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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-rotta-contraria-195375
--- Citazione ---Albania: rotta contraria
Chi sono i ragazzi albanesi dei call center? E cosa pensano dei colleghi italiani – che hanno intrapreso la “rotta contraria”, dall’Italia all’Albania, in cerca di lavoro? E qual è il mondo – e l’idea di mondo – che si muove grazie a loro ma soprattutto dietro di loro? Un'intervista a Stefano Grossi, regista del documentario "Rotta contraria"
15/07/2019 - Valentina Vivona
Presentato in anteprima al festival Bif&st di Bari lo scorso 28 aprile, il documentario “Rotta contraria” di Stefano Grossi si annuncia come racconto dell’emigrazione dall’Italia di quei ragazzi e quelle ragazze impiegati nei call center di Tirana.
Il boom del telemarketing in Albania è stato più volte trattato da OBCT negli ultimi anni. Gli autori che si occupano per noi di questo paese hanno cercato di contrastare la retorica dei media italiani riguardo al presunto ‘miracolo economico albanese’. Tra questi anche l'intellettuale Fatos Lubonja che, in un articolo del 2015, definiva ‘schizofrenico’ il tentativo di "vendere all’estero questa realtà come una sorta di paradiso, per fare poi di questi articoli e reportage la superficie su cui invitare i cittadini a specchiarsi".
La locandina di "Rotta contraria"
Lubonja è una delle principali fonti e voci del documentario di Stefano Grossi, al punto che una sua citazione appare anche nella locandina: “Se volete vedervi allo specchio, guardate l’Albania”. La metafora dello specchio aiuta a decifrare non soltanto la scelta del regista di riprendere gli intervistati e le intervistate attraverso un vetro, ma il senso dell’opera. Più che un racconto, “Rotta contraria” è infatti un saggio sulle conseguenze delle politiche neoliberiste, di cui l'Albania rappresenta un caso-studio o, per l'appunto, un riflesso. I call center sono, per stessa ammissione del regista, solo un pretesto per parlare di un modello di sviluppo fuori controllo.
Il documentario si può dividere in tre blocchi: la questione call center viene esaurita nei primi venticinque minuti dalle diverse esperienze degli otto operatori intervistati, equamente divisi tra donne e uomini, albanesi e italiani. L’ammonimento di Agron Shehaj, proprietario della catena di telemarketing IDS e deputato del Partito Democratico, sul rischio di nuova diaspora della gioventù albanese nel caso in cui i call center chiudano, segna l’inizio del secondo blocco. Le immagini scivolano all’indietro verso la fine del regime di Hoxha, l’emigrazione albanese dei primi anni Novanta, la transizione democratica che culmina nella terza e ultima parte con il racconto della discarica di Sharre alle porte di Tirana. Un viaggio mentale scandito, dall’inizio alla fine, dai guaiti dei cani rinchiusi nelle celle dell’International Pet Hospital della capitale albanese. Il regista Stefano Grossi ha raccontato le sue scelte stilistiche al Cinema Astra di Trento lo scorso 18 giugno.
Stefano, cosa rappresentano i cani nel tuo documentario?
Ho scoperto l’International Pet Hospital di Tirana quasi per caso, rimanendo colpito dalla contraddizione in cui vivono gli animali ospitati. Mi spiego: in Albania non esistono canili, per cui i randagi rischiano di essere uccisi se non vengono ricoverati. In questo centro ricevono ogni tipo di cura, le loro celle sono spaziose, tuttavia ne sono allo stesso tempo prigionieri. Vivono la stessa contraddizione degli operatori dei call center, catturati dietro i vetri dei call center da condizioni contrattuali favorevoli, o meglio, più favorevoli rispetto a quello che offre, in media, il mercato in Albania. In questo senso i cani rappresentano la sintesi dei vari livelli del film. I loro guaiti sono il lamento di una vita che non hanno deciso.
Come nasce il film? E quali sono state le sue fasi?
Per me i documentari sono un’opera di saggistica. Anche nel mio precedente documentario “Nemico dell’Islam” sul regista tunisino Nouri Bouzid, ho usato le vicende biografiche del protagonista per parlare di religione e altri temi più complessi. In un periodo storico dove si parla tanto di migrazioni, io volevo offrire una prospettiva sul tema ‘dalla sponda opposta’. I numeri della migrazione italiana in Albania sono piccoli, ma dicono tanto del nostro paese. Mi interessava questa contro-narrazione per andare a sviscerare cosa è davvero la migrazione: una lacerazione psichica, prima che fisica. In definitiva, si emigra solo se si deve. C’è poi una dimensione letteraria che deve tanto al mio amico Fatos Lubonja, che conosco dal 2009 dopo averlo voluto tra i protagonisti del mio “Diari del Novecento”. Ho letto tantissimo durante la produzione di questo film.
Come sei arrivato alla discarica di Sharre? Per caso, come per i cani, o per scelta?
No, sapevo dall’inizio che avrei parlato della discarica e sapevo dall’inizio cosa avrebbe rappresentato nel film. A me non interessava raccontare la vita degli operatori di call center, italiani o albanesi che siano. Le loro testimonianze sono solo un contrappunto musicale, una metafora del nostro modello di sviluppo che riconosce solo la funzione merceologica della vita. L’Albania è il laboratorio a cielo aperto di tutte le contraddizioni del nostro modello, la discarica il suo emblema, il punto di arrivo del ragionamento. Luigi Pintor, fondatore de “Il Manifesto”, in un’intervista mi aveva parlato del “mondo come mattatoio sopra un immondezzaio”. Così l’ho voluto riproporre, come grido di allarme. Sapevo anche che i volti degli attivisti di Akip intervistati sarebbero stati gli unici nitidi perché rappresentano la realtà. La storia di questo movimento ambientalista albanese meriterebbe un documentario a parte.
Cosa hanno pensato gli intervistati della tua scelta di sfocare i loro visi?
Nessuno di loro ha ancora visto il film, ma presto ci sarà una proiezione a Tirana. Per me sarà molto dura tornarci, la capitale albanese mi sembra davvero esprimere la follia del mondo in cui viviamo. La maggior parte delle riprese sono notturne perché i contrasti di questa città-flipper sono ancora più forti.
--- Termina citazione ---
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https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-stress-da-call-center-180680
--- Citazione ---Albania: stress da call-center
I call-center che offrono i propri servizi ad aziende italiane impiegano migliaia di giovani albanesi, ma le condizioni di lavoro sono pessime. A lungo andare lo stress danneggia la salute fisica e psicologica di chi ci lavora
16/06/2017 - Nkiruka Omeronye, Klevis Paloka, Anxhela Ruci Tirana
(Articolo originariamente pubblicato dal portale investigativo albanese PSE il 10 maggio 2017)
Migena L. ha 22 anni e uno dei momenti più duri delle sue giornate è quando, finito di lavorare, riceve una telefonata da sua madre. Esita a risponderle. Migena si è da poco laureata in giornalismo e da tre anni e mezzo lavora in un call-center di Tirana, da dove ogni giorno, per otto ore filate, contatta persone che abitano a 400 chilometri di distanza, dall'altra parte dell'Adriatico. Il suo lavoro è quello di “convincerli” a registrarsi per ricevere servizi e accettare offerte proposte da diverse compagnie italiane.
Oltre ad averla portata a sviluppare una generale riluttanza a parlare al telefono, come risultato delle molte ore in cui indossa le cuffie, Migena racconta di aver perso la sua serenità, e di ritrovarsi spesso a provare un senso di tensione e disagio nella vita di tutti i giorni. “A fine giornata mi sento davvero esausta e in ansia”, ci dice. “Se una persona mi ripete due volte la stessa cosa mi irrito e mi sento infastidita. Sono sempre stata una persona calma e rilassata ma ora ho perso la mia serenità”.
Sono circa 25.000 i giovani albanesi che, come Migena, lavorano per aziende che offrono servizi di tele-marketing rivolti ai consumatori italiani. L'età media delle persone occupate in questo tipo di servizi si aggira attorno ai 23 anni, e quasi il 90% sono studenti universitari o laureati.
In un paese come l'Albania, in cui il tasso di disoccupazione dei giovani nella fascia d'età tra i 19 e i 29 anni era del 33,2% nel 2015, i call-center italiani sono considerati un'industria importante che contribuisce a migliorare le possibilità di lavoro per i giovani. Per questa ragione, le istituzioni albanesi hanno seguito con preoccupata attenzione le recenti modifiche alla legislazione italiana, volte a rendere più difficile la delocalizzazione dei servizi di tele-marketing al di fuori dell'Italia e dell'Unione Europea.
Sembra tuttavia molto limitato l'interesse che le stesse istituzioni dimostrano verso le condizioni di lavoro dei giovani albanesi impiegati nei call-center. In particolare, è praticamente nulla l'attenzione rivolta agli effetti sulla salute fisica e psicologica dei dipendenti provocati dalle molte ore trascorse a dialogare, ascoltare e stare davanti a un computer.
Intervistando i giovani centralinisti, emerge che le aziende non offrono loro alcuna assistenza psicologica o servizi di counseling, né tanto meno i controlli medici a scadenza periodica indispensabili per monitorare il loro udito, la vista e le corde vocali o qualsiasi problema che potrebbe manifestarsi alla spina dorsale a seguito delle lunghe ore passate seduti su una sedia. La mancata erogazione di questo tipo di assistenza viene candidamente ammessa dagli stessi dirigenti e dai rappresentanti delle aziende che operano nel settore dei call-center in Albania.
L'Istituto nazionale di statistica, INSTAT, riporta che i call-center attivi in Albania nel 2015 erano 804 – un incremento di dieci volte rispetto ai numeri registrati nel 2000, quando solo 76 imprese offrivano questo tipo di servizio nel paese.
Quando il bisogno di sopravvivere prevale sui rischi per la salute
Denada M. ha 21 anni e riassume in due parole i molti anni spesi come operatrice di call-center: “stress e soldi”. Studentessa di psicologia, Denada ha lavorato per tre diverse compagnie di tele-marketing a Tirana e Durazzo. Per illustrare la forte pressione in questi ambienti lavorativi, racconta di ritmi di lavoro che prevedono una sola pausa di 15 minuti nell'arco di un intero turno di lavoro, che dura otto lunghe ore. La pausa, dopo le prime quattro ore, è l'unico momento per sgranchirsi: rimanere seduti così a lungo può essere doloroso e stressante, e può causare problemi alla spina dorsale. “Il momento più bello della mia giornata di lavoro sono quei 15 minuti di pausa”, racconta. Tutti i call-center del paese sono operativi sei giorni alla settimana.
Xhuliana Jakimi dice di aver sofferto seri problemi di vista nel periodo in cui lavorava per un call-center. Klaudia, 23 anni, ha lavorato nel settore per tre anni, sviluppando problemi all'udito a causa dell'alto volume delle conversazioni con i consumatori italiani e delle cuffie che era costretta a indossare costantemente. Fjoralb Hodaj, uno studente che ha lavorato per quattro mesi in un call-center, riporta di aver sofferto di seri disturbi del sonno a causa dello stress accumulato durante il lavoro. “Non riuscivo assolutamente a dormire, era semplicemente impossibile continuare a lavorare in quel posto”, dice Fjoralb.
Nonostante queste difficoltà, i giovani continuano a lavorare nei call-center perché per alcuni di loro si tratta dell'unica maniera per poter continuare gli studi. Anche i neolaureati guardano ai call-center come a una prospettiva che permette loro di avere un'entrata economica sufficiente a garantirsi uno standard di vita base, in un contesto dove integrarsi nel mondo del lavoro è un'impresa tutt'altro che facile.
Un'ora di lavoro in un call-center viene pagata tra i 180 e 250 lek (1,30-1,80 euro circa), ma il compenso può essere più alto per casi o servizi particolari. Un normale giorno di lavoro prevede turni di quattro o otto ore, però in alcuni casi i giovani che hanno bisogno di qualche soldo in più scelgono di fare turni più lunghi. Gli stipendi pagati da queste compagnie sono ben al di sopra del minimo previsto in Albania, che è fissato a 22.000 lek (165 euro) al mese. Denada ci dice che al call center guadagna abbastanza per garantirsi una vita ordinaria, mentre se avesse dovuto lavorare come psicologa lo stipendio non sarebbe bastato nemmeno per coprire la spesa e il cibo.
D'altra parte, le procedure estremamente semplificate per l'assunzione nei call-center hanno spinto molti giovani a riversarsi in queste compagnie e a guadagnarsi da vivere vendendo servizi al telefono. Emona Alla, capo delle risorse umane per il Tregi Marketing Group – gruppo che impiega all'incirca mille giovani – dice a PSE che tutto ciò che serve per iniziare a lavorare per la compagnia è una conoscenza discreta dell'italiano e la volontà di lavorare dalle quattro alle sei ore al giorno.
La preoccupazione di medici e psicologi
Jetmira Fejzaj, otorinolaringoiatra presso l'ospedale universitario Madre Teresa, ci dice che i problemi alle corde vocali e all'udito sono alcune delle principali conseguenze legate al lavoro prolungato nei call-center, e che controlli medici frequenti sono necessari per prevenire questi rischi. “Parlare senza sosta può causare problemi alle corde vocali, mentre un uso prolungato delle cuffie può danneggiare il nervo uditivo”, dice Fejzaj. “È consigliabile che i lavoratori dei call-center si sottopongano a controlli medici ogni sei mesi, così da tenere sotto controllo lo stato del loro apparato uditivo”.
Uno dei problemi più seri provocati dal lavorare per queste compagnie è l'alto livello di stress a cui sono soggetti i lavoratori, che devono passare molto tempo di fronte a un computer senza potersi muovere, continuamente presi a parlare e ascoltare. La psicologa Fleura Shkëmbi, professoressa all'Università europea di Tirana, ci dice che lavorare per lunghi periodi di tempo in un call-center può causare insonnia, stress e stanchezza. Se si manifestano questi sintomi “bisognerebbe lasciare il lavoro, sarebbe il momento giusto per i giovani per iniziare ad avere più attenzione per se stessi e la propria salute”, suggerisce.
Secondo Shkëmbi, il problema maggiore è che le compagnie non offrono servizi di counseling o terapia psicologica, lasciando quindi peggiorare una situazione già di per sé difficile. Le sessioni di terapia normalmente costano 1.500 lek (11 euro) all'ora, e i dipendenti dei call-center non possono permettersi di pagarle di tasca propria. “Le compagnie non pagano per la terapia”, dice Shkëmbi, “di conseguenza i giovani si ritrovano in un circolo vizioso. Lavorano per guadagnare denaro, ma poi lo devono spendere per una terapia da uno psicologo: alla fine quanto gli rimane?”. Emona Alla ammette che la compagnia per cui lavora ha pensato di offrire un servizio di counseling ai propri dipendenti, ma non ha ancora preso una decisione e non è detto che pagherà le sessione di terapia.
Secondo Shkëmbi, lo stress deriva anche dalla mancanza di prospettive di carriera all'interno dei call-center. “A un certo momento i giovani si rendono conto di ritrovarsi bloccati in questo specifico frangente della loro vita”, dice la psicologa. “Capiscono che tutto quello che hanno fatto fino a ora non è altro che cercare di vendere offerte o promozioni per telefono ad altre persone”.
La mancanza di attenzione verso i possibili problemi fisici e psicologici degli impiegati nei call-center è un problema serio, che potrebbe portare i giovani a pensarci due volte prima di iniziare a lavorare per queste compagnie.
--- Termina citazione ---
Vicus:
Già perché ora non si delocalizza più il lavoro, ma i lavoratori che vengono deportati trasferiti in Albania, Portogallo, Romania. E mica per sempre, l'anno dopo se ne vanno in altri Paesi, cambiano lavoro e via da capo (v. caso dell'utente Artemisia). Poi dicono che non ci sono più famiglie.
La globalizzazione mercifica gli esseri umani e crea un marasma sociale ingestibile, un frullato che alla lunga non fa neppure bene agli affari.
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-il-muro-del-suono-189069
--- Citazione ---Romania: il muro del suono
Più di 23.000 rumeni soffrono di deficit all'udito. E sono per questo sottoposti a molteplici discriminazioni. Un reportage
19/07/2018 - Delia Marinescu
(Pubblicato originariamente da Digi24 , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)
All'età in cui la maggior parte dei neonati parlottano e reagiscono in qualche modo al mondo degli adulti loro non lo fanno. “Picchiettavo su di una stufa, ma lui non reagiva”, ricorda Bogdana Stîngaciu, la mamma di Brad. “Mi sono resa conto che era sordo, e quel giorno è stato molto doloroso”. Più tardi è arrivata anche la diagnosi: “Sordità bilaterale profonda”, detto in altre parole mancanza parziale o totale di udito, che colpisce anche la voce. Questi bambini non hanno quindi mai avuto la possibilità di ascoltare le ninne nanne, le storie lette dai loro genitori o la voce dei personaggi dei cartoni animati.
In Romania più di 23.000 persone soffrono di deficit dell'udito. Vivono in universi che chi ha un buon udito non conosce. Delia Păştin è un'insegnante specializzata per bambini con deficit uditivi. “Li si chiama sordo-muti ma è una denominazione impropria perché sono sordi e non muti. Con molto lavoro riescono a parlare”. In scuole specializzate, con il sostegno di logopedisti ed insegnanti, riescono effettivamente ad imparare a parlare.
Al Liceo tecnologico numero 3 di Bucarest sono iscritti 127 studenti con problemi all'udito. Cristi Zota ha 13 anni e i suoi genitori non sono privi d'udito. Una differenza che può essere determinante. “I bambini che provengono da famiglie che non hanno problemi d'udito vengono solitamente mandati ad una scuola normale per vedere se riescono a cavarsela” spiega Delia Păştin. “Nel caso di Cristi non ha funzionato e quindi è poi arrivato da noi. Quando hanno contatti con chi è dotato d'udito tendono ad isolarsi perché non capiscono e non riescono a farsi capire. Alcuni si rifiutano addirittura di uscire a giocare con gli altri bambini”.
Lo stato poco presente
Lo stato non ha attivo alcun programma per insegnare ai genitori o ad altri membri della famiglia la lingua dei segni. Questi ultimi allora si inventano, per comunicare, dei propri segni ma quando i bambini arrivano nelle scuole specializzate ed imparano la lingua dei segni ufficiale un nuovo muro sorge tra figlio o figlia e genitori.
Anche nelle stesse scuole specializzate la situazione non è ideale perché alcuni insegnanti insegnano in lingua parlata non accompagnandola con il linguaggio dei segni. “Mi trovo in difficoltà quando un insegnante mi domanda qualcosa e non lo fa scandendo le parole bene e ad alta voce”, racconta la giovane Laura Sotir. “Non capisco niente quando si parla a bassa voce ma se si apre bene al bocca e si parla forte allora capisco”. Per compensare Laura legge il movimento delle labbra, ma la scuola rimane difficile.
Per coloro le cui famiglie non abitano nella capitale e i cui genitori non possono accompagnarli ogni giorno a scuola vi è il collegio. Vi restano l'intera settimana. Il fine settimana ritornano a casa. Per fare il viaggio Laura e Cristi utilizzano il “treno personale”. Si chiama così, in Romania, il treno meno caro e più lento del paese. Essendo non-udenti i trasporti per loro sono gratuiti. Ma i loro genitori spendono circa 300 lei (67 euro) ogni mese per accompagnarli perché sono troppo giovani per viaggiare da soli. Altro dettaglio logistico ed ostacolo: i loro genitori devono avere un lavoro flessibile che permetta loro di accompagnare i figli a Bucarest il lunedì mattina e ritornare a prenderli il venerdì pomeriggio.
Nicoleta, la madre di Laura, è anche lei non-udente. Ne soffre dall'infanzia, lo testimonia la sorella Mihaela. “E' stata dura perché la maggior parte della gente non la capiva e la prendeva in giro”, racconta. Mihaela aiuta Nicoleta a far fronte a situazioni che non sarebbe in grado di affrontare da sola. “Ero con lei durante il parto in cui ha dato alla luce Laura. Medici ed infermieri mi dicevano cosa doveva fare e io glielo comunicavo e tutto è andato bene. Vado con lei ovunque io possa, dai dottori, all'ospedale, presso tutte le istituzioni”.
136 interpreti della lingua dei segni in tutta la Romania
Quando non c'è Mihaela e l'unica interprete della lingua dei segni di Ploieşti è occupata, Nicoleta e suo marito, anch'egli non-udente, si fanno a vicenda coraggio per sbrigare le loro questioni amministrative. “Il più grande problema di discriminazione riguarda l'interazione con le istituzioni”, spiega Daniel Sotir, marito di Nicoleta. “Veniamo la maggior parte delle volte respinti. Ormai sono abituato, ma in cuor mio, ogni volta, mi sento soffocare”.
La famiglia Sotir vive del salario di Nicoleta che lavora in una fabbrica di tessile e degli indennizzi riconosciuti allo stato ai non-udenti: circa 700 lei (150 euro) per Nicoleta e Daniel. Quando Laura è andata all'asilo i suoi genitori si sono resi conto che l'apparecchio acustico che le dovevano comperare costava 7000 lei (1500 euro). La Cassa nazionale di assicurazione sanitaria (CNAS) se ne prendeva in carico solo 1800. “Ci ha aiutati mia sorella, degli amici, il mio padrino...”, racconta Nicoleta “ma abbiamo dovuto smettere con le ore con la logopedista”.
Claudia Iordache è una psicologa e interprete specializzata nella lingua dei segni. Ha imparato a comunicare nella lingua dei segni fin da piccola dato che entrambi i suoi genitori sono non-udenti. Di solito è a lei che si rivolgono i principali canali televisivi nazionali quando hanno bisogno di una traduzione simultanea nella lingua dei segni.
Per dei genitori non-udenti non sentire i propri figli piangere, segnale che indica che hanno fame o che qualcosa non va, è sicuramente una prova molto dura. “La notte i miei genitori si addormentavano e non mi sentivano piangere e allora mia zia sbatteva sul muro. A volte veniva a suonare all'ingresso e avevamo un sistema speciale: suonando si accendevano le luci della casa”.
A 19 anni Claudia è partita per Bucarest per studiare psicologia. E' stata dura lasciare i suoi genitori a Ploieşti. “Mi ero abituata a stare con loro tutto il giorno per aiutarli, per essere le loro orecchie e a volte i loro occhi, perché i sensi sono particolarmente connessi. Quando sono partita ho sentito una sorta di rottura, come se li avessi traditi. I figli di non udenti sanno che non si possono allontanare troppo dai propri genitori”.
Trovare lavoro, missione impossibile
Trovare lavoro, ecco uno dei problemi più rilevanti per i non-udenti. Anche se nelle scuole specializzate apprendono a fare le parrucchiere, la manicure e pedicure, ad essere cuochi, a lavorare nel settore tessile sono in realtà in pochi i datori di lavoro a dar loro una possibilità. Carolina Verko lavora presso l'associazione nazionale dei non-udenti. “Ho subito enormi discriminazioni. Ho mandato il cv in molti luoghi ma quando poi mi recavo al colloquio e si rendevano conto che ero sorda mi dicevano che erano dispiaciuti ma che non mi potevano assumere”.
Vi è un'eccezione in Romania: un'azienda di Ploieşti, specializzata in tessile per automobili. Ha recentemente assunto 18 persone non-udenti. Costin Trâmbiţaşu è il suo direttore: “Il modo di comunicare con i non-udenti, anche se non avviene attraverso i suoni, è molto umano e arricchente. Ho assistito agli sforzi di tutto il gruppo di lavoro per avvicinarsi a loro e alla fine capirsi, è una lezione fantastica”. “Sono persone molto coscienziose e serie”, conferma la collega Iulia Negulescu.
Dopo aver identificato i bisogni dei nuovi dipendenti la direzione ha apportato numerose modifiche all'interno dello stabilimento. Per esempio, un segnale luminoso accompagna l'allarme anti-incendio. I non-udenti portano inoltre delle magliette gialle affinché gli altri colleghi si adattino al loro handicap.
Andreea Stîngaciu ha da poco compiuto 20 anni. E' divenuta sorda a 4 anni a seguito di una successione di otiti e ad una predisposizione genetica propizia alla sordità. Al suo compleanno metà degli amici presenti erano non-udenti, la eco delle emozioni passava attraverso il roteare a destra e sinistra nell'aria delle mani, che rappresenta l'applaudire nella lingua dei segni.
Malgrado il suo deficit all'udito Andreea ha sempre voluto studiare presso scuole “normali”, dove il livello di insegnamento è più alto. Il grado del suo handicap glielo permetteva. Ora studia all'università. “Studio diritto perché voglio battermi per i diritti delle persone non-udenti. Perché so cosa significa, in questo mondo, essere portatori di handicap e voglio fare tutto il possibile per rendere questo mondo più accogliente”.
Al posto di ricevere un po' di aiuto dalle istituzioni e dalle persone che hanno attorno i non-udenti sono sempre costretti ad adattarsi. Devono leggere il labiale se qualcuno parla troppo veloce e non abbastanza forte, devono subire la derisione delle persone che non li comprendono. Ciononostante non chiedono la luna: solo di avere accesso all'educazione e al lavoro, a un interprete quando ne hanno bisogno e che si smetta di guardarli con sospetto e mancanza di fiducia. Vogliono un po' di rispetto, che li si accetti, che si dia loro una possibilità.
--- Termina citazione ---
Frank:
--- Citazione da: Vicus - Luglio 16, 2019, 00:36:56 am ---Già perché ora non si delocalizza più il lavoro, ma i lavoratori che vengono deportati trasferiti in Albania, Portogallo, Romania. E mica per sempre, l'anno dopo se ne vanno in altri Paesi, cambiano lavoro e via da capo (v. caso dell'utente Artemisia). Poi dicono che non ci sono più famiglie.
La globalizzazione mercifica gli esseri umani e crea un marasma sociale ingestibile, un frullato che alla lunga non fa neppure bene agli affari.
--- Termina citazione ---
Premesso che per me è roba vecchia, quando (ri)leggo roba del genere, mi girano i coglioni a mille...
--- Citazione ---Un'ora di lavoro in un call-center viene pagata tra i 180 e 250 lek (1,30-1,80 euro circa)
--- Termina citazione ---
Pazzesco.
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99012
--- Citazione ---CULTURA: Sette motivi per vedere “Novine”, la serie croata su giornali e politica
redazione 1 giorno fa
di Biljana Prijić
La serie imperdibile dell’anno non è né americana né inglese. E non è nemmeno italiana. L’anno è ormai a metà, ma voi dedicatevi a guardare Novine e non ve ne pentirete. La trovate su Netflix con il titolo internazionale The Paper, perché “novine” significa giornale quotidiano, e delle vicende di un giornale tratta, con una qualità che forse non ti aspetteresti da una produzione tutta croata. Chi scrive l’ha iniziata a vedere per motivi biografici, essendo nata in Dalmazia che della Croazia è la regione costiera più bella, e per noia, avendo una volta oziosamente digitato “serbocroatian” nella barra di ricerca di Netflix, poi dice che divanarsi non serve a nulla… Ma voi potete vederla anche senza avere un cognome in -ić perché le cosebelle sono universali. Ecco 7 buonissimi motivi per non perderla.
Europea, ma esotica
La croazia è un vicino lontano, di cui sappiamo pochissimo perché i media se ne disinteressano, e che visitare una settimana d’estate non basta. Guardando Novine la si avverte esattamente così, vicina come tanti altri paesi dell’UE (dal 2014) e remota come può esserlo un luogo in cui “prima della guerra” vuol dire meno di trenta anni fa.
Dark, molto dark, e cattivi cattivissimi
Novine racconta la vita travagliata di una redazione di giornalisti bravi e dediti, alle prese con lo strapotere di politici, poliziotti, giudici e uomini e donne d’affari dal passato sempre inevitabilmente opaco e privi di ogni scrupolo morale. Il più pulito ha la rogna, e House of cards pare un collegio di educande al confronto.
Tutti i mali del sovranismo, spiegati bene
Soprattutto nella seconda stagione (uscita su Netflix a inizio di quest’anno) la connessione tra deriva morale e nazionalismo cieco è palese e raccontata attraverso le azioni, i gesti e le parole di personaggi eterogenei tra loro, di parti politiche avverse e di estrazioni tra le più varie. Non si scende mai nella retorica del “tutto un magna magna”, però: le contraddizioni sono mostrate in modo piano e crudo, con una sensazione di inevitabilità che mette angoscia ma tiene pure incollati allo schermo.
Fiume fotogenica
Novine non è girato né ambientato nella scontata capitale Zagabria, ma in una città costiera e portuale che fu a lungo italiana. Rijeka d’inverno è una scenografia livida perfetta, ripresa da ogni angolazione anche con droni parsimoniosi e benevoli. Ci sono le calli del centro, i portoni socialisti di periferia, le opulente stanze del potere, le ville di design in collina, i bar dall’aria densa.
Croatian way of life, sesso fumo e alcool.
Non siamo più abituati (per fortuna) a vedere fumare ovunque, dal bar al ristorante alla casa di qualcun altro. In Novine tutti fumano e bevono (whisky, soprattutto) tantissimo, in continuazione e con voluttà disperata. Può essere utile per ricordarci che tutto sommato stiamo meglio ora che si fuma solo all’aperto, ma anche per rivedere dei gesti che da decenni abbiamo associato ai film su crimini e complotti, con gente che fuma a prescindere, ovunque, e se ne frega. Persino per i non fumatori, liberatorio.
Il serbocroato in tante sfumature, imprecazioni comprese
Le serie (e internet) hanno compiuto il miracolo che tutte le VHS di English movie collection non potevano sperare di raggiungere. È molto bello godersi le voci originali degli attori e aiutarsi con i sottotitoli se lo slang di Boston (o di LA, o di Londra) non sono alla nostra portata. È altrettanto bello però godersi lingue di cui non capiamo quasi nulla ma che sono intimamente legate all’ambientazione che le caratterizza. Pur trattando temi universali in cui vi riconoscerete di certo, Novine è balcanica fino al midollo, e i personaggi devono parlare una lingua slava. Godetevi Novine in lingua, assaporate gli accenti (una delle giornaliste è serba e non lo nasconde), non arrossite per le parolacce e bestemmie a ripetizione, fanno parte del gioco.
La qualità sta dove si sa esprimerla
Attori bravi, fotografia curata e chirurgica, regia sapiente del folletto pluripremiato del cinema croato Dalibor Matanić, quello di Sole alto. La realizzazione della serie è stata all’altezza delle ambizioni della produzione, e dei migliori prodotti internazionali in circolazione.
Novine parla di noi e a noi senza pretese universalistiche o pipponi morali. Lo fa perché chi meglio di un vicino lontano può aiutarci a fare quel passetto indietro per guardarsi un po’ da fuori, che è sempre tanto utile quanto difficile? Ci pare che il vantaggio valga lo sforzo di saggiare la prima puntata.
--- Termina citazione ---
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