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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Allargamento-UE-l-Ungheria-a-braccetto-con-la-Serbia-196558
--- Citazione ---Allargamento UE: l’Ungheria a braccetto con la Serbia
L'ungherese László Trócsányi è possibile divenga il prossimo Commissario europeo per l'allargamento proprio quando le relazioni tra Ungheria e Serbia sono ottime. Una vicinanza che nasconde grandi e piccoli interessi
13/09/2019 - Corentin Léotard
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans l'11 settembre 2019)
Il presidente serbo Aleksandar Vučić è stato l’ospite d’onore del terzo Demographic Summit tenutosi a Budapest il 5 e 6 settembre scorsi. Ricevuto come una star, Vučić ha avuto l’onore di intervenire all’apertura del summit, prima dei rappresentanti dei paesi che, insieme all’Ungheria, fanno parte del Gruppo di Visegrád. "I rapporti tra i nostri due paesi non sono mai stati migliori e siamo felici che [il presidente serbo] sia qui con noi", ha dichiarato la Segretaria di Stato ungherese per la Famiglia Katalin Novák, responsabile dell'organizzazione del summit. Aleksandar Vučić ha ricambiato con parole altrettanto gentili. "È grazie al signor Orbán che le nostre relazioni bilaterali non sono mai state migliori. Vi assicuro che rimarremo fedeli amici del vostro paese", ha dichiarato Vučić, chiamando il primo ministro ungherese ”mio amico Viktor”.
La questione dell’allargamento dell’UE è stata sollevata da Viktor Orbán nel corso di una conferenza stampa convocata al termine dell’incontro tra Orbán e Angela Merkel, tenutosi a margine della celebrazione del trentesimo anniversario del cosiddetto “picnic paneuropeo”, organizzata nella città di Sopron lo scorso 19 agosto. "È una questione di cruciale importanza per l’Ungheria, dato che la frontiera ungherese coincide con la frontiera meridionale dell’Unione europea. Abbiamo un interesse diretto affinché i paesi dei Balcani occidentali entrino a far parte dell’UE il più presto possibile. L’Ungheria chiede quindi all’UE di continuare con l’allargamento", ha dichiarato Orbán, aggiungendo che "la Serbia è un paese chiave e accelerare i negoziati di adesione con la Serbia è nell’interesse non solo dell’Ungheria, ma dell’intera Europa".
L’appoggio di Orbán a una rapida integrazione dei Balcani occidentali nell’UE non è una novità, è una costante della politica estera ungherese ormai da diversi anni, più precisamente dal 2004 quando l’Ungheria è entrata a fare parte dell’UE. Il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó difende con fervore questa posizione ai vari summit internazionali, come ha fatto anche il suo predecessore János Mártonyi.
Budapest sostiene che il confine meridionale dell’UE – che in parte coincide con il confine tra Ungheria e Serbia – deve essere allargato (spinto in avanti) affinché l’Ungheria possa svolgere appieno il suo ruolo di crocevia mitteleuropeo. Al momento, il confine dell’area Schengen coincide in parte con il confine tra Ungheria e Serbia, ma anche con quello tra Ungheria e Romania e quello tra Ungheria e Croazia.
La questione della minoranza ungherese
La vicinanza strategica tra Budapest e Belgrado è invece una novità, ed è in gran parte dovuta ai buoni rapporti tra Orbán e Vučić, i cui regimi con tendenze autoritarie mostrano numerosi punti in comune. L’inversione di marcia nella politica estera ungherese – sempre più favorevole al mantenimento dei buoni rapporti con la Russia di Putin – iniziata nel 2014 con la firma di un accordo nucleare tra Budapest e Mosca, ha probabilmente contribuito al recente avvicinamento dell’Ungheria alla Serbia, tradizionale alleata della Russia.
Anche la questione della minoranza ungherese in Vojvodina, provincia settentrionale della Serbia, riveste grande importanza nei rapporti bilaterali tra i due paesi. A prescindere dalle relazioni con i paesi della regione, il sostegno alle minoranze ungheresi presenti nei paesi vicini è uno dei pilastri della politica estera ungherese. Durante i bombardamenti della Nato del 1999 sull’allora Federazione di Jugoslavia, Budapest minacciò di appoggiare la campagna aerea della NATO qualora i serbi avessero attaccato gli ungheresi della Vojvodina. Due anni più tardi, nel 2011, l’Ungheria minacciò di porre il veto alla concessione alla Serbia dello status di paese candidato all’adesione all’UE, a causa di una legge serba sulla restituzione dei beni confiscati durante il regime socialista, ritenuta da Budapest discriminatoria nei confronti della minoranza ungherese.
Nel 2013 i due paesi hanno compiuto uno storico gesto di riconciliazione, quando il presidente ungherese János Áder e il suo omologo serbo Tomislav Nikolić hanno reso omaggio alle vittime serbe e ungheresi dei crimini commessi in Vojvodina durante la Seconda guerra mondiale dalle forze dell’Asse e dai partigiani di Tito. Oggi Budapest considera la Serbia come il paese che ha fatto di più per la tutela della minoranza ungherese e i partiti che rappresentano la minoranza ungherese in Serbia sono diventati preziosi alleati del Partito progressista serbo (SNS) guidato dal presidente Vučić: senza il loro appoggio l’SNS non avrebbe potuto prendere il controllo della provincia della Vojvodina. Al contempo, la minoranza ungherese in Vojvodina è completamente leale a Orbán.
Rapporti d’affari poco trasparenti
L’Ungheria e la Serbia sono attualmente impegnate in un grande progetto infrastrutturale: la costruzione di una nuova rete ferroviaria ad alta velocità tra Budapest e Belgrado. I lavori di costruzione, finanziati dalla Cina, dovrebbero iniziare a breve. Nel frattempo, un’inchiesta giornalistica , realizzata dal portale ungherese Direkt36 e da Balkan Insight, ha dimostrato che i due paesi sono legati anche da rapporti d’affari poco trasparenti. L’inchiesta ha fatto luce sulle attività dell’azienda Elios, che realizza impianti di illuminazione pubblica, indagata anche dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF). Nel 2015, OLAF ha rivelato l’esistenza di “gravi irregolarità” e “conflitti di interesse” nei 35 appalti pubblici vinti dall’azienda Elios, e in 17 casi ha riscontrato “meccanismi di frode organizzata”.
Ricorrendo agli stessi metodi, Elios si è aggiudicata numerose gare d’appalto anche in Serbia, per un importo complessivo di 25 milioni di euro. Dall’inchiesta condotta da Direkt36 e Balkan Insight è emerso che 12 delle 15 gare d’appalto prese in esame sono state vinte dai consorzi di cui facevano parte le aziende legate ad Elios, per un valore complessivo di 25 milioni di euro. Nel 2015, quando OLAF ha rivelato gravi irregolarità nell’attività della Elios, il genero di Viktor Orbán, István Tiborcz, figurava tra i soci dell’azienda. L’inchiesta realizzata da Direkt36 e Balkan Insight ha inoltre rivelato l’esistenza di un legame tra la filiale serba della Elios e alcune persone vicine al governo di Belgrado.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99815
--- Citazione ---Ma quale equiparazione tra nazismo e comunismo? La solita miopia
redazione 2 giorni fa
di Francesco Magno e Matteo Zola*
Il 19 settembre scorso il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che ha fatto molto discutere “sull’importanza della memoria europea per il futuro d’Europa”. Il testo della risoluzione è stato presentato dai media generalisti come una equiparazione tra nazismo e comunismo. Ma è davvero così?
Nessuna equiparazione
Rispondiamo subito, a nostro avviso non c’è un’equiparazione tra le due ideologie. E non c’è una condanna del comunismo nel suo senso più pieno. Certo, si legge a più riprese che l’Unione Sovietica era un regime totalitario. Ma non è forse così? Si mettono poi sullo stesso piano nazismo e stalinismo, che vengono definite ‘ideologie totalitarie’. Vogliamo forse affermare che lo stalinismo non sia stato un regime totalitario e assassino equiparabile al nazismo?
La risoluzione non parla dei partigiani, della lotta di classe, dei diritti dei lavoratori. Parla dell’Europa, com’è ovvio dato che proviene dal Parlamento europeo. Parla soprattutto dell’Europa centro-orientale, che del nazismo e dello stalinismo è stata vittima. Parla dell’URSS e dei regimi comunisti degli stati satelliti che definisce – giustamente – “autoritari”. O vogliamo affermare che i regimi di Ceausescu, Hoxha, Gomulka, Živkov, fossero paradisi del socialismo realizzato?
Quando nel testo si dice che il Parlamento “invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione […] riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista” è ovvio che non parla di Cuba ma dell’Europa orientale. Non c’è, insomma, una equiparazione tra comunismo e nazismo. E sarebbe anche impossibile farla, data la natura multiforme e policentrica di ciò che va sotto il nome di “comunismo”. La risoluzione parla solo di stalinismo, di Unione Sovietica, di regimi autoritari negli stati satelliti. E questo appare ancor più evidente quando si cita Witold Pilecki, eroe di Auschwitz, ucciso dai “liberatori” sovietici. Che liberatori non furono.
La memoria degli altri
Non lo furono per polacchi, boemi e moravi, slovacchi, ungheresi, romeni e moldavi, lettoni, lituani ed estoni, finlandesi. E sarebbe ora di capirlo. Sarebbe ora di saltarlo questo benedetto muro che ancora divide l’Europa in due parti che non si comprendono. Sarebbe ora che l’occidente smettesse di sostenere che esiste solo una Storia, la sua. Noi occidentali non riusciamo mai a metterci nei panni degli altri, e li giudichiamo dall’alto della nostra pseudo superiorità morale e politica. Sarebbe bello che qualcuno spiegasse perché i polacchi, i finlandesi, gli ucraini, i lituani, gli estoni e i lettoni dovrebbero ritenere il comunismo sovietico meno criminale del nazi-fascismo.
Eppure, a occidente, risulta estremamente difficile credere che a est abbiano potuto interiorizzare il passato diversamente da noi. Si badi bene: la maggioranza degli europei orientali ritiene il nazi-fascismo e l’Olocausto delle bestialità della Storia, nonostante una vulgata diffusa si diverta a definire sempre i nostri cugini dell’altra metà del continente come dei piccoli balilla sul piede di guerra con baionetta in mano e sete di sangue. Ciò non toglie che i loro traumi e, soprattutto, il loro percorso di memoria siano diversi dal nostro.
Proprio quando Hitler iniziava a consolidare il suo potere in Germania, migliaia e migliaia di ucraini morivano di fame per precisa volontà di Stalin. E se è vero che ogni vita umana è uguale, vien da chiedersi quale sia la differenza tra uccidere in nome della razza in un campo di concentramento e uccidere privando del cibo in nome della rivoluzione? Mentre in Italia e in Francia il partito comunista agiva clandestinamente in opposizione al fascismo, l’Armata Rossa massacrava i prigionieri di guerra polacchi per poi gettarli in una fossa comune nella foresta di Katyn. Sostenere che l’Europa centro-orientale sia stata liberata dall’Armata Rossa nel migliore dei casi è crassa ignoranza, nel peggiore è disonestà intellettuale. Quando nel 1956 gli ungheresi insorsero contro il dominio comunista, a stroncarli furono quegli stessi carri armati sovietici che non avevano mai lasciato il suolo magiaro dal 1944.
“I soliti fasci orientali”?
Oggi come allora la sinistra occidentale, almeno quella più radicale, compie lo stesso errore. Taccia gli est europei di fascismo per non prendersi la briga di scavare nel fondo della loro sensibilità, per non fare lo sforzo di capire l’altra Europa. Non fu capito il ’56 ungherese, non fu capita la Primavera di Praga: “reazionari, deviazionisti, fascisti”, così venivano tacciati dai compagni di allora coloro che si opponevano a mani nude contro i carri sovietici. Questa risoluzione, che è certo malfatta e inappropriata, ha scatenato gli stessi fantasmi di allora. La stessa miopia di allora.
L’indignazione di coloro che oggi gridano all’ipotetica equiparazione tra comunismo e nazismo che sarebbe contenuta in questa risoluzione, è pretestuosa. Anche quando stabilisce che il patto Molotov-Ribbentrop “ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale”, il testo parla di patto “nazi-sovietico”. Il termine comunismo non viene utilizzato. E quello del famigerato patto è certo l’errore più grande di questa risoluzione, poiché è già dal 1918 che vanno semmai cercate le cause del Secondo conflitto mondiale.
La memoria è plurale
In generale, bisognerebbe riflettere sull’effettiva necessità di regolamentare per legge la memoria che non è una, ma plurale. Costringere milioni e milioni di persone ad accettare un ricordo condiviso scelto a tavolino che spesso non corrisponde al vissuto reale costituisce forse il vero e più grande atto di fascismo intellettuale. La Storia insegna la complessità e sfugge dalle righe cui i politici la costringono e la piegano. È questo il torto più grande di chi l’ha votata.
Un messaggio a Putin
Non spetta ai parlamenti esprimere valutazioni storiografiche, non spetta ai politici dichiarare memorie ufficiali o proporre letture del passato. Il vero scopo di questo tipo di provvedimenti è sempre politico, quanto mai attuale. A chi parla la risoluzione? Alla Russia di oggi, quella putiniana, che ha invaso e illegalmente annesso la Crimea, che ha occupato il Donbass, l’Abcasia, l’Ossezia meridionale, che finanzia partiti russofili nel Baltico. A quella Russia viene mandato un messaggio da parte di un’Europa che, è bene ricordarlo, ha recentemente rinnovato le sanzioni economiche verso Mosca.
Si tratta quindi di un documento politico in cui la Storia viene utilizzata strumentalmente, per interessi immediati, per dar forma al presente dell’Europa e non per ragionare sul passato. Una risoluzione fortemente voluta dai paesi dell’est, polacchi in testa, di cui certo avremmo fatto tutti a meno. Non per l’equiparazione tra nazismo e comunismo, che non c’è, ma per la grossolanità dell’intera operazione. Ma questo, agli indignati della domenica, non interessa.
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*Francesco Magno, direttore editoriale East Journal
*Matteo Zola, direttore responsabile East Journal
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99835
--- Citazione ---MACEDONIA: Il caso Janeva, corruzione e politica tra veleni e colpi bassi
Pietro Aleotti 2 giorni fa
Con voto quasi unanime, il 14 settembre scorso il parlamento della Macedonia del Nord ha ufficialmente rimosso dal suo incarico la procuratrice Katica Janeva, giudice a capo della Procura Speciale. Il voto arriva poche settimane dopo l’arresto della Janeva, accusata d’abuso d’ufficio e corruzione.
E’ questa, al momento, l’unica certezza di una vicenda che, c’è da esserne certi, riserverà altre sorprese nell’immediato futuro e che potrebbe avere ripercussioni politiche, anche ai massimi livelli. Una vicenda che ha del clamoroso, se si pensa che la Janeva era considerata la nuova eroina della lotta alla corruzione e che la Procura Speciale, da lei stessa guidata fin dalla sua istituzione nel 2016, aveva proprio lo scopo di contrastare la corruzione, dilagante in tutto il paese.
I fatti
La ricostruzione dei fatti ci riporta nel cuore dell’estate scorsa, e precisamente al 15 luglio, quando Boki 13, al secolo Bojan Javanosky, ex star televisiva, conduttore di successo e proprietario dell’emittente TV 1TV, viene arrestato con l’accusa di tentata estorsione ai danni dell’imprenditore macedone Jordan Kamchev, l’uomo più ricco della Macedonia del Nord. Kamchev stesso è nel mirino della Procura Speciale e, secondo l’accusa, sarebbe stato indotto da Javanosky al pagamento di una somma di cinque milioni di euro in cambio di un trattamento più mite da parte della procura. Javanosky, infatti, può far leva su rapporti privilegiati con la Janeva e, in particolare, col figlio di quest’ultima, manager di un’associazione di volontariato intestata a Javanosky.
E’ stato il quotidiano italiano “La Verità” a pubblicare per primo le intercettazioni audio in cui si sentirebbe Javanosky millantare ottime relazioni con la Janeva (e persino con l’attuale primo ministro, il socialdemocratico Zoran Zaev, che “non avrebbe certamente causato problemi”) e da cui si evincerebbe che il tentativo di estorsione sarebbe addirittura stato concordato con la giudice. Resta il fatto che il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ha anche pubblicato il video in cui si vede Javanosky uscire dall’abitazione di Kamchev con una borsa contenente un milione e mezzo di euro. La vera pistola fumante riguardo al coinvolgimento diretto della Janeva sembrerebbe, però, essere un’altra intercettazione audio, quella in cui si la si ascolterebbe rassicurare l’imprenditore sul fatto che “tutto andrà bene”. A ciò si devono aggiungere le perplessità espresse da alcuni dei suoi più stretti collaboratori circa la sua tendenza a prendere decisioni discutibili, senza condividerle, inclusa quella di restituire il passaporto proprio a Kamchev.
La vicenda giudiziaria farà il suo corso e solo le indagini potranno chiarire se si sia trattato, effettivamente, di un tentativo di estorsione e quale sia stato il reale coinvolgimento della giudice che, dal canto suo, ha tentato di derubricare il fatto a una “normale” attività d’ufficio finalizzata alla “estrazione delle informazioni” dagli indagati.
La politica dei veleni e dei colpi bassi
Ma è il piano politico quello ad offrire gli spunti di maggior interesse e, con ogni probabilità, la chiave di lettura più pertinente dell’intero caso. Vicenda giudiziaria e politica si intersecano, infatti, in un legame che pare indissolubile e che, dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, quanto “tossico” sia il clima politico del paese balcanico.
Nel 2016, infatti, erano state le intercettazioni rese pubbliche da Zoran Zaev, all’epoca all’opposizione, a provocare un vero e proprio terremoto. Esse fornivano, infatti, le prove delle presunte attività illegali perpetrate da Nikola Gruevski, allora primo ministro e leader del partito conservatore VMRO-DPMNE (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone). Le proteste popolari che ne scaturirono in tutto il paese portarono alla caduta del governo Gruesvki nonché alla sconfitta alla tornata elettorale dell’anno successivo, consegnando il paese nelle mani dell’acerrimo nemico Zaev e “inducendo” Gruesvki alla sua rocambolesca fuga nell’Ungheria del sodale politico Viktor Orban.
I ruoli si sono ora invertiti e non è da escludere che la regia, più o meno occulta, dell’intero intreccio sia proprio quella “dell’esule” Gruevski. Così come potrebbe non essere una coincidenza il fatto che il caso sia stato scoperchiato da un quotidiano, “La Verità”, vicino alle posizioni sovraniste espresse in Italia da Matteo Salvini e condivise da quest’ultimo proprio con il duo Gruevski-Orban.
Quali conseguenze?
La vicenda butta nuovo discredito sulla politica macedone facendo precipitare la fiducia dei cittadini sulla classe dirigente del paese, come dichiarato dal presidente della repubblica, Stevo Pendarovski. Dal canto loro le opposizioni chiedono le immediate dimissioni di Zaev il quale, di converso, ha tentato nei giorni scorsi di confinare i fatti alla mera sfera giudiziaria, rivendicando i presunti successi del proprio esecutivo e ricordando l’importanza epocale delle sfide che il paese si trova ad affrontare: l’adesione all’UE e alla NATO, in primis.
Il quadro tuttavia potrebbe drasticamente cambiare qualora si dovesse comprovare non solo un coinvolgimento diretto del primo ministro ma anche una qualsivoglia connessione tra alcuni dei ministri del suo esecutivo e la società “Alleanza Internazionale” gestita da Bojan Javanovski.
Sullo sfondo, lo scontro politico si sposta anche sul futuro della Procura Speciale: nata tra mille speranze è, ora, presa tra l’incudine e il martello di chi, come le attuali opposizioni, la considerano un’emanazione del partito di governo responsabile della propria sconfitta elettorale e chi, al contrario, vorrebbe che continuasse ad operare anche oltre il limite, previsto per la fine di quest’anno, per poter portare a termine le decine di indagini ancora in corso.
In tutto ciò l’Europa è spettatrice interessata e considera l’estensione delle attività della Procura come condizione necessaria per l’avvio dei negoziati di adesione alla UE.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99395
--- Citazione ---Autoritarismo competitivo, cos’è? L’Europa orientale e la crisi democratica
Matteo Zola 10 ore fa
Su queste colonne abbiamo più volte, negli anni, richiamato al concetto di “autoritarismo competitivo” senza tuttavia mai soffermarci a spiegarlo. Eppure si tratta di un concetto chiave per comprendere la situazione politica dell’Europa centro-orientale.
In poche parole, l’autoritarismo competitivo è proprio di quei paesi in cui, pur esistendo una competizione politica (e quindi il connesso diritto di voto), essa è falsata dal partito al potere che utilizza tutte le leve a disposizione per rimanere al suo posto e impedire l’accesso al potere da parte delle opposizioni. Avvalendosi del potere giudiziario o legislativo, ma anche di quello poliziesco e mediatico, il gruppo che detiene il potere agisce per evitare che gli venga sottratto. In taluni casi, questo concetto è sostituito da quello di “democratura” a indicare la natura ibrida, tra democrazia e dittatura, di questi regimi.
L’Europa centro-orientale è il luogo ove questo concetto si applica più spesso, a volte anche impropriamente, poiché se è vero che in tutta la regione si assiste a fenomeni di regressione democratica, esistono tuttavia vistose differenze. Certo, quasi tutti quei paesi hanno avviato, dopo il 1989, percorsi di costruzione di uno stato democratico ma tali percorsi hanno seguito rotte diverse.
I paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) erano considerati esempi di una riuscita transizione alla democrazia. Da circa un decennio si constata però un’erosione e a un deconsolidamento del sistema democratico che procede a velocità diverse nei quattro paesi e che non ha sempre punti in comune. Tuttavia l’indebolimento dello stato di diritto e la costruzione di quella che chiamano “democrazia illiberale”, sono elementi diffusi in vario grado a tutti i paesi della regione.
I paesi dell’area carpatico-danubiana (Romania, Bulgaria, Moldavia) sono stati più che altro protagonisti di una transizione interrotta, abortita da classi dirigenti locali corrotte e irresponsabili. La Romania assiste da anni a uno sconfortante susseguirsi di politici rapaci e padronali, incapaci di incrementare il livello democratico del paese e anzi protagonisti di una regressione unica in tutto il continente. La Bulgaria da più di un decennio è in mano a una consorteria politico-mafiosa. La Moldavia ha recentemente individuato quale presidente della repubblica Igor Dodon, uomo vicino al presidente russo Putin e con il quale condivide la visione del potere. In generale, il paese soffre di faide interne, di violenza politica, della competizione di gruppi oligarchici che si contendono il potere.
I paesi dell’area balcanica, a seguito delle guerre jugoslave, si sono connotati per il ricorso costante a forme di nazionalismo e populismo. Queste nazioni, che si vogliono santificate dal sangue versato, sono state guidate da élites che hanno occupato lo stato e le sue istituzioni. Un contesto certo non propizio allo sviluppo del pluralismo. Anche tra questi esistono però differenze. La Croazia ha realizzato una democrazia proceduralmente corretta, benché ancora caratterizzata da scarsa inclusività e rispetto delle minoranze. La Serbia – saldamente in mano al voivoda di turno, oggi incarnato da quell’Aleksander Vucic che proclamò l’omicidio di massa dei musulmani di Bosnia, è vittima di una transizione abortita. La Macedonia e l’Albania stanno lentamente evolvendo il proprio sistema verso la democrazia ma le istituzioni restano molto rudimentali e lo stato di diritto ancora molto fragile. Il Kosovo e il Montenegro sono in mano a rispettivi gruppi di potere in stretta relazione con la criminalità organizzata. La Bosnia Erzegovina è un protettorato europeo gravato da una costituzione farraginosa e inefficace.
I paesi dell’area post-sovietica sono a loro volta molto variegati. Gli stati baltici hanno costruito sistemi democratici maturi e funzionali, benché restino alcune criticità. L’Ucraina, come la Serbia, ha assistito a una transizione abortita e le rivoluzioni del 2004 e del 2014 non hanno aiutato il paese a imboccare con passo sicuro la strada verso la democrazia, anzi hanno reso le istituzioni più deboli e preda di interessi oligarchici. La Bielorussia è l’ultimo regime autoritario duro presente in Europa. Nel Caucaso le cosiddette “rivoluzioni colorate” in Georgia (2003) e Armenia (2018) hanno aperto a regimi semi-autoritari.
Le direttrici attraverso cui i paesi dell’Europa centro-orientale sono giunti a realizzare regimi ibridi sono quindi diverse. Diversità su cui è necessario insistere per non appiattirsi, come troppo spesso fanno i media generalisti, su definizioni onnicomprensive che opacizzano la realtà e non aiutano a capire. Nazionalismo e populismo sono fenomeni certamente in atto nell’Europa orientale, ma non bastano a spiegare se siamo di fronte alla fine del ciclo liberale, a una sbandata temporanea, a una tappa di una sviluppo mai lineare. Una tappa, tuttavia, in cui si assiste al diffondersi di modelli di società chiusa. Un tipo di società protetta che, secondo i suoi sostenitori, non sarebbe in conflitto con la democrazia. Ma di fatto lo è. Poiché in ogni fattispecie di società chiusa la protezione arriva al punto da sostituire il pluralismo con l’unica visione possibile, quella del partito al potere, pronto a limitare libertà e diritti costituzionali in nome del monopolio politico e morale sul paese e su persone, sempre meno trattate da cittadini e sempre più da popolo.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/100090
--- Citazione ---ROMANIA: Il governo sta per cadere
Rebecca Grossi 8 ore fa
Dopo mesi di instabilità e precarietà politica, è infine successo ciò che molti da tempo si aspettavano: il governo di Viorica Dancila è stato posto di fronte ad una mozione di sfiducia.
Già da maggio il partito al governo PSD (Partidul Social Democrat) si era ritrovato a fronteggiare una serie di avversità: la condanna per abuso d’ufficio del suo leader Liviu Dragnea, l’insuccesso alle elezioni europee in cui ha perso oltre il 15 percento dei consensi rispetto a quelle del 2014, e infine, ad agosto, l’abbandono della coalizione di governo da parte dell’alleato minore ALDE (Alianta Liberalilor si Democratilor) di Calin Popescu Tariceanu.
Proprio la scelta di Tariceanu di mettere fine all’esperienza governativa è stata l’evento chiave che ha confermato che la sfiducia sarebbe stata ormai solo questione di tempo.
Redatta dal maggior partito di opposizione Partidul National Liberal (PNL), e appoggiata da altre cinque formazioni, compreso l’ex alleato di governo ALDE, la mozione di sfiducia è stata deposta in parlamento venerdì 27 settembre. 237 le firme raccolte, numero che garantirebbe matematicamente la maggioranza in entrambe le camere, e quindi l’effettiva possibilità di procedere verso la sfiducia.
Stando ad alcune indiscrezioni, sarebbe stata firmata anche da alcuni esponenti del PSD stesso.
La mozione è stata discussa giovedì 3 ottobre, mentre la votazione finale è stata fissata per la settimana dopo, il 10, durante una sessione congiunta delle due camere.
Inutile il tentativo del PSD di anticipare il voto finale a sabato 5 ottobre. L’opposizione ha infatti fatto fronte comune per evitare che coincidesse con il fine settimana, durante il quale notoriamente la presenza e partecipazione ai lavori parlamentari è ridotta.
Tuttavia, la scelta di fissare il voto una settimana dopo la discussione parlamentare è stata ampiamente criticata dagli altri partiti d’opposizione, che temono una possibile riorganizzazione da parte del PSD per ricomporre una maggioranza e impedire così che la sfiducia venga approvata.
Dichiarazioni
Diverse le reazioni e dichiarazioni del mondo politico. L’attuale presidente Klaus Iohannis sostiene la sfiducia all’esecutivo di Dancila, che definisce un “governo fallito“.
Iohannis auspica un governo di transizione che possa garantire un’efficace gestione politica nella delicata situazione attuale in cui si trova il paese: a novembre infatti si terranno le presidenziali, bisogna inoltre strutturare e approvare il budget nazionale per l’anno venturo, e organizzare le elezioni locali e parlamentari fissate per il 2020. Come traspare dalle parole di Iohannis, il PNL ricoprirebbe all’interno del nuovo esecutivo sicuramente una posizione chiave; idea confermata dalla possibile nomina del leader del PNL Ludovic Orban a primo ministro.
Dall’altra parte, Viorica Dancila si dimostra fiduciosa nella tenuta del governo, data l’eterogenea e aleatoria composizione del blocco dell’opposizione, definito “un miscuglio di interessi, opportunismo e ipocrisia”.
Lo scenario futuro
Sono stati diversi i tentativi da parte dell’opposizione di far cadere il governo socialdemocratico, in carica dal dicembre 2016; finora le mozioni di sfiducia sono sempre fallite a causa del mancato raggiungimento del quorum necessario. Adesso la situazione appare notevolmente diversa, data la rinnovata forza parlamentare delle opposizioni.
Tuttavia lo scenario politico dell’immediato futuro appare poco nitido.
I sei partiti di opposizione che hanno firmato la mozione hanno agende, interessi, ideologie e visioni molto diversi. Molto precarie sono quindi le fondamenta su cui si baserebbe l’esecutivo che potrebbe succedere a Dancila. PRO Romania di Victor Ponta, nato nel 2017 dalla scissione con il PSD, e uno dei partiti che sostengono la mozione, ha dichiarato infatti che non sosterrebbe un governo formato da partiti di centrodestra, trovando più appropriato un esecutivo di centrosinistra, formato da PRO Romania stesso, ALDE, e da quella parte di PSD ostile a Dancila.
Inoltre, nonostante il numero di firme raccolte testimoni la presenza formale di una maggioranza a favore della sfiducia, non è tuttavia scontato che tutti i parlamentari siano disposti a convertire la loro firma in voto.
In conclusione, la stabilità in Romania pare ancora lontana e il futuro rimane nebuloso, il tutto a ridosso delle presidenziali, su cui l’attuale crisi di governo avrà inevitabilmente conseguenze. Si aspetta la votazione di giovedì, a seguito della quale il quadro potrà acquisire maggiore definizione.
--- Termina citazione ---
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