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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/100030


--- Citazione ---La Cina investe nella ferrovia Belgrado-Budapest
Gian Marco Moisé 24 ore fa

All’inizio dell’estate, il ministro delle finanze ungherese ha completato la richiesta di finanziamento per 1,42 miliardi di euro alla banca cinese Exim. Il prestito verrà finalizzato al pagamento dei lavori previsti per il miglioramento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest.

Linea ferroviaria Belgrado-Budapest

Il progetto di investimento nella linea ferroviaria Belgrado-Budapest riguarda un piano di miglioramento della struttura ferroviaria esistente. Il progetto è pensato per ridurre il tempo di viaggio tra le due capitali dalle attuali 8 ore e mezza a 3 ore. La funzione principale di questa tratta ferroviaria sarà il trasporto di beni prodotti in Cina verso la capitale ungherese collegando Budapest al porto greco di Piraeus, la cui proprietà di maggioranza è proprio cinese.

Il costo previsto per il progetto è 3,2 miliardi di euro, di cui 1,68 a carico dalla stessa Ungheria. Il 15% di questa cifra verrà finanziato attraverso la compagnia ungherese dei trasporti ferroviari, mentre il rimanente 85% sarà finanziato con un prestito della banca cinese Exim. Questo progetto, in aggiunta al prestito di 10 miliardi ricevuto dalla Russia per l’ampiamento della centrale nucleare ungherese di Paks, esporrà il paese a creditori esterni per il 10% del proprio PIL.

L’alleanza sino-ungherese

I motivi della Cina per investire in Ungheria sono piuttosto chiari. Infatti, il progetto ricade nell’ambito della One Belt One Road Initiative, destinata a migliorare i collegamenti infrastrutturali tra la Cina e l’Europa per facilitare l’export di prodotti cinesi. I motivi dell’Ungheria, invece, risultano meno chiari. Infatti, le città attraversate da questa linea ferroviaria non superano una popolazione di 27.000 persone ciascuno, senza contare la presenza dell’autostrada M5 che collega i due paesi. Il traffico di persone sarà quindi piuttosto limitato. Secondo gli esperti intervistati da Samuel Rogers (2019), le ragioni ungheresi per appoggiare l’investimento sono quattro: 1) migliorare l’arretrato comparto ferroviario ungherese, 2) stimolare iniziative economiche complementari, 3) facilitare l’ingresso di Serbia e Macedonia nell’Unione Europea e 4) diventare centro di distribuzione di prodotti cinesi nell’Europa centro-orientale.

Questa non è la prima volta che la Cina propone all’Ungheria progetti per i miglioramenti delle sue infrastrutture. Dal 2010, i cinesi avevano proposto il Ferex, un piano per la connessione ferroviaria rapida tra l’aeroporto Liszt Ferenc e una delle stazioni ferroviarie centrali di Budapest, e la costruzione della linea ferroviaria V0, ideata con l’intento di assistere treni in transito per l’Ungheria ad aggirare il centro della capitale. Entrambi i progetti non vennero realizzati per via del fallimento della compagnia ferroviaria Malév oltre a limitazioni imposte dalla legislazione europea per gli appalti.

È quindi chiaro, che l’investimento è stato concordato in prospettiva politico-economica visto il frequente allontanamento di compagnie occidentali dal territorio ungherese. Come chiarito nei mesi scorsi su East Journal, l’approvazione della cosiddetta legge schiavitù non fu che il disperato tentativo di convincere le compagnie automobilistiche tedesche a non delocalizzare la produzione altrove. L’avvicinamento ungherese prima alla Russia e poi alla Cina dimostra l’intenzione del governo Orbán di diversificare le fonti di investimenti. Il governo cinese, invece, ha dimostrato ancora una volta di saper sfruttare a suo favore il pragmatismo dei governi euro-scettici.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Universita-in-Azerbaijan-troppe-tasse-gli-studenti-abbandonano-196788


--- Citazione ---Università in Azerbaijan: troppe tasse, gli studenti abbandonano

In Azerbaijan vi sono le tasse universitarie più alte di tutto il Caucaso. Ed in effetti sono migliaia ogni anno gli studenti costretti all'abbandono

11/10/2019 -  Kamran Mahmudov
(Pubblicato originariamente da OC Media  il 17 settembre 2019)

Umman Safarov questo settembre non proseguirà con i suoi studi universitari presso la Facoltà di giornalismo dell'Università di Baku. Non può permettersi la retta. “Dovevo pagare ma non ho soldi a sufficienza. Magari prima o poi riuscirò a finirla”, racconta ad OC Media. “Del resto studiare in Azerbaijan per me era solo una perdita di tempo, specialmente alla facoltà di giornalismo. È stato facile decidere di abbandonare. Se non hai soldi, non hai scelta”.

Safarov è tra le migliaia di studenti dell'Azerbaijan che, negli ultimi anni, hanno abbandonato l'università per motivi finanziari.

Ogni anno, quando i termini di iscrizione stanno per scadere, i social network del paese vengono inondati di post in cui gli studenti chiedono aiuto ad amici, parenti e anche ad estranei per riuscire a pagare le loro rette universitarie.

Secondo il Centro statale per gli esami per l'anno accademico 2019/2020 sono stati ammessi agli studi universitari 42.000 nuovi studenti. Di questi 18.000 otterranno borse di studio statali mentre gli altri 24.000 devono pagarsi di tasca propria gli studi. Le rette presso le università dell'Azerbaijan vanno dai 1.000 manat all'anno (circa 590 dollari) ai 6.500 (3.800 dollari), quasi il doppio della media della regione.

Problemi sistemici
Attualmente sono circa 160.000 gli studenti iscritti presso le università dell'Azerbaijan. Di questi circa il 70% si paga gli studi mentre il 30% è coperto da budget statale.

Kamran Asadov, è a capo del Centro per l'analisi e la ricerca sui servizi educativi, una ong con sede a Baku. A suo avviso le rette universitarie nelle università dell'Azerbaijan sono più alte di molti altri paesi del mondo, in particolare di quelli con uno sviluppo economico simile. Contemporaneamente la qualità delle università del paese non è all'altezza: nessuna università dell'Azerbaijan rientra nelle classifiche mondiali del Times Higher Education  .

Il governo dell'Azerbaijan attualmente copre con borse di studio esclusivamente alcune materie. Inoltre vengono integrati i costi di studenti provenienti da situazioni particolarmente svantaggiate, persone con disabilità e dei figli di persone riconosciute “Eroi nazionali” dell'Azerbaijan.

Kamran Asadov sottolinea come negli ultimi cinque anni a più di 7.000 studenti è stato negato il diritto di studio perché non erano in grado di pagare le rette universitarie. A suo avviso uno dei problemi principali è la mancanza di prestiti d'onore per lo studio, di cui si fa garante lo stato.

“Non ci sono prestiti d'onore per gli studenti in Azerbaijan”, chiarisce. “L'unico fondo esistente è il 'Maarifchi Loan Student Fund' ma è privato e attualmente non ha budget”.

Nell'agosto scorso quest'ultimo ha annunciato ai media locali l'accordo stretto con 15 università e la concessione di 247 prestiti ad altrettanti studenti. Numeri molto inferiori rispetto agli abbandoni attesi per difficoltà finanziarie. Inoltre, aggiunge Asadov, nonostante le alte rette le università non provano nemmeno ad alleviare le precarie condizioni economiche degli studenti.

“Purtroppo in Azerbaijan i 160.000 studenti che studiano nelle 54 università del paese non ricevono alcun sconto su nulla. Altrove nel mondo è invece normale che gli studenti ottengano sconti negli abbonamenti per i trasporti, nelle mense, nei negozi di libri o a volte per gli alloggi”, aggiunge il ricercatore.

Asadov contesta anche l'approccio delle università rispetto alle rette: “Le rette si basano sugli stipendi degli insegnanti e sui costi di mantenimento dell'università. Ma governo e università dovrebbero anche tener conto dei salari medi dei laureati che poi usciranno da quelle specifiche università”. Con il livello attuale dei salari, spiega infatti, servono dieci anni per rientrare sui costi degli studi.

Come conseguenza, sottolinea, la frequenza delle università è bassa e i corsi con pochi studenti sono obbligati ad alzare ulteriormente le rette. Questo causa un circolo vizioso che spinge sempre più studenti all'estero, creando ulteriori vuoti nel sistema universitario del paese.

“Gli studenti possono andare all'estero dove ottengono un'istruzione migliore pagando meno. Stiamo creando le condizioni affinché sempre più persone se ne vadano all'estero”, chiosa Asadov.

Dibattito politico
Natig Jafarli, segretario del partito ReAl, opposizione, ha lanciato una raccolta firme – nel novembre 2018 - per introdurre una legge che garantisca una libera formazione universitaria. Secondo la normativa dell'Azerbaijan se una proposta di legge popolare raggiunge le 40.000 firme può essere presa in esame dal Parlamento. La proposta di legge sopra menzionata è stata però bloccata dalla Commissione elettorale centrale che ha sostenuto che un certo numero di firme tra quelle presentate non erano autentiche e che quindi la soglia delle 40.000 firme non era stata superata.

Jafarli, comunque, ritiene che la petizione sia stata un successo: “Prima della nostra iniziativa solo a 12-15.000 studenti veniva garantita una formazione universitaria per la quale non dovevano pagare, quest'anno ci si è alzati a 20.000”, ha dichiarato ad OC Media.

Ma, secondo Jafarli, questo è solo un primo passo. Chiarisce infatti che è necessario creare le condizioni per un libero accesso agli studi universitari non solo a vantaggio degli studenti dell'Azerbaijan ma dello sviluppo del paese.

“In molti paesi l'educazione universitaria è del tutto gratis – sottolinea Jafarli – un alto numero di laureati ha un impatto significativo sulla crescita del Pil, sulla crescita economica ed in generale sul benessere dei cittadini”.

Fazil Mustafa, parlamentare eletto tra le fila del “Grande partito dell'istituzione” ha dichiarato ai media locali che alcune università dovrebbero essere privatizzate e dovrebbero competere una con l'altra. In questo modo a suo avviso “sarebbero capaci di creare profitto” e la concorrenza abbasserebbe salari e costi amministrativi.

Kamila Aliyeva, membro del Comitato parlamentare sulla scienza e l'educazione ha dichiarato che spetta a chi si vuol iscrivere all'università aver presente i suoi costi: “Se le risorse finanziarie della famiglia dello studente sono basse non dovrebbero iscriversi ad università non coperte da borse di studio.”

La deputata è l'autrice di una proposta di legge per l'introduzione di prestiti d'onore, ciononostante è lei stessa ad affermare che i prestiti non bastano. “A mio avviso il modo più realistico di affrontare la questione è quella di tagliare di metà le rette”, ha affermato.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/100048


--- Citazione ---Trent’anni dopo il crollo del Muro, East Journal racconta gli anni ’90 ad est
Francesco Magno 18 ore fa

Il 9 novembre 2019 verranno celebrati i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, evento che segnò la fine della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti. Da allora l’Europa ha ritrovato una sua unità, almeno simbolica; buona parte dei paesi ex comunisti sono entrati nell’Unione Europea, le barriere sono state quasi completamente abbattute e gli scambi tra l’occidente e l’oriente del continente sono all’ordine del giorno.

Resta, tuttavia, un’incomunicabilità di fondo tra le due aree del continente. L’esplosione dei cosiddetti governi populisti in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, ha riacceso la secolare “questione orientale”. Il nazionalismo è un problema atavico dell’Europa dell’est? In cosa si differenzia da quello dell’Europa occidentale? Perché personalità come Orban, Borissov, Kaczynski, Babis dominano la politica dei rispettivi paesi impedendo uno sviluppo naturale della democrazia liberale?

Le risposte a queste, e ad altre domande, possono essere rintracciate spesso nel decennio che seguì il crollo del comunismo; anni di contraddizioni, cambiamenti, riassestamenti, ambiguità il più delle volte ignorate in Occidente. Troppo forte la tentazione di presentare il trionfo del capitalismo come panacea di tutti i mali della regione: per molti ad est gli anni ’90 furono più duri delle decadi precedenti. Mentre dal lato fortunato della Cortina si ascoltavano i Nirvana, si restava scioccati da Trainspotting e iniziavano a fare capolino le prime Play Station, nell’Europa orientale si lottava con gli effetti collaterali del cambiamento di sistema economico.

Come funghi, tra il grigio del cielo e del cemento socialista, apparvero i primi brand occidentali. Bucarest, che per anni aveva sofferto la cronaca mancanza di cibo, si mise in coda per un Big Mac e una manciata di patatine fritte, temporaneo sollievo dai mali del post-comunismo.

 foto: b365.ro

Benetton aprì un negozio a Sofia, con l’idea di sfruttare il potenzialmente enorme mercato orientale, ma ci volle del tempo per rimpiazzare il tipico vestiario bulgaro.

  Foto: vagabond.bg

Alcuni non riuscirono a riadattarsi al nuovo sistema, e furono costretti all’emigrazione. L’immagine della nava Vlora stracolma di profughi albanesi resta una delle più iconiche del decennio.

 Foto: Repubblica

E’ proprio in quegli anni ’90 di euforia, miseria, senso di libertà e disillusione che si annidano molti dei mali attuali della regione. In questi anni parte della popolazione alimenta il risentimento anti-occidentale, il nazionalismo diventa un caldo rifugio contro le incertezze della povertà, contro lo spaesamento provocato dal capitalismo. East Journal nelle prossime settimane dedicherà degli articoli specifici all’ultimo decennio del XX secolo nell’Europa orientale, cercando di metterne in luce le innumerevoli contraddizioni, con l’obiettivo specifico di gettare nuova luce su quello che seguì il crollo del muro. Un evento tanto importante da oscurare quasi completamente gli eventi successivi. Lo faremo cercando di rifuggire dai luoghi comuni, con spirito volutamente provocatorio, consci che il crollo del comunismo, oltre ad una riconquistata libertà, abbia portato alla distruzione di certezze, consuetudini, legami, che avevano caratterizzato la vita di milioni di persone per cinquant’anni.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/100189


--- Citazione ---UNGHERIA: Domenica elettorale. Budapest non è Istanbul…ma qualche analogia c’è
Lorenzo Venuti 21 ore fa

Il 13 ottobre è tempo di elezioni amministrative in Ungheria, in una cornice inedita dove l’opposizione si presenterà compatta in (quasi) tutti i comuni, cercando di spezzare il monopolio arancione – colore della FIDESz – sul paese. Il rischio di un generalizzato ricambio di amministrazioni è alto, specie nella capitale Budapest, cuore pulsante del paese. Immediato il richiamo ad Istanbul, dove il candidato Binali Yıldırım, supportato da Erdogăn, è stato sconfitto nel marzo (e poi di nuovo nel giugno) di quest’anno da Ekrem Imamoglu.

Dietro qualche analogia, tante differenze

Lo stesso candidato di Budapest Gergely Karácsony (MSZP-P-DK-Momentum-LMP-MLP), ispira in qualche misura questo collegamento fra le due esperienze, ricordando le similitudini che legano i due governi; ad agosto, quando la campagna elettorale entrava nel vivo, il giovane sociologo si recava ad Istanbul proprio in visita da Imamoglu. Del resto, anche la loro storia politica presenta qualche analogia. Entrambi hanno maturato una certa esperienza nell’amministrazione locale, e entrambi sono partiti da una situazione di profondo svantaggio nei confronti dei rivali governativi, colmato nel tempo malgrado l’ostilità dei media.

Budapest tuttavia, al netto di queste analogie, non è Istanbul. Diversa è la sua storia politica, minore il peso che il sindaco ha negli affari nazionali. Diverso è anche l’uomo del potere da sfidare: mentre Imamoglu poteva scagliarsi contro Binali Yıldırım, uomo di partito e di apparato, lo sfidante di Karácsony è István Tárlos, sindaco uscente di Budapest, personalità stimata, che gode di una popolarità superiore persino a quella generale di FIDESz.

La battaglia per la capitale

Come già sottolineato, il vantaggio di Tárlos, convinto a ricandidarsi da Orbán in cambio di maggiori investimenti e di un futuro canale diretto con il primo ministro, si è progressivamente assottigliato, grazie alla dinamica campagna di Gergely Karácsony, sindaco rionale uscente di Zugló (distretto XIV). Da agosto il giovane sfidante ha presentato iniziative che hanno riscosso un certo interesse, come quella della petizione stadiumstop, che chiedeva la fine della costruzione di impianti sportivi nella capitale – attualmente vi sono due cantieri del genere solo nella capitale magiara – per destinare i fondi alla sanità. Una campagna alla quale il settantunenne sindaco uscente ha replicato con difficoltà, ribandendo i risultati positivi della propria amministrazione, ma soffrendo le mancanze di una comunicazione limitata ai media tradizionali.

Il confronto fra i due è poi ulteriormente complicato da due fattori: in primo luogo dall’incognita del voto dei residenti di cittadinanza non ungherese; un esercito di i 140.000 persone in possesso della lakcimkartya, profondamente disomogeneo nella sua composizione, di cui sarà difficile prevedere il comportamento elettorale. Dall’altro la presenza di due ulteriori candidati: Róbert Puzsér e Krisztián Berki. Mentre ci sono pochi dubbi sul fatto che il secondo, creatura della FIDESz per frazionare il voto, raccolga un risultato tutto sommato limitato (attorno all’1%), il primo ha un’influenza ben maggiore. Giornalista ed ex conduttore radiofonico, Róbert Puzsér sembra superare a destra il partito di Orbán e può condensare su di sé il voto dei delusi: probabilmente in misura sufficiente per alterare la corsa alla poltrona.

Le schermaglie

La campagna elettorale nel frattempo infuria a tutti i livelli, e miete vittime. La più celebre è senza dubbio il ricandidato sindaco di Győr, Zsolt Borkai (FIDESz), presidente anche del MOB, il comitato olimpico magiaro. In un blog, Ez az ördög ügyvédje (questo è l’avvocato del diavolo) sono state recentemente pubblicate le foto del politico in compagnia dell’uomo d’affari Zoltán Rákosfalvy mentre si intratteneva con delle escort su uno yatch. Un attacco al quale il partito di Orbán ha replicato invocando unità, e confermando la candidatura di Borkai nella cittadina magiara, dove verrà verosimilmente rieletto. Altri scandali sessuali hanno coinvolto candidati rionali di Budapest dell’opposizione, in particolare Tamás Wittinghoff e Imre László, mentre András Pikó, celebre conduttore radiofonico candidato come sindaco rionale del distretto VIII, si è visto confiscare il computer e quello dei suoi collaboratori dalla polizia, con l’accusa di aver collezionato dati in modo illegale.

Lo stesso errore?

Al di là delle differenze, un tratto sembra però collegare effettivamente le elezioni amministrative in Turchia e Ungheria: l’atteggiamento governativo. Esattamente come Erdogăn ha dato pieno appoggio al suo candidato, spendendosi personalmente per la sua campagna, così Orbán ha garantito il pieno sostegno ai propri, ricollegando in una lettera aperta alla popolazione il piano nazionale con quello locale. Il rischio di una “guerra partigiana” delle amministrazioni dell’opposizione contro il governo spinge gli uomini della FIDESz ad alzare la posta in palio in una personalizzazione della campagna che rischia di far passare in secondo piano i punti deboli dell’opposizione, composta pur sempre da partiti molto diversi fra loro e amalgamati alla meno peggio.

Un operato che rischia di nuocere, più che favorire i propri candidati.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/100067


--- Citazione ---Un nuovo Muro divide l’Europa?
Matteo Zola 4 ore fa

Un nuovo muro divide l’Europa, la frattura fra l’oriente e l’occidente europeo sembra oggi più profonda che mai. Quindici anni dopo l’allargamento dell’UE verso i paesi dell’area centro-orientale, il solco tra vecchi e nuovi membri si è approfondito al punto da dare luogo a una vera e propria crisi dell’assetto europeo, con una regressione democratica sempre più evidente nella parte orientale del vecchio continente.

Nei paesi fondatori, Francia in testa, si parla sempre più apertamente di “errore” o, più diplomaticamente, si definisce “prematuro” l’allargamento a est. Non a caso la Francia ha bloccato i negoziati per Albania e Macedonia del Nord. In Germania e nei paesi del nord si diffonde l’idea di un’Europa a due velocità nella quale i paesi con le economie più avanzate e meglio integrate possano procedere lungo la via delle riforme senza il gravame dei paesi centro-orientali. Ma quanto questa frattura è reale e quanto percepita? Quali sono le ragioni di questa divisione?

Storia di un malinteso

Più volte abbiamo ribadito su queste colonne quanto sia sbagliato, inutile e deleterio gettare la croce della crisi europea sui paesi dell’Europa orientale, senza nemmeno fare lo sforzo di capire le ragioni e la storia di quella parte d’Europa. Esistono infatti differenti aspettative riguardo al progetto europeo.

I paesi occidentali vedono l’UE come percorso di progressiva unificazione europea. Ai nuovi membri è stato richiesto di aderire a degli standard precedenti, incorporando nel proprio sistema istituzionale le centomila pagine di acquis communautaire di fatto fotocopiando le norme stabilite prima e senza di loro. Non c’è stata reciprocità nell’adesione dei paesi dell’est.

Non c’è stata considerazione per l’idea di Europa che, in cinquant’anni di repressione totalitaria, i paesi dell’est avevano sviluppato. Un’idea che andava molto oltre il semplice “mercato comune” ma che vedeva nell’ingresso UE un “ritorno all’Europa” che era, di fatto, un ritorno a sé stessi, alla propria tradizione nazionale e culturale dopo la cupa parentesi comunista, coltivando al contempo un certo risentimento nei confronti di un progetto che è stato costruito senza di loro. Da qui la convinzione e l’intenzione di poter affermare la propria visione dell’Europa. Una visione in cui l’unificazione politica del continente non è un orizzonte auspicabile.

I paesi fondatori ritenevano invece che, dopo l’allargamento a est, l’Unione sarebbe stata la stessa di prima, solo più grande. E sarebbero stati loro, gli occidentali, a indirizzarla in quanto ‘proprietari’ del progetto sulla scorta di una visione carolingia dell’Europa.

Occorre infine considerare che mentre da un lato i paesi dell’est finalmente liberati dalla cattività comunista procedevano nello state building, ricostruendo la nazione ritrovata, dall’altro la sovranità appena acquisita veniva reclamata dal processo di integrazione europea. Si è trattato di un passaggio difficile e per certi versi doloroso che ancora non può dirsi accettato e risolto.

Stato e nazione

In molti paesi dell’Europa occidentale è lo Stato ad avere creato la nazione. È stato così in Francia, in Spagna, nel Regno Unito. Qui lo Stato ha costruito nell’arco di secoli la nazione sviluppando il concetto di cittadinanza. Nell’Europa orientale è il contrario. Qui si trovano nazioni antiche a cui corrispondono però Stati relativamente recenti.

La nazione, a est, si è sviluppata secondo il modello etno-linguistico tedesco di Kulturnation.  La nazione è quindi il fondamento dello Stato e delle sue istituzioni. L’idea europeista occidentale secondo cui l’Unione deve rappresentare un superamento del nazionalismo e una relativizzazione dello Stato nazionale non può essere accolta a Varsavia, a Budapest, a Praga. Non è questione di essere “dalla parte sbagliata della Storia”, o di avere un qualche gene fascistoide, o di essere culturalmente reazionari: significa che, da quella parte d’Europa, hanno un’altra Storia. È l’Europa occidentale che si è unilateralmente dichiarata “post-nazionale”. Quella orientale non ha mai detto di essere d’accordo.

Impero europeo e omogeneità culturale

Il passato d’Europa è un passato imperiale. Ma c’è chi l’impero lo ha subito e chi lo ha imposto. L’Europa occidentale ha dato vita, nei secoli, a imperi globali le cui estensioni si trovavano fuori dal continente, in Africa, nelle Americhe, in Asia. L’eredità degli imperi coloniali britannico, spagnolo, portoghese e francese, è l’immigrazione proveniente dalle ex-colonie. Tali fenomeni migratori hanno contribuito allo sviluppo di società multiculturali del tutto estranee all’esperienza dell’Europa orientale.

Qui gli imperi si sono invece subiti, quello russo, asburgico e ottomano hanno variamente alimentato un’identità nazionale forte e radicata che trova nell’indipendenza e nella sovranità il senso ultimo dello Stato. Il relativo isolamento di quelle società durante il periodo comunista ha prodotto una omogeneità culturale sconosciuta in occidente e spiega, almeno in parte, la resistenza verso i fenomeni migratori in corso.

L’imposizione di quote di redistribuzione dei migranti che giungono in Europa suscita resistenze e timori abilmente cavalcati da classi politiche opportuniste e abili a descrivere l’UE come una nuova forma di impero (persino come una nuova Unione sovietica) il cui fine è schiacciare le identità nazionali locali.

Lo sgretolamento demografico

Alle accuse di neo-colonialismo politico ed economico, i paesi dell’est accompagnano i timori per lo sgretolamento demografico della nazione. Negli ultimi venticinque anni, i paesi dell’est hanno visto un calo demografico medio del 7%. La Bulgaria e la Romania hanno perso un quinto della loro popolazione. Le previsioni parlano di un calo ancora maggiore nei prossimi anni. Le società dell’Europa centro-orientale sono colpite dall’emigrazione. Per questa ragione faticano ad accettare l’idea di accogliere migranti dai paesi in via di sviluppo reclamando, piuttosto, il ritorno dei propri connazionali in patria. Un ritorno reso impossibile dalla mancata convergenza economica.

Un vero muro?

Per quanto le economie centro-orientali siano cresciute, giovandosi largamente dei fondi europei, l’obiettivo della convergenza economica non è stato raggiunto. E questo è un elemento di forte frustrazione per quelle società che ancora vedono i figli emigrare, si tratti di cervelli in fuga o di braccia per l’industria. La frustrazione, il risentimento, e più in generale un diverso approccio all’unificazione europea, sono tra le cause dell’insorgere dei cosiddetti nazional-populismi.

La divisione tra est e ovest europeo è un fatto. Ma che tale divisione debba essere necessariamente una colpa delle società est-europee, è falso. Come è falso affermare che tale solco sia incolmabile. Anzi, la linea di faglia è tutt’altro che netta. L’insorgere del nazional-populismo non riguarda solo Polonia e Ungheria ma anche, e soprattutto, Francia e Italia, Germania e Regno Unito. I fenomeni critici che stanno minando la tenuta dell’UE sono trasversali, a essere differenti sono però le cause. Capirle serve a individuare soluzioni o, almeno, a far cadere quel muro di pregiudizio che media a politica continuano tenacemente a costruire.
--- Termina citazione ---

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