Off Topic > Off Topic

La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

<< < (78/117) > >>

Frank:

--- Citazione da: Vicus - Maggio 04, 2020, 21:08:47 pm ---Unica nota positiva è che quelli dell'Est sono pieni di complessi perché vengono da Paesi di m.

--- Termina citazione ---

Sì, lo so bene.
Non a caso ho scritto poc'anzi...
"Poi vabbe', i suddetti immigrati dell'est mi han fatto girare i coglioni spesso e volentieri per altri motivi, ma questa è un' altra storia."

Vicus:
Tra l'altro le donne dell'Est sono molto difficili da gestire. Un mio conoscente rumeno con la moglie ha anche usato maniere spicce* ma non è servito a nulla.

* Solo per informazione

Duca:
Anche tra le puttane le rumene sono le peggiori, arroganti, contaballe, non hanno voglia di lavorare e si credono tutte strafighe.

Frank:
... "solo in Italia accadono certe cose!"
Ah no, cazzo, siamo in Bosnia.
...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-corona-festa-scandali-e-buone-pratiche-201738


--- Citazione ---Bosnia Erzegovina: “corona-festa”, scandali e buone pratiche

Anche la Bosnia Erzegovina si avvia verso la fase 2. Il collasso della sanità è stato scongiurato ma nella gestione della crisi le due entità si sono comportate come stati sovrani. Non sono mancati gravi scandali e nemmeno le buone pratiche

08/05/2020 -  Alfredo Sasso
Anche in Bosnia Erzegovina è tempo di “fase due” dell’emergenza Covid. Si stanno adottando misure di alleggerimento del lockdown, pur con gradualità e con alcune differenze nelle due entità del paese, la Federazione di BiH e la Republika Srpska. Nella prima, già il 24 aprile è stata ripristinata la libertà di circolazione e dal 4 maggio sono stati riaperti diversi uffici ed esercizi commerciali, tra cui parrucchieri e estetisti; ristoranti e grandi centri commerciali potrebbero riprendere l’attività, pur con limitazioni, la prossima settimana. In Republika Srpska, che è stata colpita in modo più grave dalla pandemia, le riaperture avvengono invece in modo più dilazionato  tra questa settimana e la prossima.

Secondo i dati ufficiali  aggiornati al 7 maggio, i contagiati totali nel paese sono 2.027 (965 in FBiH, 1043 in Republika Srpska, 19 nel distretto di Brčko) e i decessi 90 (rispettivamente 34, 53 e 3). Nel complesso, se si guardano i numeri  di contagi e decessi in rapporto alla popolazione, non sono lontani da quelli della Croazia, da molti considerata come uno dei paesi più efficaci nella regione per la risposta all’emergenza, e sono inferiori di sei-sette volte rispetto a quelle dell’Italia. Per ora gli scenari catastrofici che erano stati evocati da alcuni esperti all’inizio dell’epidemia sono stati dunque scongiurati.

Nonostante i numeri relativamente contenuti dell’emergenza, l’attuale trend richiede comunque di non abbassare la guardia e mostra la presenza di situazioni molto diverse nel territorio. In Federazione di BiH il contagio appare rallentato, con due decessi negli ultimi quindici giorni, e alcuni cantoni (come quelli di Sarajevo e Tuzla) vicini o già stabilmente al contagio-zero. In Republika Srpska si è registrata invece una preoccupante accelerazione proprio in questa ultima settimana (il picco di contagi giornalieri, 69, è avvenuto il 3 maggio) concentrata soprattutto nel capoluogo Banja Luka. Come ha rilevato il magazine  Buka  , questo aumento ha generato molta frustrazione tra la popolazione della città, già duramente provata dal confinamento. In RS il lockdown è stato applicato più a lungo e con condizioni particolarmente restrittive, accompagnate da annunci precipitosi da parte delle autorità che hanno spesso disorientato i cittadini.

Ciò che ha contribuito a limitare il diffondersi del virus nel paese è stato il senso di responsabilità e di precauzione della popolazione, e la capacità di intervento di alcune strutture sanitarie. Questo è avvenuto nonostante la comprovata malagestione della politica e l’evidente assenza di coordinamento tra i livelli di governo del paese. “Un paese, tre lotte contro la pandemia”, come diceva un’espressione in voga tra i media  in questo periodo. Tutti i principali provvedimenti sono stati presi in totale autonomia dai governi delle entità, i quali poi a seconda della convenienza del momento hanno accusato gli altri di mancanza di collaborazione. Dalle modalità del confinamento agli ordini di materiale dall’estero, dai protocolli sanitari ai controlli delle frontiere, le due entità hanno gestito l’emergenza come stati sovrani separati, in una sorta di “Dayton-plus”.

Tra le vicende più discusse vi è stata quella del carico di 200.000 mascherine e 10.000 tute protettive donato dal governo dell’Ungheria. Inizialmente gli aiuti erano stati destinati alla sola RS, che ne aveva fatto esplicita richiesta a Budapest, approfittando anche della nota sinergia politica tra Viktor Orban e Milorad Dodik  ; ma dopo l’intervento di due ministri statali, quello della Sicurezza Fahrudin Radončić e quella degli Esteri Bisera Turković, che hanno invitato l’ambasciatore ungherese a “ripensare la decisione”, la fornitura è stata infine condivisa tra le due entità.

Respiratori e lamponi
Due grandi scandali stanno concentrando l’attenzione pubblica, gettando ombre inquietanti sulla responsabilità delle istituzioni durante l’emergenza. Il primo riguarda l’acquisto di cento respiratori provenienti dalla Cina, ordinato all’inizio di aprile dalla Protezione civile della Federazione di BiH, un’iniziativa che il governo dell’entità aveva annunciato al pubblico con grande enfasi. Il 27 aprile, un’inchiesta   lanciata dalla giornalista di Fokus.ba  Semira Degirmendžić, poi proseguita da altre testate, svelava una serie di anomalie nell’operazione. Primo: l’acquisto dei respiratori, per una cifra totale di oltre 5 milioni di euro, era avvenuto a prezzi tra le due e le sette volte superiori a quelli di mercato. Secondo: l’ordine era stato gestito da un'azienda agricola di Srebrenica specializzata nella produzione di lamponi, la “Srebrena Malina”, evidentemente priva di alcun legame con l’ambito sanitario e al momento dell’acquisto era priva della licenza necessaria per l’operazione, prima di ottenere una sospetta autorizzazione-lampo. Il titolare della “Srebrena Malina” è Fikret Hodžić, un ex-presentatore tv e scrittore, che fu già al centro di una vicenda molto discussa nel 2016  , quando promosse la commercializzazione di magliette riportanti i simboli del genocidio di Srebrenica.

Ora il caso dei respiratori-lamponi è sotto la lente della procura di Sarajevo e della SIPA, l’Agenzia statale per le indagini speciali, che indagano per riciclaggio e frode negli appalti pubblici. Al vaglio è quindi la posizione del capo della Protezione civile Fahrudin Solak, vicino all’SDA (il partito conservatore bosgnacco, principale forza di maggioranza nella Federazione), del quale parte dell’opposizione e dell’opinione pubblica chiede le dimissioni. Inoltre Solak ha scatenato le proteste   delle associazioni dei giornalisti  , che ne denunciano le gravi pressioni e i tentativi di influenzare la giustizia.

A Sarajevo, nel frattempo, l’asticella della dignità istituzionale era destinata ad abbassarsi ancora di più.

Corona-festa
La sera del 4 maggio, mentre restavano chiusi i luoghi di ritrovo, vietate le concentrazioni e obbligatorie le mascherine anche all’aperto, le pagine online dei media e dei social bosniaci venivano invase dalle foto e dai video di un locale affollato da volti noti, con canti, abbracci, tavole imbandite. Le immagini provenivano dal Golf Klub, un ristorante della Sarajevo facoltosa, e documentavano la presenza di esponenti della politica, dell’economia, dello spettacolo e della sanità a una festa organizzata da un illustre chirurgo della capitale: tra gli altri vi erano il ministro statale del Commercio estero Staša Košarac (poi dimessosi tre giorni dopo per il montare dello scandalo), i popolarissimi cantanti Halid Bešlić e Hadi Varešanović, e persino il dottor Nihad Fejzić, membro del comitato scientifico del Cantone di Sarajevo per l’emergenza Covid19. Quest’ultimo, incalzato al telefono dai giornalisti di Radio Sarajevo  proprio mentre si trovava ancora alla festa, rispondeva con una frase che è già diventata celebre: “Ecco, è arrivata la polizia, ora ci segnaleranno, pagheremo la multa, tutto qui”.

Subito ribattezzata “korona-dernek” (la Corona-festa), la vicenda ha generato un’ondata di indignazione profonda nell’opinione pubblica bosniaca. Molti hanno visto nella corona-festa l’esempio del privilegio, dell’impunità e dell’indifferenza verso il bene pubblico che riguarderebbe una parte significativa dell’élite del paese, del tutto trasversale alle affiliazioni partitiche, religiose ed etniche, come era evidente dai nomi dei partecipanti alla serata. In tempi di sospensione dell’ordinario e di incertezza sanitaria ed economica, non è solo la linea divisoria tra le due entità ad innalzarsi sempre di più. Cresce anche il confine tra i luoghi come il Golf Klub, con le loro leggi straordinarie e le convergenze di interessi e potere, e il resto dei cittadini che in larga parte si sono dimostrati responsabili, per coscienza e per paura che un sistema sanitario male organizzato e oggetto dell’incompetenza della politica non fosse in grado di curarli.

Buone pratiche
Questo panorama è desolante, ma sarebbe altrettanto sbagliato descrivere ciò che accade in Bosnia Erzegovina solo in termini di corruzione, malgoverno, passiva rassegnazione. Ci sono storie di buone pratiche, di attenzione al bene pubblico, di competenze e di proattività, anche se hanno più difficoltà ad emergere e a servire da esempio. Una di queste storie, ben raccontata  su Balkan Insight da Adnan Ćerimagić, è l'efficace gestione della pandemia di coronavirus nel Cantone di Tuzla. Qui le autorità sanitarie sono riuscite ad arrestare il contagio che si era diffuso inizialmente sino ad azzerare la crescita di casi (ormai fermi dal 12 aprile) grazie a test massivi, tracciamento delle infezioni e monitoraggio dei pazienti in isolamento, tutto gestito con un flusso di comunicazione costante e consapevole tra cittadini, personale, vertici istituzionali. Tanto il modello positivo della sanità di Tuzla come le inchieste dei giornalisti e gli effetti dell’indignazione per i recenti scandali mostrano esempi di reattività, sono piccole scorte di energia necessarie per quando, dopo la crisi sanitaria, la Bosnia Erzegovina ricadrà inevitabilmente in quella sociale ed economica, e i confini e le paure di sempre continueranno ad innalzarsi.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.eastjournal.net/archives/105239


--- Citazione ---BULGARIA: Non è un paese per giornalisti
Giorgia Spadoni 4 giorni ago

Per il terzo anno consecutivo la Bulgaria si piazza al 111° posto nell’Indice mondiale della libertà di stampa, stilato dai giornalisti di Reporter senza frontiere (Reporters sans frontières, RSF) su un totale di 180 paesi. Occupando la posizione più bassa di tutta l’UE, la nazione balcanica è superata in negativo solo da Russia, Bielorussia e Turchia in tutto il continente europeo.

A circa un anno e mezzo dal terribile omicidio della reporter investigativa Viktoria Marinova, la libertà di stampa e d’informazione bulgara non dà segni di miglioramento. Il rapporto pubblicato dal Consiglio d’Europa a fine aprile evidenzia il progressivo deterioramento dell’ambiente mediatico del paese.

“La pecora nera dell’Unione europea”

Nel 2019 non si sono registrate vittime tra i giornalisti bulgari. Tuttavia, le pressioni che questi continuano a subire – specie le voci più critiche e autorevoli – sono sintomo dei metodi autoritari alla base del servizio pubblico.

La politica editoriale della Televisione nazionale bulgara (Bălgarska Natsionalna Televizija, BNT) ha assunto toni filogovernativi dopo la nomina del nuovo direttore generale. Il cambio di proprietario dei due colossi privati NOVA Broadcasting Group e BTV Media Group, ha costretto diversi professionisti di spicco al licenziamento.

“Corruzione e collusione tra media, politici e oligarchi sono ampiamente diffuse in Bulgaria”, denuncia RSF. Simbolo di questa deriva insalubre è Delyan Peevski, deputato e oligarca che formalmente possiede due quotidiani, ma in realtà controlla anche un canale televisivo, svariati siti di notizie e una fetta consistente della rete di distribuzione della stampa. Inoltre, il governo bulgaro continua a ripartire fondi europei e pubblici ai media senza alcuna trasparenza.

D’altro canto, la persecuzione giudiziaria delle testate indipendenti si fa sempre più intensa. Condurre inchieste di qualità in Bulgaria non è un’impresa ardua di per sé. La difficoltà per i giornalisti sta nel riuscire a farle pubblicare, attirare l’attenzione dei cittadini e suscitare in essi reazioni. Al contrario, il più delle volte i reporter si scontrano con muri di silenzio e la cecità delle autorità; pedinamenti, diffamazioni e minacce nei casi peggiori.

Tacchini o piccioni addomesticati?

Anche il 2020 non sembra procedere nel migliore dei modi per il giornalismo bulgaro. Il 4 febbraio scorso il presidente Rumen Radev ha revocato la fiducia al governo di Boyko Borisov, a seguito di vari scandali. Il pomeriggio dello stesso giorno il premier, andato a verificare l’andamento dei lavori al collegamento idrico volto ad alleviare la crisi di Pernik, ha trovato ad attenderlo un gruppo di giornalisti. Alle loro richieste di commentare l’intervento di Radev, Borisov ha risposto: “Eccovi qui che accorrete come dei tacchini”, con annessa imitazione del gloglottìo del pennuto in questione.

Proteste e indignazione non si sono fatte attendere, e dopo pochi minuti il primo ministro si è pubblicamente scusato, senza però smettere di fare il verso – letteralmente – ai reporter. La sezione bulgara dell’Associazione dei giornalisti europei (AEŽ) ha subito condannato l’accaduto in un severo comunicato, definendo “piccioni addomesticati” i professionisti asserviti al governo.

Nelle settimane successive si sono susseguiti nuovi attacchi denigratori alla categoria da parte di alti esponenti politici; lo scorso 17 marzo il giornalista investigativo Slavi Angelov è stato brutalmente aggredito sotto casa sua. Il 17 aprile i tre presunti esecutori materiali sono stati arrestati.

Pandemia e disinformazione

I primi quattro casi di Covid-19 in Bulgaria si registrano l’8 marzo. Dopo dodici giorni il parlamento vara finalmente un pacchetto di misure di emergenza, e l’ambiguità di alcune accende dibattiti e critiche, non solo nei cittadini. Lo stesso presidente Radev contesta aspramente la direttiva che avrebbe imposto dai tre ai cinque anni di carcere e una multa da 5.000 a 25.000 euro ai colpevoli di diffondere “informazioni false sulla diffusione delle epidemie”. Per giunta, la misura sarebbe dovuta rimanere in vigore oltre la durata della crisi sanitaria, favorendo un clima di autocensura e repressione.

Il 22 marzo Radev pone il veto su parte delle norme, scatenando l’ira di Borisov. Il veto viene comunque accolto da una maggioranza parlamentare schiacciante già il 23 marzo, al fine di evitare ulteriori ritardi alla messa in atto delle disposizioni.

RSF afferma che il prossimo decennio sarà decisivo per il futuro del mondo dell’informazione. Tra la repressione della libertà d’informazione e le misure governative contro la pandemia esiste un legame diretto, che aggrava le crisi mediatiche esistenti. E la minaccia incombe anche sull’Europa, la regione che finora ha dato la miglior prova in termini di libertà di espressione.
--- Termina citazione ---

Navigazione

[0] Indice dei post

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente

Vai alla versione completa