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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/100488
--- Citazione ---SERBIA: Governo sotto accusa per i traffici d’armi verso il Medio Oriente
Marco Siragusa 5 ore fa
Negli ultimi giorni un nuovo scandalo ha colpito il governo di Belgrado. Questa volta a suscitare perplessità sullo stato di diritto nel paese è stata la vicenda dell’arresto di Aleksandar Obradović, esperto informatico della fabbrica di armamenti “Krušik” di Valjevo e protagonista della diffusione di documenti ufficiali riguardanti una compravendita di armi ai danni di imprese statali e a beneficio del padre del ministro degli Interni Nebojša Stefanović. Le armi in questione sono poi finite ai miliziani jihadisti in Yemen.
L’arresto di Obradović
Il 18 settembre scorso agenti della BIA, l’intelligence serba, hanno arrestato, durante l’orario di lavoro, Aleksandar Obradović. Le autorità hanno tenuto segreta la notizia per oltre tre settimane, fino alla denuncia pubblicata dal settimanale NIN il 10 ottobre. Obradović, che anche grazie al sostegno ricevuto dall’Associazione dei giornalisti serbi (UNS), dall’opposizione e dall’opinione pubblica è stato trasferito agli arresti domiciliari in attesa del processo, è accusato di “violazione del segreto commerciale”. L’indagine riguarda la diffusione sul portale ArmsWatch di documenti ufficiali relativi all’acquisto di un lotto di armi da parte dell’impresa privata serba GIM e alla successiva vendita delle armi all’azienda saudita Rinad Al Jazira e alla Larkmont Holdings LTD, società offshore registrata nelle Isole Vergini britanniche.
Come emerso già lo scorso anno dall’inchiesta del portale investigativo BIRN la vicenda presenta almeno tre aspetti problematici. Il primo riguarda il forte conflitto d’interesse della GIM dovuto alla presenza, in qualità di rappresentante, di Branko Stefanović, padre dell’attuale ministro degli Interni e vice-primo ministro Nebojša Stefanović. Proprio Stefanović padre avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra la GIM e le altre imprese coinvolte. Qui il secondo aspetto poco trasparente della storia. Secondo i documenti forniti da Obradović, la GIM avrebbe acquistato le armi dall’azienda statale Krušik di Valjevo ad un prezzo di gran lunga inferiore rispetto al loro reale valore e a quanto pagato dall’impresa statale Jugoimport SDPR, provocando così un significativo danno economico per lo stato. Infine, elemento non certo secondario, secondo quanto pubblicato da ArmsWatch le armi oggetto della compravendita sarebbero finite non al governo saudita ma, grazie ad esso, direttamente nelle mani degli jihadisti dello Stato islamico (IS) presenti in Yemen.
Le reazioni politiche
Due giorni dopo la pubblicazione della notizia sul portale ArmsWatch, il ministero del Commercio serbo aveva rilasciato una nota in cui ribadiva che nessuna esportazione era stata autorizzata verso paesi soggetti a sanzioni internazionali e che la Serbia “non può in alcun modo assumersi la responsabilità di ciò che i paesi di destinazione finale fanno con le merci”. Lo stesso giorno la Krušik negava la vendita delle armi alla GIM ad un prezzo privilegiato.
Il 18 settembre, giorno dell’arresto di Obradović, il ministro degli Interni Nebojša Stefanović aveva negato che la GIM fosse di proprietà del padre definendo la notizia “un pezzo di carta che non significa nulla”.
Pochi giorni fa il presidente Aleksandar Vučić ha bollato la questione come “un’invenzione prodotta dall’opposizione che sta conducendo una brutale campagna contro le persone al potere e che solo chi denuncia qualcosa all’organismo statale o all’ufficio del procuratore può essere considerato e lui [Obradović] non l’ha fatto”. Lo scorso 20 settembre lo stesso Vučić si era detto pronto a sollecitare “la vendita di più armi possibili” all’Arabia Saudita in quanto consentito dalla legge.
Quel che appare certo è che questa storia non finirà qua, come dichiarato dallo stesso Obradović in un’intervista dopo il suo rilascio in cui afferma di avere ancora molte cose da riferire sul tema: un’azione che compie “per rendere pubblica la verità”.
Vučić e i businessmen mediorientali
La società civile e l’opposizione serba chiedono di far luce sul caso. Il 22 ottobre la deputata dell’opposizione Marinika Tepić ha tenuto una conferenza stampa in cui ha esposto ulteriori dettagli sul coinvolgimento del governo serbo nel traffico d’armi verso i fronti di guerra del Medio Oriente. In particolare, Tepić ha mostrato le fotografie di alcuni carichi sospetti, per via delle grosse dimensioni, presso gli hangar dell’aeroporto di Belgrado contrassegnati con la dicitura “VIP”, quindi esentati da controllo, con destinazione Doha, in Qatar. La deputata ha poi chiesto a Vučić di rispondere circa il ruolo di due controversi personaggi palestinesi, mostrando le fotografie ricevute da un informatore che li ritrae insieme all’aeroporto.
Si tratta di Mohammed Dahlan e Adham Abo Madalala, che da anni vivono a Belgrado e sono diventati cittadini serbi. Mentre del secondo non si sa molto se non che è stato il primo ambasciatore palestinese in Montenegro, Mohammed Dahlan è molto più noto al pubblico. Dahlan è infatti ex capo dei servizi segreti palestinesi, rivale politico del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, nonché consigliere dei principi sauditi. Nel 2016 venne condannato in contumacia da una corte palestinese per essersi appropriato di 18 milioni di dollari di fondi pubblici. Dahlan è stato esiliato dalla Palestina nel 2011: oggi possiede passaporto montenegrino dal 2010 e serbo dal 2013, ed è stato anche fotografato insieme ai presidenti dei due paesi (quando entrambi ricoprivano la carica di primo ministro).
Tepić chiede quindi a Vučić cosa questi abbia concordato coi due palestinesi all’epoca degli scatti e quale sia il ruolo di questi controversi businessman nel traffico di armi, così come negli affari commerciali che legano la Serbia al Medio Oriente, tra cui il progetto edilizio “Belgrado sull’acqua” e l’acquisizione di Air Serbia da parte di Etihad Airways.
Il traffico di armi dalla Serbia
Che le guerre in Yemen e Siria siano diventate terreno di scontro tra grandi potenze, assumendo la forma di “guerre per procura”, è cosa nota. Quello che però risulta meno noto al grande pubblico è il punto di partenza di buona parte delle armi che alimentano quei conflitti. Tra questi, uno dei più importanti è la Serbia che tramite le imprese statali Jugoimport SDPR e Krušik, e la mediazione delle autorità statunitensi, esporta i propri armamenti in varie parti del mondo.
Il Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite, entrato in vigore nel dicembre 2014, vieta l’esportazione diretta verso paesi in cui sussistono “gravi violazioni dei diritti umani”. La norma prevede inoltre che le esportazioni siano provviste di un certificato che specifichi l’utente finale e di un documento emesso dal governo del paese importatore che garantisce che le armi non vengano riesportate verso paesi in guerra.
Per aggirare il problema le imprese serbe si affidano spesso ad intermediari statunitensi o agli stessi governi di Turchia, Arabia Saudita e paesi del Golfo. Già nel 2016 un’indagine di BIRN denunciava che circa 50 voli carichi di armi erano partiti, nel giro di un anno, dall’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado diretti in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti. Il carico sarebbe poi stato trasferito proprio verso la Siria e lo Yemen.
Quanto pubblicato da ArmsWatch nel settembre scorso dimostra come ancora oggi ingenti quantitativi di armamenti prodotti in Serbia giungano nelle mani degli jihadisti yemeniti. A guadagnare da questi commerci illeciti è, manco a dirlo, proprio l’impresa GIM. Tra il 2015, anno in cui Branko Stefanović ha cominciato a collaborare con il presidente Goran Todorović, e il 2018 i profitti dell’azienda sono cresciuti in maniera esponenziale passando da appena 340 mila euro a circa 16 milioni di euro.
Foto presa dai canali di comunicazione dello Stato islamico e utilizzata dall’inchiesta di ArmsWatch
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-nel-paese-dei-villaggi-fantasma-197450
--- Citazione ---Bosnia Erzegovina: nel paese dei villaggi fantasma
È una catastrofe demografica inedita quella che sta colpendo la Bosnia Erzegovina. Il paese si sta svuotando ed in alcune zone manca la manodopera. E le autorità guardano in silenzio
29/10/2019 - Tatjana Čalić
(Pubblicato originariamente da Buka il 28 ottobre 2019, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)
La Bosnia Erzegovina si sta svuotando a grande velocità. In particolare nel cantone Una-Sana, nel nord-ovest del paese, al confine con la Croazia. La città di Sanski Most ha perso quasi 8000 abitanti. Investitori tedeschi vi hanno aperto tre aziende ma non riescono a trovare manodopera. Non va meglio a Bosanski Petrovac, nel cantone 10, dove una nuova fabbrica si trova a corto di operai. Ne parla Mirhunisa Zukić, presidentessa dell'associazione Unione per il ritorno sostenibile e l'integrazione della Bosnia Erzegovina.
È a causa di stipendi troppo bassi che gli operai non rispondono a queste offerte di lavoro?
Non è una questione di salari, il problema è che non ci sono più persone. La gente se ne è andata. È la prima volta che in Bosnia Erzegovina questo problema si manifesta in modo così forte. Basti vedere il numero di scuole che hanno chiuso i battenti. A Bosansko Grahovo, nel Cantone 10, la situazione è catastrofica: i liceali sono costretti ad andare a Drvar perché non sono numerosi a sufficienza per formare una classe nel loro comune di residenza. Non va meglio a Bihać. In Posavina, nel nord-est della Bosnia, si sono svuotati interi villaggi e la notte è un paesaggio terribile.
Quali i comuni della Republika Srpska che registrano le partenze più rilevanti?
Foča, Han Pjesak, Čajniče, Teslić, Rudo, Rogatica, Ribnik, la stessa Prijedor e Trebinje... Basti citare l'esempio del piccolo villaggio di Kopači, vicino a Goražde, che ha visto andarsene la quasi totalità dei suoi 227 abitanti.
Per quali ragioni partono i bosniaci? E dove vanno?
Il posto di lavoro ha smesso da tempo di essere l'unico motivo. I nostri concittadini se ne vanno a causa del destino incerto dell'intera regione. Sempre più spesso decidono di trasferirsi in un paese europeo, soprattutto Germania o Francia. Interessante notare come la popolazione della Bosnia nord-orientale – nello specifico delle regioni di Zvornik, Bratunac e Srebrenica – si sposti in particolare in Francia. Ma oltre a questi due paesi si trasferiscono anche in Austria, Norvegia e in Svezia.
Numerose donne si trasferiscono in Germania, in particolare infermiere ed addette alla cura delle persone. Una volta stabilite, ottengono il ricongiungimento familiare. Il problema maggiore e proprio la partenza di intere famiglie. Da metà 2013 a metà 2019 se ne sono andate più di 210.000 persone, vale a dire il 5% della popolazione bosniaca.
Perché le autorità non affrontano il problema?
Abbiamo insistito a più riprese affinché le autorità reagiscano ma ogni volta ci si chiedeva solo come avessimo avuto questi dati... Dopo che Eurostat ha confermato che il numero di partenze era arrivato a 234.000 le autorità non hanno detto più nulla. Nessuna parola su questi dati, nessuna soluzione proposta.
Come vi spiegate questa mancanza di reazioni?
Basti guardare anche gli espatriati che ritornano nel paese per poi andarsene nuovamente perché la vita dignitosa che era stata loro promessa non è stata garantita. Esistono ancora, a 25 anni dalla fine della guerra, in centri d'accoglienza collettivi, lo stato crolla sotto i suoi debiti e tutto accade così lentamente che sono stupita del fatto che i creditori internazionali non penalizzino più di quanto già avvenga la Bosnia Erzegovina.
I cittadini vogliono vivere una vita normale, vogliono avere la possibilità di vivere del loro lavoro... Ci dicono spesso che una parte rilevante del problema sta nel clima generale che regna da molto tempo in Bosnia Erzegovina. Dà loro fastidio che le leggi rimangano inapplicate, che gli atti illegali non vengano sanzionati, che qualcuno riceva salari per funzioni che non svolgono in modo adeguato... La gente è stufa di nepotismo ed ingiustizia, vuole sentirsi protetta, in sicurezza.
--- Termina citazione ---
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--- Citazione ---I cittadini vogliono vivere una vita normale, vogliono avere la possibilità di vivere del loro lavoro... Ci dicono spesso che una parte rilevante del problema sta nel clima generale che regna da molto tempo in Bosnia Erzegovina. Dà loro fastidio che le leggi rimangano inapplicate, che gli atti illegali non vengano sanzionati, che qualcuno riceva salari per funzioni che non svolgono in modo adeguato... La gente è stufa di nepotismo ed ingiustizia, vuole sentirsi protetta, in sicurezza.
--- Termina citazione ---
Com'è che dice l' italiano medio ?
Ah, già:
"Certe cose accadono solo in Italia!"
Sì, infatti.
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Dalla-cronaca-alla-piazza-violenza-di-genere-in-Croazia-197322
--- Citazione ---Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Dalla cronaca alla piazza: violenza di genere in Croazia
Una recente protesta di piazza contro la decisione del tribunale di Zara di liberare dalla custodia cautelare cinque giovani accusati di aver violentato e ricattato una ragazzina di 15 anni ha riacceso l'attenzione sulle violenze di genere in Croazia
24/10/2019 - Giovanni Vale
"In meno di un anno, il tema della violenza di genere ha conquistato per ben tre volte le piazze e lo spazio mediatico in Croazia", commenta Ivan Blažević, dell’associazione Solidarna, che dal 2015 aiuta economicamente chi non ha accesso ad alcuni diritti fondamentali. Già a fine 2018, infatti, la società croata è stata scossa dalla campagna #PrekinimoŠutnju (Rompiamo il silenzio), iniziata quando una deputata ha raccontato la sua terribile esperienza - rivelatasi poi comune ad altre donne - di un raschiamento operato senza anestesia.
A marzo 2019, è toccato al movimento #Spasime (Salvami), una protesta nata contro la violenza domestica e organizzatasi dopo un grave fatto di cronaca nera (a Pago, un uomo aveva lanciato i quattro figli dal balcone). Infine, questo fine settimana, c’è stata la mobilitazione #PravdaZaDjevojčice (Giustizia per le ragazze), ancora una volta a seguito di un terribile fatto di cronaca. "Sembra che la società croata si sia risvegliata su questi temi", aggiunge Blažević.
«Giustizia per le ragazze»
Ultima in ordine di data, la manifestazione che si è tenuta sabato 19 ottobre a Zagabria e nelle principali città della Croazia ha raccolto la partecipazione di migliaia di persone (7mila solo nella capitale, secondo gli organizzatori). All’origine della mobilitazione, vi è la decisione del tribunale di Zara di liberare dalla custodia cautelare cinque giovani (tra i 17 e i 19 anni) accusati di aver violentato e ricattato per oltre un anno una ragazzina di 15 anni.
Stando a quanto riportato dalla stampa locale, la vittima avrebbe finito per confessare la vicenda allo psicologo della scuola, dopo che tra l’agosto 2018 e il luglio 2019 i cinque - coadiuvati da altri due giovani - le avevano inflitto percosse e stupri di gruppo e l’avevano minacciata di pubblicare sui social media i video delle violenze. Tra i sospettati ci sarebbe anche l’ex ragazzo della vittima, lui stesso accusato di violenze.
La decisione del giudice ha scatenato un’ondata di proteste e di commenti, con l’intervento anche della presidente Kolinda Grabar-Kitarović e di diversi ministri, «stupiti» dal caso e decisi a «condannare ogni forma di violenza». Nel giro di pochi giorni, si sono organizzati sit-in e proteste, ponendo al centro della critica il sistema giudiziario croato. A Zara, intanto, il tribunale ha ricevuto il ricorso del procuratore e ribaltato la decisione del giudice (i cinque ora sono di nuovo in carcere).
La critica espressa sabato in diverse città va dunque oltre il caso specifico e guarda più in generale alla situazione nel paese. In Croazia, lo stupro è punibile con una pena che va fino a 10 anni di prigione, ma il codice penale prevede anche il reato di «rapporto sessuale senza consenso», con pene che vanno dai 6 mesi ai 5 anni. Secondo Amnesty International, il 90% dei casi di stupro finisce proprio in questa seconda categoria, con condanne di un anno o meno.
«Le condizioni per le donne stanno peggiorando»
"Negli ultimi cinque anni, più di 90 donne sono state uccise in Croazia dai loro mariti, partner, ex o altri uomini a loro vicini. Ogni 15 minuti, una donna è vittima di abusi e il 58% delle giovani tra i 16 e i 26 anni ha fatto esperienza di un comportamento abusivo da parte del proprio partner", analizza Svjetlana Knežević dell’associazione «B.a.B.e. - Budi aktivna. Budi emancipiran» (letteralmente: sii attiva, sii emancipato), creata nel 1994 per promuovere l’uguaglianza di genere.
Stando all’ultimo rapporto dell’Ombudsman croata per l’uguaglianza di genere, Višnja Ljubičić, nei primi otto mesi del 2019 sono stati segnalati 639 casi di violenza domestica nei confronti delle donne, contro 535 casi in tutto il 2018. Se quindi da un lato la recente reazione della società croata è certamente positiva, dall’altro le motivazioni che l’hanno scatenata - per ben tre volte in dodici mesi - non fanno ben sperare.
"Le condizioni per le donne stanno peggiorando a livello globale e la Croazia fa certamente parte di questo trend", prosegue Knežević, che si chiede: "Questo coinvolgimento del pubblico (croato, ndr.) evolverà in una richiesta di cambiamento strutturale o evaporerà facilmente?". Il problema, infatti, è più ampio dei singoli fatti di cronaca che peraltro raccontano solo una parte delle violenze. "Solo una donna su 15 o su 20 denuncia uno stupro subito", precisa Svjetlana Knežević.
A fare da corollario alla cronaca nera, c’è infatti non solo la questione della disuguaglianza di genere (salari più bassi, scarsa rappresentanza in parlamento - 12,5% dei seggi - scarsa presenza nei comuni - 9% dei sindaci), ma anche una persistente mentalità patriarcale e maschilista che fa da concime ai comportamenti violenti. Ne è un esempio l’ultima puntata della trasmissione “Nedjeljom u 2” sulla tv pubblica croata, che trattava proprio il tema della violenza sulle donne.
Maschilismo in tv e nella società
Domenica 20 ottobre, alla trasmissione presentata da Aleksandar Stanković era invitata l’attrice e attivista croata Jelena Veljača, organizzatrice della protesta #Spasime del marzo 2019 e tra le promotrici del movimento #PravdaZaDjevojčice. L’intervista, che partiva dal terribile caso di cronaca di Zara, si è rapidamente concentrata sul comportamento delle vittime di violenza sessuale piuttosto che su quello degli aggressori e sulle cause del fenomeno, dimostrando quanta confusione e incomprensione ci sia ancora sul tema.
Commentando il movimento #MeToo, Stanković ha ad esempio insistito su come l’attrice Salma Hayek abbia potuto tacere per 14 anni sulla violenza subita da parte di Harvey Weinstein. "Hayek era ricca e famosa all’epoca, perché si è piegata alla violenza? Io non lo avrei fatto", ha detto Stanković, concludendo (di fronte ad una scandalizzata Jelena Veljača): "Non dico che non ci sia stato stupro, ma la versione di Salma Hayek mi pare poco credibile".
Immediata la reazione delle associazioni di difesa delle donne. Ženska soba (La stanza delle donne), che da 17 anni lavora con le vittime di violenza sessuale, ha condannato queste affermazioni definendole "preoccupanti" e "pericolose per le vittime di violenza sessuale che hanno guardato la puntata, in quanto le espone ad un ulteriore trauma". "Ripetiamo ancora una volta che l'unica persona responsabile della violenza sessuale è l'autore della violenza", si legge nel comunicato di Ženska soba.
Sia l’associazione che il presentatore televisivo hanno ricevuto negli ultimi giorni delle minacce, segno - come ha commentato ancora Ženska soba - dello stato di "una società in cui anche la lotta alla violenza sessuale provoca nuove reazioni violente". "Stando all’ultimo censimento, l’86% dei croati è di fede cattolica. La Chiesa, in questo senso, potrebbe utilizzare di più la sua influenza per promuovere l’uguaglianza di genere", afferma Ivan Blažević di Solidarna.
Ženska soba va ancora più in là definendo la Chiesa cattolica "un partito ombra" in Croazia e ricordando come quest’ultima si sia espressa "apertamente contro la Convenzione di Istanbul", il documento del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere e alla violenza domestica. L’estate scorsa, il governo ha finito per ratificare tra le proteste il documento, mentre la Chiesa e i gruppi più conservatori manifestavano contro.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-Occorre-depoliticizzare-l-universita-197355
--- Citazione ---Kosovo: “Occorre depoliticizzare l'università”
Per formare le nuove generazioni che assicureranno poi il futuro del Kosovo occorre riformare profondamente le università del paese. È questo che ripete in continuazione il professor Arben Hajrullahu. Un'intervista
30/10/2019 - Arian Lumezi
(Prodotto e pubblicato originariamente da Kosovo 2.0. È stato qui tradotto e pubblicato su loro permesso)
Nel sud-est Europa le università devono tutte affrontare sfide simili: qualità non eccellente degli insegnamenti, fuga di cervelli e influenza del mondo politico. Per contribuire a “rifondare” gli studi superiori nei Balcani, Kosovo 2.0 ha intervistato alcuni tra gli intellettuali più influenti della regione, tra cui Arben Hajrullahu, professore presso il dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Pristina (UP), dove insegna dal 2006. Titolare di un dottorato presso l'Università di Vienna, Arben Hajrullahu è uno delle prime persone del Kosovo ad essere stato definito un “whistleblower”. Ma lui non si considera tale, ma piuttosto come “un professore che tenta di adempiere ai suoi obblighi universitari”. Nel 2017 aveva denunciato che la sua mancata promozione in seno all'Università di Pristina era conseguenza delle critiche da lui mosse sul funzionamento dell'università stessa.
Quali sono le sue impressioni sul mondo universitario del Kosovo?
Sono numerosi gli scandali che mi hanno inseguito da quando lavoro in questa università. Senza parlare di chi era alla base di questi scandali, la cosa preoccupante è la mancanza di volontà tra i professori di contestare questi atti tutt'altro che irreprensibili. Alcune nomine in seno all'università sono semplicemente scandalose. Sulle mille persone di cui è composto il personale dell'Università di Pristina solo qualcuno ha il coraggio di dar seguito ai propri obblighi intellettuali e ad esprimersi in pubblico. Quindi il problema non sono solo coloro i quali frodano, ma anche quelli che preferiscono rimanere in silenzio. Il sistema funziona in modo tale che se si risponde ai propri obblighi intellettuali e professionali e ci si esprime a favore dell'interesse pubblico su questioni relative all'università o al sistema educativo, si rischiano guai seri.
Negli anni seguiti al 1999 in seno all'università è cresciuto un sistema clientelare ad alta tossicità, come del resto si è sviluppato nel mondo della politica. In questo sistema vi sono legioni pronte a manipolare ed il silenzio viene pagato con promozioni o denaro. Ogni avanzamento di carriera è legato all'essere membro di un partito. Ed è molto difficile rompere questo circolo vizioso unicamente con forze interne all'università. I ricercatori dovrebbero farsi forza del proprio senso critico piuttosto di flirtare con la politica. Siamo in trappola e dobbiamo mobilitare la società nel suo complesso, le persone con capacità intellettuali e buona volontà. Dobbiamo mobilitare i decisori politici per "liberare" il sistema universitario e l'intero sistema educativo.
Nel novembre 2015 l'istituto Democracy for Development (D4D) ha pubblicato un rapporto che sottolineava come l'Università di Pristina dovesse rispondere a nove grandi sfide tra cui la mancanza di personale qualificato, la politicizzazione delle organizzazioni studentesche, promozioni immeritate, ecc. Dove siamo quattro anni dopo questa pubblicazione?
Temo che potrebbero passarne quattro, otto o quaranta anni prima di fare qualche passo significativo se non vi è il desiderio di cambiare le cose. Non possiamo sperare in un miracolo e dobbiamo iniziare dalle basi. Tutti i professori di tutti i dipartimenti dell'Università dovrebbero essere supervisionati. E non solo a Pristina, ma anche nelle università pubbliche di tutto il Kosovo e in tutte le facoltà private. Dobbiamo determinare se vi sono conflitti di interesse nell'etica e nell'integrità accademica e, in tal caso, determinare la gravità di queste violazioni.
Alcuni insegnanti sono colpevoli di plagio. Alcuni addirittura hanno ottenuto così dei dottorati e successivamente hanno ottenuto posizioni importanti. Dobbiamo studiare il background di tutti gli insegnanti attuali e possibilmente chiudere alcuni dipartimenti universitari, se non funzionano. È meglio farne a meno e concentrarsi sul formare studenti di qualità.
Gli studenti arrivano all'età di 25 o 30 anni rendendosi conto di non avere competenze e si trovano ad affrontare il mercato del lavoro. Dopo sei o otto anni di studio, non sono più disponibili a fare lavori che richiedono bassi livelli di qualifica. È come se una spina fosse piantata nel cuore della nostra società. E gli insegnanti che fanno superare gli esami agli studenti senza valutarli adeguatamente sono responsabili di questo disastro e delle sue conseguenze, come l'esodo nel 2015 di decine di migliaia di cittadini del Kosovo.
Si è spesso detto che l'apertura di università a Prizren, Pëja o Mitrovica rappresentava un tentativo di "comprare" la pace sociale. Oggi, che tre di queste università hanno visto le proprie licenze sospese per il periodo di un anno, come spiega la loro creazione?
Non si possono aprire università durante le campagne elettorali. Ma ora dobbiamo vedere cosa possiamo fare. È troppo facile dire che queste strutture vanno chiuse. Al contrario a mio avviso dobbiamo guardare a come migliorare il loro livello. Queste sospensioni sono un duro colpo per il sistema universitario del Kosovo, ma sono il risultato di politiche a breve termine, politiche che creano università senza finanziarle. Se i politici rispettassero le promesse delle loro campagne elettorali aumenterebbero le capacità delle strutture esistenti e il numero di insegnanti. Sarebbe stato necessario combinare l'istruzione accademica e la formazione professionale. Non è un'idea rivoluzionaria, molti paesi occidentali l'hanno fatto prima di noi.
Non sto dicendo che i professori non possano essere coinvolti in politica, ma abbiamo casi in cui alcuni hanno sospeso la loro carriera accademica per quindici anni per fare qualcos'altro. Negli Stati Uniti, se un insegnante decide di seguire un percorso diverso dall'insegnamento, mantiene la sua posizione per quattro o sei anni, ma deve poi decidere. Anche il nostro paese soffre di fuga di cervelli. E i principali colpevoli della bancarotta nel mondo universitario sono quelli che mandano i propri figli a studiare all'estero.
Alcune università private sono diventate attori importanti del sistema educativo del Kosovo. Come valutate il loro livello?
Nei paesi sviluppati gli istituti privati che chiedono rette ingenti garantiscono solitamente un insegnamento di qualità superiore alle università pubbliche. Non è il caso del Kosovo. È un indicatore del fatto che abbiano venduto lauree senza alcun criterio. In Occidente alcune istituzioni private sono gestite come fondazioni e lo scopo non è quello di fare soldi. Qui siamo molto distanti da questo modello. Nel nostro paese funzionano come un chiosco che vende kebab: se avete soldi ottenete tutto quello che volete. Anche i professori di queste università dovrebbero essere valutati.
Durante l'ultima campagna elettorale alcuni politici hanno spiegato che il problema principale delle università del Kosovo è la mancanza di professori adeguatamente qualificati. Anche lei ha sollevato quest'aspetto. Quali le soluzioni possibili?
Abbiamo le risorse sufficienti perlomeno per avviare questo processo. Il primo passo è un'ispezione generale. La seconda tappa invece implica avere più tempo, e riguarda la formazione di nuovi professori e l'avvio di ciò che si definisce “la circolazione dei cervelli”. A Pristina ho avuto studenti che poi sono diventati professori presso alcune università europee. Alcuni vorrebbero collaborare con le istituzioni del Kosovo. Da noi si pensa che chi ha studiato all'estero non desidera certo rientrare e che chi rientra è chi ha fallito all'estero. Non dico che chi ha studiato fuori sia più competente di chi ha studiato qui in Kosovo, ma che qui siamo in pochi e che non possiamo permetterci il lusso di agire in modo irresponsabile nei confronti di chi ha studiato in università europee.
La guerra è finita da vent'anni e il Kosovo potrebbe entrare nella fase storica in cui, a seguito dei negoziati con la Serbia, si trova un accordo finale. Quale il ruolo del mondo accademico in questo processo?
Vent'anni, può darsi che i grandi cambiamenti arrivano in questo paese ogni dieci anni. La repressione degli anni '90, la presenza internazionale negli anni 2000, poi un decennio di ruberie dei beni pubblici... Ma forse le cose possono cambiare? L'università potrebbe contribuire con competenze in determinati campi, per esempio nell'ambito giuridico. Ma per farlo vi è bisogno della volontà politica perché occorre essere in due per danzare. L'università può fornire consulenze, ma su basi scientifiche, non per fare dei piaceri al politico di turno.
Lavorate da anni all'università di Pristina. Avete individuato alcuni miglioramenti?
Vi sono sicuramente molti sviluppi positivi e sarebbe in effetti ingiusto non sottolinearli. Dopo la sua completa distruzione l'Università di Pristina si è presto rimessa in piedi. Sono stati ristrutturati gli edifici e le condizioni materiali vanno sempre meglio. Io sono arrivato all'Università di Pristina nel 2004 e sono rimasto. Oggi la qualità degli insegnanti è migliore che in passato, senza ombra di dubbio. L'adozione di un sistema digitale di voto ha limitato le possibili manipolazioni. Io ho vissuto in prima persona ad esempio il caso di una mia studentessa che aveva falsificato alcuni suoi voti, ma alcuni professori la lasciavano fare perché aveva dei legami politici.
Occorre che l'Università di Pristina raggiunga il livello delle università europee, ma per far questo serve più trasparenza nella gestione del budget e dobbiamo modernizzare i nostri metodi di insegnamento.
Vi è anche poca ricerca. Negli anni '70 le pubblicazioni scientifiche erano molto più numerose. Questo ha però anche un aspetto positivo: obbliga i nostri studenti a pubblicare all'estero, quindi basandosi esclusivamente sul merito personale, senza ottenere sostegno dall'università di origine. La situazione, di sicuro, non è mai tutta nera o tutta bianca.
--- Termina citazione ---
Vicus:
Ho già detto delle quote rosa nell'università italiana: alle donne chiedevano la targa di Bologna e davano 30 e lode, agli uomini la teoria simmetrica del positrone!
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