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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Frank:
Fosse accaduto in Italia sarebbe scoppiato l'inferno mediatico e non.
Non parliamo poi di tutti quelli che avrebbero sentenziato, con tono compiaciuto, che
"certe cose accadono solo in Italia".

Certamente, senza alcun dubbio.
...

https://www.eastjournal.net/archives/101281


--- Citazione ---Croazia: L’assurda storia dei due sportivi nigeriani espulsi dalla polizia croata
Marco Siragusa 15 minuti fa

Articolo originariamente pubblicato su Nena-News

Immaginate due atleti che arrivano in un paese europeo con tanto di passaporto e regolare visto per partecipare a un torneo internazionale. Immaginate che, dopo la fine del torneo, i due ragazzi decidano di visitare la capitale di quel paese, ma invece di prendere il volo che li riporta a casa vengano prelevati dalla polizia e respinti illegalmente in un paese non appartenente all’Unione Europea.

Se non si trattasse di una storia vera, con in gioco la dignità e la vita di due giovani ragazzi, si potrebbe pensare a una sceneggiatura degna delle peggiori commedie poliziesche. Purtroppo la vicenda che ha visto coinvolti due atleti nigeriani, Abia Uchenna Alexandro ed Eboh Kenneth Chinedu, è tutt’altro che comica e ci mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, il razzismo istituzionale che infetta la “democratica e accogliente” Europa.

Abia ed Eboh giungono a Pula, in Croazia, lo scorso 12 novembre per partecipare alla quinta edizione del World InterUniversities Championships, un torneo internazionale di ping-pong con oltre 2mila partecipanti che si è svolto tra il 13 e il 17 novembre. Concluso l’evento, i giovani decidono di passare due giorni nella capitale Zagabria prima di ripartire per il loro paese. Abia ed Eboh, però, l’aereo di ritorno non l’hanno mai preso.

La sera prima della partenza, mentre passeggiavano per la città, i due ragazzi vengono fermati dalla polizia, evidentemente insospettita dal colore della loro pelle. Più volte i ragazzi provano a spiegare che i loro documenti si trovano nell’ostello dove soggiornano ma, invece di recarsi sul luogo e controllare, gli agenti decidono di portarli in commissariato. Da lì, Abia ed Eboh venivano caricati con altri ragazzi su un furgone e portati nei boschi al confine con la Bosnia. Secondo quanto dichiarato dai due, al rifiuto di scendere dal furgone uno degli agenti ha minacciato di sparargli, dopo ovviamente aver tolto loro i soldi a disposizione. Solo a quel punto si sono incamminati nelle innevate montagne bosniache verso il centro di accoglienza Miral di Velika Kladuša.

A distanza di oltre due settimane, i giovani, assistiti dalle organizzazioni presenti sul territorio, si trovano ancora nel centro dove nel frattempo è in corso uno sciopero della fame contro le disastrose condizioni umanitarie. La notizia è stata diffusa solo il 3 dicembre, grazie al giornale bosniaco Žurnal, e ha scatenato numerose polemiche in Croazia e Bosnia. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il ministro della Sicurezza della Bosnia-Erzegovina Dragan Mektić ha parlato di un vero e proprio “atto illegale da parte della Croazia” affermando che i due ragazzi verranno presto riportati in quel paese.

Completamente diversa la posizione espressa dalla polizia croata in una nota secondo cui nessun agente ha preso in carico Abia ed Eboh che, invece, si sono diretti autonomamente verso una destinazione sconosciuta. Pur negando qualsiasi comportamento contrario alle norme vigenti, la polizia ha tenuto a specificare, in quella che sembra una vera e propria accusa indiretta, come spesso la partecipazione a eventi sportivi venga utilizzata a pretesto per poi continuare illegalmente il proprio viaggio e far domanda per l’ottenimento dello status di rifugiato.

Nonostante il tentativo di auto-assoluzione, la polizia croata è ormai sempre più tristemente famosa per i comportamenti violenti e illegali (questi sì) nei confronti dei migranti. Come già raccontato dal nostro giornale, sono ormai migliaia le denunce di violenze esercitate dalla polizia al confine croato-bosniaco.

La vicenda di Abia ed Eboh va però ben oltre. Non si tratta infatti “solo” di violazioni delle norme contro i respingimenti e dei diritti umani basilari ma mostra con estrema brutalità il profondo clima di razzismo ormai diffuso in Croazia e nel resto d’Europa. Un razzismo ancora più grave in quanto esercitato e fomentato senza vergogna dalle istituzioni e dalle forze di polizia nell’assordante silenzio di un’Unione Europea che nelle prossime settimane dovrebbe definitivamente accogliere Zagabria nell’area Schengen.

Dal mese di gennaio, inoltre, la Croazia assumerà la presidenza di turno dell’Ue per i prossimi sei mesi. Una condanna netta per i metodi usati alle frontiere europee e un radicale cambio di prospettiva, culturale e politica, sembrano quindi tutt’altro che immediati.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/101186


--- Citazione ---RUSSIA: La Calmucchia in piazza contro i giochi di palazzo
Marco Limburgo 19 ore fa

Non accenna a placarsi l’onda lunga della mobilitazione popolare che da almeno tre mesi sta interessando la città di Elista, capitale della Calmucchia, soggetto federale della Russia situato in prossimità del Caucaso Settentrionale. In diverse occasioni, prima centinaia poi migliaia di manifestanti si sono riversati nella centrale Piazza della Vittoria per protestare contro quella che percepiscono come un’insostenibile intromissione di Mosca nella politica regionale. L’oggetto del contendere è la nomina a sindaco della città di Dmitrij Trapeznikov, ex leader della Repubblica separatista di Donetsk nell’est dell’Ucraina. L’endorsment per tale carica gli è dovuto al patrocino di Batu Khasikov, kickboxer di fama mondiale e governatore della Repubblica di Calmucchia.

A scatenare la frustrazione e le proteste (piuttosto insolite e partecipate in questo angolo di Russia) la promozione eterodiretta di un individuo sostanzialmente estraneo alle dinamiche politiche della repubblica abitata in prevalenza dall’omonimo gruppo etnico di fede buddista ed etnia buriata. Nativo della città russa di Krasnodar, Trapeznikov ha vissuto prevalentemente in Ucraina divenendo direttore della squadra di calcio Shakhtar Donetsk e ad interim, nel 2018, Capo di Stato della Repubblica Popolare di Donetsk in seguito all’omicidio del predecessore Aleksandr Zakharchenko. Dopo aver ricevuto la cittadinanza russa, il suo nome pare essere stato proposto per la carica di sindaco da Vladislav Surkov, ex vice primo ministro della Federazione e potente silovik dell’amministrazione Putin, finito nell’occhio del ciclone per i presunti piani di sovvertimento e destabilizzazione del governo di Kiev.  Sorpreso dalle proteste che ne hanno chiesto le dimissioni, Khasikov ha rivendicato la competenza e l’esperienza pregressa dell’aspirante sindaco in situazioni di particolari precarietà, assumendo su di sé la responsabilità della scelta.

Gli interessi di Mosca e la rabbia popolare

L’incontestato supporto del Cremlino e delle autorità locali nei confronti del contestato sindaco fanno subodorare un perverso gioco di palazzo tra i “decision maker” russi. La nomina di Trapeznikov manifesta il supporto costante e la volontà di Mosca di premiare il lealismo nei diversi teatri politici di riferimento. Posizioni governative garantite in defilati contesti provinciali in cui il potere centrale può contare sulla complicità di quadri locali fortemente allineati.

Di fronte a questo fatto compiuto, la risposta dell’opinione pubblica. Una reazione in cui confluiscono diverse matrici. Se da un lato non si può negare il contributo aggregante di un nazionalismo etnico che si nutre del risentimento calmucco nei confronti della preminenza dei quadri di etnia russa (risentimento strumentalizzato dalle autorità centrali per delegittimare la protesta), è utile considerare l’irrobustirsi nei diversi contesti politici russi dell’espressione di un dissenso sempre meno latente che attraversa la Federazione, dal centro alla negletta periferia.

Di fronte a quella che viene percepita come un’imposizione centralista di Mosca in un contesto peculiare, un frangente crescente dell’opinione pubblica si è mobilitato rivendicando l’opportunità di selezionare i propri rappresentanti in maniera democratica e in tal modo ribaltando le modalità verticali di promozione all’interno della Federazione. I calmucchi, inoltre, hanno condannato il coinvolgimento del sindaco in crimini e nefandezze nel corso del conflitto armato che ha insanguinato le regioni russofone dell’est ucraino. Da qui l’emergere di un manifesto che invoca le dimissioni non solo di Trapeznikov ma anche dell’assemblea repubblicana e di Khasikov, delegittimato nonostante la robusta vittoria ottenuta alle precedenti elezioni.

Dal Volga alla capitale

Difficile dire quanto queste proteste possano influire sul mutamento di una decisione all’apparenza incontrovertibile, ma l’emergere di una crescente disaffezione verso la disinvolta assertività delle autorità centrali dovrebbe suonare come un avvertimento, richiedendo un pragmatico cambio di passo e una minore sottovalutazione dell’espressione del dissenso nei diversi contesti regionali. Se è certamente una velleità semplicistica tracciare un filo rosso tra la protesta in Calmucchia e le massicce mobilitazioni di questa estate, è opportuno considerare come la persistenza, il radicamento e la diversificazione del dissenso costituiscano una crepa in un negletto fronte interno già ampiamente sotto stress per le difficili condizioni sociali ed economiche. Una serie di campanelli di allarme che il Cremlino non può permettersi di ignorare ulteriormente
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/101104


--- Citazione ---Quando la Democrazia Cristiana organizzò una mostra sull’est
Lorenzo Venuti 20 ore fa

Le elezioni politiche italiane del 1953 sono, nella memoria comune, quelle della legge truffa: il rinomato premio elettorale celebre per il turbolento iter parlamentare, e dall’aspro confronto sorto dallo stesso. Ma l’elezione del 1953 non è solo la legge truffa: attaccata su più fronti e in difficoltà dopo cinque anni di complicato governo, la DC attuò una capillare opera di propaganda incentrata sul grande tema del 1948: quello dell’anticomunismo e della scelta dicotomica tra est e ovest.

La genesi di un progetto ambizioso

Nel settembre del 1952 Giorgio Tupini, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e braccio destro di Alcide De Gasperi, scrisse a Paolo Emilio Taviani, sottosegretario al Ministero degli Esteri, chiedendo supporto per un’ambiziosa operazione di propaganda: una mostra itinerante che mostrasse in ogni angolo del paese il tenore di vita dei paesi che qualche anno prima, fra il 1948 e il 1949, erano diventati democrazie popolari. Un percorso suggestivo, pianificato in ogni dettaglio, sia sotto il punto di vista logistico, che in quello dell’allestimento scenico.

Il blocco orientale in mostra

Taviani accettò la richiesta del sottosegretario, disponendo che le varie legazioni nei paesi dell’Europa centro-orientale acquistassero beni di uso comune e poster propagandistici per circa 4 milioni di lire; gli organizzatori dell’evento – ufficialmente parte di un comitato di documentazione popolare (non governativo) – avrebbero allestito tre diverse mostre itineranti, più una quarta, fissa, a Roma. Fra il marzo e il maggio del 1953 il carrozzone propagandistico attraversò così tutto il paese, isole escluse, toccando oltre quaranta città per la maggior parte situate nel centro-nord.

Entrato nei quattro autocarri che componevano l’appuntamento, il visitatore era immerso in uno spettacolo visivo, oltre che divulgativo con altoparlanti che ripetevano in modo continuativo a basso volumi frasi come sei sempre sorvegliato, e potrebbe succedere anche in Italia. Nel frattempo lo spettatore era condotto attraverso diversi ambienti che lo scortavano nelle diverse fasi delle democrazie popolari, fra cui la presa del potere dei comunisti, gli standard di vita nel blocco socialista (attraverso l’esposizione degli oggetti) e il prezzo pagato dalla Chiesa cattolica in tutti i paesi dell’areale.

Lo scandalo

L’appuntamento romano della Mostra – ben più elaborato sotto il punto di vista dello spettacolo rispetto agli altri – era stato organizzato nei sotterranei di Roma Termini ed erano situati alcuni pannelli introduttivi sul percorso di accesso. Li, figure umane erano avvolte da filo spinato, mentre capeggiavano scritte come fra i 90 milioni di schiavi dei paesi socialisti.

Il 14 maggio 1953, qualche giorno dopo l’apertura dell’appuntamento romano, l’«Unità» uscì però con un velenoso articolo, nel quale veniva evidenziato come ben due cittadini romani si fossero riconosciuti nelle foto presenti sui pannelli introduttivi.

Lo scandalo fu enorme: costretti a ripiegare sulla difensiva, gli organizzatori non seppero ridimensionare la portata dello scandalo, nascondendosi dietro affermazioni sui numeri che la Mostra registrava a Roma grazie alla pubblicità involontaria del Partito comunista.

Conclusioni

Carrozzone propagandistico e boomerang elettorale, la Mostra dell’Aldilà consacrava agli occhi dell’elettorato italiano una nuova realtà politica, quella dell’Europa orientale. Anche la geografia del continente mostrava così il risultato della polarizzazione della Guerra Fredda, uniformando le precedenti divisioni e concettualizzazioni in uno schema bipolare.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Balcani-sognando-un-futuro-altrove-198353


--- Citazione ---Balcani, sognando un futuro altrove

Sono in tanti, soprattutto giovani e qualificati, a emigrare o sognare di emigrare dai Balcani verso altri paesi europei. Un fenomeno che mette a rischio interi settori dell'economia e necessita di risposte urgenti

06/12/2019 - Majlinda Aliu,  Aleksandar Manasiev,  Aleksandra Bogdani ,  Dušan Mladjenović,  Milica Milovanović
Quasi ogni notte a Tetovo, Macedonia del Nord, pullman pieni di lavoratori migranti partono diretti in Italia, Germania e Svizzera, le principali destinazioni per i migranti macedoni.

Sui volti delle persone si legge la tristezza causata dal vuoto che le ondate migratorie stanno lasciando nella regione di Polog (Macedonia nord-occidentale). La Macedonia del Nord, tuttavia, non è un caso isolato, poiché la massiccia emigrazione delinea un futuro cupo per tutti i Balcani occidentali.

L'emigrazione di massa riguarda soprattutto i lavoratori qualificati, in particolare medici e operatori sanitari, che hanno le migliori possibilità di trovare lavoro dignitoso nei paesi dell'UE.

Insicurezza sociale, scarsa assistenza sanitaria, precarietà economica, disoccupazione e clientelismo, nonché la discriminazione nei confronti di gruppi vulnerabili come le minoranze etniche, le donne e le persone LGBT, sono le ragioni principali che spingono a lasciare i Balcani occidentali, spiega Zhivka Deleva, ricercatrice indipendente sulle migrazioni presso l'"Interkulturanstalten Westend e.V." a Berlino.

Boban Gjakov, 38 anni, è uno specialista in ginecologia e ostetricia. Nel 2011 ha lasciato Skopje e si è trasferito in Slovenia per cercare stabilità economica. "È una sensazione triste e disperata, quando sei un medico e lo stato ti butta via come spazzatura", dice.

Secondo Gjakov, trovare un lavoro dignitoso nella Macedonia del Nord richiede forti connessioni politiche. "Mi sono pagato anni di studi, e alla fine lo stipendio iniziale negli ospedali macedoni era inferiore a quello che prendevo da cameriere", racconta amaramente.

Secondo la Banca mondiale, quasi 500mila cittadini della Macedonia del Nord vivono attualmente all'estero, vale a dire il 25% della popolazione totale.

A preoccupare Dejan Nakovski, professore universitario a Skopje ed esperto di migrazioni, sono le possibili disfunzioni che l'emigrazione potrebbe portare in alcuni settori. "Questo è legato al livello di istruzione e status sociale dei migranti, ad esempio: l'emigrazione del personale medico porta a disfunzioni nell'assistenza sanitaria, l'emigrazione dei lavoratori generici porta alla carenza di manodopera nel settore industriale ecc.'', afferma Nakovski.

Emigrazione di massa anche nel vicino Kosovo
Tra il 2008 e il 2018, i paesi UE hanno rilasciato circa 245mila permessi di soggiorno per lavoro ai cittadini del Kosovo. Secondo dati EUROSTAT, quasi la metà di questi permessi è stata rilasciata dall'Italia, ma molti professionisti, in particolare nel settore sanitario, scelgono la Germania.

Vigan Roka, 32 anni, è tra i molti medici che hanno lasciato la regione. Nel 2013 è andato in Germania per la specializzazione in oftalmologia. Il motivo principale della scelta sono state le condizioni offerte dalla clinica universitaria. "Era impossibile realizzare il mio sogno di diventare un chirurgo oculista in Kosovo, quindi ho dovuto partire, con il cuore spezzato, ma molto motivato", racconta.

La tendenza è evidente: solo nella piccola città di Detmold ci sono altri sei medici che, come Roka, provengono da Gjakova, nel Kosovo occidentale.

Ancora più preoccupante è il numero di operatori sanitari e infermieri che lasciano il Kosovo. La Camera degli infermieri e professionisti sanitari del Kosovo riceve quotidianamente decine di richieste di licenze e certificati etici, documenti necessari per ottenere un visto di lavoro per l'UE.

Naser Rrustemaj, a capo della Camera degli infermieri del Kosovo, afferma che ogni giorno il sistema perde da tre a cinque professionisti. "La preoccupazione maggiore è che stiamo perdendo gli infermieri che lavorano in dipartimenti come la terapia intensiva, e la formazione per queste posizioni richiede molto tempo, oltre due anni", sottolinea.

La Germania ha bisogno di operatori sanitari, afferma Vigan Roka, che fa il medico in Germania da oltre cinque anni. "La clinica in cui lavoro fatica a trovare specialisti e infermieri, e questo innesca un costante movimento di operatori sanitari verso la Germania", spiega.

La migrazione irregolare rimarrà bassa, ma aumenterà la migrazione regolare, afferma Besnik Vasolli, esperto di integrazione UE che lavora in Kosovo. "Vediamo un aumento dei permessi di lavoro negli Stati membri UE come Germania, Croazia e Slovenia", afferma.

Le ultime elezioni in Kosovo hanno portato cambiamenti politici e qualche speranza; tuttavia, secondo Vasolli, questa avrà vita breve. "Le difficoltà economiche non scompariranno, il nuovo governo farà fatica a mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale e la popolazione continuerà ad avere gli stessi problemi", afferma, aggiungendo che l'emigrazione continuerà.

La Germania ha 1,6 milioni di posti vacanti nel sistema sanitario
Corina Stratulat, Senior Policy Analyst presso l'European Policy Center, un think tank con sede a Bruxelles, evidenzia i problemi con i lavoratori che ottengono la loro istruzione a casa e poi portano le loro conoscenze e competenze altrove.

"Certamente c'è domanda di lavoratori qualificati e il fatto che la Germania metta in atto politiche per attrarli è comprensibile e non c'è nulla di sbagliato in questo. Diverso è se questa diventa una strada a senso unico, in cui i lavoratori qualificati dei Balcani occidentali vengono nell'UE, ma non viceversa, senza ritorno, senza reinvestimento di risorse, competenze, tempo ed energia nei paesi che hanno lasciato. In questo caso, abbiamo un problema”, afferma.

La disperazione porta gli albanesi a sognare l'Occidente
L'Albania ha i più alti tassi di emigrazione nella regione, ma il governo di sinistra di Edi Rama riduce la questione a generica "tendenza globale". Secondo i dati dell'Istituto nazionale di statistica, negli ultimi cinque anni oltre 200mila albanesi sono emigrati nei paesi dell'UE o negli Stati Uniti.

Essendo la Germania la destinazione principale, la domanda di apprendimento della lingua tedesca è salita alle stelle.

Alketa Kuko, direttrice dell'Istituto Goethe di Tirana, ha visto moltiplicarsi il numero di medici, paramedici, architetti o ingegneri che si iscrivono ai corsi di lingua tedesca.

"Mi serve solo un livello B2 in tedesco e tutto il resto è pronto per me in Germania", afferma Olti, 23 anni, paramedico di Tirana che spera di iniziare una nuova vita a Düsseldorf il prossimo gennaio. Ha studiato molto per imparare il tedesco negli ultimi mesi e afferma di essere tra i molti giovani albanesi che hanno scelto di iscriversi alla scuola per paramedici con l'intenzione di migrare in Germania. Il suo stipendio nell'unità di cure urgenti di Tirana è di 35.000 lek [286 Euro] al mese, mentre in Germania potrebbe guadagnare sei volte di più.

Poiché medici e paramedici sono tra i professionisti più ricercati in Germania, l'Albania, come altri paesi della regione, sta perdendo molti operatori sanitari. Secondo dati parziali dell'Ordine Medici e Paramedici di Tirana, 1.049 medici e 1.271 paramedici hanno attualmente depositato i documenti necessari per emigrare.

Nell'ottobre 2018, l'organizzazione "Together for Life" ha pubblicato i risultati di un sondaggio nazionale su 1.000 medici dell'Albania. Circa il 78% di loro ha affermato che preferirebbe emigrare se ne avesse la possibilità.

"I medici non sono soddisfatti: sono oberati di lavoro, non rispettati e stressati", afferma Eglantina Bardhi di "Together for Life". Le ragioni principali che spingono i dottori ad emigrare sono i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro, aggiunge.

Mentre l'emigrazione è stata una caratteristica fondamentale del paese durante il periodo di transizione, gli esperti sono preoccupati dalla nuova ondata negli ultimi anni e dalla perdita di personale qualificato.

"Le persone più qualificate stanno lasciando il paese e la fuga di cervelli è un grosso problema per l'Albania", afferma Eda Gemi, esperta di politiche migratorie e integrazione. "Attualmente abbiamo un paese senza cervelli, quale futuro possiamo immaginare?", riflette.

Sebbene il paese abbia una strategia sull'emigrazione e un ministero per la Diaspora, Gemi osserva che le cause sottostanti dell'emigrazione non sono all'ordine del giorno del governo e suggerisce la necessità di costruire ponti per aiutare la diaspora a impegnarsi nel paese d'origine.

Serbia, restare è più rischioso che partire
Attualmente incapace di fermare il processo di emigrazione, il governo serbo si sta invece concentrando su misure per stimolare i tassi di natalità con il nuovo ministero per le Politiche demografiche, che fornisce sussidi per chi fa figli.

Secondo una nuova legge, una famiglia con un primo figlio nato dopo il primo luglio 2018 riceve un pagamento una tantum di 800 Euro. Per un secondo figlio, le famiglie ricevono 80 Euro al mese per due anni, mentre per un terzo il sussidio è di 100 Euro al mese per i prossimi dieci anni. Il governo ha anche aumentato gli stipendi di medici e infermieri nel tentativo di fermare l'emigrazione degli operatori sanitari.

Il Servizio tedesco per la migrazione stima che nel 2017-2018 quasi 51mila persone si siano trasferite dalla Serbia alla Germania e, grazie alle procedure agevolate per ottenere i permessi di lavoro, l'ondata migratoria dovrebbe continuare.

Mirjana Arnaut faceva la giornalista in Serbia. Ora vive in Germania, disoccupata, ma con il sostegno di suo marito, che lavora per un'azienda tedesca. Hanno deciso di far crescere il loro bambino lontano dalla Serbia. “La Serbia non è un posto dove vogliamo vivere. È triste e deprimente, promuove valori sbagliati, cattiva politica e non la vedo più come un posto per la nostra famiglia”, afferma Mirjana.

Anche Ivan Andrić, 21 anni, vuole andare all'estero. Secondo lui, invece di aprirsi, la Serbia sta diventando una società chiusa. "Se non puoi esprimere opinioni politiche diverse, se non hai le stesse possibilità di trovare lavoro delle persone che prendono la tessera del partito al potere, è probabile che ad un certo punto vorrai andartene", afferma Andrić.

Secondo l'OSCE, quasi 655mila persone hanno lasciato la Serbia dalla caduta del regime di Milošević nel 2000. Si stima che quattromila persone lascino la Serbia ogni mese, il che significa che la Serbia perde ogni anno una città media di 50mila persone. Negli ultimi due decenni, a causa dell'emigrazione, la Serbia ha perso il 10% della sua popolazione.

Secondo dati OCSE, la maggior parte degli emigranti (179mila) ha scelto la Germania. La seconda destinazione principale è l'Austria con 105mila, seguita dalla Svizzera (circa 70mila).

Due terzi dei giovani vogliono lasciare il Montenegro
Il Montenegro ha la popolazione più piccola dei Balcani occidentali, solo 625mila abitanti. Nonostante la fiorente industria turistica, si stima che circa 150mila persone abbiano lasciato il paese negli ultimi trent'anni. Secondo dati EUROSTAT, circa 17.346 montenegrini hanno ottenuto un permesso di soggiorno nell'UE tra il 2008 e il 2018. La Germania ha rilasciato circa tremila permessi di lavoro a cittadini montenegrini: più di quanti ne impieghi qualsiasi azienda locale. I dati dei sindacati dei medici mostrano che 150 medici specialisti hanno lasciato il Montenegro negli ultimi 4 anni.

Anche Nenad Todorović, specialista in oftalmologia di Podgorica, si sta preparando a partire. Come i suoi colleghi, da mesi studia il tedesco per ottenere un permesso di lavoro in Germania. Il Montenegro, come altri paesi della regione, non crea prospettive per i giovani medici.

"I nostri salari sono bassi. Ho un mutuo, e una volta pagato quello mi rimangono 300 Euro per vivere insieme alla mia famiglia, quindi sono molto depresso per la mia attuale situazione economica".

Un recente sondaggio della Fondazione per la democrazia di Westminster in Montenegro ha rilevato che circa il 70% dei giovani sta pensando di lasciare il Paese.

Tutto ciò pone i paesi balcanici in un circolo vizioso: gran parte della popolazione sta pianificando di andarsene, le ondate migratorie indeboliscono ulteriormente l'economia e la scarsa situazione economica allontana sempre più persone.

Secondo la Banca mondiale, fra le conseguenze negative degli alti livelli di emigrazione ci sono la perdita di capitale umano e una crescita economica più lenta.

Romania, emigrazione di massa dopo l'adesione all'UE
Dal 2007, quando la Romania è entrata nell'UE, i confini europei si sono aperti ai cittadini romeni, agevolando così le persone che desiderano lasciare l'economia in difficoltà del paese.

Secondo la Banca mondiale, 3,6 milioni di romeni vivono attualmente all'estero, vale a dire il 18,2% della popolazione. I lavoratori altamente qualificati rappresentano il 27% dei migranti. Secondo la Banca mondiale, dal 1990 al 2017 l'emigrazione dalla Romania è aumentata del 287%.

Questo processo ha portato a carenze di manodopera, specialmente nei settori scientifici e tecnologici.

Secondo Stefan Cibian, direttore dell'Istituto di ricerca Făgăraș, l'emigrazione è aumentata durante tutte le fasi del processo di integrazione dell'UE, in particolare dopo la liberalizzazione dei visti.

“Alle nostre istituzioni serve un approccio strategico per gestire l'emigrazione, e devono accettare la realtà. Con questo approccio, limiteranno le conseguenze negative dell'alta emigrazione, ma ne trarranno anche i benefici, perché avere una comunità così grande che vive all'estero è una risorsa immensa”, afferma Cibian.

Christian Moreh, docente di Sociologia alla York St. John University e autore del libro “Romanians of Alcalá. Migration and social differentiation”, spiega che le modalità di liberalizzazione dell'economia romena negli anni '90 hanno causato una nuova ondata migratoria, poiché i romeni erano già in grado di viaggiare liberamente verso altri paesi europei.

"Il lento sviluppo della liberalizzazione politica e della democratizzazione è ancora un problema in Romania, che impedisce alle persone di tornare e avviare le proprie attività", afferma. "La burocrazia impedisce ai migranti di tornare in Romania e porta ancora più persone ad andarsene", aggiunge Moreh.

Gli esperti non vedono soluzioni immediate, ma suggeriscono che i paesi colpiti da alti livelli di emigrazione debbano offrire a livello locale qualcosa che i paesi dell'Europa occidentale non possono offrire ai giovani, come infrastrutture tecnologiche e norme più semplici per creare aziende.

I migranti dei Balcani occidentali, sia uomini che donne, tendono ad essere giovani e ad avere livelli di istruzione relativamente alti. A lungo termine, alti livelli di emigrazione, specialmente tra i più istruiti, generano disallineamenti tra le competenze disponibili e quelle necessarie nel paese di origine.

Poiché l'emigrazione di massa dai paesi dei Balcani occidentali è in corso ancor prima che entrino nell'UE, ci si può solo chiedere quante persone rimarranno una volta raggiunta l'integrazione.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/101364


--- Citazione ---BALCANI: Il silenzio europeo sugli studenti “respinti” illegalmente dalla Croazia
Giulio Gipsy Crespi 2 giorni fa

Nei giorni scorsi la notizia dei due studenti nigeriani deportati illegalmente in Bosnia (ne abbiamo parlato qui) è rimbalzata sulla stampa internazionale, confermando i dubbi che aleggiano da tempo sull’integrità della polizia croata in relazione alle operazioni di controllo delle frontiere. Le numerose testimonianze di abusi e violenze, quando non derubricate a casi isolati, vengono generalmente rigettate dalle autorità di Zagabria come ricostruzioni create ad arte dai migranti per delegittimare la polizia e vedersi riconosciuto il diritto di entrare liberamente in Croazia.

Il caso dei due atleti nigeriani

Il caso paradossale degli studenti Abia Uchenna Alexandro ed Eboh Kenneth Chinedu mostra non solo come le forze dell’ordine croate siano prone ai respingimenti illegali, in aperta violazione del principio di non-refoulement, ma che, come qualcuno ha commentato, la paranoia anti-migranti nel paese giunga al punto che due cittadini stranieri, in possesso di regolare visto, vengano deportati in un paese terzo.

Ad oggi la loro vicenda resta irrisolta: gli atleti, che attualmente si trovano loro malgrado illegalmente su territorio bosniaco e che nei giorni scorsi si erano visti costretti a trovare rifugio in un campo a Velika Kladuša, sono stati temporaneamente trasferiti a Sarajevo in attesa di rimpatrio in Nigeria, mentre le autorità croate sono ancora reticenti nel fornire spiegazioni in merito all’accaduto. L’assenza di significative reazioni da parte delle istituzioni europee di fronte all’ennesimo abuso al confine tra Bosnia e Croazia riflette l’atteggiamento più generale dell’Ue – sulla carta attenta alla tutela dei diritti umani, di fatto interessata a non consentire la riapertura della rotta balcanica, costi quel che costi.

Il bastone e la carota

Questo atteggiamento riflette la strategia messa in atto tra 2015 e 2016, quando la progressiva chiusura dei confini di Austria, Ungheria e Slovenia determinò un effetto imbuto per i migranti diretti verso l’area Schengen e, successivamente, un effetto domino sui paesi dei Balcani occidentali, delegati “sotto ricatto” a farsi carico dei richiedenti asilo e a garantire la chiusura effettiva dei confini – pena la sospensione del regime di esenzione dal visto, per chi ne beneficiava, e, implicitamente, ridotte possibilità di accesso. La permanenza del principio del primo paese d’accesso, pietra angolare del regolamento di Dublino, contribuisce a creare ulteriore pressione sui paesi di confine come la Croazia e a far sì che si cerchino soluzioni “all’esterno”.

Il caso più paradossale di “esternalizzazione” delle frontiere esterne dell’Unione europea si è dunque concretizzato proprio nei Balcani occidentali, ovvero in un’“enclave” dell’Unione stessa, a causa dell’incapacità di trovare una soluzione interna ai 28 paesi membri. Le prospettive di accesso della Croazia all’area Schengen hanno sin da allora condizionato le politiche di controllo delle frontiere del paese, che, pur di dimostrare la propria idoneità, ha inasprito le misure di monitoraggio dei confini, sacrificando sull’altare dell’integrazione europea i diritti di migranti e richiedenti asilo.

L’ennesima, prevedibile emergenza

Con il duro inverno balcanico ormai alle porte e una gestione del sistema di ricezione al collasso, la Bosnia Erzegovina si trova nuovamente scarsamente preparata a gestire l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo. Se per un verso gli appelli di chiusura del campo di Vucjak da parte di organizzazioni internazionali e Ong sembrano essere stati finalmente accolti dalle autorità bosniache – lo sgombero e i trasferimenti a Sarajevo sono iniziati lo scorso 10 dicembre – continua a mancare una strategia di lungo termine che includa lo stabilimento di strutture adeguate all’ospitalità non più temporanea di migliaia di persone.

L’Unione europea, d’altro canto, si ritrova anche quest’anno ad affrontare un’emergenza umanitaria tutt’altro che inaspettata. Sin dal 2018, la Commissione europea ha allocato un totale di 35,8 milioni di euro in assistenza di breve e medio termine, volti a fornire beni di prima necessità, assistenza medica e a migliorare le condizioni di alloggio di circa 8000 migranti e richiedenti asilo intrappolati nel cantone di Una-Sana.

Il silenzio-assenso di Bruxelles

L’impossibilità di affrontare in un’ottica razionale e nel segno della solidarietà tra paesi membri la questione migratoria continua a impedire di riformare il regolamento di Dublino – nonostante i reiterati appelli del presidente del Parlamento europeo David Sassoli e le dichiarazioni programmatiche della neo-presidente della Commissione Ursula von der Leyen – e di sollevare i paesi in fondo all’”imbuto”, inclusi la Grecia e i Balcani occidentali, da un fardello attualmente insostenibile.

In assenza di un segnale tangibile a livello di Consiglio Ue sul dossier migrazione, la Commissione conferma dunque lo status quo. È significativo che la prima missione all’estero di Margaritis Schinas, Vicepresidente per la promozione dello stile di vita europeo, e Ylva Johannson, Commissaria europea per gli affari interni, sia stata proprio in Turchia, al cospetto del suo presidente Recep Erdogan, per cercare di puntellare l’accordo bilaterale sui migranti tra Ankara e Bruxelles.

In questo quadro la Grecia da una parte e i Balcani occidentali dall’altra continuano a trovarsi in prima linea nella “protezione” dei confini esterni. Allo stesso tempo, la prassi di respingimenti illegali e di criminalizzazione dei migranti da parte delle autorità croate mettono a nudo un’Unione incapace di trovare una sintesi tra valori comunitari e interessi nazionali.
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