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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/101585
--- Citazione ---CAUCASO: Le mani dei governi sulla magistratura in Armenia e Georgia
Eleonora Febbe 22 ore fa
La democrazia è in declino nel Caucaso? La “rivoluzione di velluto” dell’anno scorso in Armenia, che aveva portato alle dimissioni del Primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan e all’elezione del leader delle proteste Nikol Pashinyan, era stata salutata come un successo della società civile e della democrazia. Un anno dopo, però, iniziano a intravedersi le prime crepe. Un po’ come sta succedendo nella vicina Georgia, da quest’estate in tumulto per proteste contro il governo del Sogno Georgiano. In entrambi i paesi, i governi sembrano voler minare il sistema democratico, un obiettivo che si riflette in particolare nelle riforme dei sistemi giudiziari dei due Paesi del Caucaso.
Armenia: pensione anticipata per i giudici scomodi
La settimana scorsa, il parlamento armeno ha approvato una legge che introduce la possibilità per i giudici della Corte Costituzionale di pensionarsi in anticipo. Una manovra aspramente criticata dai partiti di opposizione Armenia Prospera e Armenia Luminosa, che la considerano non soltanto uno spreco di soldi pubblici, ma soprattutto una manovra per costringere al pensionamento anticipato i giudici più vicini alla precedente amministrazione in modo da nominarne di nuovi favorevoli al governo.
In particolare, Il mio passo, il partito di Pashinyan, vorrebbe le dimissioni del presidente della Corte Costituzionale Hrayr Tovmasyan, vicino a Sargsyan e all’ex presidente Robert Kocharyan. I tre sono tutti indagati, con motivazioni che i loro sostenitori ritengono politicamente motivate. Tovmasyan è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici; il parlamento ha già votato per rimuoverlo dall’incarico, ma la decisione finale spetta agli altri membri della Corte Costituzionale entro fine anno. Stessa accusa anche per Sargsyan, mentre Kocharyan è sotto processo per aver autorizzato la repressione violenta di proteste nel marzo 2008, che causò 10 vittime. In seguito alle proteste, Pashinyan, allora leader dei manifestanti, aveva trascorso due anni in prigione.
Quando Kocharyan è stato scarcerato su cauzione nel maggio scorso, Pashinyan aveva invitato i cittadini armeni a bloccare gli ingressi dei tribunali del paese, un primo segno delle ingerenze dell’esecutivo nel sistema giudiziario. Da allora Kocharyan è stato nuovamente arrestato, anche se la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’arresto incostituzionale, mentre Pashinyan continua a sostenere che una riforma radicale del sistema giudiziario sia la “seconda fase della rivoluzione” armena, dopo le manifestazioni del 2018.
Georgia: il Sogno Georgiano rinnova la Corte Suprema
Anche nella vicina Georgia la questione dell’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo è alquanto spinosa: il 12 dicembre il Parlamento ha approvato la controversa lista di nomine per la Corte Suprema proposta dal governo, in una seduta turbolenta durante la quale si è persino assistito al lancio di una bomba puzzolente nel parlamento, apparentemente un’azione di protesta del gruppo antigovernativo Per la libertà.
La riforma costituzionale del 2017 ha aumentato il numero di giudici della Corte Suprema georgiana, lasciando al partito di governo, il Sogno Georgiano, il compito di nominare 20 giudici in carica a vita. Un solo governo avrebbe così l’opportunità di influenzare l’organo giudiziario principale del paese per decenni, situazione criticata non solo dall’OSCE e dal Consiglio d’Europa, ma anche da membri del Parlamento e dell’Alto Consiglio della Giustizia georgiani. L’approvazione della lista dopo mesi di polemiche è quindi l’ennesima indicazione della volontà del Sogno Georgiano di concentrare il potere nelle proprie mani, senza curarsi dell’opinione pubblica, come del resto era già successo con la decisione di bloccare il passaggio a un sistema elettorale proporzionale.
Per ora sia Georgia che Armenia sono ben lontane dall’essere regimi autocratici come il vicino Azerbaigian; tuttavia, la lenta erosione delle istituzioni democratiche è un processo da monitorare prima che diventi irreversibile. I governi post-transizione nei due paesi continuano a voler accaparrarsi tutte le istituzioni, secondo uno schema di autoritarismo competitivo da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Bulgaria-la-partita-per-la-gola-di-Kresna-198485
--- Citazione ---Bulgaria: la partita per la gola di Kresna
La battaglia ventennale sul tracciato dell'autostrada Sofia - Salonicco, che taglia la più importante area protetta della Bulgaria volge alle battute conclusive nel segno delle contraddizioni dell'UE che condanna la devastazione ambientale, ma finanzia generosamente i lavori. Entro gennaio si dovrà decidere
24/12/2019 - Marco Ranocchiari
Nelle ultime settimane le istituzioni europee sono tornate a discutere della gola di Kresna, nel sud-ovest della Bulgaria. Sono ormai vent'anni, da ben prima che il paese balcanico diventasse effettivamente membro dell'Unione, che il tracciato dell'autostrada infiamma il dibattito tra ambientalisti e governo, mettendo in imbarazzo le istituzioni europee. La gola infatti, oltre a essere il più facile punto di passaggio tra Sofia e Salonicco, è un importantissimo sito naturalistico, rifugio di un gran numero di specie protette (soprattutto rettili e anfibi, ma anche farfalle, lupi, orsi, e oltre cinquanta grifoni) e per questo tutelato proprio dalle leggi europee.
L'Europa ha già contribuito al finanziamento dei tratti a monte e a valle di Kresna, senza fermarsi neppure davanti a siti archeologici come l'antica città di Skaptopara. Resta solo il tratto decisivo, quello all'interno della gola. Il governo bulgaro ha presentato richiesta di cofinanziamento lo scorso 9 agosto.
L'ultimatum dell'Europa
Il 15 ottobre 2019 Erich Unterwurzacher, della Direzione generale della Politica regionale e urbana della Commissione europea, risponde al governo di Sofia con una lettera durissima. Nel documento, inizialmente riservato, ma diventato presto di dominio pubblico, la Commissione Europea dichiara "ingiustificato" il contributo europeo alla realizzazione dell'autostrada.
La Valutazione di Impatto Ambientale che autorizza i lavori all'interno della gola, si legge nella lettera, non tiene conto degli standard europei in materia di ambiente. In particolare, la Bulgaria non avrebbe raggiunto gli obiettivi di conservazione dei siti di importanza comunitaria (SIC), come Kresna, imposti dalla Direttiva Habitat. Le misure di mitigazione degli impatti proposte da Sofia, prosegue la lettera, sono vaghe, incomplete e in ogni caso saranno operative soltanto nel 2023, quando per le specie minacciate dall'infrastruttura potrebbe essere troppo tardi.
Non si prendono poi in considerazione, inoltre, gli effetti cumulativi di altre opere impattanti nella zona, spesso collegate alla stessa autostrada. Il progetto è stato inoltre modificato pesantemente da quando fu presentato ufficialmente in sede europea, e non ci sono garanzie su alcuni aspetti della sicurezza stradale. Dulcis in fundo, i tempi di consegna (fissati entro il 2023) non saranno sicuramente rispettati.
La Commissione detta tempi strettissimi: due mesi, prorogabili fino a tre. In altre parole, la Bulgaria ha tempo solo fino al 15 gennaio per rispondere delle numerose inadempienze. Altrimenti, potrebbe dire addio al contributo europeo (277 milioni sui 676 necessari per questo tratto) bloccando di fatto i lavori.
Stallo a Berna e Bruxelles
Lo scorso 2 dicembre, a Bruxelles, il biologo Dimitar Vasilev, uno dei volti più noti dell'ambientalismo del paese balcanico, ha invitato i parlamentari europei a recarsi in Bulgaria per osservare di persona gli impatti che l'autostrada avrebbe sia sull'ecosistema che sulla comunità. Sono prevedibili le ricadute su turismo sostenibile, rafting ed escursionismo (la gola sorge tra l'altro a ridosso dei Monti Pirin, patrimonio Unesco dal 1983). Anche la viabilità locale sarebbe compromessa: la strada attuale sarà trasformata in una delle corsie dell'autostrada (una decisione, questa, che è una delle ironiche conseguenze delle infinite trattative sul percorso dell'autostrada) e fare spostamenti di pochi chilometri risulterebbe quasi impossibile.
Due giorni dopo, il 4 dicembre, anche il Comitato Permanente della Convenzione di Berna (che promuove la conservazione degli habitat naturali nel continente europeo) ha discusso di Kresna.
Al termine di una riunione travagliata, in cui sembravano aver prevalso le ragioni degli ambientalisti (a difesa del governo bulgaro si sono pronunciati solo la Grecia, diretta interessata, Armenia e Azerbaijan), il comitato ha deciso per un compromesso. Il caso, su cui la Convenzione si era già pronunciata nel 2002, non è stato riaperto. È stata però raccomandata al più presto una valutazione in loco della situazione - una verifica che del resto la Bulgaria, al momento, ha dichiarato di non essere nelle condizioni di accettare.
Il governo bulgaro ha poche settimane per elaborare una risposta convincente alle richieste dell'Europa. Se la Commissione rifiutasse il finanziamento, però, si troverebbe in una situazione imbarazzante, dopo che ha debitamente autorizzato e finanziato gli altri tratti dell'opera. Un pasticcio che gli ambientalisti avevano denunciato da tempo, e che adesso risulta evidente.
In queste fasi finali la partita si fa più accesa che mai, e il risultato non è per nulla scontato.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/99351
--- Citazione ---No, l’Est non è brutto, sporco e cattivo
Francesco Magno 16 Settembre 2019
L’ormai proverbiale connubio tra est-europeo e degrado, inciviltà, brutalità, nazionalismo sembra non riuscire a estinguersi. Se la fine delle guerre nell’ex Jugoslavia e il processo di integrazione europea sembravano poter aprire la strada a un ripensamento della tradizionale immagine dell’altra Europa, ci hanno pensato i governi autoritari e nazionalisti a ricacciare l’oriente nella spazzatura del discorso mediatico. Gli attacchi alle libertà fondamentali e, soprattutto, il rifiuto perenne alla ripartizione dei migranti, hanno irrimediabilmente etichettato i paesi dell’ex blocco comunista come xenofobi, iper-nazionalisti, moralmente sottosviluppati rispetto al progredito ovest. Pochi hanno cercato di capire il perché di tutto questo. Sebbene un’analisi attenta e di ampio respiro non possa comunque giustificare certe politiche, essa può forse aiutare a comprenderle.
Le transizioni post-comuniste: un successo parziale
Il primo errore che l’occidente compie è quello di interpretare la storia post-comunista degli stati dell’Europa orientale come una lunga cavalcata di successi. La transizione ad un’economia di mercato e ad un regime politico liberal-democratico, coronata con l’ingresso di molti paesi dell’area nella NATO e nell’UE, viene vista come una vera e propria glory road che ha portato paesi prima poverissimi verso standard di vita sempre più simili a quelli dell’Europa occidentale. Si tratta di un’interpretazione superficiale e, talvolta, fuorviante. Sebbene sia innegabile il livello di sviluppo economico raggiunto negli ultimi anni da paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, esso nasconde una realtà ben più frastagliata. Dietro i fantasmagorici numeri sulla crescita del PIL e sull’esiguo tasso di disoccupazione, si staglia un sottobosco fatto di rampante povertà. Molti ancora soffrono delle privatizzazioni selvagge degli anni ’90, che hanno causato la perdita di numerosi posti di lavoro e un generale aumento del costo della vita. Non tutti hanno beneficiato del cambiamento del sistema, e chi prima riusciva a vivere grazie agli aiuti forniti dallo stato assistenziale comunista, si è ritrovato disperso in una giungla economica nella quale ha fatto fatica ad orientarsi. Questo ha causato in alcuni paesi una massiccia migrazione verso ovest. Il caso di Romania e Bulgaria è emblematico; addirittura Sofia ha perso 2 milioni d’abitanti tra il 1989 e il 2009, passando da 9 a 7 milioni. Chi invece, come l’Ungheria, aveva goduto di un’economia relativamente stabile negli ultimi decenni di comunismo, ha costruito su fragili basi il suo boom degli anni ’90, e si è ritrovata a dover mettere in atto pesanti misure d’austerità specialmente dopo lo scoppio della crisi economica mondiale. Tra le varie cause dell’exploit di Orban del 2010 vanno ascritti i malumori di buona parte della popolazione ungherese per le riforme economiche “lacrime e sangue” portate avanti dal governo del suo predecessore Gordon Bajnai. Non è quindi un caso che molti, disorientati da un’economia imprevedibile, da un futuro incerto, dall’emigrazione abbiano cercato rifugio in chi prometteva di rimettere le persone comuni al centro della politica nazionale. Non basta tuttavia l’economia a spiegare il successo dei conservatori nazionalisti: la Polonia registra da anni una crescita impetuosa, grazie soprattutto al sostegno dell’UE. Il governo di Piattaforma Civica ha garantito al paese ottimi risultati economici, che non sono tuttavia bastati ad evitare la clamorosa sconfitta alle elezioni del 2015. Il politologo francese Jacques Rupnik ha spiegato così il risultato: “Piattaforma Civica ha perso perché si era esaurito il progetto liberale basato sulla concorrenza sovranazionale e sull’invito ad arricchirsi. PiS di Kaczynski invece ha vinto poiché ha sostenuto un progetto collettivo basato sul patriottismo e i valori cristiani” (J. Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Donzelli, 2019). Il richiamo all’identità e al patriottismo si è rivelato un’arma politica letale proprio mentre l’Europa occidentale combatteva con l’annosa questione migratoria.
Perché nell’Europa orientale non vogliono i migranti?
Anche dietro il rifiuto all’accoglienza si nascondono problematiche profonde che non possono esaurirsi in una semplice indole xenofobica e intollerante. Niente più dell’apertura dei confini ha simboleggiato la fine del comunismo e l’apertura all’Occidente; ancora oggi la libertà di viaggio è uno degli aspetti più apprezzati dell’integrazione europea in buona parte dell’Europa orientale. Vi è, tuttavia, un’altra faccia del libero movimento: l’emigrazione massiccia. Oltre al già citato caso bulgaro, vanno citati i 3,5 milioni di romeni che hanno lasciato il loro paese dopo il 2007, per non parlare del totale spopolamento di molte aree della Germania orientale dopo il crollo del muro di Berlino. A contribuire al sensibile calo demografico intervengono poi il progressivo invecchiamento e i bassi indici di natalità: paesi economicamente solidi come Lettonia e Lituania hanno perso negli ultimi anni rispettivamente il 27 e il 22.5 % della popolazione. Se a ciò si aggiunge l’immagine disastrosa del fenomeno migratorio che ormai viene propagata da buona parte dei media occidentali e condivisa da larghi settori dell’opinione pubblica, l’atteggiamento del blocco orientale risulta meno sorprendente. In paesi che stanno vivendo una vera e propria rivoluzione demografica, è che registrano milioni di partenze annuali, anche soltanto paventare l’idea di accogliere persone con un background culturale diverso diventa terrificante. I più vogliono che i governi si impegnino nel far tornare a casa chi è partito, piuttosto che ad accogliere migranti. Vi sono poi delle motivazioni storiche da non sottovalutare. Per cinquant’anni il comunismo ha educato le masse della regione all’internazionalismo proletario: si trattava, tuttavia, di un internazionalismo fantoccio, dietro il quale si mascherava un intimo sospetto verso il vicino. Erano gli stessi leader comunisti a parlare apertamente di fratellanza socialista, pur tenendo sempre desta l’attenzione sulle manovre degli alleati. E’ naturale che chi è cresciuto in questo clima di finto e ambiguo cosmopolitismo non possa poi farsi portavoce delle grandi istanze di accoglienza propugnata dagli intellettuali dell’Europa occidentale.
Cosa vogliono veramente ad Est?
Ancora oggi la gente dell’Europa orientale si aspetta prima di ogni altra cosa progresso economico, e una sincronizzazione rapida con gli standard occidentali. L’occidente, tuttavia, spesso chiede all’oriente quello che non potrà mai ricevere, quantomeno nel breve termine. Spesso lo iato economico esistente tra le due parti del continente si trasforma in uno iato comunicativo, ma basterebbe cambiare prospettiva per capire che l’atteggiamento dei paesi dell’Europa orientale non deriva soltanto da un presunto sottosviluppo culturale e politico, ma da condizioni storiche sedimentatesi nel tempo e difficili da modificare. Si guardi alla questione ambientale: mentre nelle grandi capitali dell’ovest dalla scorsa primavera si manifesta in difesa del pianeta, e in Italia da anni ormai si discute dell’annosa questione della TAV, nella Moldova romena si susseguono da mesi le dimostrazioni di abitanti esasperati dal cronico ritardo del governo nella costruzione di autostrade. Come ci si può aspettare una svolta green e una coscienza ambientale da paesi che ancora sperano di poter godere dei vantaggi di un’autostrada, da persone che per andare a far la spesa devono salire su un carro di legno trainato da un mulo? In politica vale lo stesso principio: come ci si può aspettare accoglienza e cosmopolitismo da persone cresciute nella cultura del sospetto che vedono partire milioni di connazionali, spesso per sempre? Se a Bruxelles vogliono veramente sconfiggere gli Orban, i Kaczynsky, i Babis, i Borissov, forse farebbero bene a rispondere a queste domande.
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-campi-profughi-affollati-e-isolati-198714
--- Citazione ---Grecia: campi profughi affollati e isolati
Benché se ne parli meno, oltre centomila migranti e rifugiati sono ancora presenti in Grecia. Molti di loro vivono per lunghi periodi in centri di prima accoglienza, che però si trovano in aree remote e scarsamente servite
14/01/2020 - Eleni Stamatoukou Salonicco
“L’Europa non sta vivendo più la crisi migratoria del 2015, ma i problemi strutturali persistono”, ha dichiarato lo scorso marzo Frans Timmermans, allora vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Stando all’Ue quindi, la crisi migratoria sarebbe passata. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato e le nuove politiche dell’Unione europea hanno arrestato gli spostamenti di migranti privi di documenti. Per ribadire le proprie posizioni, la Commissione europea ha stilato un documento per smascherare miti e leggende legate al fenomeno migratorio.
Certo, la crisi dei migranti non fa più parlare così tanto di sé come nel 2015 e nel 2016, ma ciò non significa che tutto sia stato risolto. Il problema persiste nelle periferie italiane o greche, dove migliaia di persone sono bloccate nei centri di prima accoglienza.
Vivere nei campi profughi in Grecia
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sostiene che nell’ultimo anno l’afflusso di richiedenti asilo in Grecia (il principale punto di ingresso nell’Unione europea) è aumentato rispetto all'anno precedente. I numeri non possono essere comparati con il picco registrato nel 2015, ma è certo che le isole dell’Egeo orientale sono sopraffatte dall’emergenza. Per ormai diversi anni la Grecia non è stata in grado di gestire in maniera efficiente la crisi migratoria. "Lo dirò in maniera chiara: solleverò la questione delle sanzioni per quelle nazioni europee che si rifiutano di partecipare a un’equa redistribuzione dei rifugiati", ha detto il neo primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis.
Sempre stando all’UNHCR, in Grecia ci sono circa 109mila tra rifugiati e migranti. 70.200 di loro vivono nel continente in campi profughi, appartamenti e hotel, mentre 38.800 si trovano sulle isole, in condizioni precarie. OBC Transeuropa ha raccolto e analizzato i dati sui migranti e rifugiati che vivono nei campi greci ed è entrato in contatto con il governo locale, organizzazioni internazionali, Ong e con la Commissione europea.
Prima di passare alle analisi è però importante capire cos’è un campo profughi: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, “un campo per rifugiati è una sistemazione provvisoria per le persone che sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni a causa di violenze o persecuzioni. Questi campi vengono costruiti nel corso di una crisi che colpisce esseri umani in fuga per salvare la propria vita. Si tratta di insediamenti costruiti in tutta fretta per garantire sicurezza e protezione immediata”. I primi campi profughi in Grecia sono stati messi in piedi nel 2015, benché il paese avesse già altri centri di accoglienza. Nel corso degli anni diversi campi sono stati chiusi e poi riaperti.
Secondo uno studio dello scorso novembre rilasciato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), allo stato attuale in Grecia i campi di prima accoglienza operativi sono trenta. Uno di questi (nei pressi di Corinto) funziona da centro di transito. In totale in questi campi sono ospitati 23.248 tra migranti e rifugiati (includendo quelli ufficialmente registrati, i non registrati e i visitatori). Più nello specifico, ci sono 5.012 unità di accoglienza con una capacità di 25.333 posti. In totale, l’area coperta è di 1.287.991 metri quadrati e la maggior parte delle persone vive nella regione dell'Attica (7.308), della Macedonia centrale (6.486) e della Grecia centrale (2.710).
Centri di accoglienza di lunga durata?
La maggior parte dei campi greci sono costituiti da unità abitative minime (costituite da container), mentre altri sono stati ricavati in edifici. Dopo il boom della crisi migratoria del 2015, i container hanno gradualmente rimpiazzato le tende. “Ovviamente queste sistemazioni non sono ideali per il clima, anche se per fortuna viviamo in un paese dove le condizioni meteorologiche non sono così male. Nonostante ciò, abbiamo sempre ribadito che questi centri sono temporanei e quindi anche l’ospitalità deve essere temporanea”, ci ha detto Manos Logothetis (segretario aggiunto per la prima accoglienza al ministero per la Protezione dei cittadini) criticando l’operato del precedente governo.
Nel 2018, un rapporto pubblicato dall’UNHCR assieme ad altre organizzazioni aveva fornito informazioni dettagliate sulle strutture nate per identificare e registrare i migranti (Open Reception Facilities e Reception & Identification Centers, altrimenti conosciuti come hotspots). A quel tempo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati le riteneva strutture pensate per assicurare accoglienza temporanea a rifugiati e migranti. Nel luglio 2019, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) descriveva però quelle strutture come campi di accoglienza per lunghi periodi.
IOM Grecia, in collaborazione con la Commissione europea e altri partner come il Danish Refugee Council, l’Arbeiter Samariter Bund e l’UNICEF, assicura servizi di supporto e di gestione dei centri. Abbiamo chiesto a IOM Grecia se questi siti, nelle condizioni in cui si trovano, con container ubicati a svariati chilometri da ospedali e servizi pubblici, potrebbero davvero diventare delle strutture di accoglienza a lungo termine. L’organizzazione ha preferito non dare una risposta, dicendo che il loro compito è solo di supporto e che la domanda andrebbe rivolta al ministero per la Protezione dei cittadini.
Il segretario aggiunto Manos Logothetis ci ha risposto sostenendo che l’espressione “lungo termine” non si riferisce al tempo di accoglienza di un singolo individuo, ma a quanto un sito può essere mantenuto operativo in maniera funzionale. Stando a quanto ha affermato, il termine è stato usato per la prima volta dal governo precedente in occasione dell’implementazione di un nuovo programma di integrazione per migranti e profughi (HELIOS, Integration Support for Beneficiaries of International Protection). “Il nostro Paese non può assicurare una rete di permanenza per centomila persone, come succede ora. Bisognerebbe pensare a un sistema di accoglienza per numeri minori, ma con strutture migliori”, ha sottolineato l'esponente del governo.
Abbiamo poi chiesto alla Commissione europea un’opinione sulla situazione dei campi greci e sul loro carattere di lungo periodo. Uno dei portavoce ci ha risposto dicendo che la Commissione di Bruxelles sta ancora analizzando le misure prese dal nuovo governo di Atene.
Il problema della distanza
Molti campi si trovano in aree remote, come in vecchie zone industriali o ex basi militari distanti molti chilometri dai centri urbani. Altri sono invece ubicati in prossimità di città o paesi. Dei trenta campi esistenti, 23 hanno accesso al trasporto pubblico (treni e bus), mentre i sette restanti sono tagliati fuori (nello specifico, i siti di Volos, Andravida, Grevena, Oinofyta, Ritsona, Serres e Thiva). Abbiamo chiesto all’IOM se e quanto frequente è il servizio di bus per questi ultimi campi; il portavoce ci ha risposto dicendo che varia da sito a sito.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni però assicura che in caso di emergenza i trasporti verso strutture mediche o altri servizi sono assicurati dallo staff del centro. Oltre a ciò, in ogni campo sono disponibili informazioni di prima necessità tradotte in tutte le lingue parlate nella struttura e gli ospiti ricevono sessioni di formazione in cui vengono istruiti su come agire in caso di necessità. Allo stesso tempo, negli alloggi per i minori è presente staff specializzato 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana.
L’Organizzazione non governativa greca SolidarityNow lavora in 14 campi profughi nel nord e nel centro del paese. Offre servizi psico-sociali, assistenza legale, servizi ricreativi per bambini, donne e famiglie. “Costruire un campo profughi in aree remote, lontane dai centri cittadini, senza accesso ai servizi è problematico. È direttamente collegato alla logica del ‘lontano dal mio cortile’, adottata dalle autorità. Ovviamente, questi campi dovrebbero essere vicini al tessuto urbano, per garantire agli ospiti accesso ai vari servizi sociali, come le scuole, gli ospedali, i centri amministrativi”, ha detto a OBC Transeuropa Lefteris Papagiannakis, responsabile per l'advocacy, le policy e la ricerca di SolidarityNow. Le principali preoccupazioni dell’organizzazione riguardano la carenza dei servizi di base nei campi, la distanza dai centri urbani e la mancanza di trasporti pubblici.
Non è ideale tenere queste persone lontane dai centri urbani per lunghi periodi in aree in precarie condizioni, sottolinea UNCHR Grecia. Costretti a limitate attività, i rifugiati sono esposti a maggiore stress, che a sua volta causa maggiori difficoltà nella capacità di integrazione e della creazione di autostima. A livello globale un campo profughi, secondo le politiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, dovrebbe essere un centro di accoglienza temporaneo ed eccezionale pensato per chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa. “Queste strutture dovrebbero facilitare l’identificazione dei bisogni specifici delle persone ospitate e assicurare che questi bisogni vengano soddisfatti. Tuttavia, i campi risultano un compromesso e pongono dei limiti ai diritti e alle libertà dei rifugiati e alle loro possibilità di prendere decisioni importanti per le loro vite”, ribadisce l’UNHCR.
OBC Transeuropa ha calcolato i chilometri e le ore necessarie per i trasferimenti dai campi profughi verso le città e i villaggi nei dintorni. In particolare, è stata misurata la distanza tra ciascun centro e la città più vicina con almeno un ospedale. Dall’analisi risulta che sedici campi distano oltre dieci chilometri dall'ospedale più vicino, mentre solo cinque distano meno di cinque chilometri. Altri centri urbani offrono assistenza sanitaria, ma si tratta di strutture con servizi limitati e sprovvisti di specifiche attrezzature mediche.
Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
--- Termina citazione ---
Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/83444
--- Citazione ---RUSSIA: L’enorme disuguaglianza economica tra classi sociali
Maria Baldovin 22 Maggio 2017
Recentemente il Guardian ha riportato alcuni dati della Banca Mondiale, dai quali si evince come la Russia sia uno dei Paesi dove si registra una maggiore disuguaglianza economica. Quest’ultima è solitamente misurata con il coefficiente di Gini, ideato dall’omonimo statistico italiano e indicatore della disuguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza. In Russia, oggigiorno, la forbice si fa sempre più ampia e il 10% delle persone possiede più dell’80% della ricchezza. Questo non rappresenta affatto una novità, dato che da anni il Paese è indicato come il meno equo tra le maggiori economie mondiali. Tuttavia, non è da escludere che una crescente consapevolezza della disuguaglianza economica, insieme agli scandali riguardo alla corruzione dilagante ai vertici, possano rappresentare una miscela esplosiva per lo scoppio di nuove proteste.
Alle origini della disuguaglianza
La disuguaglianza economica è un fenomeno sviluppatosi in Russia soprattutto a partire dalle riforme di transizione degli anni ’90. Sebbene, infatti, anche nella società sovietica ci fosse una classe privilegiata – la cosiddetta nomenklatura – avente accesso a beni e servizi migliori, le differenze salariali erano piuttosto esigue. Fu solo con l’avvento dell’economia di mercato, dunque, che cominciò a crearsi una classe di super-ricchi, mentre la maggioranza della popolazione finiva sul lastrico. L’arricchimento di una speciale classe di persone avvenne soprattutto grazie all’ancor debole legislazione in materia di privatizzazione; in questo modo si arricchirono coloro che riuscirono, spesso in modi ambigui, ad accaparrarsi le ricchezze del Paese, andando a creare la classe degli “oligarchi”.
Questi ultimi vennero presi di mira fin da subito durante il primo mandato di Vladimir Putin, il quale si impegnò fortemente a diminuire la loro influenza nella vita politica russa, riportando apparentemente ordine sulla scena. In realtà è noto come sotto il governo Putin sia stata creata una nuova struttura, che lega ex-agenti del KGB, politici e vertici delle più importanti compagnie energetiche in una rete dalle maglie molto fitte. La lotta di quegli anni contro gli oligarchi non portò alla distruzione di una classe di super ricchi: il numero dei russi che vivevano sotto la soglia di povertà calò negli anni 2000, ma il coefficiente di Gini è sempre rimasto elevato, a riprova che l’aumento del PIL pro-capite non aveva diminuito la forbice.
Nuova presa di coscienza?
Oggigiorno, la crisi economica, la svalutazione del rublo, le ingenti spese militari e gli scandali sulla corruzione potrebbero far accendere i riflettori su quei 20 milioni di russi che ancora vivono sotto la soglia della povertà. Tuttavia, l’argomento non sembra trovare il giusto spazio nel dibattito pubblico, come sottolinea in un’intervista Aleksandr Zamjatin, tra i fondatori dell’associazione Zerkalo (“Specchio”): “Qualunque stima si guardi, si evince che in Russia c’è un elevato indice di disuguaglianza sociale, ma, guardando il panorama mediatico nel paese, si potrebbe pensare che il problema non esista affatto”. L’obiettivo di Zerkalo è proprio sopperire a questa mancanza e dare spazio a ordinarie storie di povertà e ingiustizia sociale.
E’ tuttavia difficile prevedere se una rinnovata consapevolezza del problema porterà a una reazione da parte del popolo russo e a nuove proteste di piazza. In molti, come il sopracitato Zamjatin, credono che questi temi siano poco importanti per la destra liberale, l’unica fazione politica che in questo momento riesce a portare grandi numeri in piazza. Tuttavia, esponente di quella destra liberale è Aleksej Naval’nyj, leader delle significative proteste anti-corruzione risalenti al 26 marzo; queste ultime, in un certo senso, rientrano in questo contesto, almeno stando alle parole dell’organizzatore, convinto che la gente sia stanca di vivere di stenti e vedere una classe di milionari e corrotti. Se Naval’nyj riuscirà a capitalizzare su questo tema, rendendolo un aggregatore del malcontento di molti, forse aumenterà le sue possibilità di insidiare Putin alle presidenziali del prossimo anno.
Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association. Le analisi dell’autrice sono pubblicate anche su PECOB, Università di Bologna
--- Termina citazione ---
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