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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99371
--- Citazione ---UCRAINA: Un primo ministro tecnocratico per i “servi del popolo”
Claudia Bettiol 17 minuti fa
Durante la prima seduta della Verchovna Rada – il parlamento ucraino -, tenutasi giovedì 29 agosto, i neoeletti deputati dello scorso 21 luglio hanno nominato il nuovo governo. La carica di primo ministro è stata assegnata al giovane trentacinquenne Oleksiy Hončaruk e approvata da 290 deputati, tutti facente parte del partito maggioritario di Volodymyr Zelensky, “Il servo del popolo”. La squadra che compone il consiglio dei ministri è ora al completo e i “servi del popolo” ora dovranno dimostrare di che pasta sono fatti.
Tecnocrazia, non politica
I desideri di Volodymyr Zelensky sono stati esauditi: il 35enne Oleksiy Hončaruk è il neo primo ministro dell’Ucraina. Una figura poco nota in politica, dunque perfetta per il primo “servo del popolo” il quale era alla ricerca di un volto nuovo al comando, un tecnocrate e un economista che non fosse troppo legato al mondo della politica.
Laureato in giurisprudenza, Oleksiy Hončaruk non è solamente il primo ministro più giovane di tutta la storia dell’Ucraina, ma anche una figura con un background nella sfera politica quasi nullo – se non si tiene conto del fatto che è stato vicedirettore dell’ufficio del presidente per qualche mese (dal 28 maggio 2019). Prima di entrare in carica, Hončaruk è stato a capo del Better Regulation Delivery Office (BRDO), un’organizzazione indipendente nata nel 2015 e finanziata dall’Unione europea volta a migliorare il contesto economico e la regolamentazione statale nei settori economici. Negli anni precedenti, ha gestito il proprio studio legale e prestato servizio come consigliere del ministro dello Sviluppo Economico Stepan Kubiv, il quale ritiene che l’esperienza professionale del giovane e le sue competenze e conoscenze in ambito economico siano più che valide a coprire le funzioni di premier.
“È un bravo ragazzo, giovane, molto energico, che ha un’esperienza sia in campo economico che legale, e penso sia importante per questa carica”, ha dichiarato David Arachamija, il nuovo capo del partito “Il servo del popolo”.
Hončaruk sembra soddisfare le esigenze del momento. O almeno quelle dei “servi del popolo”. I partiti minoritari, infatti, hanno rifiutato di sostenere la candidatura di Hončaruk, valutando diversamente la scelta. “Non conosciamo né lui né il suo programma”, ha dichiarato Yuriy Boyko, leader del partito filorusso “Piattaforma di opposizione – Per la vita” che gode di 44 seggi parlamentari. Anche i deputati del partito liberale “Voce”, appartenente alla rockstar Svjatoslav Vakarčuk, e del partito “Patria” di Julija Tymošenko, nonché il blocco di opposizione formato dalla squadra dell’ex-presidente Petro Porošenko, hanno rifiutato di votare per Hončaruk per le stesse ragioni.
Ad affiancare il lavoro del giovane premier, c’è una squadra di ministri dai volti più o meno nuovi, la maggior parte proveniente dal partito di Zelensky. Nessuna carica è stata assegnata ai membri di “Solidarietà europea”, il partito di Porošenko.
Sebbene fossero nate alcune proposte iniziali per riformare sostanzialmente il parlamento, tra cui quella di unire i ministeri per tematica, il loro numero e le loro funzioni sono rimasti invariati, almeno per ora. Solamente i capi dei ministeri sono stati sostituti con nuovi volti, eccezion fatta per il ministro delle Finanze, Oksana Markarova, in carica dal 2016, e dal ministro degli Affari Interni. Arsen Avakov è stato infatti riconfermato per questa carica che ormai mantiene dal febbraio 2014, nonostante la sua controversa reputazione e i numerosi scandali di cui è stato accusato.
A spalleggiarlo negli affari di politica estera ci sarà Vadim Prystajko, che ha iniziato la sua carriera diplomatica nel 1994 ed è stato ambasciatore dell’Ucraina in Canada tra il 2012 e il 2014. Dal 2017, come vice del ministro degli Esteri dell’Ucraina, ha guidato la missione di entrata del paese nella NATO.
L’obiettivo economico di Hončaruk
Hončaruk ha fin da subito affermato che il compito principale del nuovo governo è assicurare la crescita economica del paese, almeno del 5-7% all’anno. Il suo primo discorso va dritto al sodo: per raggiungere la crescita economica è necessario ridurre il costo delle risorse, abbassare i tassi di credito, garantire l’indipendenza della banca nazionale e, cosa non meno importante, cambiare l’atteggiamento nei confronti dell’Ucraina da parte del mondo intero. L’economia ucraina deve essere modificata strutturalmente. Un problema fondamentale che può essere risolto rapidamente attraverso investimenti esteri. Ma per attirare gli investitori nel paese, c’è bisogno di riforme strutturali e interdisciplinari: un efficente sistema giudiziario, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e la stabilità finanziaria in primis.
I problemi interni dell’Ucraina riscontrati ed elencati dal giovane premier sono essenzialmente legati alle infrastrutture, allo stato deplorevole degli alloggi e dei servizi comunali. Egli non dimentica, naturalmente, di citare anche la corruzione e la guerra con la Russia nell’est del paese, questione questa che riguarda indubbiamente la politica estera, ma che influisce inevitabilmente nella gestione della politica interna.
Hončaruk ha inoltre ribadito che tra poche settimane arriverà a Kiev la missione del Fondo monetario internazionale (FMI), con il quale l’Ucraina negozierà un nuovo programma di cooperazione per un periodo di tre o quattro anni.
La priorità dei “servi del popolo” era di formare un governo tecnocratico e professionale, in grado di vincere le sfide e le difficoltà economiche che l’Ucraina sta attraversando ormai da anni. Le loro speranze e quelle di milioni di ucraini sono racchiuse perciò in questo nuovo governo fatto di tecnocrati capaci di cambiare la natura e il corso dell’economia ucraina. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se le nuove forze politiche saranno in grado di dare una svolta all’Ucraina.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-e-Russia-dietro-il-filo-spinato-196248
--- Citazione ---Georgia e Russia: dietro il filo spinato
Un bilancio della situazione al confine tra Georgia e le regioni de facto di Abkhazia e Ossezia del Sud, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Report di Amnesty International
30/08/2019 - Amnesty International
I tentativi della Russia e delle autorità di fatto di delimitare fisicamente un confine tra i territori separatisti di Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali e il resto della Georgia, hanno portato alla popolazione locale, gravi restrizioni alla libertà di movimento e ad altre violazioni dei diritti umani; con famiglie separate da filo spinato, private dei propri mezzi di sussistenza e a rischio di detenzione arbitraria nel caso in cui tentino di attraversare il confine.
Queste le denunce del rapporto di Amnesty International Behind barbed wire: Human rights toll of “borderization” in Georgia (Dietro il filo spinato: il bilancio dei diritti umani della "frontierizzazione" in Georgia) che rivela l'impatto devastante degli sforzi da parte delle forze russe e delle autorità delle regioni de facto per stabilire un "confine internazionale" lungo il confine oggetto della disputa. L'installazione di filo spinato, recinzioni, fossati e altre barriere materiali, hanno diviso le comunità e tagliato l'accesso degli abitanti dei villaggi a terreni agricoli, fonti d'acqua, luoghi di culto e persino luoghi di sepoltura delle famiglie.
“Queste misure arbitrarie stanno strangolando delle vite. Centinaia di persone subiscono detenzioni arbitrarie ogni anno cercando di attraversare la linea di confine per nessun altro motivo se non quello di vedere parenti, prendersi cura dei loro raccolti o accedere alle cure sanitarie. Intere comunità vengono tagliate fuori da fonti vitali di reddito e da altri aspetti importanti della loro vita, punite solo per il luogo in cui vivono. La Russia esercita un controllo di fatto su Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali, e perciò deve rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto umanitario internazionale e sostenere i diritti umani in questi territori" ha affermato Marie Struthers, direttrice per l'Europa orientale e l'Asia centrale di Amnesty International.
Separare comunità, sconvolgere la possibilità di sostentamento
Le forze russe sono di stanza in Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali senza il consenso della Georgia dal conflitto dell'agosto 2008.
Nel 2011, le forze russe hanno avviato il cosiddetto processo di "frontierizzazione" per trasformare la linea di confine amministrativa – spesso solo tratteggiata su una mappa – in una barriera fisica che separa rispettivamente Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali dal territorio controllato dalla Georgia.
Davit Vanishvili, 85 anni, abitante del villaggio di Khurvaleti che è stato diviso durante il processo di "frontierizzazione", ha raccontato ad Amnesty International che nel 2013 le forze russe l'hanno messo di fronte ad una scelta netta: rimanere nella sua casa in Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali o spostarsi e vivere il resto della vita sfollato nella parte controllata da Tbilisi.
Ha scelto di restare, ma ora è separato dal resto della sua famiglia e dai suoi amici. Lui e i suoi parenti rischiano la detenzione ogni volta che provano ad attraversare la recinzione al riparo delle tenebre per ritirare la pensione, le medicine e altri beni dalla parte georgiana.
“Le guardie di frontiera russe sono venute a casa mia e mi hanno detto che non era più Georgia. Il giorno stesso hanno iniziato a installare recinzioni intorno al mio cortile. Non posso più accedere al resto del villaggio o al resto del paese", ha detto ad Amnesty International. La "frontierizzazione" ha colpito comunità di tutte le etnie su entrambi i lati del territorio diviso.
Secondo le autorità georgiane, alla fine del 2018, almeno 34 villaggi erano stati divisi da recinzioni installate dalle forze russe. Si stima che dalle 800 alle 1.000 famiglie in totale abbiano perso l'accesso ai propri terreni agricoli.
Amiran Gugutishvili, agricoltore di 71 anni del villaggio di Gugutiankari vicino alla frontiera Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali, deve dipendere dai sussidi sociali da quando ha perso l'accesso al suo meleto nel 2017. “Ogni anno raccoglievo dal mio frutteto più di cento casse di mele e le vendevo. Il profitto era sufficiente per mantenere la mia famiglia. Dal 2017 non riesco ad accedere al mio frutteto. Le guardie di frontiera russe hanno installato un cartello di confine di Stato. A volte passo ancora a dare un'occhiata ai miei meli attraverso il recinto”, ha detto ad Amnesty International.
La chiusura dei punti di attraversamento colpisce il commercio
La "frontierizzazione" ha comportato la chiusura di numerosi valichi ufficiali tra Ossezia del Sud/ Regione di Tskhinvali e Abkhazia e ha avuto un impatto dannoso su quello che una volta era un attivo commercio transfrontaliero. Ha gravemente eroso la situazione sociale ed economica delle comunità a cavallo del confine, poiché i produttori locali hanno perso l'accesso ai mercati più vicini", ha affermato Marie Struthers.
Il villaggio di Khurcha sul lato abkhazo del fiume Inguri, che separa la regione separatista dal resto del territorio georgiano, era un tempo uno snodo commerciale locale, grazie al suo punto di attraversamento. Ma il punto di attraversamento è stato chiuso a marzo 2017, spingendo alcuni residenti a spostarsi altrove nel territorio controllato da Tbilisi.
"Il nostro villaggio è diventato un vicolo cieco: come le nostre vite", ha detto un residente di Khurcha di 85 anni.
Gli attraversamenti effettuati fuori dai punti designati e senza documenti adeguati, spesso difficili da ottenere, sono considerati illegali dalle autorità russe e locali. Questo porta a centinaia di persone arbitrariamente detenute ogni anno, alcune delle quali presumibilmente percosse e sottoposte ad altri maltrattamenti in detenzione.
“Le autorità russe e le autorità di fatto dei territori separatisti devono riaprire i punti di passaggio precedentemente chiusi e allentare le restrizioni di movimento per i locali che vivono vicino alla linea amministrativa. Quando si applicano restrizioni alla libera circolazione, devono essere strettamente necessarie, dettate da autentiche considerazioni di sicurezza o militari, e proporzionate", ha affermato Marie Struthers.
Inoltre, Amnesty International invita la Georgia a fornire un sostegno consistente alle famiglie i cui diritti economici, sociali e culturali sono stati compromessi a causa della "frontierizzazione", comprese quelle che hanno perso i propri mezzi di sostentamento.
Informazioni di contesto:
Le grandi questioni politiche alla base delle ostilità tra Georgia, Russia e le due regioni separatiste accadute negli anni '90 e 2000 sono importanti e attuali, ma vanno oltre lo scopo della nostra ricerca.
Il briefing si basa su circa 150 testimonianze raccolte durante le trasferte in Georgia a marzo e luglio 2018 e giugno 2019. Amnesty International ha scritto al governo russo, alle autorità di fatto in Abkhazia e Ossezia del Sud/ Regione di Tskhinvali e al governo georgiano un riepilogo delle conclusioni e preoccupazioni in materia di diritti umani, offrendo alle istituzioni l'opportunità di rispondere e vedere il proprio contributo riflesso nel rapporto. Amnesty International ha ricevuto solo una risposta dalla Georgia.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Lettera-all-Europa-196153
--- Citazione ---Lettera all'Europa
L'Unione europea personifica appieno il caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Lo scrive, in una sua "lettera all'Europa", Ilija Trojanow, scrittore, traduttore ed editore
26/08/2019 - Ilija Trojanow
Ogni anno il festival di poesia Days of Poetry and Wine di Ptuj, tra i più conosciuti festival dell'Europa centrale, propone ad un poeta di indirizzare una lettera all'Europa, per sottolineare le questioni che ritiene siano le più urgenti. La prima lettera venne scritta da Stefan Hertmans nel 2017 seguito da Athena Farrokhzad l'anno successivo. Nel 2019 è stata la volta di Ilja Troianow.
Cari europei, cari complici, care compagne vittime,
ho recentemente ricevuto una mail da Aisha al-Gheddafi, l'unica figlia dell'ex dittatore libico. Non ci conoscevamo, eppure la signora Gheddafi scriveva con molta fiducia che mi avrebbe affidato 27,5 milioni di dollari se l'avessi aiutata a investire i soldi nel mio paese. Mi avrebbe ricompensato con una bella commissione del trenta per cento di questa somma. Mi ha chiesto di contattarla con urgenza.
Non credevo che la signora Gheddafi mi avesse scritto personalmente, ovviamente. Dopo tutto, non era la prima volta che venivo contattato in questo modo. Probabilmente tutti hanno ricevuto una missiva simile almeno una volta nella vita: in passato per lettera, per un breve periodo via fax e da qualche tempo tramite e-mail. È l'inizio di una truffa.
I nigeriani la chiamano "419", dal relativo paragrafo del codice penale del loro paese. Qualcuno ti scrive, affermando di avere accesso a ingenti somme di denaro (appropriazione indebita). Questo qualcuno vorrebbe che tu lo aiutassi a portare questo denaro fuori dalla Nigeria (o dalla Russia o dal Brasile o da qualche altro paese). Nigeriani intraprendenti inviano milioni di questi messaggi e, se un destinatario ci casca, chiedono alcuni modesti pagamenti amministrativi per oliare le ruote per la grande manna. Accetta un incontro faccia a faccia con uno di questi faccendieri e ti faranno ballare per un bel po'.
Gli europei di solito parlano o scrivono dei casi di 419 come esempio della tremenda corruzione in paesi come la Nigeria, con un misto di indignazione e divertimento. Meno frequentemente si parla del comportamento dei truffati, generalmente considerati vittime pur essendo in realtà complici. Come fanno i mittenti di queste mail a pensare di attirare qualcuno in Europa con storie assurde di oro e pietre preziose? Il trucco funziona solo perché è chiaro a entrambe le parti che nigeriani, libici o iracheni stanno facendo riciclare i propri soldi sporchi a un europeo "che più bianco non si può". Non sorprende nessuno che agli europei si affidi ciecamente la protezione di milioni di dollari trafugati.
Questo è chiaramente uno dei nostri compiti nell'ambito della divisione globale del lavoro. Altri rubano, noi custodiamo; un dollaro lava l'altro. Ogni e-mail 419 è un segno che la corruzione nel sud del mondo è possibile solo perché i soldi rubati finiscono da qualche parte qui, che si tratti di Londra o Zurigo, Cipro o del Liechtenstein.
Eppure siamo sconvolti dalla portata della corruzione nel sud. Circa 50 miliardi di dollari vengono sottratti ogni anno nei paesi più poveri del mondo. Il capitale fugge a nord. Designare i responsabili dell'andazzo del capitalismo globalizzato non è facile come molti di noi vorrebbero pensare. Transparency International, ad esempio, pensa che la Somalia sia il paese più corrotto sulla terra, mentre il noto giornalista italiano Roberto Saviano, che ha studiato per decenni le organizzazioni in stile mafioso, è dell'opinione che sia la Gran Bretagna (Londra è degenerata in un parco giochi per truffatori internazionali).
Transparency e Saviano hanno ragione entrambi, ma come cittadini europei, dobbiamo prendere atto della nostra schizofrenia. Chiediamo buon governo e ricicliamo denaro sporco, contemporaneamente, con i nostri cuori in cielo e i nostri culi grassi sul divano della compiacenza.
Alla fine del XVIII secolo a Edimburgo viveva un uomo di nome William Brodie, un elegante signore che gestiva una bottega di ebanista ed era rispettato dai suoi concittadini. Di giorno faceva parte del consiglio comunale e soddisfaceva in modo affidabile gli ordini dei suoi clienti; di notte entrava nelle case dei suoi clienti e li rapinava. . . fino a quando un giorno fu arrestato e giustiziato.
William Brodie sarebbe stato da tempo dimenticato se Robert Louis Stevenson non avesse visto in lui un simbolo estremo di un inquietante tratto umano: la doppia personalità. Stevenson scrisse di Brodie tre volte. I primi due tentativi furono flop teatrali, il terzo – una novella frenetica intitolata The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde – divenne un bestseller.
"Sono nato nel 18-- con una grande fortuna, dotato inoltre di qualità eccellenti, propenso all'industria, affezionato al rispetto dei saggi e dei buoni tra i miei simili, e quindi, come si poteva supporre, con ogni garanzia di un futuro onorevole e distinto”. Così inizia la confessione del dottor Jekyll nel capitolo finale del libro. È un eminente dottore, un uomo che guarisce le persone, che dà valore all'educazione e alla conoscenza e un membro di spicco della società.
Allo stesso tempo, tuttavia, è l'epitome insensibile e brutale dell'avidità cieca, un uomo di nome Mr Hyde.
Non ci sono il dottor Jekyll da un lato e Mr Hyde dall'altro, ma una creatura "impegnata in una profonda duplicità di vita". Inoltre: "Ho visto che delle due nature che si contendevano il campo della mia coscienza, se potevo giustamente dire di essere una, era solo perché ero radicalmente entrambe".
Il dottor Jekyll non è innocente né ingenuo né cieco. Riconosce il nemico dentro di sé e gli piacerebbe molto sconfiggerlo. Alla fine, però, rinuncia alla lotta.
È possibile tracciare una linea diretta tra questa storia e il presente. Ciò che è vero per gli individui può valere anche per le società nel loro insieme. L'Europa – o, per essere più precisi, l'Unione europea – è il dottor Jekyll e Mr Hyde.
Nel 2017 il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha espresso orrore per lo stato dei campi profughi in Libia. "Non riesco a dormire bene quando penso a quello che sta succedendo a quelle persone che sono andate in Libia per cercare di migliorare la propria vita, solo per ritrovarsi all'inferno". L'Europa non deve "tacere di fronte a questo scandaloso problema, che risale a un altro secolo”. Era "molto scioccato" dalle notizie secondo cui i rifugiati in Libia venivano venduti come schiavi. "Fino a due mesi fa non conoscevo la portata del problema. È diventata una situazione costante e urgente".
È facile capire l'orrore di Juncker. In Libia una trentina di rifugiati sono ammassati in celle di meno di cinque metri quadrati e muoiono di fame perché vengono nutriti solo ogni tre giorni. Secondo un rapporto dell'Ong Medici senza frontiere, le loro condizioni di vita peggiorano costantemente. Quasi un quarto dei detenuti nella prigione di Sabaa a Tripoli, la capitale, sono apparentemente denutriti, molti dei quali bambini.
L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) stima che attualmente vi siano circa 670.000 rifugiati in Libia. L'ambasciata tedesca in Niger ha scritto alla Cancelleria tedesca nel 2017, descrivendo cosa succedeva ai rifugiati respinti nel Mediterraneo: "Esecuzioni di migranti che non possono pagare, torture, stupri, ricatti e abbandono nel deserto sono la routine quotidiana. Testimoni oculari hanno parlato di cinque sparatorie a settimana in una delle carceri: queste erano preannunciate e si svolgevano sempre di venerdì per liberare spazio per i nuovi arrivati".
Uno studio della Commissione per le donne rifugiate conclude che praticamente ogni donna che fugge attraverso la Libia è vittima di violenza sessuale. Ci sono testimonianze di stupri con bastoni, genitali bruciati, peni tagliati e uomini costretti a violentare le proprie sorelle. Atrocità inimmaginabili, e tutto negli ultimi due anni.
Quindi cosa ha fatto Juncker per porre fine a tali terribili circostanze?
Niente!
Cosa avrebbe potuto fare?
Molte cose.
Questo perché ciò che sta accadendo in Libia si sta verificando non solo con l'acquiescenza dell'UE, ma anche con finanziamenti diretti dal blocco, dal momento che le guardie di frontiera libiche devono utilizzare tutti i mezzi disponibili per impedire la fuga dei rifugiati. Se i rifugiati subiscono condizioni terribili e muoiono in Libia, è conseguenza diretta di una politica UE mirata.
Tuttavia, sarebbe sbagliato accusare i sostenitori di questa politica, come Jean-Claude Juncker, di ipocrisia. Il suo oltraggio era senza dubbio sincero. È un erede della tradizione europea che ha promulgato ideali universali di solidarietà in tutto il mondo dopo la Rivoluzione francese, abolito la schiavitù e svolto un ruolo decisivo nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il dottor Jekyll riflette su questo enigma: “Nella mia duplicità, non ero affatto un ipocrita; entrambe le parti erano genuine. Non ero maggiormente me stesso quando mettevo da parte la moderazione e mi immergevo nella vergogna, rispetto a quando lavoravo, alla luce del giorno, per promuovere la conoscenza o il sollievo dal dolore e dalla sofferenza".
L'UE dichiara di "sostenere le autorità nazionali nel migliorare la propria capacità di combattere i trafficanti". In realtà, tuttavia, la distinzione tra le autorità libiche e le bande di trafficanti è alquanto labile.
"I governi e le istituzioni europee continuano a dire che sostengono la fine della detenzione arbitraria di rifugiati e migranti, ma non hanno intrapreso alcuna azione decisa per garantire che ciò accada", ha affermato Matteo De Bellis di Amnesty International.
I politici europei parlano come il dottor Jekyll e si comportano come Mr Hyde. Il ministro tedesco dello sviluppo internazionale, Gerd Müller, elabora piani su piani per salvare il mondo, ma poco è successo durante il suo mandato.
Il ministro vorrebbe che le società occidentali cambiassero radicalmente il proprio stile di vita. "Non dovremmo più trarre la nostra prosperità dal lavoro di schiavi e bambini e dallo sfruttamento del nostro ambiente". Nel suo libro Unfair scrive: "Dobbiamo raggiungere uno stato che permetta a ogni persona sul pianeta di vivere in modo dignitoso. L'obiettivo è quello di soddisfare le esigenze fondamentali di tutti in termini di cibo, acqua, alloggio e lavoro, e per i paesi industrializzati, che hanno già acquisito questi beni materiali, ciò significa che dobbiamo imparare a condividere. A lungo termine non ci deve essere e non ci sarà ulteriore crescita a spese degli altri".
In un discorso in onore dell'agenzia di aiuti cattolica Misereor un anno fa, ha dichiarato: "Invece di 'Mi dispiace' ora dovremmo dire 'Mi prendo la responsabilità per quelle cose che sono in mio potere'. E abbiamo potere! Come consumatori. Come imprese che producono in tutto il mondo. Come politici di grandi potenze economiche".
Ha continuato citando la sfida del cardinale Frings a fare appello alle coscienze di coloro che determinano le condizioni politiche, economiche e sociali. È tutto molto onorevole: il Ministro Jekyll sta formulando una chiara missione etica, che ognuno di noi percepisce in momenti chiave. Mia figlia ha imparato a scuola che un prosperoso cittadino svizzero utilizza le stesse risorse di un intero villaggio africano. Se fossimo su una zattera, tale comportamento parassitario e antisociale non sarebbe tollerato.
La politica della vita reale è diversa, però. Ogni organismo internazionale impedisce riforme indispensabili al sistema economico e finanziario globale. Negli ultimi quattro decenni ci sono stati tentativi a vari livelli amministrativi delle Nazioni unite di collegare condotta economica e diritti umani e approvare regole vincolanti. Più recentemente, un anno fa il Gruppo di lavoro intergovernativo (IGWG) sulle società transnazionali e i diritti umani ha pubblicato un progetto di accordo su impresa e diritti umani. Questa "bozza zero" – così chiamata per dimostrare che è provvisoria e modificabile – è stata il risultato di anni di contrattazione tra i partecipanti. Verrà ora "discussa": un eufemismo per la sterilizzazione di qualsiasi restrizione rigorosa e giuridicamente vincolante sulle azioni spesso brutali e quasi sempre sfruttanti delle aziende internazionali nei paesi più poveri.
Parallelamente, agli sforzi dei paesi del Sud globale per essere ammessi al comitato per la politica fiscale internazionale dominato dall'OCSE è stato posto il veto dal Nord, compresa la Germania. Questo avrebbe "aumentato le opportunità fiscali dei paesi più poveri per determinare misure normative internazionali, ad es. chiusura dei paradisi fiscali, lotta all'evasione fiscale e lotta alla concorrenza per il dumping fiscale".
Solo due decenni fa, la riduzione del debito per i paesi più poveri era una questione politica di alto profilo. Tutto ciò che ostacolava la cancellazione dei debiti dei paesi in via di sviluppo era l'avidità e l'egoismo dei paesi industrializzati. Al giorno d'oggi, questi paesi difendono i propri vantaggi con le unghie e con i denti. Quando il ciclone Idai ha recentemente devastato parti del Mozambico, gli appelli strazianti per la riduzione del debito sono caduti inascoltati. Secondo le statistiche del FMI, il Mozambico è uno dei trentacinque stati che si trovano in una crisi del debito esistenziale. Il paese è indietro con i suoi pagamenti e incapace di saldare i debiti in essere.
Ogni volta che si tratta di denaro o la "nostra" prosperità è minacciata, Hyde alza la sua brutta testa e sabota la lotta per la dignità umana e una buona vita per tutti.
Invece di regole vincolanti, l'UE e il governo tedesco (incluso il ministro Müller) optano per schemi volontari per gli standard ambientali e sociali.
Un anno fa ho guidato per due ore buone attraverso il nord del Borneo e, a perdita d'occhio su entrambi i lati della strada, non c'era nient'altro che palme da olio dove, solo una generazione fa, fioriva la giungla. La vista: monocoltura alimentata chimicamente e crescita che porta alla morte (dopo due decenni i terreni sono completamente esauriti). Le dichiarazioni di Amsterdam ora incoraggiano i commercianti, le aziende agricole e le imprese alimentari che hanno contribuito alla distruzione della natura per diversi decenni a impegnarsi volontariamente in standard più rigorosi come parte di piattaforme multi-stakeholder e a incardinare i loro modelli di business su una base più sostenibile. Questa vecchia idea ha solo uno svantaggio: non funziona.
Hyde è particolarmente dilagante in agricoltura. Sebbene l'ultimo Rapporto mondiale sull'agricoltura invochi un cambiamento radicale nell'agricoltura globale, l'UE e i suoi stati membri più potenti continuano a spingere per l'espansione dell'agricoltura industriale completa di uso intensivo di fertilizzanti, pesticidi e semi brevettati. Ciò serve principalmente gli interessi e i profitti delle società agricole coinvolte, mentre i metodi agro-ecologici sostenibili sono quasi ignorati.
Ci si potrebbe strappare i capelli di fronte a questa schizofrenia profondamente radicata, ma ci sono anche segni di speranza. La schiavitù era tanto normale alla fine del diciottesimo secolo quanto le navi container oggi. Quando piccoli gruppi in Gran Bretagna iniziarono a mettere in discussione la sua legittimità, le loro convinzioni etiche furono respinte perché il commercio di schiavi transatlantici era immensamente redditizio per il Regno Unito. Garantiva posti di lavoro, enormi ricchezze e flusso di beni di consumo. Questa era una giustificazione sufficiente. È lo stesso oggi per quanto riguarda le enormi disuguaglianze sociali e la distruzione ambientale. Le argomentazioni di Mr Hyde sono dure a morire. Eppure cinquant'anni di lotta politica alla fine hanno portato all'abolizione della schiavitù in Europa.
Anche questo fa parte della tradizione europea. In Crisis in Civilization, la forte accusa di Rabindranath Tagore al dominio britannico in India, il poeta cerca di distinguere tra resistenza all'imperialismo e rifiuto della civiltà occidentale. Da un lato, l'India era “soffocata dal peso morto dell'amministrazione inglese"; dall'altro, non dovrebbe mai dimenticare ciò che il paese aveva guadagnato attraverso il dramma di Shakespeare e la poesia di Byron e soprattutto "il liberalismo di buon cuore della politica inglese del diciannovesimo secolo". L'aspetto tragico, tuttavia, era che "ciò che era veramente il migliore nelle loro stesse civiltà, la difesa della dignità delle relazioni umane, non ha posto nell'amministrazione britannica di questo paese".
Non è un segreto che la storia del dottor Jekyll e di Mr Hyde si concluda male. Robert Louis Stevenson, grande viaggiatore scozzese, aveva incapsulato la duplice natura europea con notevole prescienza: “Henry Jekyll si trovava a volte inorridito davanti agli atti di Edward Hyde; ma la situazione era staccata dalle leggi ordinarie e allentava insidiosamente la presa della coscienza. Era Hyde, dopo tutto, e solo Hyde, a essere colpevole. Jekyll non stava peggio; si svegliava di nuovo con le sue buone qualità apparentemente intatte; si sarebbe anche affrettato, ove possibile, a cancellare il male fatto da Hyde. E così la sua coscienza sonnecchiava".
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Giornaliste-e-molestie-online-la-riscossa-parte-dalla-Bosnia-195974
--- Citazione ---Giornaliste e molestie online: la riscossa parte dalla Bosnia
Pane quotidiano nelle redazioni balcaniche e fattore di rischio per la libertà di stampa secondo gli organismi internazionali, la violenza verbale tramite internet contro le donne nei media è ovunque in aumento
22/08/2019 - Paola Rosà
“L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono le leggi speciali – argomenta da Belgrado Tamara Skrozza del settimanale Vreme (Tempo) – anche perché se le donne giornaliste ottenessero delle tutele particolari questo non farebbe che peggiorare la situazione, confermando agli occhi dei colleghi l'immagine di un soggetto particolarmente vulnerabile, complicato e difficile”.
Complicata e difficile rimane invece la quotidianità di lavoro – nei Balcani ma non solo – fatta di minacce online, ingiurie, intimidazioni. Tanto che, secondo una recente inchiesta di BIRN, network di ong e giornalisti attivi su diritti umani e democrazia nei Balcani, le molestie online sarebbero per le giornaliste “pane quotidiano”.
“A causa della tendenza, profondamente radicata nella società bosniaca, a denigrare le donne emergenti in generale, molte delle mie colleghe preferirebbero ingoiare gli insulti piuttosto che denunciarli pubblicamente”, conferma da Sarajevo Elvira Jukić, caporedattrice del portale del centro ricerche Mediacentar. “Denunciare significa spesso rischiare il posto di lavoro, essere disprezzate dai colleghi o gettare un'onta sulla propria famiglia”.
Un allarme globale
Sottocategoria delle minacce ai giornalisti, la fattispecie delle molestie online declinate al femminile è una tipologia di attacco alla libertà di stampa e alla sicurezza dei reporter che il Rappresentante OSCE per la libertà dei media ha identificato già nel 2015, quando è stato lanciato il progetto SOFJO sulla tutela delle giornaliste da minacce online. Da allora, si legge in una raccomandazione dell'OSCE dello scorso febbraio, sono state raccolte innumerevoli testimonianze di molestie sessuali e campagne denigratorie subite da donne: “Le giornaliste donne affrontano un peso doppio: possono essere attaccate in quanto giornaliste e in quanto donne”. E l'escalation degli ultimi mesi è una minaccia per il giornalismo e di conseguenza per la democrazia.
Lo spazio senza regole del web, spazio di libertà di espressione ma anche territorio di abusi e censura ai danni delle voci “del dissenso e marginalizzate”, dovrebbe arricchirsi secondo l'OSCE di una cautela maggiore per i diritti umani e per la trasparenza sull'azione di algoritmi, troll e bot, mentre la politica è chiamata a impegnarsi a trovare “risposte innovative”, allargando la collaborazione alle vittime e ai gestori delle piattaforme.
Oltre all'OSCE, anche Nazioni Unite, Unesco e Parlamento Europeo hanno affrontato il tema di recente, vuoi come questione legata al rispetto dei diritti umani, vuoi come specifica tipologia di minaccia alla sicurezza dei giornalisti ma anche in quanto discriminazione di genere. “Mentre i giornalisti maschi vengono attaccati per le loro opinioni o per la competenza professionale, è più probabile che le donne vengano colpite da ingiurie sessiste e invettive a sfondo sessuale”, si legge ad esempio nella raccomandazione del Consiglio d'Europa per combattere e prevenire il sessismo adottata a fine marzo 2019.
Durante la conferenza dell'Unesco del 18 giugno scorso, quando oltre 200 delegati nazionali, giornalisti e avvocati si sono incontrati a Parigi, è stata anche annunciata l'intenzione di effettuare uno studio su “misure efficaci in grado di contrastare le molestie online che colpiscono le giornaliste”. Il fenomeno è in crescita e l'attenzione delle istituzioni non è da meno. Secondo un rapporto dell'ONU del 2018, quasi un quarto delle donne in generale ha subito qualche forma di violenza online, e ad essere più colpite, insieme alle appartenenti a minoranze etniche e a lesbiche e transgender, sono giornaliste e blogger: “Ai reati commessi in rete gli Stati dovrebbero applicare una prospettiva di genere – raccomanda l'ONU – e la pubblicazione periodica delle violazioni dovrebbe comprendere una casistica di genere”.
Una minaccia alla libertà di stampa
Che non si possa prescindere da una questione di genere sembra confermarlo l'analisi condotta dalla rivista Feminist Media Studies che ha passato al setaccio i circa 70 milioni di commenti lasciati dai lettori sul portale del Guardian nel decennio dal 2006 al 2016: a prescindere dal tema trattato, i pezzi firmati da donne hanno registrato una percentuale molto più alta di commenti poi bloccati. E un sondaggio del 2018 effettuato dalla Federazione internazionale dei giornalisti con sede a Bruxelles evidenzia che il 66% delle giornaliste vittime di violenza online lo sono state per il fatto di essere donne, mentre delle 600 interpellate dalla International Women’s Media Foundation quasi i due terzi hanno subito un attacco online intriso di minacce a sfondo sessuale. E gli attacchi avrebbero ottenuto l'effetto sperato, portandone quasi il 40% ad abbandonare il tema su cui stavano lavorando.
“Mi sono accorta che queste ondate di odio hanno cambiato il mio modo di fare giornalismo – ammette Elfie Tromp, una delle giornaliste intervistate dall'Associazione dei giornalisti olandesi lo scorso maggio – piuttosto che ritrovarmici travolta, ho preferito evitare certi argomenti per qualche tempo, dicendomi che non valeva la pena, per quel poco che guadagno col giornalismo”. La geografia delle molestie e dell'autocensura travalica i confini dei paesi tradizionalmente tutori e paladini della libertà di stampa, e anche nei Paesi Bassi c'è poco di cui rallegrarsi: su 350 intervistate, più della metà ha ammesso di essere stata minacciata e per il 70% di loro queste minacce hanno in qualche modo ostacolato il libero esercizio della professione di giornalista.
Per raccogliere segnalazioni ed elaborare strategie difensive, ci si muove anche nei Balcani: la rete di BIRN ha aperto a metà giugno una sezione dedicata. “Vogliamo conoscere la tua esperienza di vittima di violenza online, che si tratti di attacchi, molestie o minacce”, si legge sulla pagina che spiega come queste subdole tipologie di attacco ricorrano a “sessismo, discorsi degradanti e commenti su aspetto e rapporti personali, nel tentativo di screditare, umiliare e non da ultimo far tacere le donne giornaliste”.
Il Resource Centre
Per approfondimenti e altri materiali, analisi, sondaggi e studi sulla libertà di stampa in Europa si può consultare il Media Freedom Resource Centre, una piattaforma in continuo aggiornamento gestita da OBCT nell'ambito del progetto ECPMF.
Le donne si alleano contro la tempesta perfetta
“Nei Balcani denigrare le donne è qualcosa che si fa normalmente – scrive la freelance Lidija Pisker da Sarajevo – e attaccare online una donna è come dirle ciao. In molti casi, sono i media a incoraggiare tali atteggiamenti”. La conferma arriva da Duška Pejović, giornalista televisiva della rete pubblica del Montenegro (RTCG), che riporta la questione sul piano della mentalità e della cultura: “Negli anni Novanta conducevo un programma sui diritti delle donne e la decostruzione del patriarcato […] tanto che sono stata nel mirino di un fiume di insulti perché ero una donna che violava le regole della tradizione. Sono stata minacciata soprattutto di stupro”.
A distanza di anni, le minacce si sono forse modernizzate nel medium rimanendo tuttavia le stesse nei contenuti. “L'immagine stereotipata della donna resta ancora presente nei media in Montenegro”, continua Duška, e questo nonostante il principio di parità di genere sia esplicitato in numerose norme, internazionali e nazionali. Secondo Mehmed Halilović, giornalista di lungo corso ora nel direttivo del Centro per il giornalismo investigativo di Sarajevo, le giornaliste nei Balcani si trovano ad affrontare una “tempesta perfetta”, la combinazione di un'antica diffusa misoginia e di un moderno e rinnovato disprezzo per i giornalisti.
Azzeccata quindi l'analisi di Tamara Skrozza da Belgrado: non servono nuove leggi, bisogna piuttosto “riprogrammare nel complesso l'atteggiamento della società nei confronti della donna”. E per arrivarci, sono le donne, le giornaliste, a dover imparare a costituire massa critica, a solidarizzare, a denunciare. Come stanno facendo in Bosnia Erzegovina, dove a metà luglio è nata la Rete delle giornaliste, una sorta di “casa sicura” da cui trarre incoraggiamento, idee e competenze nella lotta per migliorare i propri diritti professionali.
Perché di questo si tratta. Di difendere l'accesso alla professione tutelandone la qualità, come ben spiega Maja Nikolić, giornalista di Radio Free Europe: “La creazione della rete sarà a vantaggio di tutta la comunità dei giornalisti, anche dei nostri colleghi maschi che spesso, troppo spesso se ne stanno in silenzio”.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99399
--- Citazione ---SERBIA: L’urbicidio progressista di Belgrado
Giorgio Fruscione 1 giorno fa
Quando scriviamo di urbicidio nei Balcani sareste tenuti a pensare subito a Vukovar, Mostar o Sarajevo. E invece oggi vi parliamo di Belgrado e la guerra, questa volta, non c’entra niente.
“Non è vero che Belgrado fa schifo, ci siamo stati quest’estate, ci siamo divertiti moltissimo e ci è piaciuta un sacco”, direte. E ci mancherebbe altro. Belgrado ha un’anima e uno spirito indistruttibili. Ma oltre agli splav – i locali sulle chiatte attraccate sulla Sava – una capitale dovrebbe offrire anche un aspetto decente, e rispettoso degli spazi verdi, specie durante la stagione turistica.
Da mesi la nuova amministrazione cittadina, il cui sindaco è un medico che non viene mai nominato se non quando lo chiamano per andare a inaugurare le casette per gli uccellini (per la cronaca, e per quei belgradesi che ancora non lo sapessero: si chiama Zoran Radojicic), ha stravolto l’aspetto e l’assetto del centro di Belgrado.
Dopo aver eretto una fontana cantante con luci al neon fucsia e arancioni nel centro di Slavija – la rotonda gigante che smista (a fatica) il traffico delle principali arterie urbane della capitale – non hanno risparmiato nemmeno piazza della Repubblica. Quella col cavallo. Dove vi sarete trovati anche voi quest’estate e dove da secoli si incontrano i belgradesi. Da così tanto tempo, che quando hanno iniziato a scavare hanno scoperto dei vecchi resti archeologici. Si trattava della base di una porta barocca del diciottesimo secolo. Ma invece di farne tesoro, studiare un modo per renderla visibile ai turisti, porvi una teca e farne bene pubblico, è stata in qualche modo impacchettata e ricoperta di cemento. Pare, per il bene stesso dei resti.
Dopo più di un anno, i lavori sono finalmente finiti. Ma non i disagi derivanti dalle deviazioni del trasporto pubblico. Il traffico si congestiona proprio sulla piazza, in direzione Francuska, una delle vie principali del centro.
Oggi piazza della Repubblica è così:
Un trionfo di cemento. Anche attorno ai tronchi dei pochissimi alberi piantati, di cui uno – incredibilmente – è già morto. Qualcuno su Twitter scherza, ma neanche tanto: sembra Tirana all’epoca di Enver Hoxha. È l’estetica del partito di governo, dei progressisti del presidente Vucic. Di progressista ha l’alchimia del trasformare una bella piazza in un’accozzaglia di mattonelle pronte a distruggersi, fra qualche mese. E tutto questo cemento è costato ai contribuenti ben 10 milioni di euro.
Per chi non ci è stato se non questa estate, la piazza prima era così:
È successo anche a Slavija. Per far posto alla fontana più kitsch del sudest Europa, hanno rimosso il busto e i resti di Dimitrije Tucovic (teorico socialista morto nella Grande guerra) e sui marciapiedi adiacenti hanno impiegato mattonelle che sono durate un quarto del tempo rispetto a quanto sono durati i lavori su tutta la rotonda. Ma la Serbia progressista è così. Crea disagi là dove ci sarebbe anche bisogno di fare lavori, ricostruisce con una totale assenza di verde, e di gusto, una piazza, ma senza cambiarne la funzionalità urbana. E a Slavija ce n’era veramente bisogno. Quei getti d’acqua altissimi che ripetevano (il meccanismo in realtà ha smesso di funzionare) a disco rotto le stesse 3 canzoni sono costati quasi 2 milioni di euro. Con quei soldi avrebbero potuto migliorare la gestione del traffico che da decenni si congestiona a Slavija. E invece no. Cattivo gusto e cattivo cemento.
Le mattonelle hanno cominciato ad avere crepe e devastarsi pochi mesi dopo la fine del “rinnovo”. Ma ci saranno dei lavori di manutenzione. E saranno pagati dai belgradesi, che avranno altri disagi, altro kitsch e altra devastazione di Belgrado.
E poi progredisce anche “Belgrado sull’acqua”. Faraonico progetto edilizio sponsorizzato dagli emiri che vogliono una Dubai nei Balcani e che è stato caratterizzato da numerosi scandali. Si tratta di un agglomerato di palazzoni “moderni” lungo la Sava, là dove correva la ferrovia (spostata ora in un posto che nessun belgradese conosce) e dove per anni non si è costruito niente di niente. Forse perché il terreno pregno d’acqua non garantirebbe la tenuta di un grattacielo? Ma Vucic l’ha definito “un progetto di interesse nazionale”. E ci mancherebbe. Tre miliardi e mezzo di euro, garantiti per lo più dal budget della Serbia, cioè dai contribuenti, mentre dagli Emirati è arrivata la società per realizzare un progetto che cambierà per sempre il magnifico skyline della capitale serba.
Una devastazione che va avanti imperterrita, e senza alcun rispetto degli spazi verdi, da quando l’amministrazione progressista è guidata – invece che dall’innominato a cui piacciono gli uccellini – dal vicesindaco Goran Vesic, piccolo quadro di partito. Di tutti i partiti. Democratico quando il Partito Democratico governava, e ora progressista fedelissimo di Vucic. Vesic, che di fatto agisce da primo cittadino, ha spesso dichiarato di voler lasciare una traccia indelebile sulla città. E ci sta ampiamente riuscendo. Ma la voglia di mostrar fedeltà alla causa progressista costa ai belgradesi questo urbicidio.
Potremmo parlarvi anche della costruzione della “gondola” (in realtà una cabina teleferica) che unirà la centralissima fortezza di Kalemegdan con la sponda di Nuova Belgrado e del come, per farle spazio, sono state abbattute decine e decine di alberi secolari senza interpellare la cittadinanza; o del come resiste parte della popolazione, organizzata o meno, contro questi continui scempi e collassi urbani.
Ma vi annoieremmo e voi forse volete comunque conservare un buon ricordo di Belgrado. Lo conserveranno anche i belgradesi, ricordando quanto fosse progressista la loro città prima che arrivassero i progressisti.
--- Termina citazione ---
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