Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78115 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #285 il: Agosto 30, 2019, 20:20:23 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/99371

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UCRAINA: Un primo ministro tecnocratico per i “servi del popolo”
Claudia Bettiol  17 minuti fa

Durante la prima seduta della Verchovna Rada – il parlamento ucraino -, tenutasi giovedì 29 agosto, i neoeletti deputati dello scorso 21 luglio hanno nominato il nuovo governo. La carica di primo ministro è stata assegnata al giovane trentacinquenne Oleksiy Hončaruk e approvata da 290 deputati, tutti facente parte del partito maggioritario di Volodymyr Zelensky, “Il servo del popolo”. La squadra che compone il consiglio dei ministri è ora al completo e i “servi del popolo” ora dovranno dimostrare di che pasta sono fatti.

Tecnocrazia, non politica

I desideri di Volodymyr Zelensky sono stati esauditi: il 35enne Oleksiy Hončaruk è il neo primo ministro dell’Ucraina. Una figura poco nota in politica, dunque perfetta per il primo “servo del popolo” il quale era alla ricerca di un volto nuovo al comando, un tecnocrate e un economista che non fosse troppo legato al mondo della politica.

Laureato in giurisprudenza, Oleksiy Hončaruk non è solamente il primo ministro più giovane di tutta la storia dell’Ucraina, ma anche una figura con un background nella sfera politica quasi nullo – se non si tiene conto del fatto che è stato vicedirettore dell’ufficio del presidente per qualche mese (dal 28 maggio 2019). Prima di entrare in carica, Hončaruk è stato a capo del Better Regulation Delivery Office (BRDO), un’organizzazione indipendente nata nel 2015 e finanziata dall’Unione europea volta a migliorare il contesto economico e la regolamentazione statale nei settori economici. Negli anni precedenti, ha gestito il proprio studio legale e prestato servizio come consigliere del ministro dello Sviluppo Economico Stepan Kubiv, il quale ritiene che l’esperienza professionale del giovane e le sue competenze e conoscenze in ambito economico siano più che valide a coprire le funzioni di premier.

“È un bravo ragazzo, giovane, molto energico, che ha un’esperienza sia in campo economico che legale, e penso sia importante per questa carica”, ha dichiarato David Arachamija, il nuovo capo del partito “Il servo del popolo”.

Hončaruk  sembra soddisfare le esigenze del momento. O almeno quelle dei “servi del popolo”. I partiti minoritari, infatti, hanno rifiutato di sostenere la candidatura di Hončaruk, valutando diversamente la scelta. “Non conosciamo né lui né il suo programma”, ha dichiarato Yuriy Boyko, leader del partito filorusso “Piattaforma di opposizione – Per la vita” che gode di 44 seggi parlamentari. Anche i deputati del partito liberale “Voce”, appartenente alla rockstar Svjatoslav Vakarčuk, e del partito “Patria” di Julija Tymošenko, nonché il blocco di opposizione formato dalla squadra dell’ex-presidente Petro Porošenko, hanno rifiutato di votare per Hončaruk per le stesse ragioni.

Ad affiancare il lavoro del giovane premier, c’è una squadra di ministri dai volti più o meno nuovi, la maggior parte proveniente dal partito di Zelensky. Nessuna carica è stata assegnata ai membri di “Solidarietà europea”, il partito di Porošenko.

Sebbene fossero nate alcune proposte iniziali per riformare sostanzialmente il parlamento, tra cui quella di unire i ministeri per tematica, il loro numero e le loro funzioni sono rimasti invariati, almeno per ora. Solamente i capi dei ministeri sono stati sostituti con nuovi volti, eccezion fatta per il ministro delle Finanze, Oksana Markarova, in carica dal 2016, e dal ministro degli Affari Interni. Arsen Avakov è stato infatti riconfermato per questa carica che ormai mantiene dal febbraio 2014, nonostante la sua controversa reputazione e i numerosi scandali di cui è stato accusato.

A spalleggiarlo negli affari di politica estera ci sarà Vadim Prystajko, che ha iniziato la sua carriera diplomatica nel 1994 ed è stato ambasciatore dell’Ucraina in Canada tra il 2012 e il 2014. Dal 2017, come vice del ministro degli Esteri dell’Ucraina, ha guidato la missione di entrata del paese nella NATO.

L’obiettivo economico di Hončaruk

Hončaruk ha fin da subito affermato che il compito principale del nuovo governo è assicurare la crescita economica del paese, almeno del 5-7% all’anno. Il suo primo discorso va dritto al sodo: per raggiungere la crescita economica è necessario ridurre il costo delle risorse, abbassare i tassi di credito, garantire l’indipendenza della banca nazionale e, cosa non meno importante, cambiare l’atteggiamento nei confronti dell’Ucraina da parte del mondo intero. L’economia ucraina deve essere modificata strutturalmente. Un problema fondamentale che può essere risolto rapidamente attraverso investimenti esteri. Ma per attirare gli investitori nel paese, c’è bisogno di riforme strutturali e interdisciplinari: un efficente sistema giudiziario, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e la stabilità finanziaria in primis.

I problemi interni dell’Ucraina riscontrati ed elencati dal giovane premier sono essenzialmente legati alle infrastrutture, allo stato deplorevole degli alloggi e dei servizi comunali. Egli non dimentica, naturalmente, di citare anche la corruzione e la guerra con la Russia nell’est del paese, questione questa che riguarda indubbiamente la politica estera, ma che influisce inevitabilmente nella gestione della politica interna.

Hončaruk ha inoltre ribadito che tra poche settimane arriverà a Kiev la missione del Fondo monetario internazionale (FMI), con il quale l’Ucraina negozierà un nuovo programma di cooperazione per un periodo di tre o quattro anni.

La priorità dei “servi del popolo” era di formare un governo tecnocratico e professionale, in grado di vincere le sfide e le difficoltà economiche che l’Ucraina sta attraversando ormai da anni. Le loro speranze e quelle di milioni di ucraini sono racchiuse perciò in questo nuovo governo fatto di tecnocrati capaci di cambiare la natura e il corso dell’economia ucraina. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se le nuove forze politiche saranno in grado di dare una svolta all’Ucraina.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #286 il: Agosto 30, 2019, 20:22:12 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-e-Russia-dietro-il-filo-spinato-196248

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Georgia e Russia: dietro il filo spinato

Un bilancio della situazione al confine tra Georgia e le regioni de facto di Abkhazia e Ossezia del Sud, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Report di Amnesty International

30/08/2019 -  Amnesty International
I tentativi della Russia e delle autorità di fatto di delimitare fisicamente un confine tra i territori separatisti di Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali e il resto della Georgia, hanno portato alla popolazione locale, gravi restrizioni alla libertà di movimento e ad altre violazioni dei diritti umani; con famiglie separate da filo spinato, private dei propri mezzi di sussistenza e a rischio di detenzione arbitraria nel caso in cui tentino di attraversare il confine.

Queste le denunce del rapporto di Amnesty International Behind barbed wire: Human rights toll of “borderization” in Georgia   (Dietro il filo spinato: il bilancio dei diritti umani della "frontierizzazione" in Georgia) che rivela l'impatto devastante degli sforzi da parte delle forze russe e delle autorità delle regioni de facto per stabilire un "confine internazionale" lungo il confine oggetto della disputa. L'installazione di filo spinato, recinzioni, fossati e altre barriere materiali, hanno diviso le comunità e tagliato l'accesso degli abitanti dei villaggi a terreni agricoli, fonti d'acqua, luoghi di culto e persino luoghi di sepoltura delle famiglie.
“Queste misure arbitrarie stanno strangolando delle vite. Centinaia di persone subiscono detenzioni arbitrarie ogni anno cercando di attraversare la linea di confine per nessun altro motivo se non quello di vedere parenti, prendersi cura dei loro raccolti o accedere alle cure sanitarie. Intere comunità vengono tagliate fuori da fonti vitali di reddito e da altri aspetti importanti della loro vita, punite solo per il luogo in cui vivono. La Russia esercita un controllo di fatto su Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali, e perciò deve rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto umanitario internazionale e sostenere i diritti umani in questi territori" ha affermato Marie Struthers, direttrice per l'Europa orientale e l'Asia centrale di Amnesty International.

Separare comunità, sconvolgere la possibilità di sostentamento
Le forze russe sono di stanza in Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali senza il consenso della Georgia dal conflitto dell'agosto 2008.
Nel 2011, le forze russe hanno avviato il cosiddetto processo di "frontierizzazione" per trasformare la linea di confine amministrativa – spesso solo tratteggiata su una mappa – in una barriera fisica che separa rispettivamente Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali dal territorio controllato dalla Georgia.
Davit Vanishvili, 85 anni, abitante del villaggio di Khurvaleti che è stato diviso durante il processo di "frontierizzazione", ha raccontato ad Amnesty International che nel 2013 le forze russe l'hanno messo di fronte ad una scelta netta: rimanere nella sua casa in Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali o spostarsi e vivere il resto della vita sfollato nella parte controllata da Tbilisi.

Ha scelto di restare, ma ora è separato dal resto della sua famiglia e dai suoi amici. Lui e i suoi parenti rischiano la detenzione ogni volta che provano ad attraversare la recinzione al riparo delle tenebre per ritirare la pensione, le medicine e altri beni dalla parte georgiana.
“Le guardie di frontiera russe sono venute a casa mia e mi hanno detto che non era più Georgia. Il giorno stesso hanno iniziato a installare recinzioni intorno al mio cortile. Non posso più accedere al resto del villaggio o al resto del paese", ha detto ad Amnesty International. La "frontierizzazione" ha colpito comunità di tutte le etnie su entrambi i lati del territorio diviso.
Secondo le autorità georgiane, alla fine del 2018, almeno 34 villaggi erano stati divisi da recinzioni installate dalle forze russe. Si stima che dalle 800 alle 1.000 famiglie in totale abbiano perso l'accesso ai propri terreni agricoli.

Amiran Gugutishvili, agricoltore di 71 anni del villaggio di Gugutiankari vicino alla frontiera Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali, deve dipendere dai sussidi sociali da quando ha perso l'accesso al suo meleto nel 2017. “Ogni anno raccoglievo dal mio frutteto più di cento casse di mele e le vendevo. Il profitto era sufficiente per mantenere la mia famiglia. Dal 2017 non riesco ad accedere al mio frutteto. Le guardie di frontiera russe hanno installato un cartello di confine di Stato. A volte passo ancora a dare un'occhiata ai miei meli attraverso il recinto”, ha detto ad Amnesty International.

La chiusura dei punti di attraversamento colpisce il commercio
La "frontierizzazione" ha comportato la chiusura di numerosi valichi ufficiali tra Ossezia del Sud/ Regione di Tskhinvali e Abkhazia e ha avuto un impatto dannoso su quello che una volta era un attivo commercio transfrontaliero. Ha gravemente eroso la situazione sociale ed economica delle comunità a cavallo del confine, poiché i produttori locali hanno perso l'accesso ai mercati più vicini", ha affermato Marie Struthers.

Il villaggio di Khurcha sul lato abkhazo del fiume Inguri, che separa la regione separatista dal resto del territorio georgiano, era un tempo uno snodo commerciale locale, grazie al suo punto di attraversamento. Ma il punto di attraversamento è stato chiuso a marzo 2017, spingendo alcuni residenti a spostarsi altrove nel territorio controllato da Tbilisi.
"Il nostro villaggio è diventato un vicolo cieco: come le nostre vite", ha detto un residente di Khurcha di 85 anni.

Gli attraversamenti effettuati fuori dai punti designati e senza documenti adeguati, spesso difficili da ottenere, sono considerati illegali dalle autorità russe e locali. Questo porta a centinaia di persone arbitrariamente detenute ogni anno, alcune delle quali presumibilmente percosse e sottoposte ad altri maltrattamenti in detenzione.
“Le autorità russe e le autorità di fatto dei territori separatisti devono riaprire i punti di passaggio precedentemente chiusi e allentare le restrizioni di movimento per i locali che vivono vicino alla linea amministrativa. Quando si applicano restrizioni alla libera circolazione, devono essere strettamente necessarie, dettate da autentiche considerazioni di sicurezza o militari, e proporzionate", ha affermato Marie Struthers.

Inoltre, Amnesty International invita la Georgia a fornire un sostegno consistente alle famiglie i cui diritti economici, sociali e culturali sono stati compromessi a causa della "frontierizzazione", comprese quelle che hanno perso i propri mezzi di sostentamento.

Informazioni di contesto:
Le grandi questioni politiche alla base delle ostilità tra Georgia, Russia e le due regioni separatiste accadute negli anni '90 e 2000 sono importanti e attuali, ma vanno oltre lo scopo della nostra ricerca.

Il briefing si basa su circa 150 testimonianze raccolte durante le trasferte in Georgia a marzo e luglio 2018 e giugno 2019. Amnesty International ha scritto al governo russo, alle autorità di fatto in Abkhazia e Ossezia del Sud/ Regione di Tskhinvali e al governo georgiano un riepilogo delle conclusioni e preoccupazioni in materia di diritti umani, offrendo alle istituzioni l'opportunità di rispondere e vedere il proprio contributo riflesso nel rapporto. Amnesty International ha ricevuto solo una risposta dalla Georgia.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #287 il: Agosto 30, 2019, 20:24:33 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Lettera-all-Europa-196153


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Lettera all'Europa

L'Unione europea personifica appieno il caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Lo scrive, in una sua "lettera all'Europa", Ilija Trojanow, scrittore, traduttore ed editore

26/08/2019 -  Ilija Trojanow
Ogni anno il festival di poesia Days of Poetry and Wine  di Ptuj, tra i più conosciuti festival dell'Europa centrale, propone ad un poeta di indirizzare una lettera all'Europa, per sottolineare le questioni che ritiene siano le più urgenti. La prima lettera venne scritta da Stefan Hertmans nel 2017 seguito da Athena Farrokhzad l'anno successivo. Nel 2019 è stata la volta di Ilja Troianow.

Cari europei, cari complici, care compagne vittime,

ho recentemente ricevuto una mail da Aisha al-Gheddafi, l'unica figlia dell'ex dittatore libico. Non ci conoscevamo, eppure la signora Gheddafi scriveva con molta fiducia che mi avrebbe affidato 27,5 milioni di dollari se l'avessi aiutata a investire i soldi nel mio paese. Mi avrebbe ricompensato con una bella commissione del trenta per cento di questa somma. Mi ha chiesto di contattarla con urgenza.

Non credevo che la signora Gheddafi mi avesse scritto personalmente, ovviamente. Dopo tutto, non era la prima volta che venivo contattato in questo modo. Probabilmente tutti hanno ricevuto una missiva simile almeno una volta nella vita: in passato per lettera, per un breve periodo via fax e da qualche tempo tramite e-mail. È l'inizio di una truffa.

I nigeriani la chiamano "419", dal relativo paragrafo del codice penale del loro paese. Qualcuno ti scrive, affermando di avere accesso a ingenti somme di denaro (appropriazione indebita). Questo qualcuno vorrebbe che tu lo aiutassi a portare questo denaro fuori dalla Nigeria (o dalla Russia o dal Brasile o da qualche altro paese). Nigeriani intraprendenti inviano milioni di questi messaggi e, se un destinatario ci casca, chiedono alcuni modesti pagamenti amministrativi per oliare le ruote per la grande manna. Accetta un incontro faccia a faccia con uno di questi faccendieri e ti faranno ballare per un bel po'.

Gli europei di solito parlano o scrivono dei casi di 419 come esempio della tremenda corruzione in paesi come la Nigeria, con un misto di indignazione e divertimento. Meno frequentemente si parla del comportamento dei truffati, generalmente considerati vittime pur essendo in realtà complici. Come fanno i mittenti di queste mail a pensare di attirare qualcuno in Europa con storie assurde di oro e pietre preziose? Il trucco funziona solo perché è chiaro a entrambe le parti che nigeriani, libici o iracheni stanno facendo riciclare i propri soldi sporchi a un europeo "che più bianco non si può". Non sorprende nessuno che agli europei si affidi ciecamente la protezione di milioni di dollari trafugati.

Questo è chiaramente uno dei nostri compiti nell'ambito della divisione globale del lavoro. Altri rubano, noi custodiamo; un dollaro lava l'altro. Ogni e-mail 419 è un segno che la corruzione nel sud del mondo è possibile solo perché i soldi rubati finiscono da qualche parte qui, che si tratti di Londra o Zurigo, Cipro o del Liechtenstein.

Eppure siamo sconvolti dalla portata della corruzione nel sud. Circa 50 miliardi di dollari vengono sottratti ogni anno nei paesi più poveri del mondo. Il capitale fugge a nord. Designare i responsabili dell'andazzo del capitalismo globalizzato non è facile come molti di noi vorrebbero pensare. Transparency International, ad esempio, pensa che la Somalia sia il paese più corrotto sulla terra, mentre il noto giornalista italiano Roberto Saviano, che ha studiato per decenni le organizzazioni in stile mafioso, è dell'opinione che sia la Gran Bretagna (Londra è degenerata in un parco giochi per truffatori internazionali).

Transparency e Saviano hanno ragione entrambi, ma come cittadini europei, dobbiamo prendere atto della nostra schizofrenia. Chiediamo buon governo e ricicliamo denaro sporco, contemporaneamente, con i nostri cuori in cielo e i nostri culi grassi sul divano della compiacenza.

Alla fine del XVIII secolo a Edimburgo viveva un uomo di nome William Brodie, un elegante signore che gestiva una bottega di ebanista ed era rispettato dai suoi concittadini. Di giorno faceva parte del consiglio comunale e soddisfaceva in modo affidabile gli ordini dei suoi clienti; di notte entrava nelle case dei suoi clienti e li rapinava. . . fino a quando un giorno fu arrestato e giustiziato.

William Brodie sarebbe stato da tempo dimenticato se Robert Louis Stevenson non avesse visto in lui un simbolo estremo di un inquietante tratto umano: la doppia personalità. Stevenson scrisse di Brodie tre volte. I primi due tentativi furono flop teatrali, il terzo – una novella frenetica intitolata The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde – divenne un bestseller.

"Sono nato nel 18-- con una grande fortuna, dotato inoltre di qualità eccellenti, propenso all'industria, affezionato al rispetto dei saggi e dei buoni tra i miei simili, e quindi, come si poteva supporre, con ogni garanzia di un futuro onorevole e distinto”. Così inizia la confessione del dottor Jekyll nel capitolo finale del libro. È un eminente dottore, un uomo che guarisce le persone, che dà valore all'educazione e alla conoscenza e un membro di spicco della società.

Allo stesso tempo, tuttavia, è l'epitome insensibile e brutale dell'avidità cieca, un uomo di nome Mr Hyde.

Non ci sono il dottor Jekyll da un lato e Mr Hyde dall'altro, ma una creatura "impegnata in una profonda duplicità di vita". Inoltre: "Ho visto che delle due nature che si contendevano il campo della mia coscienza, se potevo giustamente dire di essere una, era solo perché ero radicalmente entrambe".

Il dottor Jekyll non è innocente né ingenuo né cieco. Riconosce il nemico dentro di sé e gli piacerebbe molto sconfiggerlo. Alla fine, però, rinuncia alla lotta.

È possibile tracciare una linea diretta tra questa storia e il presente. Ciò che è vero per gli individui può valere anche per le società nel loro insieme. L'Europa – o, per essere più precisi, l'Unione europea – è il dottor Jekyll e Mr Hyde.

Nel 2017 il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha espresso orrore per lo stato dei campi profughi in Libia. "Non riesco a dormire bene quando penso a quello che sta succedendo a quelle persone che sono andate in Libia per cercare di migliorare la propria vita, solo per ritrovarsi all'inferno". L'Europa non deve "tacere di fronte a questo scandaloso problema, che risale a un altro secolo”. Era "molto scioccato" dalle notizie secondo cui i rifugiati in Libia venivano venduti come schiavi. "Fino a due mesi fa non conoscevo la portata del problema. È diventata una situazione costante e urgente".

È facile capire l'orrore di Juncker. In Libia una trentina di rifugiati sono ammassati in celle di meno di cinque metri quadrati e muoiono di fame perché vengono nutriti solo ogni tre giorni. Secondo un rapporto dell'Ong Medici senza frontiere, le loro condizioni di vita peggiorano costantemente. Quasi un quarto dei detenuti nella prigione di Sabaa a Tripoli, la capitale, sono apparentemente denutriti, molti dei quali bambini.

L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) stima che attualmente vi siano circa 670.000 rifugiati in Libia. L'ambasciata tedesca in Niger ha scritto alla Cancelleria tedesca nel 2017, descrivendo cosa succedeva ai rifugiati respinti nel Mediterraneo: "Esecuzioni di migranti che non possono pagare, torture, stupri, ricatti e abbandono nel deserto sono la routine quotidiana. Testimoni oculari hanno parlato di cinque sparatorie a settimana in una delle carceri: queste erano preannunciate e si svolgevano sempre di venerdì per liberare spazio per i nuovi arrivati".

Uno studio della Commissione per le donne rifugiate conclude che praticamente ogni donna che fugge attraverso la Libia è vittima di violenza sessuale. Ci sono testimonianze di stupri con bastoni, genitali bruciati, peni tagliati e uomini costretti a violentare le proprie sorelle. Atrocità inimmaginabili, e tutto negli ultimi due anni.

Quindi cosa ha fatto Juncker per porre fine a tali terribili circostanze?

Niente!

Cosa avrebbe potuto fare?

Molte cose.

Questo perché ciò che sta accadendo in Libia si sta verificando non solo con l'acquiescenza dell'UE, ma anche con finanziamenti diretti dal blocco, dal momento che le guardie di frontiera libiche devono utilizzare tutti i mezzi disponibili per impedire la fuga dei rifugiati. Se i rifugiati subiscono condizioni terribili e muoiono in Libia, è conseguenza diretta di una politica UE mirata.

Tuttavia, sarebbe sbagliato accusare i sostenitori di questa politica, come Jean-Claude Juncker, di ipocrisia. Il suo oltraggio era senza dubbio sincero. È un erede della tradizione europea che ha promulgato ideali universali di solidarietà in tutto il mondo dopo la Rivoluzione francese, abolito la schiavitù e svolto un ruolo decisivo nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il dottor Jekyll riflette su questo enigma: “Nella mia duplicità, non ero affatto un ipocrita; entrambe le parti erano genuine. Non ero maggiormente me stesso quando mettevo da parte la moderazione e mi immergevo nella vergogna, rispetto a quando lavoravo, alla luce del giorno, per promuovere la conoscenza o il sollievo dal dolore e dalla sofferenza".

L'UE dichiara di "sostenere le autorità nazionali nel migliorare la propria capacità di combattere i trafficanti". In realtà, tuttavia, la distinzione tra le autorità libiche e le bande di trafficanti è alquanto labile.

"I governi e le istituzioni europee continuano a dire che sostengono la fine della detenzione arbitraria di rifugiati e migranti, ma non hanno intrapreso alcuna azione decisa per garantire che ciò accada", ha affermato Matteo De Bellis di Amnesty International.

I politici europei parlano come il dottor Jekyll e si comportano come Mr Hyde. Il ministro tedesco dello sviluppo internazionale, Gerd Müller, elabora piani su piani per salvare il mondo, ma poco è successo durante il suo mandato.

Il ministro vorrebbe che le società occidentali cambiassero radicalmente il proprio stile di vita. "Non dovremmo più trarre la nostra prosperità dal lavoro di schiavi e bambini e dallo sfruttamento del nostro ambiente". Nel suo libro Unfair scrive: "Dobbiamo raggiungere uno stato che permetta a ogni persona sul pianeta di vivere in modo dignitoso. L'obiettivo è quello di soddisfare le esigenze fondamentali di tutti in termini di cibo, acqua, alloggio e lavoro, e per i paesi industrializzati, che hanno già acquisito questi beni materiali, ciò significa che dobbiamo imparare a condividere. A lungo termine non ci deve essere e non ci sarà ulteriore crescita a spese degli altri".

In un discorso in onore dell'agenzia di aiuti cattolica Misereor un anno fa, ha dichiarato: "Invece di 'Mi dispiace' ora dovremmo dire 'Mi prendo la responsabilità per quelle cose che sono in mio potere'. E abbiamo potere! Come consumatori. Come imprese che producono in tutto il mondo. Come politici di grandi potenze economiche".

Ha continuato citando la sfida del cardinale Frings a fare appello alle coscienze di coloro che determinano le condizioni politiche, economiche e sociali. È tutto molto onorevole: il Ministro Jekyll sta formulando una chiara missione etica, che ognuno di noi percepisce in momenti chiave. Mia figlia ha imparato a scuola che un prosperoso cittadino svizzero utilizza le stesse risorse di un intero villaggio africano. Se fossimo su una zattera, tale comportamento parassitario e antisociale non sarebbe tollerato.

La politica della vita reale è diversa, però. Ogni organismo internazionale impedisce riforme indispensabili al sistema economico e finanziario globale. Negli ultimi quattro decenni ci sono stati tentativi a vari livelli amministrativi delle Nazioni unite di collegare condotta economica e diritti umani e approvare regole vincolanti. Più recentemente, un anno fa il Gruppo di lavoro intergovernativo (IGWG) sulle società transnazionali e i diritti umani ha pubblicato un progetto di accordo su impresa e diritti umani. Questa "bozza zero" – così chiamata per dimostrare che è provvisoria e modificabile – è stata il risultato di anni di contrattazione tra i partecipanti. Verrà ora "discussa": un eufemismo per la sterilizzazione di qualsiasi restrizione rigorosa e giuridicamente vincolante sulle azioni spesso brutali e quasi sempre sfruttanti delle aziende internazionali nei paesi più poveri.

Parallelamente, agli sforzi dei paesi del Sud globale per essere ammessi al comitato per la politica fiscale internazionale dominato dall'OCSE è stato posto il ​​veto dal Nord, compresa la Germania. Questo avrebbe "aumentato le opportunità fiscali dei paesi più poveri per determinare misure normative internazionali, ad es. chiusura dei paradisi fiscali, lotta all'evasione fiscale e lotta alla concorrenza per il dumping fiscale".

Solo due decenni fa, la riduzione del debito per i paesi più poveri era una questione politica di alto profilo. Tutto ciò che ostacolava la cancellazione dei debiti dei paesi in via di sviluppo era l'avidità e l'egoismo dei paesi industrializzati. Al giorno d'oggi, questi paesi difendono i propri vantaggi con le unghie e con i denti. Quando il ciclone Idai ha recentemente devastato parti del Mozambico, gli appelli strazianti per la riduzione del debito sono caduti inascoltati. Secondo le statistiche del FMI, il Mozambico è uno dei trentacinque stati che si trovano in una crisi del debito esistenziale. Il paese è indietro con i suoi pagamenti e incapace di saldare i debiti in essere.

Ogni volta che si tratta di denaro o la "nostra" prosperità è minacciata, Hyde alza la sua brutta testa e sabota la lotta per la dignità umana e una buona vita per tutti.

Invece di regole vincolanti, l'UE e il governo tedesco (incluso il ministro Müller) optano per schemi volontari per gli standard ambientali e sociali.

Un anno fa ho guidato per due ore buone attraverso il nord del Borneo e, a perdita d'occhio su entrambi i lati della strada, non c'era nient'altro che palme da olio dove, solo una generazione fa, fioriva la giungla. La vista: monocoltura alimentata chimicamente e crescita che porta alla morte (dopo due decenni i terreni sono completamente esauriti). Le dichiarazioni di Amsterdam ora incoraggiano i commercianti, le aziende agricole e le imprese alimentari che hanno contribuito alla distruzione della natura per diversi decenni a impegnarsi volontariamente in standard più rigorosi come parte di piattaforme multi-stakeholder e a incardinare i loro modelli di business su una base più sostenibile. Questa vecchia idea ha solo uno svantaggio: non funziona.

Hyde è particolarmente dilagante in agricoltura. Sebbene l'ultimo Rapporto mondiale sull'agricoltura invochi un cambiamento radicale nell'agricoltura globale, l'UE e i suoi stati membri più potenti continuano a spingere per l'espansione dell'agricoltura industriale completa di uso intensivo di fertilizzanti, pesticidi e semi brevettati. Ciò serve principalmente gli interessi e i profitti delle società agricole coinvolte, mentre i metodi agro-ecologici sostenibili sono quasi ignorati.

Ci si potrebbe strappare i capelli di fronte a questa schizofrenia profondamente radicata, ma ci sono anche segni di speranza. La schiavitù era tanto normale alla fine del diciottesimo secolo quanto le navi container oggi. Quando piccoli gruppi in Gran Bretagna iniziarono a mettere in discussione la sua legittimità, le loro convinzioni etiche furono respinte perché il commercio di schiavi transatlantici era immensamente redditizio per il Regno Unito. Garantiva posti di lavoro, enormi ricchezze e flusso di beni di consumo. Questa era una giustificazione sufficiente. È lo stesso oggi per quanto riguarda le enormi disuguaglianze sociali e la distruzione ambientale. Le argomentazioni di Mr Hyde sono dure a morire. Eppure cinquant'anni di lotta politica alla fine hanno portato all'abolizione della schiavitù in Europa.

Anche questo fa parte della tradizione europea. In Crisis in Civilization, la forte accusa di Rabindranath Tagore al dominio britannico in India, il poeta cerca di distinguere tra resistenza all'imperialismo e rifiuto della civiltà occidentale. Da un lato, l'India era “soffocata dal peso morto dell'amministrazione inglese"; dall'altro, non dovrebbe mai dimenticare ciò che il paese aveva guadagnato attraverso il dramma di Shakespeare e la poesia di Byron e soprattutto "il liberalismo di buon cuore della politica inglese del diciannovesimo secolo". L'aspetto tragico, tuttavia, era che "ciò che era veramente il migliore nelle loro stesse civiltà, la difesa della dignità delle relazioni umane, non ha posto nell'amministrazione britannica di questo paese".

Non è un segreto che la storia del dottor Jekyll e di Mr Hyde si concluda male. Robert Louis Stevenson, grande viaggiatore scozzese, aveva incapsulato la duplice natura europea con notevole prescienza: “Henry Jekyll si trovava a volte inorridito davanti agli atti di Edward Hyde; ma la situazione era staccata dalle leggi ordinarie e allentava insidiosamente la presa della coscienza. Era Hyde, dopo tutto, e solo Hyde, a essere colpevole. Jekyll non stava peggio; si svegliava di nuovo con le sue buone qualità apparentemente intatte; si sarebbe anche affrettato, ove possibile, a cancellare il male fatto da Hyde. E così la sua coscienza sonnecchiava".

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
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https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Giornaliste-e-molestie-online-la-riscossa-parte-dalla-Bosnia-195974

Citazione
Giornaliste e molestie online: la riscossa parte dalla Bosnia

Pane quotidiano nelle redazioni balcaniche e fattore di rischio per la libertà di stampa secondo gli organismi internazionali, la violenza verbale tramite internet contro le donne nei media è ovunque in aumento

22/08/2019 -  Paola Rosà
“L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono le leggi speciali – argomenta da Belgrado Tamara Skrozza del settimanale Vreme (Tempo) – anche perché se le donne giornaliste ottenessero delle tutele particolari questo non farebbe che peggiorare la situazione, confermando agli occhi dei colleghi l'immagine di un soggetto particolarmente vulnerabile, complicato e difficile”.

Complicata e difficile rimane invece la quotidianità di lavoro – nei Balcani ma non solo – fatta di minacce online, ingiurie, intimidazioni. Tanto che, secondo una recente inchiesta di BIRN, network di ong e giornalisti attivi su diritti umani e democrazia nei Balcani, le molestie online sarebbero per le giornaliste “pane quotidiano”.

“A causa della tendenza, profondamente radicata nella società bosniaca, a denigrare le donne emergenti in generale, molte delle mie colleghe preferirebbero ingoiare gli insulti piuttosto che denunciarli pubblicamente”, conferma da Sarajevo Elvira Jukić, caporedattrice del portale del centro ricerche Mediacentar. “Denunciare significa spesso rischiare il posto di lavoro, essere disprezzate dai colleghi o gettare un'onta sulla propria famiglia”.

Un allarme globale
Sottocategoria delle minacce ai giornalisti, la fattispecie delle molestie online declinate al femminile è una tipologia di attacco alla libertà di stampa e alla sicurezza dei reporter che il Rappresentante OSCE per la libertà dei media ha identificato già nel 2015, quando è stato lanciato il progetto SOFJO sulla tutela delle giornaliste da minacce online. Da allora, si legge in una raccomandazione dell'OSCE dello scorso febbraio, sono state raccolte innumerevoli testimonianze di molestie sessuali e campagne denigratorie subite da donne: “Le giornaliste donne affrontano un peso doppio: possono essere attaccate in quanto giornaliste e in quanto donne”. E l'escalation degli ultimi mesi è una minaccia per il giornalismo e di conseguenza per la democrazia.

Lo spazio senza regole del web, spazio di libertà di espressione ma anche territorio di abusi e censura ai danni delle voci “del dissenso e marginalizzate”, dovrebbe arricchirsi secondo l'OSCE di una cautela maggiore per i diritti umani e per la trasparenza sull'azione di algoritmi, troll e bot, mentre la politica è chiamata a impegnarsi a trovare “risposte innovative”, allargando la collaborazione alle vittime e ai gestori delle piattaforme.

Oltre all'OSCE, anche Nazioni Unite, Unesco e Parlamento Europeo hanno affrontato il tema di recente, vuoi come questione legata al rispetto dei diritti umani, vuoi come specifica tipologia di minaccia alla sicurezza dei giornalisti ma anche in quanto discriminazione di genere. “Mentre i giornalisti maschi vengono attaccati per le loro opinioni o per la competenza professionale, è più probabile che le donne vengano colpite da ingiurie sessiste e invettive a sfondo sessuale”, si legge ad esempio nella raccomandazione del Consiglio d'Europa per combattere e prevenire il sessismo adottata a fine marzo 2019.

Durante la conferenza dell'Unesco del 18 giugno scorso, quando oltre 200 delegati nazionali, giornalisti e avvocati si sono incontrati a Parigi, è stata anche annunciata l'intenzione di effettuare uno studio su “misure efficaci in grado di contrastare le molestie online che colpiscono le giornaliste”. Il fenomeno è in crescita e l'attenzione delle istituzioni non è da meno. Secondo un rapporto dell'ONU del 2018, quasi un quarto delle donne in generale ha subito qualche forma di violenza online, e ad essere più colpite, insieme alle appartenenti a minoranze etniche e a lesbiche e transgender, sono giornaliste e blogger: “Ai reati commessi in rete gli Stati dovrebbero applicare una prospettiva di genere – raccomanda l'ONU – e la pubblicazione periodica delle violazioni dovrebbe comprendere una casistica di genere”.

Una minaccia alla libertà di stampa
Che non si possa prescindere da una questione di genere sembra confermarlo l'analisi condotta dalla rivista Feminist Media Studies che ha passato al setaccio i circa 70 milioni di commenti lasciati dai lettori sul portale del Guardian nel decennio dal 2006 al 2016: a prescindere dal tema trattato, i pezzi firmati da donne hanno registrato una percentuale molto più alta di commenti poi bloccati. E un sondaggio del 2018 effettuato dalla Federazione internazionale dei giornalisti con sede a Bruxelles evidenzia che il 66% delle giornaliste vittime di violenza online lo sono state per il fatto di essere donne, mentre delle 600 interpellate dalla International Women’s Media Foundation quasi i due terzi hanno subito un attacco online intriso di minacce a sfondo sessuale. E gli attacchi avrebbero ottenuto l'effetto sperato, portandone quasi il 40% ad abbandonare il tema su cui stavano lavorando.

“Mi sono accorta che queste ondate di odio hanno cambiato il mio modo di fare giornalismo – ammette Elfie Tromp, una delle giornaliste intervistate dall'Associazione dei giornalisti olandesi lo scorso maggio – piuttosto che ritrovarmici travolta, ho preferito evitare certi argomenti per qualche tempo, dicendomi che non valeva la pena, per quel poco che guadagno col giornalismo”. La geografia delle molestie e dell'autocensura travalica i confini dei paesi tradizionalmente tutori e paladini della libertà di stampa, e anche nei Paesi Bassi c'è poco di cui rallegrarsi: su 350 intervistate, più della metà ha ammesso di essere stata minacciata e per il 70% di loro queste minacce hanno in qualche modo ostacolato il libero esercizio della professione di giornalista.

Per raccogliere segnalazioni ed elaborare strategie difensive, ci si muove anche nei Balcani: la rete di BIRN ha aperto a metà giugno una sezione dedicata. “Vogliamo conoscere la tua esperienza di vittima di violenza online, che si tratti di attacchi, molestie o minacce”, si legge sulla pagina che spiega come queste subdole tipologie di attacco ricorrano a “sessismo, discorsi degradanti e commenti su aspetto e rapporti personali, nel tentativo di screditare, umiliare e non da ultimo far tacere le donne giornaliste”.

Il Resource Centre

Per approfondimenti e altri materiali, analisi, sondaggi e studi sulla libertà di stampa in Europa si può consultare il Media Freedom Resource Centre, una piattaforma in continuo aggiornamento gestita da OBCT nell'ambito del progetto ECPMF.

Le donne si alleano contro la tempesta perfetta
“Nei Balcani denigrare le donne è qualcosa che si fa normalmente – scrive la freelance Lidija Pisker da Sarajevo – e attaccare online una donna è come dirle ciao. In molti casi, sono i media a incoraggiare tali atteggiamenti”. La conferma arriva da Duška Pejović, giornalista televisiva della rete pubblica del Montenegro (RTCG), che riporta la questione sul piano della mentalità e della cultura: “Negli anni Novanta conducevo un programma sui diritti delle donne e la decostruzione del patriarcato […] tanto che sono stata nel mirino di un fiume di insulti perché ero una donna che violava le regole della tradizione. Sono stata minacciata soprattutto di stupro”.

A distanza di anni, le minacce si sono forse modernizzate nel medium rimanendo tuttavia le stesse nei contenuti. “L'immagine stereotipata della donna resta ancora presente nei media in Montenegro”, continua Duška, e questo nonostante il principio di parità di genere sia esplicitato in numerose norme, internazionali e nazionali. Secondo Mehmed Halilović, giornalista di lungo corso ora nel direttivo del Centro per il giornalismo investigativo di Sarajevo, le giornaliste nei Balcani si trovano ad affrontare una “tempesta perfetta”, la combinazione di un'antica diffusa misoginia e di un moderno e rinnovato disprezzo per i giornalisti.

Azzeccata quindi l'analisi di Tamara Skrozza da Belgrado: non servono nuove leggi, bisogna piuttosto “riprogrammare nel complesso l'atteggiamento della società nei confronti della donna”. E per arrivarci, sono le donne, le giornaliste, a dover imparare a costituire massa critica, a solidarizzare, a denunciare. Come stanno facendo in Bosnia Erzegovina, dove a metà luglio è nata la Rete delle giornaliste, una sorta di “casa sicura” da cui trarre incoraggiamento, idee e competenze nella lotta per migliorare i propri diritti professionali.

Perché di questo si tratta. Di difendere l'accesso alla professione tutelandone la qualità, come ben spiega Maja Nikolić, giornalista di Radio Free Europe: “La creazione della rete sarà a vantaggio di tutta la comunità dei giornalisti, anche dei nostri colleghi maschi che spesso, troppo spesso se ne stanno in silenzio”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #289 il: Settembre 13, 2019, 00:53:50 am »
https://www.eastjournal.net/archives/99399

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SERBIA: L’urbicidio progressista di Belgrado
Giorgio Fruscione 1 giorno fa

Quando scriviamo di urbicidio nei Balcani sareste tenuti a pensare subito a Vukovar, Mostar o Sarajevo. E invece oggi vi parliamo di Belgrado e la guerra, questa volta, non c’entra niente.

“Non è vero che Belgrado fa schifo, ci siamo stati quest’estate, ci siamo divertiti moltissimo e ci è piaciuta un sacco”, direte. E ci mancherebbe altro. Belgrado ha un’anima e uno spirito indistruttibili. Ma oltre agli splav – i locali sulle chiatte attraccate sulla Sava – una capitale dovrebbe offrire anche un aspetto decente, e rispettoso degli spazi verdi, specie durante la stagione turistica.

Da mesi la nuova amministrazione cittadina, il cui sindaco è un medico che non viene mai nominato se non quando lo chiamano per andare a inaugurare le casette per gli uccellini (per la cronaca, e per quei belgradesi che ancora non lo sapessero: si chiama Zoran Radojicic), ha stravolto l’aspetto e l’assetto del centro di Belgrado.

Dopo aver eretto una fontana cantante con luci al neon fucsia e arancioni nel centro di Slavija – la rotonda gigante che smista (a fatica) il traffico delle principali arterie urbane della capitale – non hanno risparmiato nemmeno piazza della Repubblica. Quella col cavallo. Dove vi sarete trovati anche voi quest’estate e dove da secoli si incontrano i belgradesi. Da così tanto tempo, che quando hanno iniziato a scavare hanno scoperto dei vecchi resti archeologici. Si trattava della base di una porta barocca del diciottesimo secolo. Ma invece di farne tesoro, studiare un modo per renderla visibile ai turisti, porvi una teca e farne bene pubblico, è stata in qualche modo impacchettata e ricoperta di cemento. Pare, per il bene stesso dei resti.

Dopo più di un anno, i lavori sono finalmente finiti. Ma non i disagi derivanti dalle deviazioni del trasporto pubblico. Il traffico si congestiona proprio sulla piazza, in direzione Francuska, una delle vie principali del centro.
Oggi piazza della Repubblica è così:

Un trionfo di cemento. Anche attorno ai tronchi dei pochissimi alberi piantati, di cui uno – incredibilmente – è già morto. Qualcuno su Twitter scherza, ma neanche tanto: sembra Tirana all’epoca di Enver Hoxha. È l’estetica del partito di governo, dei progressisti del presidente Vucic. Di progressista ha l’alchimia del trasformare una bella piazza in un’accozzaglia di mattonelle pronte a distruggersi, fra qualche mese. E tutto questo cemento è costato ai contribuenti ben 10 milioni di euro.

Per chi non ci è stato se non questa estate, la piazza prima era così:

È successo anche a Slavija. Per far posto alla fontana più kitsch del sudest Europa, hanno rimosso il busto e i resti di Dimitrije Tucovic (teorico socialista morto nella Grande guerra) e sui marciapiedi adiacenti hanno impiegato mattonelle che sono durate un quarto del tempo rispetto a quanto sono durati i lavori su tutta la rotonda. Ma la Serbia progressista è così. Crea disagi là dove ci sarebbe anche bisogno di fare lavori, ricostruisce con una totale assenza di verde, e di gusto, una piazza, ma senza cambiarne la funzionalità urbana. E a Slavija ce n’era veramente bisogno. Quei getti d’acqua altissimi che ripetevano (il meccanismo in realtà ha smesso di funzionare) a disco rotto le stesse 3 canzoni sono costati quasi 2 milioni di euro. Con quei soldi avrebbero potuto migliorare la gestione del traffico che da decenni si congestiona a Slavija. E invece no. Cattivo gusto e cattivo cemento.

Le mattonelle hanno cominciato ad avere crepe e devastarsi  pochi mesi dopo la fine del “rinnovo”. Ma ci saranno dei lavori di manutenzione. E saranno pagati dai belgradesi, che avranno altri disagi, altro kitsch e altra devastazione di Belgrado.

E poi progredisce anche “Belgrado sull’acqua”. Faraonico progetto edilizio sponsorizzato dagli emiri che vogliono una Dubai nei Balcani e che è stato caratterizzato da numerosi scandali. Si tratta di un agglomerato di palazzoni “moderni” lungo la Sava, là dove correva la ferrovia (spostata ora in un posto che nessun belgradese conosce) e dove per anni non si è costruito niente di niente. Forse perché il terreno pregno d’acqua non garantirebbe la tenuta di un grattacielo? Ma Vucic l’ha definito “un progetto di interesse nazionale”. E ci mancherebbe. Tre miliardi e mezzo di euro, garantiti per lo più dal budget della Serbia, cioè dai contribuenti, mentre dagli Emirati è arrivata la società per realizzare un progetto che cambierà per sempre il magnifico skyline della capitale serba.

Una devastazione che va avanti imperterrita, e senza alcun rispetto degli spazi verdi, da quando l’amministrazione progressista è guidata – invece che dall’innominato a cui piacciono gli uccellini – dal vicesindaco Goran Vesic, piccolo quadro di partito. Di tutti i partiti. Democratico quando il Partito Democratico governava, e ora progressista fedelissimo di Vucic. Vesic, che di fatto agisce da primo cittadino, ha spesso dichiarato di voler lasciare una traccia indelebile sulla città. E ci sta ampiamente riuscendo. Ma la voglia di mostrar fedeltà alla causa progressista costa ai belgradesi questo urbicidio.

Potremmo parlarvi anche della costruzione della “gondola” (in realtà una cabina teleferica) che unirà la centralissima fortezza di Kalemegdan con la sponda di Nuova Belgrado e del come, per farle spazio, sono state abbattute decine e decine di alberi secolari senza interpellare la cittadinanza; o del come resiste parte della popolazione, organizzata o meno, contro questi continui scempi e collassi urbani.

Ma vi annoieremmo e voi forse volete comunque conservare un buon ricordo di Belgrado. Lo conserveranno anche i belgradesi, ricordando quanto fosse progressista la loro città prima che arrivassero i progressisti.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #290 il: Settembre 13, 2019, 00:55:50 am »
https://www.eastjournal.net/archives/99384

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EUROPA: Il problema è il nazionalismo tedesco (anche se nessuno lo dice)
Matteo Zola 1 giorno fa

Da molti tempo i tedeschi non si permettevano un livello di nazionalismo come quello che siamo stati costretti a osservare, con crescente preoccupazione, nell’ultimo decennio. E non s’intende solo il nazionalismo espresso dai partiti dell’estrema destra tedesca, sempre più protagonisti della politica locale, ma di un nazionalismo istituzionale, diffuso tra le élites politiche, economiche e finanziarie del paese. Un tipo di nazionalismo che non indossa camicie brune, che non è revisionista o nostalgico, che non coltiva ambizioni pangermaniste. Un nazionalismo che però, alla revanche populistica, patriottarda, euroscettica dell’estrema destra ha spianato la strada, inoculando all’interno dell’animo tedesco i germi del male antico.

L’agone dove tale nazionalismo ha dato miglior mostra di sé è l’Unione Europea, che Berlino afferma di sostenere ma che di fatto ha piegato ai propri interessi minando la “casa comune” alle fondamenta.

È stata ed è la politica tedesca ad aver proclamato il principio secondo cui i problemi dei singoli stati membri, si tratti di quello greco, portoghese, italiano, non sarebbero problemi europei. È stata ed è la politica tedesca ad aver fatto del Consiglio europeo un organo di tutela dei propri interessi nazionali, piuttosto che il luogo dove tali interessi vengono messi in secondo piano, abbassando sistematicamente l’asticella dell’integrazione europea e riducendo l’UE a un mero spazio di rivendicazione di interessi nazionali. L’UE, almeno in teoria, non dovrebbe essere questo: anzi, dovrebbe essere il luogo dove l’interesse nazionale viene tutelato in un’ottica di cooperazione post-nazionale. La tutela dei propri interessi a scapito di quelli altrui è invece stata la cifra della politica europea tedesca, alimentando frustrazioni e opposti nazionalismi negli altri paesi membri.

La Germania ne ha certo ricavato un vantaggio immediato, la sua industria è uscita quasi indenne dalla crisi iniziata nel 2009, aprendo anzi spazi di penetrazione negli stati limitrofi, specialmente quelli dell’est Europa. La Germania è oggi il primo partner economico della Polonia, dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della Croazia, dell’Ucraina, dei paesi baltici, e questo significa influenza politica su quella parte di continente che, salvo qualche rara sparata propagandistica, ha sempre appoggiato la linea di Berlino in Europa. Una linea che blocca regolarmente lo sviluppo di politiche condivise. Una linea di fatto contraria agli interessi “paneuropei”.

L’UE ha perso la sua missione unificatrice, è diventata luogo di confronto e competizione in cui gli stati più forti cercano di ottenere vantaggi a scapito di quelli più deboli. La reazione ‘controrivoluzionaria‘ di Orban e Kaczynski si nutre anche di questo. Il terreno fertile per il germogliare del populismo euroscettico l’hanno prodotto le élites politiche tedesche.

Il terreno fertile per il germogliare del populismo euroscettico l’hanno prodotto le élites politiche tedesche

Ma il fatto più scandaloso è stato il costruire, da parte di alcuni politici tedeschi e di un sistema mediatico non sempre responsabile, un capro espiatorio, un nemico immaginario di volta in volta incarnato nel “parassita straniero”, nel greco che non paga i debiti, nell’italiano spendaccione. E poco conta che i greci siano stati costretti da Berlino, in cambio degli aiuti economici, a comprare armamenti tedeschi: soldi che potevano servire agli ospedali e alle scuole, ma attraverso cui la Germania ha di fatto finanziato la propria industria bellica.

Ora che queste politiche miopi stanno portando la Germania alla recessione, ora che il seme dell’odio verso lo straniero è stato piantato, ora che l’UE è stata ridotta a un organismo incapace di agire sui problemi, non ci si sorprenda dell’ascesa dell’ultradestra nella stessa Germania come nel resto d’Europa. La miopia tedesca, la loro interpretazione egoistica dell’europeismo, il loro cinico sfruttare l’UE per ampliare la propria influenza sul continente e la propria competitività economica, sarà la causa del disfacimento dell’Unione.

Le recenti elezioni europee hanno portato un mediocre ministro della Difesa tedesco alla guida della Commissione. Una persona che a quella decostruzione d’Europa ha partecipato e che ebbe l’agio di dire che la Grecia, in cambio degli aiuti, doveva offrire come garanzia la propria riserva aurea, una persona che è stata coinvolta in uno scandalo legato agli approvvigionamenti militari, con sospetti di corruzione e nepotismo. Una persona inadatta a correggere la rotta del Titanic europeo.

Chi plaude all’uscita del Regno Unito dall’UE, chi schernisce le goffe e impacciate politiche di Londra in questa fase storica, sappia che non riderà per ultimo. La Germania è il malato d’Europa, e sta consumando il corpo stesso del vecchio continente. Solo un atteggiamento paneuropeo, rinnovato e consapevole, da parte dei principali paesi dell’Unione potrà forse salvare dal naufragio. Altrimenti, si spera, che da Londra ci lancino un salvagente.

O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern laßt uns angenehmere anstimmen
und freudenvollere!

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #291 il: Settembre 13, 2019, 01:02:40 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Pride-l-orgoglio-di-Sarajevo-196467

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Pride: l'orgoglio di Sarajevo

Partecipazione numerosa, nessun incidente, manifestanti visibilmente commossi. E dal palco si dedica il primo Pride di Sarajevo a tutti gli oppressi della Bosnia Erzegovina

09/09/2019 -  Alfredo Sasso
Applausi spontanei, urla di incitamento, tamburi battenti, sorrisi e abbracci, lacrime di commozione e gioia. Ieri una travolgente onda di energia, emozione e riscossa collettiva ha riempito il cuore di Sarajevo, il tratto tra il monumento della Fiamma Eterna e il piazzale del Parlamento, con circa 2000 persone. Per capire a fondo la portata dell’evento bisogna guardare indietro. “Nessuno osa nemmeno contemplare di organizzare un Pride a Sarajevo o in un’altra città della Bosnia Erzegovina” sosteneva nel 2017 un articolo  che suscitò polemiche  . Ancora nell’autunno 2018, alcuni attivisti commentavano rassegnati che sarebbe stato molto improbabile organizzarne uno a breve. Continuavano a pesare le memorie delle aggressioni violente subite dalla comunità lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali, queer (LGBTIQ) nel 2008, 2014 e 2016  .

In Bosnia Erzegovina il dogma dell’eterosessualità si è rafforzato dopo le guerre degli anni Novanta e la successiva ondata di militarismo, nazionalismo e desecolarizzazione. Ma le associazioni LGBTIQ hanno continuato ad aprire piccoli spazi di protezione e visibilità. E sono arrivati ad esigere ciò che ad alcuni, a torto, sembrava impossibile: il primo Pride nell’ultimo paese dell’ex-Jugoslavia e di tutto il sud-est Europa in cui non si era mai organizzato, dunque “L’ultimo primo Pride”. Fu annunciato cinque mesi fa, suscitando le minacce di gruppi radicali e l’indignazione delle forze conservatrici – di tutte le confessioni - che dominano la scena pubblica bosniaca, e si è tenuto ieri.

Corteo e commozione
La giornata è cominciata presto. I primi attivisti sono arrivati molte ore prima dell’inizio previsto per le 12, accompagnati da un impressionante dispiegamento di forze dell’ordine, con più di 1000 agenti - presenti anche tiratori scelti sui piani alti - e un unico punto di accesso al corteo, con controlli stretti. Su cartelli e striscioni si leggevano alcuni messaggi rivendicativi e altri con richiami universali: “L’amore non è un privilegio”, “Orgoglio senza pregiudizio”, “Quanto costa la libertà?”, “Noi siamo famiglia”, “Lui ama lui”, “Mamma, eccomi qui!”. “Uguali diritti per tutti non significa meno diritti per te!”, “Scusate se la mia esistenza distrugge i vostri pregiudizi”, “Difendiamo i rifugiati”, “C’è da vietare i fascisti” (sottintendendo “non noi”, per le richieste di proibire la marcia avanzate fino a pochi giorni fa).

A un’ora dall’inizio il corteo ha iniziato a ingrossarsi, segnale che un pezzo significativo della città ha voluto sfidare il clima di paura e di indifferenza, ha riabbracciato la propria pluralità e la vocazione all’apertura, incontrando i tanti pezzi di mondo giunti per l’occasione. C’erano le Donne in Nero di Belgrado, collettivi LGBTIQ di Serbia, Montenegro, Croazia e Albania, rappresentanti di diverse ambasciate - tra cui quella italiana -, attivisti venuti a sostenere la marcia dalla Germania, dal Regno Unito, dall’Italia, e naturalmente da tutta la Bosnia Erzegovina: Mostar, Banja Luka, Tuzla, Zenica. Appena si è capito che i pessimismi della vigilia erano infondati – sottovoce si temeva un corteo raccogliticcio limitato a poche centinaia di attivisti abituali - la tensione si è sciolta.

Per scelta degli organizzatori non c’era musica amplificata. Eppure dal corteo si è liberato subito il canto potentissimo di “Ay Carmela”, la leggendaria canzone dei repubblicani spagnoli che nei paesi post-jugoslavi è l’inno popolare contro fascismo e autoritarismo. Poi è partito lo slogan-icona del Pride sarajevese, “Ima izać!” (“C’è da uscire!”), seguito da “Ponos!” (orgoglio). A quel punto si è allentato persino il rigidissimo protocollo di sicurezza delle forze dell’ordine, una scorta talvolta apparsa perfino troppo invadente (ma va riconosciuta l’estrema professionalità e l’efficacia nel prevenire incidenti; l’organizzazione è stata impeccabile). È diventato chiaro che è la partecipazione e il sostegno civile, e non (solo) le transenne e le scorte, a creare uno spazio protetto e libero. Il momento più temuto per la sicurezza è stato quello in cui il corteo è passato a un centinaio di metri dalla contro-manifestazione di un’associazione ultraconservatrice musulmana, presente con alcune decine di manifestanti. La circostanza è passata inosservata alla stragrande maggioranza del Pride: ben più attenzione è stata riservata alle diverse persone, soprattutto anziane, che salutavano dalle finestre. Quando il corteo è giunto al piazzale davanti al parlamento, molti manifestanti erano visibilmente commossi.

“Oggi come mai finora, noi lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer smettiamo di essere invisibili. Oggi come mai finora, lotteremo per le nostre vite. Vogliamo costruire una società di non-violenza e comunità, dove nessuno dovrà nascondere l’amore e vivere dentro quattro mura”, ha detto dal palco Lejla Huremović, una delle organizzatrici della marcia. Le “quattro mura”, un riferimento tipico nella narrazione omofoba e transfoba, in questi giorni si ascolta quasi ossessivamente nei discorsi dei politici conservatori. “Siamo coscienti che questa marcia non cambierà il mondo. Ma sappiamo che darà speranza per cambiare davvero le cose”, ha concluso Huremović.

Antifascismo e diritti
In una piazza che brulicava di partecipazione, l’attivista Branko Ćulibrk ha ricordato chi mancava. “Sentiamo grande responsabilità verso tutti coloro che per paura di violenze e discriminazioni, non se la sono sentita di essere con noi. Ogni giorno lottiamo per la nostra esistenza. Ogni giorno il nostro amore e la nostra identità sono attaccati, non accettati, sminuiti, aggrediti”. Ćulibrk ha ricordato le lacune delle istituzioni del paese che “permettono violenza contro di noi, ci stigmatizzano, ci emarginano, ci costringono a trattamenti forzati, vietano un’educazione sessuale democratica. Continuiamo a non avere nessuna legge sulle coppie omosessuali. Alle persone trans non è permesso l’accesso alla sanità pubblica, non possono cambiare i documenti se non hanno compiuto la transizione”.

Nella conclusione Ćulibrk ha lanciato, ancora una volta in questa giornata, un messaggio trasversale: “Sentiamo, per responsabilità e solidarietà, di dover parlare di tutti i gruppi oppressi della società bosniaco-erzegovese: i rom, le persone con invalidità, lavoratori e lavoratrici, i veterani di guerra, i migranti e i rifugiati, e tutti quelli che sono lasciati ai margini. Tra tutti loro si trovano anche persone LGBTIQ, che subiscono una discriminazione multipla. Chiediamo più solidarietà ed empatia verso tutte queste persone”.

Le ultime vibrazioni della piazza si legano alla musica di Damir Imamović, celebre interprete della sevdah, il genere tradizionale bosniaco. “Che ognuno ami chi vuole” (“Neka ljubi ko god koga hoće”): Imamović ha scandito  intensamente queste parole di un celeberrimo brano d’amore della sevdah, prima di chiudere con una sorprendente – e virtuosissima, al netto di una leggera incertezza linguistica - interpretazione di Bella Ciao  . Ricordandoci che l’antifascismo, qui e altrove, non è un’etichetta o un marchio vintage, ma una presa di coscienza necessaria contro lo svilimento della dignità umana e la violenza organizzata che si abbatte su emarginati ed oppressi.

In un cerchio ideale, il Pride si è aperto e si è chiuso con due inni dell’antifascismo europeo, i frammenti migliori del secolo passato in un paese che reclama di vivere e costruire più liberamente il secolo corrente, con tanti spazi e ben più di quattro mura che restano da aprire.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #292 il: Settembre 13, 2019, 01:19:50 am »
Se non fanno il pride gli fanno le rivoluzioni colorate o le guerre...
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline itacel

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #293 il: Settembre 13, 2019, 12:20:05 pm »
Nell'incellosphera ci sono alcuni polandcels, EEcels (europa dell'est). Noto che nascono adesso le prime comunità polacche che riguardano l'inceldom, nascono anche in russia e per quello che ne so io sono recenti.

I russi che ho letto con l'aiuto del google translator, usano un termine che mi è piaciuto ed è "vaginacapitalismo". Mi fa piacere che sviluppino un loro gergo e non lo stiano copiando dall'anglosfera.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #294 il: Settembre 16, 2019, 00:06:32 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Zecovi-alla-ricerca-di-giustizia-196411

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Zecovi, alla ricerca di giustizia

Il 25 luglio 1992 nel villaggio di Zecovi, situato a pochi chilometri da Prijedor e abitato da bosgnacchi, vengono uccisi 150 civili. Tra di loro 29 familiari di Fikret Bačić, tornato in Bosnia a fine guerra per cercarne i corpi e portare i responsabili a processo. Nel giorno della commemorazione dell'eccidio, abbiamo raccolto la sua testimonianza

11/09/2019 -  Nicole Corritore
"Quando arrivate a Prijedor invece che andare verso il centro proseguite in direzione Sanski Most. A poco meno di 5 km troverete una stradina prima asfaltata e poi sterrata che vi porta fino a noi". È Fikret Bačić che al telefono ci dà indicazioni su come raggiungerlo. È il 25 luglio e nella frazione Gradina del villaggio di Zecovi si sta svolgendo la commemorazione dell’eccidio di 150 civili di Zecovi uccisi nel 1992, tra cui 29 familiari di Fikret.

Mentre di fronte alla sua casa donne e uomini distribuiti sul prato cominciano a seguire il “namaz” (preghiera) in memoria delle vittime, Fikret ci accompagna lungo il sentiero che costeggia il recinto del giardino e si ferma di fronte a una lapide a forma di libro.

"Lavoravo in Germania da prima che scoppiasse la guerra, mentre mia moglie e i bambini erano rimasti a vivere qui accanto alle case di tutti i nostri parenti, i miei genitori, i miei fratelli e nipoti, miei nonni, zii e cugini". Inizia così il suo racconto al gruppo di trentini venuti in Bosnia su organizzazione del "Gruppo Bosnia Mori  ", attivo sul territorio di Prijedor da anni.

"In totale massacrarono 29 dei miei parenti, tra i quali mia moglie, mia figlia Nermina di sei anni, mio figlio Nermin di 12 e, tra gli altri, anche il figlio di mio fratello che aveva solo due anni". Lo dice indicando una gettata di cemento al centro del prato. "La casa era lì, accanto a quella di mio padre. Quando sono tornato era tutto raso al suolo e ho dovuto costruirne una nuova accanto alle macerie". Poi si gira di 180 gradi e indica il bosco sul fianco del sentiero: "Ora vedete solo bosco. Dovete sapere che qui era pieno di case, le cui macerie sono state totalmente coperte in 27 anni di abbandono". Aggiunge che attorno alle case, lungo la collina, era coperto da campi coltivati e all’orizzonte, a un chilometro in linea d’aria, si vedevano le case dei vicini serbo-bosniaci: "Se oggi non ci fosse il bosco potreste vederle anche ora, le case di chi ha partecipato al massacro".

Il 23 luglio le forze militari serbo-bosniache assediarono il villaggio e deportarono tutti i maschi adulti, in maggioranza uccisi durante la deportazione o nei lager - Keraterm, Trnopolje e Omarska - in cui vennero rinchiusi, lasciando nel villaggio donne e bambini.

"A donne e bimbi della mia famiglia ordinarono di stare tutti dentro un capannone-deposito che usavamo per gli attrezzi agricoli e un gruppo di soldati rimase a controllarli. Due giorni dopo, il 25 luglio, arrivò un altro gruppo di militari e assieme al gruppo che era qui si avviarono al villaggio di cui là potete vedere il campanile della chiesa, Briševo. Donne e bambini decisero di uscire dal capannone per risalire in casa; dalle finestre del primo piano cominciarono a sentire i colpi d’arma da fuoco che arrivavano da quel villaggio, distante 2,5 km in linea d’aria [a Briševo, abitato da croato-bosniaci, quel giorno avvenne il massacro di 68 persone tra donne, anziani e bambini, ndr]".


Zecovi, la lapide "libro" - foto N.Corritore

Ciò che avvenne viene raccontato da Fikret grazie alla testimonianza di suo nipote Zijad. "Qui, dove adesso c’è questa lapide con i nomi dei miei familiari uccisi, c’era un tavolo. Nel tardo pomeriggio i soldati tornarono e si sedettero a bere un caffè, poi si avviarono alla caserma dopo aver ripetuto alle donne di restare ‘al sicuro’ e non allontanarsi per evitare di rimanere ferite visto gli scontri in corso...".

Al calar della sera cominciò a bruciare la casa di un vicino e sentirono degli spari. Da lì a poco si presentò alla porta un soldato che ordinò loro di uscire: "Le donne presero per mano i bambini e vennero portati accanto a quel muretto, sotto al frutteto. Zijad, che aveva 14 anni, si era attardato per mettersi le scarpe ed era rimasto ultimo. Mentre usciva dalla casa riconobbe nel primo soldato il nostro vicino serbo-bosniaco, Ilija Zorić. Alle prime raffiche di mitra si mise al riparo dietro al muretto e riuscì ad allontanarsi di qualche metro. Da qui, riconobbe tra gli uomini che sparavano un altro vicino, Željko Grbić. Assistette all’uccisione di tutti, compresi sua madre, due fratelli e una sorella... anche il momento in cui un soldato passò tra i corpi per dare il colpo di grazia". Lo stesso scenario si ripeterà poco dopo davanti alla casa della zia, con figli e nipoti; tra questi solo due bambini sopravviveranno alle ferite.

I soldati se ne andarono, sicuri di aver fatto “piazza pulita”. Al calar del buio Zijad decise di andare a chiedere aiuto ad un vicino, suo amico e compagno di classe, serbo-bosniaco, che abitava a 1 km di distanza. Non trovando nessuno si arrampicò al balcone del primo piano per passare la notte al sicuro. Il giorno dopo tornò verso le case dei suoi parenti sperando di trovare qualcuno vivo, ma alla vista dei corpi sul prato non resse e tornò indietro. Fikret prosegue sottolineando l'importanza dell'aiuto che venne offerto al nipote: "Trovò il suo compagno di classe S. e i due genitori, che lo nascosero per otto giorni. Ma dato che l’unità militare responsabile dell’eccidio aveva saputo che era l’unico superstite testimone e lo cercava, non era più al sicuro. Il padre di S. grazie alle sue conoscenze di alto livello da prima della guerra, riuscì a fare arrivare Zijad a Prijedor da dove con un altro zio sfollò a Travnik".

Da Travnik riuscì ad arrivare a Zagabria, in Croazia, dove lo aspettava suo zio Fikret per portarlo con sé in Germania. Appena è stato possibile, dopo la guerra, sono tornati a vivere in Bosnia, nel 1998. Una decisione, racconta Fikret, presa con due obiettivi: "Il primo era trovare i responsabili dell’eccidio e portarli a processo. Il secondo era trovare i corpi dei miei familiari".

Ad oggi i corpi non sono stati ancora trovati: come avvenuto in molti altri casi, dopo le uccisioni sommarie le vittime venivano occultate in fosse comuni. Di recente, i resti di alcuni dei 150 civili uccisi nella municipalità di Zecovi sono stati trovati nella più grande fossa comune finora scoperta, Tomašica - un'enorme area in cui vennero trovati in primi corpi nel 2004 ma soprattutto a decine dal 2013 - ad oggi sono stati esumati i resti di 430 persone.

Fikret e suo nipote Zijad, tornati in Bosnia hanno cominciato a cercare altri testimoni e prove affinché venisse emesso l’ordine di arresto degli indagati e l’avvio di un processo per crimini di guerra. Nel dicembre del 2014  sono stati arrestati 15 ex membri dell'esercito, della polizia e del Centro di crisi serbo-bosniaci di Prijedor: oltre ai due vicini di casa riconosciuti allora da Zijad, anche Dušan Milunić, Radomir Stojnić, Radovan Četić, Duško Zorić, Zoran Stojnić, Zoran Milunić, Boško Grujičić, Ljubiša Četić, Rade e Uroš Grujicić, Rajko Grbić, Zdravko Antonić e Rajko Gnjatović. Il processo a loro carico, iniziato nel giugno del 2015, è in corso presso la Corte di Sarajevo e prevede la comparizione di quasi 100 testimoni. Tra questi, oltre a Fikret e suo nipote Zijad, anche la madre del suo compagno di scuola. L’amico di Zijad e il padre, che gli salvarono la vita, vennero uccisi pochi mesi dopo mentre la madre, rimasta in vita, ha deciso di partecipare alle indagini e oggi è testimone di giustizia sotto protezione.


Zecovi, il gruppo in ascolto di Bačić - foto M.Benedetti

In attesa di ottenere giustizia, presenziando ad ogni dibattito processuale - il prossimo sarà il 13 di settembre - Fikret Bačić partecipa alla ricerca degli scomparsi anche in qualità di membro del direttivo dell’Istituto per la ricerca delle persone scomparse di Bosnia Erzegovina (IOM – Institut za nestale osobe Bosne i Hercegovine  ): "Mancano all’appello ancora 7.200 persone e non è per nulla facile ottenere informazioni da chi ha occultato i corpi o ha anche ‘solo’ visto; ogni tanto ne riceviamo ancora ma il tempo che passa ci è nemico. Eppure continuo a sperare, grazie a qualche pentito, di trovare finalmente anche la mia famiglia".

Un’ora di racconto, durante il quale le 15 persone arrivate dal Trentino sono ammutolite. Viene fatta, prima del solidale saluto a Fikret, solo una timida domanda: "Come riesci a raccontare, ogni volta, e a reggere?". Fikret, tenendo sguardo e voce ferma, ha risposto: "Ogni volta che racconto a persone come voi che hanno voglia di sapere, in realtà trasferisco un pezzo di me che voi vi portate via. Così facendo, mi alleggerite di una parte del peso che porto dentro".

Lasciamo dietro di noi la lapide voluta da Fikret per ricordare, a chi passa da quel sentiero e soprattutto ai giovani, ciò che è riassunto nell'inscrizione in testa ai nomi: “Non dite, per quelli che hanno perso la vita lungo la strada di Allah, che ‘sono morti’. No, loro sono vivi, ma voi questo non lo sapete. 25.07.1992”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #295 il: Settembre 16, 2019, 00:09:47 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Allargamento-UE-l-Ungheria-a-braccetto-con-la-Serbia-196558

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Allargamento UE: l’Ungheria a braccetto con la Serbia

L'ungherese László Trócsányi è possibile divenga il prossimo Commissario europeo per l'allargamento proprio quando le relazioni tra Ungheria e Serbia sono ottime. Una vicinanza che nasconde grandi e piccoli interessi

13/09/2019 -  Corentin Léotard
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans  l'11 settembre 2019)

Il presidente serbo Aleksandar Vučić è stato l’ospite d’onore del terzo Demographic Summit tenutosi a Budapest il 5 e 6 settembre scorsi. Ricevuto come una star, Vučić ha avuto l’onore di intervenire all’apertura del summit, prima dei rappresentanti dei paesi che, insieme all’Ungheria, fanno parte del Gruppo di Visegrád. "I rapporti tra i nostri due paesi non sono mai stati migliori e siamo felici che [il presidente serbo] sia qui con noi", ha dichiarato la Segretaria di Stato ungherese per la Famiglia Katalin Novák, responsabile dell'organizzazione del summit. Aleksandar Vučić ha ricambiato con parole altrettanto gentili. "È grazie al signor Orbán che le nostre relazioni bilaterali non sono mai state migliori. Vi assicuro che rimarremo fedeli amici del vostro paese", ha dichiarato Vučić, chiamando il primo ministro ungherese ”mio amico Viktor”.

La questione dell’allargamento dell’UE è stata sollevata da Viktor Orbán nel corso di una conferenza stampa convocata al termine dell’incontro tra Orbán e Angela Merkel, tenutosi a margine della celebrazione del trentesimo anniversario del cosiddetto “picnic paneuropeo”, organizzata nella città di Sopron lo scorso 19 agosto. "È una questione di cruciale importanza per l’Ungheria, dato che la frontiera ungherese coincide con la frontiera meridionale dell’Unione europea. Abbiamo un interesse diretto affinché i paesi dei Balcani occidentali entrino a far parte dell’UE il più presto possibile. L’Ungheria chiede quindi all’UE di continuare con l’allargamento", ha dichiarato Orbán, aggiungendo che "la Serbia è un paese chiave e accelerare i negoziati di adesione con la Serbia è nell’interesse non solo dell’Ungheria, ma dell’intera Europa".

L’appoggio di Orbán a una rapida integrazione dei Balcani occidentali nell’UE non è una novità, è una costante della politica estera ungherese ormai da diversi anni, più precisamente dal 2004 quando l’Ungheria è entrata a fare parte dell’UE. Il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó difende con fervore questa posizione ai vari summit internazionali, come ha fatto anche il suo predecessore János Mártonyi.

Budapest sostiene che il confine meridionale dell’UE – che in parte coincide con il confine tra Ungheria e Serbia – deve essere allargato (spinto in avanti) affinché l’Ungheria possa svolgere appieno il suo ruolo di crocevia mitteleuropeo. Al momento, il confine dell’area Schengen coincide in parte con il confine tra Ungheria e Serbia, ma anche con quello tra Ungheria e Romania e quello tra Ungheria e Croazia.

La questione della minoranza ungherese
La vicinanza strategica tra Budapest e Belgrado è invece una novità, ed è in gran parte dovuta ai buoni rapporti tra Orbán e Vučić, i cui regimi con tendenze autoritarie mostrano numerosi punti in comune. L’inversione di marcia nella politica estera ungherese – sempre più favorevole al mantenimento dei buoni rapporti con la Russia di Putin – iniziata nel 2014 con la firma di un accordo nucleare tra Budapest e Mosca, ha probabilmente contribuito al recente avvicinamento dell’Ungheria alla Serbia, tradizionale alleata della Russia.

Anche la questione della minoranza ungherese in Vojvodina, provincia settentrionale della Serbia, riveste grande importanza nei rapporti bilaterali tra i due paesi. A prescindere dalle relazioni con i paesi della regione, il sostegno alle minoranze ungheresi presenti nei paesi vicini è uno dei pilastri della politica estera ungherese. Durante i bombardamenti della Nato del 1999 sull’allora Federazione di Jugoslavia, Budapest minacciò di appoggiare la campagna aerea della NATO qualora i serbi avessero attaccato gli ungheresi della Vojvodina. Due anni più tardi, nel 2011, l’Ungheria minacciò di porre il veto alla concessione alla Serbia dello status di paese candidato all’adesione all’UE, a causa di una legge serba sulla restituzione dei beni confiscati durante il regime socialista, ritenuta da Budapest discriminatoria nei confronti della minoranza ungherese.

Nel 2013 i due paesi hanno compiuto uno storico gesto di riconciliazione, quando il presidente ungherese János Áder e il suo omologo serbo Tomislav Nikolić hanno reso omaggio alle vittime serbe e ungheresi dei crimini commessi in Vojvodina durante la Seconda guerra mondiale dalle forze dell’Asse e dai partigiani di Tito. Oggi Budapest considera la Serbia come il paese che ha fatto di più per la tutela della minoranza ungherese e i partiti che rappresentano la minoranza ungherese in Serbia sono diventati preziosi alleati del Partito progressista serbo (SNS) guidato dal presidente Vučić: senza il loro appoggio l’SNS non avrebbe potuto prendere il controllo della provincia della Vojvodina. Al contempo, la minoranza ungherese in Vojvodina è completamente leale a Orbán.

Rapporti d’affari poco trasparenti
L’Ungheria e la Serbia sono attualmente impegnate in un grande progetto infrastrutturale: la costruzione di una nuova rete ferroviaria ad alta velocità tra Budapest e Belgrado. I lavori di costruzione, finanziati dalla Cina, dovrebbero iniziare a breve. Nel frattempo, un’inchiesta giornalistica  , realizzata dal portale ungherese Direkt36 e da Balkan Insight, ha dimostrato che i due paesi sono legati anche da rapporti d’affari poco trasparenti. L’inchiesta ha fatto luce sulle attività dell’azienda Elios, che realizza impianti di illuminazione pubblica, indagata anche dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF). Nel 2015, OLAF ha rivelato l’esistenza di “gravi irregolarità” e “conflitti di interesse” nei 35 appalti pubblici vinti dall’azienda Elios, e in 17 casi ha riscontrato “meccanismi di frode organizzata”.

Ricorrendo agli stessi metodi, Elios si è aggiudicata numerose gare d’appalto anche in Serbia, per un importo complessivo di 25 milioni di euro. Dall’inchiesta condotta da Direkt36 e Balkan Insight è emerso che 12 delle 15 gare d’appalto prese in esame sono state vinte dai consorzi di cui facevano parte le aziende legate ad Elios, per un valore complessivo di 25 milioni di euro. Nel 2015, quando OLAF ha rivelato gravi irregolarità nell’attività della Elios, il genero di Viktor Orbán, István Tiborcz, figurava tra i soci dell’azienda. L’inchiesta realizzata da Direkt36 e Balkan Insight ha inoltre rivelato l’esistenza di un legame tra la filiale serba della Elios e alcune persone vicine al governo di Belgrado.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #296 il: Ottobre 03, 2019, 00:24:11 am »
https://www.eastjournal.net/archives/99815

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Ma quale equiparazione tra nazismo e comunismo? La solita miopia
redazione 2 giorni fa

di Francesco Magno e Matteo Zola*

Il 19 settembre scorso il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che ha fatto molto discutere “sull’importanza della memoria europea per il futuro d’Europa”. Il testo della risoluzione è stato presentato dai media  generalisti come una equiparazione tra nazismo e comunismo. Ma è davvero così?

Nessuna equiparazione

Rispondiamo subito, a nostro avviso non c’è un’equiparazione tra le due ideologie. E non c’è una condanna del comunismo nel suo senso più pieno. Certo, si legge a più riprese che l’Unione Sovietica era un regime totalitario. Ma non è forse così? Si mettono poi sullo stesso piano nazismo e stalinismo, che vengono definite ‘ideologie totalitarie’. Vogliamo forse affermare che lo stalinismo non sia stato un regime totalitario e assassino equiparabile al nazismo?

La risoluzione non parla dei partigiani, della lotta di classe, dei diritti dei lavoratori. Parla dell’Europa, com’è ovvio dato che proviene dal Parlamento europeo. Parla soprattutto dell’Europa centro-orientale, che del nazismo e dello stalinismo è stata vittima. Parla dell’URSS e dei regimi comunisti degli stati satelliti che definisce – giustamente – “autoritari”.  O vogliamo affermare che i regimi di Ceausescu, Hoxha, Gomulka, Živkov, fossero paradisi del socialismo realizzato?

Quando nel testo si dice che il Parlamento “invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione […] riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista” è ovvio che non parla di Cuba ma dell’Europa orientale. Non c’è, insomma, una equiparazione tra comunismo e nazismo. E sarebbe anche impossibile farla, data la natura multiforme e policentrica di ciò che va sotto il nome di “comunismo”. La risoluzione parla solo di stalinismo, di Unione Sovietica, di regimi autoritari negli stati satelliti. E questo appare ancor più evidente quando si cita Witold Pilecki, eroe di Auschwitz, ucciso dai “liberatori” sovietici. Che liberatori non furono.

La memoria degli altri

Non lo furono per polacchi, boemi e moravi, slovacchi, ungheresi, romeni e moldavi, lettoni, lituani ed estoni, finlandesi. E sarebbe ora di capirlo. Sarebbe ora di saltarlo questo benedetto muro che ancora divide l’Europa in due parti che non si comprendono. Sarebbe ora che l’occidente smettesse di sostenere che esiste solo una Storia, la sua. Noi occidentali non riusciamo mai a metterci nei panni degli altri, e li giudichiamo dall’alto della nostra pseudo superiorità morale e politica. Sarebbe bello che qualcuno spiegasse perché i polacchi, i finlandesi, gli ucraini, i lituani, gli estoni e i lettoni dovrebbero ritenere il comunismo sovietico meno criminale del nazi-fascismo.

Eppure, a occidente, risulta estremamente difficile credere che a est abbiano potuto interiorizzare il passato diversamente da noi. Si badi bene: la maggioranza degli europei orientali ritiene il nazi-fascismo e l’Olocausto delle bestialità della Storia, nonostante una vulgata diffusa si diverta a definire sempre i nostri cugini dell’altra metà del continente come dei piccoli balilla sul piede di guerra con baionetta in mano e sete di sangue. Ciò non toglie che i loro traumi e, soprattutto, il loro percorso di memoria siano diversi dal nostro.

Proprio quando Hitler iniziava a consolidare il suo potere in Germania, migliaia e migliaia di ucraini morivano di fame per precisa volontà di Stalin. E se è vero che ogni vita umana è uguale, vien da chiedersi quale sia la differenza tra uccidere in nome della razza in un campo di concentramento e uccidere privando del cibo in nome della rivoluzione? Mentre in Italia e in Francia il partito comunista agiva clandestinamente in opposizione al fascismo, l’Armata Rossa massacrava i prigionieri di guerra polacchi per poi gettarli in una fossa comune nella foresta di Katyn. Sostenere che l’Europa centro-orientale sia stata liberata dall’Armata Rossa nel migliore dei casi è crassa ignoranza, nel peggiore è disonestà intellettuale. Quando nel 1956 gli ungheresi insorsero contro il dominio comunista, a stroncarli furono quegli stessi carri armati sovietici che non avevano mai lasciato il suolo magiaro dal 1944.

“I soliti fasci orientali”?

Oggi come allora la sinistra occidentale, almeno quella più radicale, compie lo stesso errore. Taccia gli est europei di fascismo per non prendersi la briga di scavare nel fondo della loro sensibilità, per non fare lo sforzo di capire l’altra Europa. Non fu capito il ’56 ungherese, non fu capita la Primavera di Praga: “reazionari, deviazionisti, fascisti”, così venivano tacciati dai compagni di allora coloro che si opponevano a mani nude contro i carri sovietici. Questa risoluzione, che è certo malfatta e inappropriata, ha scatenato gli stessi fantasmi di allora. La stessa miopia di allora.

L’indignazione di coloro che oggi gridano all’ipotetica equiparazione tra comunismo e nazismo che sarebbe contenuta in questa risoluzione, è pretestuosa. Anche quando stabilisce che il patto Molotov-Ribbentrop “ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale”, il testo parla di patto “nazi-sovietico”. Il termine comunismo non viene utilizzato. E quello del famigerato patto è certo l’errore più grande di questa risoluzione, poiché è già dal 1918 che vanno semmai cercate le cause del Secondo conflitto mondiale.

La memoria è plurale

In generale, bisognerebbe riflettere sull’effettiva necessità di regolamentare per legge la memoria che non è una, ma plurale. Costringere milioni e milioni di persone ad accettare un ricordo condiviso scelto a tavolino che spesso non corrisponde al vissuto reale costituisce forse il vero e più grande atto di fascismo intellettuale. La Storia insegna la complessità e sfugge dalle righe cui i politici la costringono e la piegano. È questo il torto più grande di chi l’ha votata.

Un messaggio a Putin

Non spetta ai parlamenti esprimere valutazioni storiografiche, non spetta ai politici dichiarare memorie ufficiali o proporre letture del passato. Il vero scopo di questo tipo di provvedimenti è sempre politico, quanto mai attuale. A chi parla la risoluzione? Alla Russia di oggi, quella putiniana, che ha invaso e illegalmente annesso la Crimea, che ha occupato il Donbass, l’Abcasia, l’Ossezia meridionale, che finanzia partiti russofili nel Baltico. A quella Russia viene mandato un messaggio da parte di un’Europa che, è bene ricordarlo, ha recentemente rinnovato le sanzioni economiche verso Mosca.

Si tratta quindi di un documento politico in cui la Storia viene utilizzata strumentalmente, per interessi immediati, per dar forma al presente dell’Europa e non per ragionare sul passato. Una risoluzione fortemente voluta dai paesi dell’est, polacchi in testa, di cui certo avremmo fatto tutti a meno. Non per l’equiparazione tra nazismo e comunismo, che non c’è, ma per la grossolanità dell’intera operazione. Ma questo, agli indignati della domenica, non interessa.



*Francesco Magno, direttore editoriale East Journal

*Matteo Zola, direttore responsabile East Journal

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #297 il: Ottobre 03, 2019, 00:26:24 am »
https://www.eastjournal.net/archives/99835

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MACEDONIA: Il caso Janeva, corruzione e politica tra veleni e colpi bassi
Pietro Aleotti 2 giorni fa

Con voto quasi unanime, il 14 settembre scorso il parlamento della Macedonia del Nord ha ufficialmente rimosso dal suo incarico la procuratrice Katica Janeva, giudice a capo della Procura Speciale. Il voto arriva poche settimane dopo l’arresto della Janeva, accusata d’abuso d’ufficio e corruzione.

E’ questa, al momento, l’unica certezza di una vicenda che, c’è da esserne certi, riserverà altre sorprese nell’immediato futuro e che potrebbe avere ripercussioni politiche, anche ai massimi livelli. Una vicenda che ha del clamoroso, se si pensa che la Janeva era considerata la nuova eroina della lotta alla corruzione e che la Procura Speciale, da lei stessa guidata fin dalla sua istituzione nel 2016, aveva proprio lo scopo di contrastare la corruzione, dilagante in tutto il paese.

I fatti

La ricostruzione dei fatti ci riporta nel cuore dell’estate scorsa, e precisamente al 15 luglio, quando Boki 13, al secolo Bojan Javanosky, ex star televisiva, conduttore di successo e proprietario dell’emittente TV 1TV, viene arrestato con l’accusa di tentata estorsione ai danni dell’imprenditore macedone Jordan Kamchev, l’uomo più ricco della Macedonia del Nord. Kamchev stesso è nel mirino della Procura Speciale e, secondo l’accusa, sarebbe stato indotto da Javanosky al pagamento di una somma di cinque milioni di euro in cambio di un trattamento più mite da parte della procura. Javanosky, infatti, può far leva su rapporti privilegiati con la Janeva e, in particolare, col figlio di quest’ultima, manager di un’associazione di volontariato intestata a Javanosky.

E’ stato il quotidiano italiano “La Verità” a pubblicare per primo le intercettazioni audio in cui si sentirebbe Javanosky millantare ottime relazioni con la Janeva (e persino con l’attuale primo ministro, il socialdemocratico Zoran Zaev, che “non avrebbe certamente causato problemi”) e da cui si evincerebbe che il tentativo di estorsione sarebbe addirittura stato concordato con la giudice. Resta il fatto che il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ha anche pubblicato il video in cui si vede Javanosky uscire dall’abitazione di Kamchev con una borsa contenente un milione e mezzo di euro. La vera pistola fumante riguardo al coinvolgimento diretto della Janeva sembrerebbe, però, essere un’altra intercettazione audio, quella in cui si la si ascolterebbe rassicurare l’imprenditore sul fatto che “tutto andrà bene”. A ciò si devono aggiungere le perplessità espresse da alcuni dei suoi più stretti collaboratori circa la sua tendenza a prendere decisioni discutibili, senza condividerle, inclusa quella di restituire il passaporto proprio a Kamchev.

La vicenda giudiziaria farà il suo corso e solo le indagini potranno chiarire se si sia trattato, effettivamente, di un tentativo di estorsione e quale sia stato il reale coinvolgimento della giudice che, dal canto suo, ha tentato di derubricare il fatto a una “normale” attività d’ufficio finalizzata alla “estrazione delle informazioni” dagli indagati.

La politica dei veleni e dei colpi bassi

Ma è il piano politico quello ad offrire gli spunti di maggior interesse e, con ogni probabilità, la chiave di lettura più pertinente dell’intero caso. Vicenda giudiziaria e politica si intersecano, infatti, in un legame che pare indissolubile e che, dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, quanto “tossico” sia il clima politico del paese balcanico.

Nel 2016, infatti, erano state le intercettazioni rese pubbliche da Zoran Zaev, all’epoca all’opposizione, a provocare un vero e proprio terremoto. Esse fornivano, infatti, le prove delle presunte attività illegali perpetrate da Nikola Gruevski, allora primo ministro e leader del partito conservatore VMRO-DPMNE (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone). Le proteste popolari che ne scaturirono in tutto il paese portarono alla caduta del governo Gruesvki nonché alla sconfitta alla tornata elettorale dell’anno successivo, consegnando il paese nelle mani dell’acerrimo nemico Zaev e “inducendo” Gruesvki  alla sua rocambolesca fuga nell’Ungheria del sodale politico Viktor Orban.

I ruoli si sono ora invertiti e non è da escludere che la regia, più o meno occulta, dell’intero intreccio sia proprio quella “dell’esule” Gruevski. Così come potrebbe non essere una coincidenza il fatto che il caso sia stato scoperchiato da un quotidiano, “La Verità”, vicino alle posizioni sovraniste espresse in Italia da Matteo Salvini e condivise da quest’ultimo proprio con il duo Gruevski-Orban.

Quali conseguenze?

La vicenda butta nuovo discredito sulla politica macedone facendo precipitare la fiducia dei cittadini sulla classe dirigente del paese, come dichiarato dal presidente della repubblica, Stevo Pendarovski. Dal canto loro le opposizioni chiedono le immediate dimissioni di Zaev il quale, di converso, ha tentato nei giorni scorsi di confinare i fatti alla mera sfera giudiziaria, rivendicando i presunti successi del proprio esecutivo e ricordando l’importanza epocale delle sfide che il paese si trova ad affrontare: l’adesione all’UE e alla NATO, in primis.

Il quadro tuttavia potrebbe drasticamente cambiare qualora si dovesse comprovare non solo un coinvolgimento diretto del primo ministro ma anche una qualsivoglia connessione tra alcuni dei ministri del suo esecutivo e la società “Alleanza Internazionale” gestita da Bojan Javanovski.

Sullo sfondo, lo scontro politico si sposta anche sul futuro della Procura Speciale: nata tra mille speranze è, ora, presa tra l’incudine e il martello di chi, come le attuali opposizioni, la considerano un’emanazione del partito di governo responsabile della propria sconfitta elettorale e chi, al contrario, vorrebbe che continuasse ad operare anche oltre il limite, previsto per la fine di quest’anno, per poter portare a termine le decine di indagini ancora in corso.

In tutto ciò l’Europa è spettatrice interessata e considera l’estensione delle attività della Procura come condizione necessaria per l’avvio dei negoziati di adesione alla UE.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #298 il: Ottobre 03, 2019, 00:28:04 am »
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Autoritarismo competitivo, cos’è? L’Europa orientale e la crisi democratica
Matteo Zola 10 ore fa

Su queste colonne abbiamo più volte, negli anni, richiamato al concetto di “autoritarismo competitivo” senza tuttavia mai soffermarci a spiegarlo. Eppure si tratta di un concetto chiave per comprendere la situazione politica dell’Europa centro-orientale.

In poche parole, l’autoritarismo competitivo è proprio di quei paesi in cui, pur esistendo una competizione politica (e quindi il connesso diritto di voto), essa è falsata dal partito al potere che utilizza tutte le leve a disposizione per rimanere al suo posto e impedire l’accesso al potere da parte delle opposizioni. Avvalendosi del potere giudiziario o legislativo, ma anche di quello poliziesco e mediatico, il gruppo che detiene il potere agisce per evitare che gli venga sottratto. In taluni casi, questo concetto è sostituito da quello di “democratura” a indicare la natura ibrida, tra democrazia e dittatura, di questi regimi.

L’Europa centro-orientale è il luogo ove questo concetto si applica più spesso, a volte anche impropriamente, poiché se è vero che in tutta la regione si assiste a fenomeni di regressione democratica, esistono tuttavia vistose differenze. Certo, quasi tutti quei paesi hanno avviato, dopo il 1989, percorsi di costruzione di uno stato democratico ma tali percorsi hanno seguito rotte diverse.

I paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) erano considerati esempi di una riuscita transizione alla democrazia. Da circa un decennio si constata però un’erosione e a un deconsolidamento del sistema democratico che procede a velocità diverse nei quattro paesi e che non ha sempre punti in comune. Tuttavia l’indebolimento dello stato di diritto e la costruzione di quella che chiamano “democrazia illiberale”, sono elementi diffusi in vario grado a tutti i paesi della regione.
 

I paesi dell’area carpatico-danubiana (Romania, Bulgaria, Moldavia) sono stati più che altro protagonisti di una transizione interrotta, abortita da classi dirigenti locali corrotte e irresponsabili. La Romania assiste da anni a uno sconfortante susseguirsi di politici rapaci e padronali, incapaci di incrementare il livello democratico del paese e anzi protagonisti di una regressione unica in tutto il continente. La Bulgaria da più di un decennio è in mano a una consorteria politico-mafiosa. La Moldavia ha recentemente individuato quale presidente della repubblica Igor Dodon, uomo vicino al presidente russo Putin e con il quale condivide la visione del potere. In generale, il paese soffre di faide interne, di violenza politica, della competizione di gruppi oligarchici che si contendono il potere.
 

I paesi dell’area balcanica, a seguito delle guerre jugoslave, si sono connotati per il ricorso costante a forme di nazionalismo e populismo. Queste nazioni, che si vogliono santificate dal sangue versato, sono state guidate da élites che hanno occupato lo stato e le sue istituzioni. Un contesto certo non propizio allo sviluppo del pluralismo. Anche tra questi esistono però differenze. La Croazia ha realizzato una democrazia proceduralmente corretta, benché ancora caratterizzata da scarsa inclusività e rispetto delle minoranze. La Serbia – saldamente in mano al voivoda di turno, oggi incarnato da quell’Aleksander Vucic che proclamò l’omicidio di massa dei musulmani di Bosnia, è vittima di una transizione abortita. La Macedonia e l’Albania stanno lentamente evolvendo il proprio sistema verso la democrazia ma le istituzioni restano molto rudimentali e lo stato di diritto ancora molto fragile. Il Kosovo e il Montenegro sono in mano a rispettivi gruppi di potere in stretta relazione con la criminalità organizzata. La Bosnia Erzegovina è un protettorato europeo gravato da una costituzione farraginosa e inefficace.
 

I paesi dell’area post-sovietica sono a loro volta molto variegati. Gli stati baltici hanno costruito sistemi democratici maturi e funzionali, benché restino alcune criticità. L’Ucraina, come la Serbia, ha assistito a una transizione abortita e le rivoluzioni del 2004 e del 2014 non hanno aiutato il paese a imboccare con passo sicuro la strada verso la democrazia, anzi hanno reso le istituzioni più deboli e preda di interessi oligarchici. La Bielorussia è l’ultimo regime autoritario duro presente in Europa. Nel Caucaso le cosiddette “rivoluzioni colorate” in Georgia (2003) e Armenia (2018) hanno aperto a regimi semi-autoritari.
Le direttrici attraverso cui i paesi dell’Europa centro-orientale sono giunti a realizzare regimi ibridi sono quindi diverse. Diversità su cui è necessario insistere per non appiattirsi, come troppo spesso fanno i media generalisti, su definizioni onnicomprensive che opacizzano la realtà e non aiutano a capire. Nazionalismo e populismo sono fenomeni certamente in atto nell’Europa orientale, ma non bastano a spiegare se siamo di fronte alla fine del ciclo liberale, a una sbandata temporanea, a una tappa di una sviluppo mai lineare. Una tappa, tuttavia, in cui si assiste al diffondersi di modelli di società chiusa. Un tipo di società protetta che, secondo i suoi sostenitori, non sarebbe in conflitto con la democrazia. Ma di fatto lo è. Poiché in ogni fattispecie di società chiusa la protezione arriva al punto da sostituire il pluralismo con l’unica visione possibile, quella del partito al potere, pronto a limitare libertà e diritti costituzionali in nome del monopolio politico e morale sul paese e su persone, sempre meno trattate da cittadini e sempre più da popolo.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #299 il: Ottobre 10, 2019, 01:02:45 am »
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Citazione
ROMANIA: Il governo sta per cadere
Rebecca Grossi 8 ore fa

Dopo mesi di instabilità e precarietà politica, è infine successo ciò che molti da tempo si aspettavano: il governo di Viorica Dancila è stato posto di fronte ad una mozione di sfiducia.

Già da maggio il partito al governo PSD (Partidul Social Democrat) si era ritrovato a fronteggiare una serie di avversità: la condanna per abuso d’ufficio del suo leader Liviu Dragnea, l’insuccesso alle elezioni europee in cui ha perso oltre il 15 percento dei consensi rispetto a quelle del 2014, e infine, ad agosto, l’abbandono della coalizione di governo da parte dell’alleato minore ALDE (Alianta Liberalilor si Democratilor) di Calin Popescu Tariceanu.

Proprio la scelta di Tariceanu di mettere fine all’esperienza governativa è stata l’evento chiave che ha confermato che la sfiducia sarebbe stata ormai solo questione di tempo.

Redatta dal maggior partito di opposizione Partidul National Liberal (PNL), e appoggiata da altre cinque formazioni, compreso l’ex alleato di governo ALDE, la mozione di sfiducia è stata deposta in parlamento venerdì 27 settembre. 237 le firme raccolte, numero che garantirebbe matematicamente la maggioranza in entrambe le camere, e quindi l’effettiva possibilità di procedere verso la sfiducia.

Stando ad alcune indiscrezioni, sarebbe stata firmata anche da alcuni esponenti del PSD stesso.

La mozione è stata discussa giovedì 3 ottobre, mentre la votazione finale è stata fissata per la settimana dopo, il 10, durante una sessione congiunta delle due camere.

Inutile il tentativo del PSD di anticipare il voto finale a sabato 5 ottobre. L’opposizione ha infatti fatto fronte comune per evitare che coincidesse con il fine settimana, durante il quale notoriamente la presenza e partecipazione ai lavori parlamentari è ridotta.

Tuttavia, la scelta di fissare il voto una settimana dopo la discussione parlamentare è stata ampiamente criticata dagli altri partiti d’opposizione, che temono una possibile riorganizzazione da parte del PSD per ricomporre una maggioranza e impedire così che la sfiducia venga approvata.

Dichiarazioni

Diverse le reazioni e dichiarazioni del mondo politico. L’attuale presidente Klaus Iohannis sostiene la sfiducia all’esecutivo di Dancila, che definisce un “governo fallito“.

Iohannis auspica un governo di transizione che possa garantire un’efficace gestione politica nella delicata situazione attuale in cui si trova il paese: a novembre infatti si terranno le presidenziali, bisogna inoltre strutturare e approvare il budget nazionale per l’anno venturo, e organizzare le elezioni locali e parlamentari fissate per il 2020. Come traspare dalle parole di Iohannis, il PNL ricoprirebbe all’interno del nuovo esecutivo sicuramente una posizione chiave; idea confermata dalla possibile nomina del leader del PNL Ludovic Orban a primo ministro.

Dall’altra parte, Viorica Dancila si dimostra fiduciosa nella tenuta del governo, data l’eterogenea e aleatoria composizione del blocco dell’opposizione, definito “un miscuglio di interessi, opportunismo e ipocrisia”.

Lo scenario futuro

Sono stati diversi i tentativi da parte dell’opposizione di far cadere il governo socialdemocratico, in carica dal dicembre 2016; finora le mozioni di sfiducia sono sempre fallite a causa del mancato raggiungimento del quorum necessario. Adesso la situazione appare notevolmente diversa, data la rinnovata forza parlamentare delle opposizioni.

Tuttavia  lo scenario politico dell’immediato futuro appare poco nitido.

I sei partiti di opposizione che hanno firmato la mozione hanno agende, interessi, ideologie e visioni molto diversi. Molto precarie sono quindi le fondamenta su cui si baserebbe l’esecutivo che potrebbe succedere a Dancila. PRO Romania di Victor Ponta, nato nel 2017 dalla scissione con il PSD, e uno dei partiti che sostengono la mozione, ha dichiarato infatti che non sosterrebbe un governo formato da partiti di centrodestra, trovando più appropriato un esecutivo di centrosinistra, formato da PRO Romania stesso, ALDE, e da quella parte di PSD ostile a Dancila.

Inoltre, nonostante il numero di firme raccolte testimoni la presenza formale di una maggioranza a favore della sfiducia, non è tuttavia scontato che tutti i parlamentari siano disposti a convertire la loro firma in voto.

In conclusione, la stabilità in Romania pare ancora lontana e il futuro rimane nebuloso, il tutto a ridosso delle presidenziali, su cui l’attuale crisi di governo avrà inevitabilmente conseguenze. Si aspetta la votazione di giovedì, a seguito della quale il quadro potrà acquisire maggiore definizione.