocare presunte (e non comprovate) teorie cospirative per destabilizzare l’Albania: il suo tentativo, poi abortito, di posporre, se non addirittura annullare, le elezioni del 30 giugno, poteva apparire come un endorsment politico all’azione delle opposizioni se non, addirittura, giustificazionista dell’atteggiamento ostruzionistico e persino violento da loro promosso.

Se effettivamente si sia toccato il fondo potremmo dirlo solo nelle settimane e nei mesi prossimi, così come servirà tempo per capire se ci troviamo di fronte ad una possibile collaborazione tra maggioranza e opposizione o, magari, ad un governo di unità nazionale. Fa ben sperare, in questa direzione, il fatto che la giornata di domenica sia passata senza i temutissimi scontri, in un clima tutto sommato sereno, cosa nient’affatto scontata alla vigilia. La tenuta democratica sembra esserci stata, la crisi istituzionale scongiurata. Tira un sospiro di sollievo l’Europa (e non solo) che, ad ottobre, dovrà riaprire il fascicolo Albania e decidere, una buona volta, cosa fare.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Ex-Jugoslavia-i-politici-non-vogliono-la-verita-sulle-guerre-di-dissoluzione-195486


--- Citazione ---Ex Jugoslavia: i politici non vogliono la verità sulle guerre di dissoluzione
aree   Balcani ita

Srebrenica, 2013 (© umut rosa / Shutterstock.com)

Oggi si chiude a Poznań il vertice annuale del Processo di Berlino. Presenti anche i rappresentanti di molte organizzazioni della società civile, tra cui REKOM, che da anni si batte per istituire una commissione regionale sui crimini di guerra e sull'accertamento delle vittime dei conflitti della disgregazione jugoslava

05/07/2019 -  Radomir Kračković
(Pubblicato originariamente da Deutsche Welle  il 30 giugno 2019 tit. orig. "Političari ne žele istinu o ratu i zločinima devedesetih")

Il vertice annuale del Processo di Berlino, che si svolge a Poznań dal 3 al 5 luglio, è un’occasione per discutere della prospettiva europea dei paesi dei Balcani occidentali e della cooperazione economica. Al summit di Poznań partecipano anche i rappresentanti delle organizzazioni della società civile attive nei Balcani occidentali, che hanno l’opportunità di presentare le loro attività, tra cui spicca per importanza un’iniziativa che, pur essendo avviata undici anni fa, ancora fatica a concretizzarsi.

Si tratta dell’iniziativa REKOM, acronimo di Commissione regionale per l’accertamento dei fatti relativi ai crimini di guerra e ad altre gravi violazioni dei diritti umani commesse sul territorio dell’ex Jugoslavia nel periodo compreso tra il 1 gennaio 1991 e il 31 dicembre 2001.

Nel 2008 è stata creata la Coalizione per REKOM, che ad oggi raccoglie oltre 2000 organizzazioni non governative per la difesa dei diritti umani, attive nei paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, diverse associazioni degli ex internati dei campi di concentramento, degli sfollati e delle famiglie delle persone scomparse durante le guerre degli anni Novanta, nonché numerosi intellettuali di spicco.

La Coalizione si batte affinché venga istituita una commissione riconosciuta da tutti i paesi ex jugoslavi e incaricata di accertare i fatti relativi alle tragiche vicende degli anni Novanta, più precisamente di creare un elenco di tutte le vittime, sia civili che militari, delle guerre jugoslave; di appurare le circostanze della loro morte o scomparsa, e di creare un registro dei campi di concentramento in ex Jugoslavia.

L’iniziativa ha raccolto finora circa 600mila firme nei paesi ex jugoslavi, ma la commissione non è ancora stata istituita a causa della mancanza di volontà politica di alcuni paesi della regione. REKOM ha infatti ottenuto l’appoggio formale dei capi di stato di Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord, ma manca ancora l’appoggio di Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

Difficile aspettarsi una svolta al summit di Poznań
Circa un mese fa, una delle promotrici dell’iniziativa REKOM e nota attivista per i diritti umani Nataša Kandić ha invitato i leader dei paesi dell’ex Jugoslavia a sostenere l’istituzione di REKOM. Oggi, tuttavia, non è particolarmente ottimista al riguardo.

"Temo che a Poznań non sarà firmata la Dichiarazione sull’istituzione di REKOM, anche se ci aspettavamo che venisse firmata, considerando che la Commissione europea ha fortemente sostenuto l’iniziativa alla riunione dei ministri [degli Esteri] dei paesi della regione, tenutasi a Varsavia nell’aprile 2019. Nel frattempo, la Presidenza della Bosnia Erzegovina e la Croazia non hanno nominato i propri esperti giuridici nel Gruppo di lavoro per la finalizzazione della Bozza dello Statuto di REKOM, ragione per cui il Gruppo di lavoro non ha potuto proseguire nella propria attività", spiega Nataša Kandić.

Alla domanda perché alcuni leader dei paesi della regione sono restii ad appoggiare l’iniziativa REKOM, Vesna Teršelič, direttrice di “Documenta” (Centro per l’elaborazione del passato) di Zagabria, risponde che alcuni politici temono che, qualora decidessero di sostenere REKOM, potrebbero perdere il potere.

"Nelle nostre società polarizzate e traumatizzate, i politici temono di perdere consensi, soprattutto su questioni delicate, come quelle relative all’interpretazione della guerra, che da queste parti spesso vengono usate per creare miti e fomentare l’intolleranza. Per i leader politici rendere giustizia alle vittime non è una priorità. Nessuna sorpresa quindi se manca ancora la volontà politica di istituire REKOM", afferma Teršelič.

La direttrice di Documenta aggiunge inoltre che la Croazia, che all’epoca in cui Ivo Josipović era presidente della Repubblica ha fornito un forte sostegno all’iniziativa REKOM, oggi si rifiuta di sottoscrivere la Dichiarazione sull’istituzione di REKOM.

"Gli esponenti del governo croato partono dal presupposto che la Croazia sia in grado di stabilire, senza l’aiuto di nessuno, tutti i fatti relativi non solo alla guerra in Croazia, ma anche a quella in Bosnia Erzegovina. Inoltre, la Croazia e la Slovenia sono membri a pieno titolo dell’Unione europea e non devono più sforzarsi di dare di sé l’immagine migliore possibile", spiega Teršelič.

Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, ad ostacolare la creazione di REKOM sono le autorità della Republika Srpska. "Il membro serbo della Presidenza della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik ha implicitamente affermato che REKOM per loro è inaccettabile perché l’accertamento dell’identità delle vittime e delle circostanze della loro morte sarebbe basata sulle sentenze del Tribunale dell’Aja", afferma Nataša Kandić.

Tamara Milaš, del Centro per l’educazione civica (CGO) di Podogorica, concorda sul fatto che il confronto con il passato sia una questione che non si presta a facili consensi, sottolineando però che il Montenegro ormai da tempo ha assunto un atteggiamento positivo nei confronti dell’iniziativa REKOM.

"L’anno scorso il governo montenegrino ha adottato un rapporto in cui ha espresso il proprio sostegno all’iniziativa REKOM. Così il Montenegro è diventato il primo paese della regione a dare pieno sostegno politico a questa iniziativa", spiega Milaš, aggiungendo tuttavia che l’appoggio fornito a REKOM non ha comportato alcun cambiamento nell’atteggiamento del governo di Podgorica nei confronti dei crimini di guerra commessi in Montenegro. "Le autorità montenegrine si impegnano sistematicamente per far dimenticare i crimini di guerra accaduti sul territorio del Montenegro e quelli commessi da cittadini montenegrini", afferma Milaš.

Investire nel futuro
Le nostre interlocutrici concordano sul fatto che negli ultimi anni l’ascesa dei movimenti populisti e nazionalisti abbia contribuito a relegare in secondo piano la questione del confronto con il passato e a rafforzare la riluttanza ad assumersi le proprie responsabilità e a riconoscere le vittime di nazionalità diversa dalla propria.

Vesna Teršelič ritiene che REKOM possa contribuire a “porre simbolicamente fine alle guerre” jugoslave e a superare i traumi. "[REKOM] ridurrebbe la possibilità di negare i crimini e al posto dell’attuale clima di intolleranza creerebbe uno spazio per riflettere criticamente sulle politiche sbagliate e su come costruire una società sana", spiega Teršelič, aggiungendo che non solo le persone che hanno vissuto la guerra, ma anche le nuove generazioni hanno bisogno di sapere la verità.

"Senza piena verità non c’è vera riconciliazione. Per noi il vero confronto con il passato è fondamentale per affrontare il futuro", afferma Tamara Milaš.

Stando alle sue parole, i paesi ex jugoslavi potrebbero contribuire alla riconciliazione anche attraverso altri meccanismi, come i programmi di riparazione delle vittime. "Bisognerebbe creare un unico sistema di riparazione delle vittime a livello regionale. Ciò implicherebbe l’accertamento dei fatti relativi alle vittime e ai luoghi dei crimini, riparazioni adeguate, lo sviluppo della cultura della memoria attraverso la costruzione di memoriali e monumenti e la creazione di materiali didatici adeguati, ma anche le attività volte ad evitare che simili crimini si ripetano in futuro", spiega Milaš.

Nataša Kandić dice che alla società civile non resta che continuare ostinatamente a esercitare pressioni sui politici. "Tuttavia, senza l’aiuto dell’Unione europea difficilmente riusciremo a far sì che i politici si rendano conto delle loro responsabilità nei confronti del passato e del futuro. I nostri politici non capiscono che investire nella riconciliazione significa investire nel futuro", conclude Kandić.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-il-diritto-allo-stato-di-diritto-195519


--- Citazione ---Bosnia Erzegovina, il diritto allo stato di diritto
aree   Bosnia Erzegovina ita

Manifestazione per chiedere giustizia tenutasi lo scorso sabato a Sarajevo (foto di Alfredo Sasso)

Le morti di Dženan e David sono solo alcuni dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra

05/07/2019 -  Alfredo Sasso
"Mio fratello è un simbolo di lotta e resistenza, e voi siete la dimostrazione che non tutti in questo paese hanno una pietra al posto del cuore". Anche quando è rotta dall’emozione, la voce di Arijana Memić risuona forte nella piazza del Teatro nazionale di Sarajevo, di fronte a circa un migliaio di manifestanti, sotto il sole torrido di questo sabato di fine giugno. Arijana è la sorella di Dženan Memić, ragazzo di 22 anni morto a Sarajevo nel febbraio 2016 in circostanze ancora non chiarite dalla giustizia, e su cui proprio in questi giorni si sta riaprendo l’ennesima e contestata fase processuale.

La morte di Dženan è uno dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni: omicidi irrisolti, incidenti sospetti, abusi e omissioni degli organi giudiziari e di sicurezza. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra. In piazza, insieme al collettivo di Pravda za Dženana (“Giustizia per Dženan”), sono rappresentate tante cause: Edita Malkoć e Selma Agić, due studentesse universitarie sarajevesi uccise da un pirata della strada nel 2016; Jovan Arbutina, giovane di Banja Luka investito nel 2015; Harun Mujkić, undicenne di Zenica morto a scuola, nel 2014, con una sospetta frattura alla testa; e poi Ivona Bajo di Bijeljina, Nikola Djurović di Banja Luka e tanti altri, tutti giovanissimi.

Arrivato in massa con diversi pullman da Banja Luka, in questa piazza c’è anche il movimento fratello di Pravda za Dženana: è quello di Pravda za Davida (“Giustizia per David”), che chiede giustizia per il caso di David Dragičević, il 21enne ucciso a Banja Luka nel marzo 2018. Movente e colpevoli restano ignoti dopo una serie sofisticata di omissioni e insabbiamenti da parte delle autorità. Dopo un presidio non-stop durato nove mesi che l’ha trasformato in un attore centrale della vita pubblica bosniaca, dallo scorso dicembre Pravda za Davida è oggetto di una dura repressione da parte delle autorità della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia Erzegovina, di cui Banja Luka è capitale).

Le fotografie
 
Sabato 29 giugno centinaia di manifestanti si sono riuniti nella capitale bosniaca per esprimere sostegno ai genitori di David Dragičević e Dzenan Memić uccisi in circostanze ancora non chiare e per chiedere che venga rispettato lo stato di diritto. Foto di Alfredo Sasso

Il papà di David, Davor Dragičević, ha mandato un saluto in diretta video dall’Austria, dove risiede temporaneamente per sfuggire all’arresto (proprio a seguito delle proteste in cui ha chiesto verità per il figlio). Così gli ha risposto dalla piazza Muriz Memić, il papà di Dženan: "Il mio fratello Davor cerca la verità per suo figlio. Sia Davor che io ce lo meritiamo. Invito l’attuale presidente Milorad Dodik a venire oggi in piazza, perché veda quanta umanità c’è qui". Appena la piazza sente il nome di Dodik (già leader della Republika Srpska e considerato il mandante della repressione contro il movimento) partono bordate di fischi. Lo stesso succede quando si nomina Bakir Izetbegović, ex-presidente statale e leader dei nazionalisti bosgnacchi, insieme a Dodik visto come il volto della politica bosniaca dell’ultimo decennio, e quindi del malfunzionamento dello stato e della giustizia.

Tutte queste cause sono apparentemente lontane per geografia, moventi e sviluppi dei casi, ma hanno trovato un terreno comune, fondato sulla lotta contro l’impunità e sulla rivendicazione di un paese normale. Nessuna di queste cause è nata come “politica”, un’etichetta costantemente rifiutata con sdegno. Eppure tutti sollevano i problemi nevralgici dell’etnopoli bosniaca (e non solo, a guardare lo scenario europeo di oggi): lo stato di diritto, la minima credibilità degli organi di giustizia e sicurezza, il diritto all’incolumità individuale, persino la libertà d’espressione.

In piazza c’è Suzana Radanović, la madre di David Dragičević, diventata ormai un’icona del coraggio civile in Bosnia Erzegovina per avere sfidato i divieti a manifestare e i muri di gomma che circondano l’omicidio del figlio. Decine di persone, prevalentemente donne e anziane, fanno letteralmente la fila per salutarla e abbracciarla. "Oggi è stata una bella manifestazione - spiega a OBC Transeuropa - per me è importante che qui si possa cantare la canzone di David, o meglio, che la gente possa cantarla: io ancora non ci riesco, è troppo doloroso. Ma almeno abbiamo potuto scandire ‘Pravda za Davida’, alzare i pugni (il gesto-simbolo del movimento, ndA). Sono tutte cose che a Banja Luka non si possono più fare. Ci battiamo anche per la libertà di parola e, letteralmente, per la libertà di vivere".

Il caso Memić: tre anni senza verità
La lotta per la verità della famiglia Memić dura da quasi tre anni e mezzo. Nella notte dell’8 febbraio 2016, un’ambulanza soccorre Dženan e la fidanzata Alisa Mutap alla Velika Aleja, il lungo viale pedonale di Ilidža, sobborgo di Sarajevo. Dženan è riverso per terra privo di conoscenza, in condizioni serie, con un grave ematoma alla testa. Alisa invece è in stato confusionale ma con ferite più lievi. Ricoverato all’Ospedale Universitario di Sarajevo, Dženan muore il 15 febbraio, dopo sette giorni di coma. Da qui inizia una girandola di ipotesi ed errori giudiziari.

Secondo la perizia del medico che ha operato Dženan durante il coma, il ragazzo è stato senza dubbio oggetto di un’aggressione violenta. Nessuna ferita sarebbe compatibile con l’investimento di un’auto, che è però l’ipotesi su cui si concentreranno le indagini della procura del cantone di Sarajevo. Tre mesi dopo, nel maggio 2016, viene arrestato Ljubo Seferović, accusato di avere travolto i due ragazzi con il proprio furgone mentre guidava in stato di ebbrezza, per poi darsi alla fuga e cercare di manomettere le prove insieme al padre e alla moglie, anch’essi arrestati. Inizialmente Seferović ammette l’incidente colposo, ma in seguito ritratterà e si dichiarerà innocente. Nel primo processo davanti al Tribunale cantonale di Sarajevo, alcune tracce e reperti decisivi spariscono, altri diventano inservibili. Mancano i filmati delle videocamere sulla strada nei minuti decisivi, la prova dell’ebbrezza di Seferović, le tracce che confermino che il furgone coinvolto fosse effettivamente il suo. Emergono pesanti incoerenze tra le diverse perizie. La fidanzata, unica testimone diretta dei fatti, afferma di soffrire di amnesia sulla notte della tragedia.

Si forma così il collettivo Pravda za Dženana, guidato dal papà del ragazzo Muriz e dalla sorella Arijana. Iniziano le prime manifestazioni di protesta in città. Quella di sabato scorso è la diciottesima, affermano più volte dal microfono con un misto di orgoglio e stanchezza. La famiglia Memić sostiene con forza la tesi dell’omicidio. Quella del furgone, secondo loro, è una montatura creata dagli aggressori di Dženan, che avrebbero approfittato della vulnerabilità dei Seferović, una famiglia povera di origine rom, per incastrarli. Il movimento accusa gli organi giudiziari, in primis la procura del cantone di Sarajevo, di non fare il proprio lavoro, per insipienza o perché stanno intenzionalmente allontanando la verità.

Media e istituzioni locali seguono costantemente il caso, e circolano sospetti di ogni tipo, molti privi di fondamento: si mormora del coinvolgimento di familiari di politici, imprenditori o criminali nell’omicidio, della fidanzata Alisa e sul suo silenzio che starebbe coprendo i responsabili, delle ambizioni politiche della famiglia Memić (la sorella Arijana, sull’onda del caso, nel 2018 viene eletta nel parlamento cantonale). Si crede a tutto e a niente, con un sistema giudiziario altamente frammentato e inefficace, che segue la divisione amministrativa del paese (municipi, cantone, entità, stato) e permanentemente soggetto a pressioni di politici e gruppi di potere, a cooptazioni e scambi di favori. Anche il Parlamento del cantone di Sarajevo prende posizione sulle lacune nell’operato degli organi di giustizia e sicurezza: raccomanda l’apertura di inchieste interne che, tuttavia, non vedranno mai la luce.

Nel luglio 2018 avviene un nuovo colpo di scena. La sentenza del tribunale cantonale assolve i Seferović per assenza di prove e rigetta la tesi dell’incidente. La famiglia Memić ora vuole l’acquisizione di nuove prove e soprattutto chiede che sia il Tribunale statale, e non più il cantonale, a prendere il caso in carico. Muriz Memić denuncia più di 40 persone tra procuratori, giudici e membri delle forze dell’ordine che avrebbero commesso gravi irregolarità nel caso. Invece, nel giugno 2019 il Tribunale supremo della Federazione di BiH (il livello intermedio tra stato e cantone) ribalta nuovamente il quadro, ordinando la ripetizione del processo di primo grado. La tesi processuale torna a basarsi sull’incidente anziché sull’omicidio. Tutto daccapo. La reazione del movimento è durissima: Muriz Memić e il suo avvocato Ifet Feraget parlano di “crimine organizzato dentro gli organi di giustizia”.

Giustizia latitante
Proprio a inizio giugno 2019 scoppia lo scandalo della corruzione nel Consiglio della magistratura statale. Il presidente del maggiore organo giudiziario del paese è filmato mentre si impegna a chiudere un procedimento penale dietro pagamento di denaro. È la conferma di quello che i movimenti per la giustizia dicono da anni. Ma i partiti politici rispondono con indifferenza, assorbiti dalle negoziazioni per formare il governo statale che durano ormai da nove mesi. Buona parte dell’opinione pubblica appare inerte e rassegnata.

Non è un caso che le posizioni tradizionalmente felpate della comunità internazionale si fanno ora più incisive, come per dare una scossa. "Tre mesi fa ho incontrato i genitori di David e Dženan. Ieri loro e molti altri genitori e cittadini frustrati hanno manifestato pacificamente a Sarajevo contro l’assenza di giustizia in Bosnia Erzegovina. I lunghi ritardi nella gestione giuridica di questi ed altri casi sono inaccettabili per un paese che cerca l’accesso alla UE", è il duro commento alla manifestazione del Commissario UE all’allargamento Johannes Hahn in un tweet  .

Messi alle strette nel proprio paese, i movimenti cercano agibilità in campo internazionale. Suzana Radanović spiega a OBC Transeuropa: "A Banja Luka il nostro movimento ora non può esistere, ma noi abbiamo rifondato l’associazione a Vienna, e il prossimo 12 settembre organizzeremo un convegno a cui inviteremo politici, giornalisti e diplomatici internazionali. Vogliamo informare l’Europa di ciò che sta avvenendo". Nel frattempo, le tante battaglie per la verità e lo stato di diritto continuano, per non permettere che ragazzi giovanissimi che si sono trovati in posti sbagliati e in momenti sbagliati debbano perdere la vita, come è successo troppe volte in questi anni. O perché non decidano di lasciare il paese, come avviene in decine di casi ogni giorno.
--- Termina citazione ---

Frank:

--- Citazione da: Vicus - Giugno 28, 2019, 23:41:56 pm ---Poteva mancare il pride anche nell'Europa dell'Est?

--- Termina citazione ---

Ovviamente no.
E ancora non è niente.
Tempo al tempo.
...

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