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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99384
--- Citazione ---EUROPA: Il problema è il nazionalismo tedesco (anche se nessuno lo dice)
Matteo Zola 1 giorno fa
Da molti tempo i tedeschi non si permettevano un livello di nazionalismo come quello che siamo stati costretti a osservare, con crescente preoccupazione, nell’ultimo decennio. E non s’intende solo il nazionalismo espresso dai partiti dell’estrema destra tedesca, sempre più protagonisti della politica locale, ma di un nazionalismo istituzionale, diffuso tra le élites politiche, economiche e finanziarie del paese. Un tipo di nazionalismo che non indossa camicie brune, che non è revisionista o nostalgico, che non coltiva ambizioni pangermaniste. Un nazionalismo che però, alla revanche populistica, patriottarda, euroscettica dell’estrema destra ha spianato la strada, inoculando all’interno dell’animo tedesco i germi del male antico.
L’agone dove tale nazionalismo ha dato miglior mostra di sé è l’Unione Europea, che Berlino afferma di sostenere ma che di fatto ha piegato ai propri interessi minando la “casa comune” alle fondamenta.
È stata ed è la politica tedesca ad aver proclamato il principio secondo cui i problemi dei singoli stati membri, si tratti di quello greco, portoghese, italiano, non sarebbero problemi europei. È stata ed è la politica tedesca ad aver fatto del Consiglio europeo un organo di tutela dei propri interessi nazionali, piuttosto che il luogo dove tali interessi vengono messi in secondo piano, abbassando sistematicamente l’asticella dell’integrazione europea e riducendo l’UE a un mero spazio di rivendicazione di interessi nazionali. L’UE, almeno in teoria, non dovrebbe essere questo: anzi, dovrebbe essere il luogo dove l’interesse nazionale viene tutelato in un’ottica di cooperazione post-nazionale. La tutela dei propri interessi a scapito di quelli altrui è invece stata la cifra della politica europea tedesca, alimentando frustrazioni e opposti nazionalismi negli altri paesi membri.
La Germania ne ha certo ricavato un vantaggio immediato, la sua industria è uscita quasi indenne dalla crisi iniziata nel 2009, aprendo anzi spazi di penetrazione negli stati limitrofi, specialmente quelli dell’est Europa. La Germania è oggi il primo partner economico della Polonia, dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della Croazia, dell’Ucraina, dei paesi baltici, e questo significa influenza politica su quella parte di continente che, salvo qualche rara sparata propagandistica, ha sempre appoggiato la linea di Berlino in Europa. Una linea che blocca regolarmente lo sviluppo di politiche condivise. Una linea di fatto contraria agli interessi “paneuropei”.
L’UE ha perso la sua missione unificatrice, è diventata luogo di confronto e competizione in cui gli stati più forti cercano di ottenere vantaggi a scapito di quelli più deboli. La reazione ‘controrivoluzionaria‘ di Orban e Kaczynski si nutre anche di questo. Il terreno fertile per il germogliare del populismo euroscettico l’hanno prodotto le élites politiche tedesche.
Il terreno fertile per il germogliare del populismo euroscettico l’hanno prodotto le élites politiche tedesche
Ma il fatto più scandaloso è stato il costruire, da parte di alcuni politici tedeschi e di un sistema mediatico non sempre responsabile, un capro espiatorio, un nemico immaginario di volta in volta incarnato nel “parassita straniero”, nel greco che non paga i debiti, nell’italiano spendaccione. E poco conta che i greci siano stati costretti da Berlino, in cambio degli aiuti economici, a comprare armamenti tedeschi: soldi che potevano servire agli ospedali e alle scuole, ma attraverso cui la Germania ha di fatto finanziato la propria industria bellica.
Ora che queste politiche miopi stanno portando la Germania alla recessione, ora che il seme dell’odio verso lo straniero è stato piantato, ora che l’UE è stata ridotta a un organismo incapace di agire sui problemi, non ci si sorprenda dell’ascesa dell’ultradestra nella stessa Germania come nel resto d’Europa. La miopia tedesca, la loro interpretazione egoistica dell’europeismo, il loro cinico sfruttare l’UE per ampliare la propria influenza sul continente e la propria competitività economica, sarà la causa del disfacimento dell’Unione.
Le recenti elezioni europee hanno portato un mediocre ministro della Difesa tedesco alla guida della Commissione. Una persona che a quella decostruzione d’Europa ha partecipato e che ebbe l’agio di dire che la Grecia, in cambio degli aiuti, doveva offrire come garanzia la propria riserva aurea, una persona che è stata coinvolta in uno scandalo legato agli approvvigionamenti militari, con sospetti di corruzione e nepotismo. Una persona inadatta a correggere la rotta del Titanic europeo.
Chi plaude all’uscita del Regno Unito dall’UE, chi schernisce le goffe e impacciate politiche di Londra in questa fase storica, sappia che non riderà per ultimo. La Germania è il malato d’Europa, e sta consumando il corpo stesso del vecchio continente. Solo un atteggiamento paneuropeo, rinnovato e consapevole, da parte dei principali paesi dell’Unione potrà forse salvare dal naufragio. Altrimenti, si spera, che da Londra ci lancino un salvagente.
O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern laßt uns angenehmere anstimmen
und freudenvollere!
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Pride-l-orgoglio-di-Sarajevo-196467
--- Citazione ---Pride: l'orgoglio di Sarajevo
Partecipazione numerosa, nessun incidente, manifestanti visibilmente commossi. E dal palco si dedica il primo Pride di Sarajevo a tutti gli oppressi della Bosnia Erzegovina
09/09/2019 - Alfredo Sasso
Applausi spontanei, urla di incitamento, tamburi battenti, sorrisi e abbracci, lacrime di commozione e gioia. Ieri una travolgente onda di energia, emozione e riscossa collettiva ha riempito il cuore di Sarajevo, il tratto tra il monumento della Fiamma Eterna e il piazzale del Parlamento, con circa 2000 persone. Per capire a fondo la portata dell’evento bisogna guardare indietro. “Nessuno osa nemmeno contemplare di organizzare un Pride a Sarajevo o in un’altra città della Bosnia Erzegovina” sosteneva nel 2017 un articolo che suscitò polemiche . Ancora nell’autunno 2018, alcuni attivisti commentavano rassegnati che sarebbe stato molto improbabile organizzarne uno a breve. Continuavano a pesare le memorie delle aggressioni violente subite dalla comunità lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali, queer (LGBTIQ) nel 2008, 2014 e 2016 .
In Bosnia Erzegovina il dogma dell’eterosessualità si è rafforzato dopo le guerre degli anni Novanta e la successiva ondata di militarismo, nazionalismo e desecolarizzazione. Ma le associazioni LGBTIQ hanno continuato ad aprire piccoli spazi di protezione e visibilità. E sono arrivati ad esigere ciò che ad alcuni, a torto, sembrava impossibile: il primo Pride nell’ultimo paese dell’ex-Jugoslavia e di tutto il sud-est Europa in cui non si era mai organizzato, dunque “L’ultimo primo Pride”. Fu annunciato cinque mesi fa, suscitando le minacce di gruppi radicali e l’indignazione delle forze conservatrici – di tutte le confessioni - che dominano la scena pubblica bosniaca, e si è tenuto ieri.
Corteo e commozione
La giornata è cominciata presto. I primi attivisti sono arrivati molte ore prima dell’inizio previsto per le 12, accompagnati da un impressionante dispiegamento di forze dell’ordine, con più di 1000 agenti - presenti anche tiratori scelti sui piani alti - e un unico punto di accesso al corteo, con controlli stretti. Su cartelli e striscioni si leggevano alcuni messaggi rivendicativi e altri con richiami universali: “L’amore non è un privilegio”, “Orgoglio senza pregiudizio”, “Quanto costa la libertà?”, “Noi siamo famiglia”, “Lui ama lui”, “Mamma, eccomi qui!”. “Uguali diritti per tutti non significa meno diritti per te!”, “Scusate se la mia esistenza distrugge i vostri pregiudizi”, “Difendiamo i rifugiati”, “C’è da vietare i fascisti” (sottintendendo “non noi”, per le richieste di proibire la marcia avanzate fino a pochi giorni fa).
A un’ora dall’inizio il corteo ha iniziato a ingrossarsi, segnale che un pezzo significativo della città ha voluto sfidare il clima di paura e di indifferenza, ha riabbracciato la propria pluralità e la vocazione all’apertura, incontrando i tanti pezzi di mondo giunti per l’occasione. C’erano le Donne in Nero di Belgrado, collettivi LGBTIQ di Serbia, Montenegro, Croazia e Albania, rappresentanti di diverse ambasciate - tra cui quella italiana -, attivisti venuti a sostenere la marcia dalla Germania, dal Regno Unito, dall’Italia, e naturalmente da tutta la Bosnia Erzegovina: Mostar, Banja Luka, Tuzla, Zenica. Appena si è capito che i pessimismi della vigilia erano infondati – sottovoce si temeva un corteo raccogliticcio limitato a poche centinaia di attivisti abituali - la tensione si è sciolta.
Per scelta degli organizzatori non c’era musica amplificata. Eppure dal corteo si è liberato subito il canto potentissimo di “Ay Carmela”, la leggendaria canzone dei repubblicani spagnoli che nei paesi post-jugoslavi è l’inno popolare contro fascismo e autoritarismo. Poi è partito lo slogan-icona del Pride sarajevese, “Ima izać!” (“C’è da uscire!”), seguito da “Ponos!” (orgoglio). A quel punto si è allentato persino il rigidissimo protocollo di sicurezza delle forze dell’ordine, una scorta talvolta apparsa perfino troppo invadente (ma va riconosciuta l’estrema professionalità e l’efficacia nel prevenire incidenti; l’organizzazione è stata impeccabile). È diventato chiaro che è la partecipazione e il sostegno civile, e non (solo) le transenne e le scorte, a creare uno spazio protetto e libero. Il momento più temuto per la sicurezza è stato quello in cui il corteo è passato a un centinaio di metri dalla contro-manifestazione di un’associazione ultraconservatrice musulmana, presente con alcune decine di manifestanti. La circostanza è passata inosservata alla stragrande maggioranza del Pride: ben più attenzione è stata riservata alle diverse persone, soprattutto anziane, che salutavano dalle finestre. Quando il corteo è giunto al piazzale davanti al parlamento, molti manifestanti erano visibilmente commossi.
“Oggi come mai finora, noi lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer smettiamo di essere invisibili. Oggi come mai finora, lotteremo per le nostre vite. Vogliamo costruire una società di non-violenza e comunità, dove nessuno dovrà nascondere l’amore e vivere dentro quattro mura”, ha detto dal palco Lejla Huremović, una delle organizzatrici della marcia. Le “quattro mura”, un riferimento tipico nella narrazione omofoba e transfoba, in questi giorni si ascolta quasi ossessivamente nei discorsi dei politici conservatori. “Siamo coscienti che questa marcia non cambierà il mondo. Ma sappiamo che darà speranza per cambiare davvero le cose”, ha concluso Huremović.
Antifascismo e diritti
In una piazza che brulicava di partecipazione, l’attivista Branko Ćulibrk ha ricordato chi mancava. “Sentiamo grande responsabilità verso tutti coloro che per paura di violenze e discriminazioni, non se la sono sentita di essere con noi. Ogni giorno lottiamo per la nostra esistenza. Ogni giorno il nostro amore e la nostra identità sono attaccati, non accettati, sminuiti, aggrediti”. Ćulibrk ha ricordato le lacune delle istituzioni del paese che “permettono violenza contro di noi, ci stigmatizzano, ci emarginano, ci costringono a trattamenti forzati, vietano un’educazione sessuale democratica. Continuiamo a non avere nessuna legge sulle coppie omosessuali. Alle persone trans non è permesso l’accesso alla sanità pubblica, non possono cambiare i documenti se non hanno compiuto la transizione”.
Nella conclusione Ćulibrk ha lanciato, ancora una volta in questa giornata, un messaggio trasversale: “Sentiamo, per responsabilità e solidarietà, di dover parlare di tutti i gruppi oppressi della società bosniaco-erzegovese: i rom, le persone con invalidità, lavoratori e lavoratrici, i veterani di guerra, i migranti e i rifugiati, e tutti quelli che sono lasciati ai margini. Tra tutti loro si trovano anche persone LGBTIQ, che subiscono una discriminazione multipla. Chiediamo più solidarietà ed empatia verso tutte queste persone”.
Le ultime vibrazioni della piazza si legano alla musica di Damir Imamović, celebre interprete della sevdah, il genere tradizionale bosniaco. “Che ognuno ami chi vuole” (“Neka ljubi ko god koga hoće”): Imamović ha scandito intensamente queste parole di un celeberrimo brano d’amore della sevdah, prima di chiudere con una sorprendente – e virtuosissima, al netto di una leggera incertezza linguistica - interpretazione di Bella Ciao . Ricordandoci che l’antifascismo, qui e altrove, non è un’etichetta o un marchio vintage, ma una presa di coscienza necessaria contro lo svilimento della dignità umana e la violenza organizzata che si abbatte su emarginati ed oppressi.
In un cerchio ideale, il Pride si è aperto e si è chiuso con due inni dell’antifascismo europeo, i frammenti migliori del secolo passato in un paese che reclama di vivere e costruire più liberamente il secolo corrente, con tanti spazi e ben più di quattro mura che restano da aprire.
--- Termina citazione ---
Vicus:
Se non fanno il pride gli fanno le rivoluzioni colorate o le guerre...
itacel:
Nell'incellosphera ci sono alcuni polandcels, EEcels (europa dell'est). Noto che nascono adesso le prime comunità polacche che riguardano l'inceldom, nascono anche in russia e per quello che ne so io sono recenti.
I russi che ho letto con l'aiuto del google translator, usano un termine che mi è piaciuto ed è "vaginacapitalismo". Mi fa piacere che sviluppino un loro gergo e non lo stiano copiando dall'anglosfera.
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Zecovi-alla-ricerca-di-giustizia-196411
--- Citazione ---Zecovi, alla ricerca di giustizia
Il 25 luglio 1992 nel villaggio di Zecovi, situato a pochi chilometri da Prijedor e abitato da bosgnacchi, vengono uccisi 150 civili. Tra di loro 29 familiari di Fikret Bačić, tornato in Bosnia a fine guerra per cercarne i corpi e portare i responsabili a processo. Nel giorno della commemorazione dell'eccidio, abbiamo raccolto la sua testimonianza
11/09/2019 - Nicole Corritore
"Quando arrivate a Prijedor invece che andare verso il centro proseguite in direzione Sanski Most. A poco meno di 5 km troverete una stradina prima asfaltata e poi sterrata che vi porta fino a noi". È Fikret Bačić che al telefono ci dà indicazioni su come raggiungerlo. È il 25 luglio e nella frazione Gradina del villaggio di Zecovi si sta svolgendo la commemorazione dell’eccidio di 150 civili di Zecovi uccisi nel 1992, tra cui 29 familiari di Fikret.
Mentre di fronte alla sua casa donne e uomini distribuiti sul prato cominciano a seguire il “namaz” (preghiera) in memoria delle vittime, Fikret ci accompagna lungo il sentiero che costeggia il recinto del giardino e si ferma di fronte a una lapide a forma di libro.
"Lavoravo in Germania da prima che scoppiasse la guerra, mentre mia moglie e i bambini erano rimasti a vivere qui accanto alle case di tutti i nostri parenti, i miei genitori, i miei fratelli e nipoti, miei nonni, zii e cugini". Inizia così il suo racconto al gruppo di trentini venuti in Bosnia su organizzazione del "Gruppo Bosnia Mori ", attivo sul territorio di Prijedor da anni.
"In totale massacrarono 29 dei miei parenti, tra i quali mia moglie, mia figlia Nermina di sei anni, mio figlio Nermin di 12 e, tra gli altri, anche il figlio di mio fratello che aveva solo due anni". Lo dice indicando una gettata di cemento al centro del prato. "La casa era lì, accanto a quella di mio padre. Quando sono tornato era tutto raso al suolo e ho dovuto costruirne una nuova accanto alle macerie". Poi si gira di 180 gradi e indica il bosco sul fianco del sentiero: "Ora vedete solo bosco. Dovete sapere che qui era pieno di case, le cui macerie sono state totalmente coperte in 27 anni di abbandono". Aggiunge che attorno alle case, lungo la collina, era coperto da campi coltivati e all’orizzonte, a un chilometro in linea d’aria, si vedevano le case dei vicini serbo-bosniaci: "Se oggi non ci fosse il bosco potreste vederle anche ora, le case di chi ha partecipato al massacro".
Il 23 luglio le forze militari serbo-bosniache assediarono il villaggio e deportarono tutti i maschi adulti, in maggioranza uccisi durante la deportazione o nei lager - Keraterm, Trnopolje e Omarska - in cui vennero rinchiusi, lasciando nel villaggio donne e bambini.
"A donne e bimbi della mia famiglia ordinarono di stare tutti dentro un capannone-deposito che usavamo per gli attrezzi agricoli e un gruppo di soldati rimase a controllarli. Due giorni dopo, il 25 luglio, arrivò un altro gruppo di militari e assieme al gruppo che era qui si avviarono al villaggio di cui là potete vedere il campanile della chiesa, Briševo. Donne e bambini decisero di uscire dal capannone per risalire in casa; dalle finestre del primo piano cominciarono a sentire i colpi d’arma da fuoco che arrivavano da quel villaggio, distante 2,5 km in linea d’aria [a Briševo, abitato da croato-bosniaci, quel giorno avvenne il massacro di 68 persone tra donne, anziani e bambini, ndr]".
Zecovi, la lapide "libro" - foto N.Corritore
Ciò che avvenne viene raccontato da Fikret grazie alla testimonianza di suo nipote Zijad. "Qui, dove adesso c’è questa lapide con i nomi dei miei familiari uccisi, c’era un tavolo. Nel tardo pomeriggio i soldati tornarono e si sedettero a bere un caffè, poi si avviarono alla caserma dopo aver ripetuto alle donne di restare ‘al sicuro’ e non allontanarsi per evitare di rimanere ferite visto gli scontri in corso...".
Al calar della sera cominciò a bruciare la casa di un vicino e sentirono degli spari. Da lì a poco si presentò alla porta un soldato che ordinò loro di uscire: "Le donne presero per mano i bambini e vennero portati accanto a quel muretto, sotto al frutteto. Zijad, che aveva 14 anni, si era attardato per mettersi le scarpe ed era rimasto ultimo. Mentre usciva dalla casa riconobbe nel primo soldato il nostro vicino serbo-bosniaco, Ilija Zorić. Alle prime raffiche di mitra si mise al riparo dietro al muretto e riuscì ad allontanarsi di qualche metro. Da qui, riconobbe tra gli uomini che sparavano un altro vicino, Željko Grbić. Assistette all’uccisione di tutti, compresi sua madre, due fratelli e una sorella... anche il momento in cui un soldato passò tra i corpi per dare il colpo di grazia". Lo stesso scenario si ripeterà poco dopo davanti alla casa della zia, con figli e nipoti; tra questi solo due bambini sopravviveranno alle ferite.
I soldati se ne andarono, sicuri di aver fatto “piazza pulita”. Al calar del buio Zijad decise di andare a chiedere aiuto ad un vicino, suo amico e compagno di classe, serbo-bosniaco, che abitava a 1 km di distanza. Non trovando nessuno si arrampicò al balcone del primo piano per passare la notte al sicuro. Il giorno dopo tornò verso le case dei suoi parenti sperando di trovare qualcuno vivo, ma alla vista dei corpi sul prato non resse e tornò indietro. Fikret prosegue sottolineando l'importanza dell'aiuto che venne offerto al nipote: "Trovò il suo compagno di classe S. e i due genitori, che lo nascosero per otto giorni. Ma dato che l’unità militare responsabile dell’eccidio aveva saputo che era l’unico superstite testimone e lo cercava, non era più al sicuro. Il padre di S. grazie alle sue conoscenze di alto livello da prima della guerra, riuscì a fare arrivare Zijad a Prijedor da dove con un altro zio sfollò a Travnik".
Da Travnik riuscì ad arrivare a Zagabria, in Croazia, dove lo aspettava suo zio Fikret per portarlo con sé in Germania. Appena è stato possibile, dopo la guerra, sono tornati a vivere in Bosnia, nel 1998. Una decisione, racconta Fikret, presa con due obiettivi: "Il primo era trovare i responsabili dell’eccidio e portarli a processo. Il secondo era trovare i corpi dei miei familiari".
Ad oggi i corpi non sono stati ancora trovati: come avvenuto in molti altri casi, dopo le uccisioni sommarie le vittime venivano occultate in fosse comuni. Di recente, i resti di alcuni dei 150 civili uccisi nella municipalità di Zecovi sono stati trovati nella più grande fossa comune finora scoperta, Tomašica - un'enorme area in cui vennero trovati in primi corpi nel 2004 ma soprattutto a decine dal 2013 - ad oggi sono stati esumati i resti di 430 persone.
Fikret e suo nipote Zijad, tornati in Bosnia hanno cominciato a cercare altri testimoni e prove affinché venisse emesso l’ordine di arresto degli indagati e l’avvio di un processo per crimini di guerra. Nel dicembre del 2014 sono stati arrestati 15 ex membri dell'esercito, della polizia e del Centro di crisi serbo-bosniaci di Prijedor: oltre ai due vicini di casa riconosciuti allora da Zijad, anche Dušan Milunić, Radomir Stojnić, Radovan Četić, Duško Zorić, Zoran Stojnić, Zoran Milunić, Boško Grujičić, Ljubiša Četić, Rade e Uroš Grujicić, Rajko Grbić, Zdravko Antonić e Rajko Gnjatović. Il processo a loro carico, iniziato nel giugno del 2015, è in corso presso la Corte di Sarajevo e prevede la comparizione di quasi 100 testimoni. Tra questi, oltre a Fikret e suo nipote Zijad, anche la madre del suo compagno di scuola. L’amico di Zijad e il padre, che gli salvarono la vita, vennero uccisi pochi mesi dopo mentre la madre, rimasta in vita, ha deciso di partecipare alle indagini e oggi è testimone di giustizia sotto protezione.
Zecovi, il gruppo in ascolto di Bačić - foto M.Benedetti
In attesa di ottenere giustizia, presenziando ad ogni dibattito processuale - il prossimo sarà il 13 di settembre - Fikret Bačić partecipa alla ricerca degli scomparsi anche in qualità di membro del direttivo dell’Istituto per la ricerca delle persone scomparse di Bosnia Erzegovina (IOM – Institut za nestale osobe Bosne i Hercegovine ): "Mancano all’appello ancora 7.200 persone e non è per nulla facile ottenere informazioni da chi ha occultato i corpi o ha anche ‘solo’ visto; ogni tanto ne riceviamo ancora ma il tempo che passa ci è nemico. Eppure continuo a sperare, grazie a qualche pentito, di trovare finalmente anche la mia famiglia".
Un’ora di racconto, durante il quale le 15 persone arrivate dal Trentino sono ammutolite. Viene fatta, prima del solidale saluto a Fikret, solo una timida domanda: "Come riesci a raccontare, ogni volta, e a reggere?". Fikret, tenendo sguardo e voce ferma, ha risposto: "Ogni volta che racconto a persone come voi che hanno voglia di sapere, in realtà trasferisco un pezzo di me che voi vi portate via. Così facendo, mi alleggerite di una parte del peso che porto dentro".
Lasciamo dietro di noi la lapide voluta da Fikret per ricordare, a chi passa da quel sentiero e soprattutto ai giovani, ciò che è riassunto nell'inscrizione in testa ai nomi: “Non dite, per quelli che hanno perso la vita lungo la strada di Allah, che ‘sono morti’. No, loro sono vivi, ma voi questo non lo sapete. 25.07.1992”.
--- Termina citazione ---
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