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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99087
--- Citazione ---ROMANIA: Un secolo di disastri in Moldavia
Francesco Magno 1 giorno fa
Fino a qualche anno fa i muri e i pali della luce di Bucarest venivano tempestati di piccoli adesivi neri sui quali troneggiava una scritta tanto lapidaria quanto chiara: “Basarabia este România” (la Bessarabia e Romania). Ancora oggi è possibile vederli. I romeni non si riferiscono mai alla Repubblica di Moldavia con il suo nome officiale; ancora oggi la chiamano Bessarabia, un termine dall’etimologia incerta che deriva verosimilmente dal nome della dinastia medievale dei Basarab. “Basarabia pământ românesc”, “Bessarabia terra romena”. Spesso i romeni chiudono con questa sentenza una qualsiasi discussione sull’identità della Moldavia, sbeffeggiando chiunque cerchi di problematizzare la questione etnico-nazionale del loro vicino nord-orientale. Un vicino, quasi un fratello minore, da proteggere, spesso da prendere in giro, il cui ritorno a casa (prima o poi) è dato quasi per certo. Un atteggiamento paternalistico che nel corso della storia non ha caratterizzato solo l’opinione pubblica, ma anche la classe dirigente, che dal 1918 ad oggi ha mostrato più volte di aver compreso poco della terra tra il Nistro e il Prut. La peculiare auto-identificazione ibrida dei moldavi, sospesi tra mondo romenofono a spazio-post sovietico, non si deve solo a 50 anni di appartenenza all’U.R.S.S., ma anche agli errori (passati e presenti) di Bucarest.
Gli errori di ieri
Quando 100 anni fa, dopo la prima guerra mondiale, la Bessarabia divenne ufficialmente una regione della Romania, pochi la conoscevano realmente. Per più di un secolo essa aveva fatto parte dell’impero russo, periferia sud-occidentale di un regno sconfinato, abitata per lo più da contadini romenofoni che, tuttavia, non sentivano un grande trasporto verso la Romania. Si trattava di uomini e donne analfabeti, dediti ad un’agricoltura di sussistenza in villaggi spesso isolati e difficilmente raggiungibili dall’unico grande centro urbano, Chișinău. Una città costruita da architetti italiani, abitata soprattutto da ebrei, che di romeno aveva poco o nulla.
La popolazione contadina bessarabena veniva però idolatrata nei salotti intellettuali della capitale come elemento portante dell’identità nazionale nella regione, focolare di resistenza dei valori culturali ancestrali. Bastarono poche settimane ai funzionari giunti dalla capitale per smontare i sogni dell’intellighenzia nazionalista. Nel novembre del 1918, a soli otto mesi dall’unione, un delegato del ministro della giustizia descrive in toni pessimistici ai suoi superiori l’atteggiamento della popolazione
Dal mio arrivo nella regione ho potuto constatare che la nostra popolazione romena (moldava) è molto insubordinata e non ha preso per niente bene l’arrivo dei nostri funzionari e della nostra amministrazione
Diversi impiegati pubblici spediti nella regione vi avevano sin da subito visto una terra di nessuno dove poter sfruttare la confusione istituzionale seguita alla prima guerra mondiale, alla rivoluzione russa e al cambio di appartenenza statale per arricchirsi. Frequenti furono i soprusi ai danni della popolazione contadina, vessata dalle tasse e da nuove leggi e istituzioni che essi non comprendevano e, di conseguenza, non accettavano. I russi avevano permesso ai villaggi bessarabeni quasi di autogovernarsi, seguendo ritmi sedimentatisi nel corso dei secoli. L’insediamento del nuovo potere interruppe il lento scorrere della vita contadina. Intollerabile per la popolazione locale fu l’atteggiamento della gendarmeria, che non perdeva occasione per abusare del suo potere.
Emblematico un episodio del 1920, quando un contadino e un maestro vennero picchiati e poi rinchiusi per tre giorni in cella senza cibo o acqua dai gendarmi solo perché avevano chiesto che la legge sull’espropriazione delle proprietà ecclesiastiche venisse applicata in modo corretto.[1]
Una relazione talmente traumatica, quella tra gendarmeria e contadini, che nella Repubblica di Moldavia odierna le forze dell’ordine hanno abbandonato il nome di gendarmeria (che conservano in Romania) per adottare la denominazione di carabinieri.
Bucarest trattò Chisinău per tutto il periodo interbellico come una sorta di colonia interna, ignorando le peculiarità della regione e puntando ad una nazionalizzazione completa della vita pubblica. Se a ciò si unisce l’inefficienza e la corruzione dell’amministrazione, non sorprende che nel 1940, al ritorno dei sovietici, molti contadini non si siano strappati le vesti.
Gli errori di oggi
Nonostante 50 anni di potere sovietico e la successiva indipendenza, non sorprende che la Moldavia continui a rappresentare una delle principali preoccupazioni strategiche della Romania, in virtù di comunanze storiche e linguistiche. Risulta difficile giustificare, pertanto, il comportamento romeno in occasione della crisi istituzionale moldava del mese scorso. La Romania è stata uno degli ultimi attori internazionali a sostenere il governo Sandu, proponendo fino all’ultimo un dialogo chiaramente insostenibile con l’oligarca Vladimir Plahotniuc. Quest’ultimo ha goduto per anni di numerose e influenti simpatie negli ambienti istituzionali e politici romeni, soprattutto all’interno del partito social-democratico, il più importante del paese. C’è addirittura chi sostiene, come l’analista Sorin Ionita, che Plahotniuc sia stata un’invenzione dei servizi segreti romeni per mettere un piede nelle stanze dei bottoni di Chișinău; uno strumento sul quale, tuttavia, Bucarest avrebbe successivamente perso il controllo.
Certo è che l’ambiguo legame che lega l’oligarca al mondo politico finanziario della Romania è chiaro: questi già nel 2001 era riuscito ad ascendere ai vertici di Petrom, compagnia petrolifera all’epoca di proprietà dello stato, secondo Ionita grazie allo stretto rapporto da lui intrattenuto con il leader dell’epoca del PSD Adrian Nastase. Successivamente Plahotniuc è diventato amministratore delegato della sezione moldava della stessa Petrom. Per anni i governi monopolizzati dai social-democratici hanno individuato in Plahotniuc l’uomo che avrebbe guidato la Moldavia sulla strada filo-europea.
La Romania è rimasta con lui fino all’ultimo, anche quando UE e Stati Uniti lo avevano ormai abbandonato, trovandosi così realmente isolata. Una vicinanza, quella tra l’oligarca e alcuni circoli politici influenti, che addirittura ha spinto alcuni giornalisti a paventare una richiesta d’asilo dell’ex uomo forte proprio alla Romania; indiscrezione poi smentita. L’impressione è comunque che la Romania non riesca a imporsi come attore importante nelle trattative che riguardano il futuro moldavo, venendo quasi sempre messa di fronte al fatto compiuto. L’inconsistenza strategica sul tema è una macchia in un quadro diplomatico che negli ultimi 20 anni è stato abbastanza roseo, con l’ingresso nella Nato, nell’UE e il rapporto sempre più stretto con Washington, che ha proprio nel paese carpatico il suo principale alleato nell’area del Mar Nero.
L’errore compiuto dalla classe dirigente attuale è, pur con tutte le differenziazioni del caso, lo stesso compiuto dai suoi antesignani di un secolo fa: ignorare la complessità della regione. Un’ignoranza che si unisce ad una mancanza di visione sul lungo periodo, e ad una convinzione che, ieri come oggi, non ha mai vacillato: a Bucarest tutti, chi più chi meno, credono che i moldavi vogliano ardentemente tornare a casa, in Romania, where they belong. Non era vero nel 1918, e non è vero neanche oggi. Sebbene non manchino in gli unionisti, il panorama dell’opinione pubblica è ben più frastagliato; c’è chi ritiene indispensabile un legame economico-culturale con la Russia, c’è chi vorrebbe tenere equidistanza, c’è chi è totalmente indifferente al tema. E anche all’interno della compagine unionista, siamo sicuri che questo afflato “romenista” non sia in realtà una ben più banale voglia di occidente, identificato con la Romania in virtù della sua appartenenza all’Unione Europea?
Il legame tra i due paesi resta innegabile, non fosse altro per una comunanza linguistica e culturale innegabile. Non è un caso che il primo capo di stato incontrato dalla premier moldava Maia Sandu dopo la fine della crisi istituzionale sia stato il presidente romeno Klaus Iohannis, al quale ha chiesto soprattutto di perorare la causa del nuovo esecutivo a Bruxelles. Richiesta alla quale Iohannis ha risposto affermativamente, da fratello maggiore. La strada per diventare partner strategico e attore tenuto in considerazione dalle grandi potenze sembra, tuttavia, ancora lunga.
[1] A. Basciani, Dificila Unire. Basarabia si Romania Mare 1918-1940, Cartier, Chișinău, 2018
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-hai-30-anni-Troppi-per-aver-diritto-ad-un-lavoro-195565
--- Citazione ---Armenia: hai 30 anni? Troppi per aver diritto ad un lavoro
In Armenia la discriminazione sul lavoro basata sull'età è un problema serio, come dimostrano le testimonianze di Karine, Karen e Anna. Una proposta di legge che cambierebbe la situazione è però in fase di discussione in parlamento
19/07/2019 - Armine Avetysian Yerevan
Nella Repubblica di Armenia si sta discutendo la proposta per cui i datori di lavoro non avranno più il diritto di specificare restrizioni di età nelle offerte di lavoro, in quanto verrà proibito per legge.
A giugno, un progetto di legge è stato discusso e adottato in prima lettura dall'Assemblea Nazionale che, se adottato in via definitiva, modificherà il Codice del lavoro dell'Armenia, prevedendo che l'età dell'impiegato non può essere un limite legale o una ragione per non firmare un contratto di lavoro eccetto che per specifici casi regolati per legge.
Karine
Karine, 40 anni, ha lavorato per 5 anni come addetta alle pulizie in un salone di bellezza a Yerevan. Dice di avere dovuto fare quel lavoro in quanto non aveva altre alternative.
"Sarei dovuta diventare sociologa, ma ho abbandonato gli studi. Ero al mio secondo anno in università quando ho incontrato il mio futuro marito, mi sono innamorata, sposata, sono rimasta incinta subito e ho dovuto sospendere gli studi. Poi non sono più tornata all'università, anche se ho sempre pensato che l'avrei finita più avanti", racconta Karine.
All'età di 25 anni Karine era già madre di tre figli. All'inizio le piaceva stare a casa con i figli, vivevano grazie al salario del marito ma quest'ultimo ha poi avuto problemi alla schiena e non ha più potuto fare lavori pesanti. Karine ha allora iniziato a cercare un lavoro.
"Avevo solo 35 anni quando ho cominciato a cercare un lavoro. Pensavo, per esempio, che avrei trovato un lavoro come commessa, ma dovunque mi candidassi, ricevevo rifiuti: dicevano che ero troppo vecchia. Roba da non credere. guardano in faccia una donna di 35 anni e le dicono che è vecchia, che non è adatta al lavoro. Mi sono candidata in più di 12 posti e ho sentito le stesse risposte. Alla fine sono dovuta andare a fare la donna della pulizie. Insomma, avevamo bisogno di soldi", dice la donna.
Karen
Karen è originario di Gyumri, ma vive a Yerevan. Ha 38 anni ed è un economista di professione. Ha lavorato in un'azienda privata per circa 5 anni. Sono già passati due anni da quando ha perso il lavoro e da allora non è riuscito a trovare un'occupazione nel suo campo. Oggi lavora come tassista.
"Quando l'azienda in cui lavoravo ha chiuso, ero più che sicuro che avrei trovato un lavoro in un'altra azienda molto velocemente, ma non è successo. Ovunque mi candidassi, dicevano che rispettavano le mie competenze e la mia esperienza, ma che avevano bisogno di una squadra più giovane", ricorda Karen.
Karen non ha trascorso molto tempo alla ricerca di un lavoro da dipendente. Racconta di aver compreso la realtà dei fatti molto velocemente ed ha allora deciso di iniziare il lavoro di tassista. "Non potevo perdere tempo, ho due bambini, dovevo nutrire la mia famiglia. Ho registrato la mia macchina come taxi e ho cominciato a lavorare. Non mi lamento ora, viviamo normalmente. È solo un peccato non lavorare nel mio campo", racconta Karen.
Anna
Anna, 35 anni, risiede a Vanadzor, Armenia settentrionale. È da diversi anni che cerca un lavoro. È laureata in storia. "Dopo essermi laureata non riuscivo a trovare un lavoro in nessun scuola. Ho provato a candidarmi per la posizione vacante di insegnante di storia in parecchi posti, ma non sono stata presa da nessuna parte. Sono stata rifiutata per varie ragioni. Di fatto sino ad alcuni anni fa era impossibile ottenere un lavoro in Armenia senza nessuna "conoscenza", e io non avevo questa "conoscenza", dice Anna.
Un anno fa ha avuto luogo in Armenia una rivoluzione non-violenta, denominata la rivoluzione di velluto, che ha implicato grandi cambiamenti nella classe dirigente. Da quel giorno, Anna era convinta che sarebbe finalmente riuscita a trovare il lavoro desiderato perché le cose erano cambiate.
"Ho partecipato a un concorso di lavoro e non l'ho ottenuto; come storica avevo bisogno di un po' di preparazione in più, dovevo rinfrescare la memoria. Ero così stanca che ho deciso di abbandonare il sogno di diventare un'insegnante di storia e ho cercato un altro lavoro. Si è rivelato impossibile", dice Anna.
Anna ha seguito vari annunci di impiego ma è ancora disoccupata. "Non ricordo nemmeno dove mi sono candidata. Le mie richieste di lavoro, da commessa a maestra di asilo, sono state rifiutate. In tutti i posti insistevano sul fatto che sono troppo vecchia".
Ogni tipo di discriminazione dovrebbe essere proibita in Armenia
Nel 1995, l'Armenia ha ratificato la Convenzione di Ginevra adottata nel 1958 dall'Organizzazione Mondiale del Lavoro, che proibisce la discriminazione di assunzione basata sull'età. Anche la Costituzione della Repubblica di Armenia vieta la discriminazione. Secondo l'articolo 29 della Costituzione, la discriminazione basata su genere, razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione, visione del mondo, visione politica, essere parte di una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età o altre circostanze personali o sociali, è proibita. Quest'anno a giugno l'argomento è stato anche trattato dell'Assemblea Nazionale; poi il progetto di legge summenzionato è stato adottato in prima lettura.
L'autore del progetto di legge è il Deputato Tigran Urikhanyan del partito Armenia Prospera. Il giorno della discussione Heriknaz Tigranyan, vice-presidente della Commissione permanente sulla sanità e gli affari sociali dell'Assemblea Nazionale, nel suo intervento ha sottolineato che il governo ha dato una valutazione negativa sul progetto di legge, ma durante la discussione in sede di commissione a Tigran Urikhanyan è stato suggerito di aggiornare la bozza di legge e definire la descrizione di discriminazione sulla base di quanto già contenuto nella Costituzione.
"La proibizione della discriminazione basata solo sull'età non è stata considerata sufficiente, vi è il bisogno di una formulazione più esauriente, per questo abbiamo aggiunto altre specifiche", ha dichiarato Tigranyan, sottolineando che al primo firmatario del progetto di legge verrà proposto di sottoporlo a revisione durante il periodo tra la prima e la seconda lettura del documento, inserendo che negli annunci di lavoro il datore di lavoro non potrà indicare quelle qualità che non sono condizionate dalle qualifiche professionali dell'impiegato o che non hanno a che fare con la sua preparazione, ad eccezione dei casi dove quelle restrizioni emergono dalla natura specifica del lavoro.
Al momento, la versione aggiornata della progetto di legge si trova sul sito dell'Assemblea Nazionale in stato di seconda lettura.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99178
--- Citazione ---Omicidi, bombe e dirottamenti aerei: breve storia del terrorismo anti-jugoslavo
Riccardo Celeghini 3 giorni fa
Il 7 aprile del 1971, due giovani ragazzi croati, Miro Barešić e Anđelko Brajković, entrano nella sede dell’ambasciata jugoslava a Stoccolma. Nonostante quella sia l’ambasciata del loro paese, la Jugoslavia appunto, i due ragazzi non sono lì per richiedere assistenza o il rilascio di un documento: sono entrati armati, e dopo essere penetrati all’interno dell’edificio arrivano fino all’ambasciatore Vladimir Rolović, che uccidono a colpi di pistola. Si tratta di un atto terroristico, uno dei tanti attacchi condotti negli anni ’60 e ’70 contro obiettivi legati alla Jugoslavia di Tito.
La galassia del terrorismo croato
Circa venti diplomatici e funzionari uccisi nelle loro missioni all’estero, quattro dirottamenti di aerei, almeno ottanta morti in totale, decine di attentati in giro per il mondo: questo è il bilancio di una vera e propria guerra, condotta dai nazionalisti e dagli anticomunisti, per lo più croati, contro la Jugoslavia socialista.
L’uccisione dell’ambasciatore Rolović a Stoccolma, difatti, non è che l’evento più eclatante di una scia di attentati organizzati in giro per il mondo da gruppi terroristici attivi soprattutto negli anni ’60 e ’70. Sigle come il Movimento Croato di Liberazione (HOP), la Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB) o la Resistenza Nazionale Croata (HNO-Otpor) assursero alla ribalta per azioni violente e rocambolesche contro obiettivi jugoslavi.
Nonostante metodi diversi, queste organizzazioni erano difatti accomunate da un unico obiettivo: combattere con ogni mezzo per l’indipendenza della Croazia, liberandola dal “giogo” jugoslavo e riportandola ai presunti fasti dello Stato Indipendente di Croazia, lo stato fantoccio governato dal regime filonazista degli ustaša negli anni della Seconda guerra mondiale, macchiatosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Proprio i superstiti di quel regime, fuggiti all’avvento dei partigiani titini, erano stati i fondatori delle organizzazioni nazionaliste, a cui, secondo le stime della CIA, si avvicinarono negli anni circa 3.000-5.000 estremisti croati in diversi paesi del mondo: si trattava spesso di giovani generazioni, figli della diaspora del dopoguerra, radicalizzati lontani dalla propria terra di origine.
Gli attentati in Jugoslavia
I primi grandi attentati organizzati dai nazionalisti croati avvennero in territorio jugoslavo. Il 13 luglio del 1968 una bomba esplose al cinema “20 Oktobar” di Belgrado, provocando una vittima e ben 85 feriti; poche settimane dopo, il 25 settembre, tre bombe colpirono la stazione ferroviaria della capitale jugoslava, causando 13 feriti. Il responsabile fu individuato dalle autorità in Miljenko Hrkać, membro del movimento nazionalista croato HOP, fondato dopo la guerra dallo stesso Ante Pavelić, leader degli ustaša fuggito in Spagna. Hrkać verrà poi arrestato e condannato a morte nel 1978.
Un altro tentativo di colpire il regime di Tito all’interno dei propri confini avvenne nel luglio del 1972. Un gruppo paramilitare costituito e addestrato in Germania Ovest dall’HRB, con fondi provenienti dalla diaspora croata in Australia, entrò in Jugoslavia con l’obiettivo di innescare una ribellione dei croati contro le autorità. La missione finì però tragicamente: a seguito di diversi scontri a fuoco, 18 membri del commando furono uccisi, e uno arrestato. Anche 13 soldati jugoslavi persero la vita nei combattimenti.
Le azioni all’estero
Ben presto, apparve chiaro ai terroristi che agire all’interno dei confini jugoslavi era una missione quasi impossibile. I gruppi si concentrarono perciò in azioni all’estero. Dopo alcune azioni minori, l’uccisione dell’ambasciatore in Svezia attirò l’attenzione del mondo. L’azione dei terroristi, in quel caso, aveva un obiettivo mirato: prima di divenire ambasciatore, difatti, il montenegrino Rolović era stato ai vertici dell’UDBA, i servizi segreti jugoslavi, nonché responsabile del campo di prigionia per i dissidenti del regime di Goli Otok. Proprio l’UDBA rappresentava il nemico numero uno del terrorismo croato, essendo impegnata nella ricerca e nell’eliminazione delle cellule nazionaliste in tutto il mondo, in una guerra senza esclusione di colpi.
Agli attacchi mirati, si sommarono presto azioni su larga scala. Il 26 gennaio 1972, una bomba esplose sul volo JAT 367 Stoccolma-Belgrado, causando 27 morti. L’unica sopravvissuta fu la hostess Vesna Vulović, in una storia che ha dell’incredibile. Ben presto, apparve chiaro che i responsabili erano terroristi croati.
Il 15 settembre dello stesso anno, un gruppo di terroristi dell’HNO dirottò il volo 130 della Scandinavian Airlines Goteborg-Stoccolma, richiedendo il rilascio degli arrestati per l’attentato all’ambasciata di Stoccolma. Lo scambio avvenne solo a metà, dato che una volta atterrati in Spagna i dirottatori trovarono la polizia ad aspettarli. E ancora, il 10 settembre 1976, un gruppo di nazionalisti croati dirottò il volo TWA 355 da New York a Chicago, un’avventura che finì con l’arresto di tutti i responsabili una volta atterrati a Parigi.
Il cacciatore di Tito
Tra i dirottamente aerei, uno in particolare ha delle caratteristiche peculiari. Nel 1979, l’aereo 727 New York-Chicago venne dirottato non da nazionalisti croati, ma dal serbo Nikola Kavaja, successivamente arrestato e condannato a 20 anni di prigione.
Kavaja è una figura unica: fervente anticomunista, fuggì dalla Jugoslavia nel 1953, e arrivato negli Stati Uniti tentò più volte di organizzare l’uccisione di Tito, forse dietro arruolamento della CIA. Tentativi mai portati a termine, ma che gli valsero il soprannome di “cacciatore di Tito”. Kavaja diventò poi membro del SOPO, il Movimento di Liberazione della Patria Serbia, un gruppo della diaspora anticomunista serba responsabile di una serie di attentati a consolati e uffici jugoslavi negli Stati Uniti. Kavaja uscì dal carcere nel 1997, quando tornò in Serbia e strinse legami con criminalità e gruppi nazionalisti e paramilitari locali, aggiungendo ulteriore alone di mistero ad una vicenda personale assolutamente controversa.
La guerra degli anni ‘90
Dagli anni ’80 in poi, le attività dei terroristi croati iniziarono a ridursi. Negli anni ’90, però, per molti di loro arrivò il momento della rivalsa: diversi esponenti di quegli stessi gruppi tornarono in patria, arruolandosi nella guerra che porterà alla nascita della Croazia democratica ed indipendente.
Tra questi, vi era anche Miro Barešić, l’assassino dell’ambasciatore a Stoccolma. Barešić, rientrato in patria alla fine degli anni ’80, morì in azione durante la guerra nel 1991, assurgendo a simbolo nazionale per i nazionalisti croati. Nel 2016 una sua statua venne eretta nel villaggio di Drage, nella contea di Zara, alla presenza di ministri e membri del parlamento croato, scatenando reazioni sdegnate da parte dei governi di Serbia e Montenegro.
Una dimostrazione, questa, di come ancora oggi la lettura di quei tragici eventi continua a dividere i paesi nati sulle ceneri di quella stessa Jugoslavia.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Inquinamento-se-in-Bosnia-l-emergenza-diventa-normalita-195729
--- Citazione ---Inquinamento: se in Bosnia l'emergenza diventa normalità
A distanza di pochi giorni due report indipendenti fotografano il gravissimo inquinamento industriale in Bosnia Erzegovina. Secondo gli attivisti, all'inefficienza di vecchi impianti si somma quella delle istituzioni, che forniscono dati incompleti e parziali. Così l'emergenza diventa una normalità camuffata
26/07/2019 - Marco Ranocchiari
In una conferenza stampa tenutasi lo scorso 17 giugno a Zenica, le associazioni ambientaliste Arnika ed Eko Forum hanno presentato un rapporto sull'inquinamento dell'aria dovuto all'attività industriale in Bosnia Erzegovina. Lo studio, mettendo in rassegna i dati ufficiali disponibili, compila una sinistra top ten dei dieci impianti più responsabili di quella che nel paese balcanico sembra avere raggiunto le dimensioni di una piaga ambientale e sanitaria.
Sul primo gradino del podio figura l'acciaieria Arcelor Mittal di Zenica, responsabile, tra l'altro, dell'emissione di 5200 tonnellate di solfati e nitrati nel 2017. Seconda classificata, la centrale termoelettrica di Tuzla.
La lista comprende tabelle sull'emissione di particolato, gas serra e altri inquinanti.
La notizia forse più rilevante, però, è quello che non c'è. Sono infatti scarsissimi, denunciano gli attivisti, i dati messi a disposizione dei cittadini. Quando pure presenti, sono spesso incompleti o inaccurati. La lista è quindi incompleta: non è stato possibile inserire, ad esempio, le centrali termoelettriche di Gacko e Uglijevik, che pure sono stimati considerano tra le più inquinanti d'Europa.
Sebbene la legge imponga l'obbligo da parte dei gestori degli impianti di comunicare i dati sulle proprie emissioni, questo avviene con estrema difficoltà. "Le informazioni sono accessibili solo su richiesta ufficiale. Le autorità competenti rispondono di solito con grande ritardo, quando ormai è troppo tardi per permettere ai cittadini di influire sul processo decisionale", dice il professor Samir Lemeš, dell'associazione Eco Forum.
L'acciaieria di Zenica
L'impianto più inquinante della Bosnia Erzegovina risulta essere la storica acciaieria di Zenica. Ai tempi della Jugoslavia, quando dava lavoro a oltre ventimila persone, era il cuore pulsante della città sul fiume Bosna. L'impianto chiuse a causa della guerra degli anni '90 e rimase in stato di abbandono fino al 2004, quando il colosso dell'acciaio Arcelor - Mittal (proprietario, tra l'altro, dell'ex-Ilva di Taranto) ne rilevò la proprietà. Quattro anni dopo gli altoforni ripresero la produzione. La speranza di rinascita derivante da questa impresa era scritta nel nome del progetto: Feniks, come l'uccello mitologico che rinasce dalle sue ceneri. Ma dopo undici anni, solo duemila (tremila, se consideriamo gli operai esternalizzati) lavoratori sono tornati al loro posto. L'unica cosa che, oggi, ricorda la mitica fenice sono proprio le ceneri.
Come il particolato PM10: 1400 le tonnellate emesse nel 2017. La soglia di diossido di zolfo (125 microgrammi al metro cubo), che la legge raccomanda di non raggiungere più di tre volte in un anno, è stata superate 124 volte nel 2018. Sempre meglio che nel 2012, la soglia era stata passata 192 volte, e migliaia di cittadini di Zenica erano scesi in piazza, ma la situazione resta disastrosa. Un odore acre di smog impregna perennemente i quartieri vicino agli fornaci, mentre la fornace a ossigeno sparge un fumo marrone che, nelle giornate senza vento, ristagna indisturbato nella città. Numerose evidenze mostrano un aumento nei casi di cancro e di patologie respiratorie nella città di Zenica. Eppure le autorità non hanno finora fatto molto più che fornire rapporti di poche pagine che si limitano a fare un elenco dei casi, rendendo difficilissimo dimostrare una correlazione con l'inquinamento industriale.
Alle manifestazioni, negli ultimi anni, sono seguite le azioni legali. Le associazioni, in particolare Eko Forum, che è riuscita a coinvolgere la municipalità di Zenica, all'inizio recalcitrante, contestano ritardi e irregolarità, oltre alla cronica riluttanza a fornire informazioni.
Vengono in particolare contestate le modalità di rinnovo dei permessi ambientali dell'acciaieria, scaduti nel 2014 e 2015 e rinnovati senza difficoltà dal ministero nonostante numerose inadempienze. Come i filtri per la fornace a ossigeno, che doveva arrivare sei anni fa ed è stata invece appena installata. "È già qualcosa, ma ne servirebbero almeno altre tre", dice il professor Lemeš. Gli attivisti, dopo lunghi negoziati, hanno ottenuto criteri più stringenti per i nuovi permessi. Ma nel febbraio 2019, per una sorta di cortocircuito legale, il tribunale cantonale di Sarajevo pur riconoscendo nel merito molte ragioni agli attivisti, ha respinto il ricorso.
A Zenica si mantiene quindi lo status quo, in una cornice di formale regolarità. Gli attivisti continuano a negoziare, chiedendo, in primo luogo, maggiore trasparenza.
Il rapporto "Lifting the Smog" a Tuzla
Negli stessi giorni della conferenza di Zenica, Bankwatch e altre associazioni presentavano un altro rapporto indipendente, " Lifting the Smog", che accende i riflettori su Tuzla, dove sorge il secondo impianto più inquinante del paese.
La città dell'est del paese, già scintilla delle imponenti proteste di piazza del 2014 e da sempre a vocazione industriale e mineraria, detiene un altro secondo posto, ancora più inquietante: quello della mortalità da inquinamento dell'aria (dati della World Health Organization ). Il complesso della centrale termoelettrica di Tuzla, che comprende anche una miniera di lignite a cielo aperto e una discarica, è stato costruito tra gli anni '60 e '70.
In 5 mesi di monitoraggio, si legge nel report, i livelli di particolato PM10 risultavano doppi rispetto al limite medio imposto dalla legge. Al particolato PM2.5, secondo lo studio, sono dovute ben 136 morti precoci nel 2018, cioè il 17% del totale dei decessi tra gli adulti.
La piaga dell'inquinamento è nota alle autorità. La soluzione che propongono, però, appare paradossale agli attivisti: la costruzione di una nuova centrale. Un impianto a carbone da 450 MW, più moderno, che dovrebbe consentire di ridurre gli impatti. Peccato che invece di sostituire quella vecchia, due delle vecchie unità continuerebbero a operare. Difficile quindi parlare di una reale riduzione.
Secondo gli autori dello studio, anche in questo caso, a mancare è soprattutto un reale impegno da parte delle istituzioni, e soprattutto la reticenza a ricavare e fornire informazioni. A titolo di esempio, anche se la legislazione della Bosnia Erzegovina prevede il monitoraggio del particolato, a Tuzla esistono stazioni ufficiali solo per il particolato più sottile (PM2.5), e non per il PM10.
"Le istituzioni responsabili del monitoraggio della qualità dell'aria e delle misure per migliorarla" - si legge nel documento - "non raccolgono i dati che servirebbero per capire e migliorare la situazione".
Conclusioni simili a quelle cui, a Zenica, giunge il professor Lemeš: "Sembra che le autorità, invece che ammettere il problema e cercare una soluzione adeguata, cerchino di minimizzare la gravità della situazione. Usano ancora i problemi sociali ed economici come pretesto per continuare con il business as usual e garantire un po' di occupazione mentre, in realtà, non si fa quasi niente per sviluppare o attrarre investimenti sostenibili".
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Ue-porte-chiuse-ai-Balcani-195610
--- Citazione ---Ue: porte chiuse ai Balcani
Il Consiglio europeo dello scorso giugno ha sferrato un altro colpo alle speranze di Albania e Macedonia del Nord di aprire i negoziati di adesione all’UE. Per gli altri paesi dei Balcani la situazione non è molto più incoraggiante
16/07/2019 - Ornaldo Gjergji
Dopo aver già rimandato la decisione nel 2018, il 18 giugno scorso il Consiglio europeo non ha trovato un accordo unanime e ha stabilito che per l’Albania e la Macedonia del Nord i negoziati di adesione apriranno, forse, il prossimo ottobre. Questo potrebbe frustrare ulteriormente i due paesi che, con gli accordi di Prespa in Macedonia del Nord e il vetting giudiziario in Albania, hanno visto i rispettivi governi impegnati in riforme importanti, messe in atto per persuadere gli stati dell’Unione europea a dare il via libera alle negoziazioni.
Le motivazioni che hanno portato il Consiglio ad esprimere un parere negativo, sostenute in primis dalla Francia di Emmanuel Macron, sono state sostanzialmente strumentali e la decisione è stata figlia delle molte trattative in atto fra i massimi decisori europei, i paesi membri. Questo soprattutto se si considera che la Commissione europea aveva dato per ben due volte parere positivo all’apertura dei negoziati di adesione per Tirana e Skopje.
Per quanto riguarda gli altri paesi della regione, Serbia e Montenegro hanno già aperto le negoziazioni con l’Unione europea ma queste sostanzialmente sono in una fase di stallo. La Serbia deve affrontare il problema della soluzione delle relazioni con il Kosovo - condizione necessaria per la chiusura dei negoziati -, del deteriorarsi della libertà dell’informazione e dell’erosione degli standard democratici. In Montenegro vi è una corruzione endemica che sta rendendo difficili i negoziati con l’UE. Bosnia Erzegovina e Kosovo, invece, non sono nemmeno ancora ufficialmente candidati.
Queste difficoltà hanno alimentato nella regione un senso di scetticismo nei confronti dell’UE. Come mostrano le rilevazioni del Balkan Public Barometer, Albania e Kosovo sono i paesi in cui la popolazione vede con maggior favore un eventuale ingresso nell’Unione europea. Nel caso kosovaro il sostegno è però drasticamente sceso nel 2019 - forse anche a causa delle resistenze da parte dell’UE nel concedere ai cittadini kosovari la libera circolazione all’interno dei propri confini.
Anche in Macedonia del Nord e Montenegro si sta invertendo la tendenza che aveva visto crescere negli ultimi anni il supporto all’Unione europea. In Bosnia Erzegovina e Serbia, invece, meno della metà della popolazione vede positivamente la partecipazione del proprio paese al processo di integrazione europea.
Per quanto la Commissione europea abbia delineato nel 2018 una strategia credibile per la prospettiva di allargamento verso i paesi balcanici, la regione sembra più lontana oggi, rispetto a pochi anni fa, dall’obiettivo di diventare parte integrante dell’Unione. Da un lato, nei paesi dei Balcani si sta assistendo a una crescente resistenza alle riforme socio-economiche e politiche richieste dall’UE, se non a dei veri e propri passi indietro rispetto ai progressi fatti nel passato. Dall’altra, l’Unione europea, a causa delle sue molteplici crisi interne, è meno concentrata sull’allargamento di quanto non fosse fino ad alcuni anni fa.
Se gli stati membri dovessero continuare a strumentalizzare l’apertura o il prosieguo dei negoziati con i paesi balcanici, invece di pensare a un’Europa a 33, i Balcani rischiano di rimanere uno spazio escluso. Rischiano di essere lasciati a stagnare in una condizione di crisi permanente, verso la quale si reagisce solo con tattiche di breve periodo, tese ad arginare le degenerazioni più violente e le loro ripercussioni sull’Europa tutta. Servirebbe invece una strategia credibile in grado di risolvere i problemi di fondo, di cui le crisi non sono che i sintomi: reali prospettive di ingresso nell’Unione europea sarebbero la soluzione più efficace.
Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
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