Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76471 volte)

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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #390 il: Maggio 10, 2020, 23:45:58 pm »
La Bulgaria non è un Paese per nessuno! :lol:
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #391 il: Maggio 12, 2020, 00:00:56 am »
https://www.eastjournal.net/archives/105654

Citazione
BALCANI: Effetto COVID-19, economie in ginocchio
Marco Siragusa 31 minuti ago

Negli ultimi cinque anni, i Balcani Occidentali (Bosnia-Erzegovina, Serbia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania) hanno registrato una crescita annua del PIL di gran lunga superiore alla media europea. Lo scoppio della pandemia di Covid-19 rischia però di cancellare di colpo i progressi raggiunti aggravando ulteriormente i già fragili sistemi economici della regione.

Il rapporto della Banca Mondiale

Nel suo rapporto semestrale pubblicato ad inizio maggio, la Banca Mondiale ha ipotizzato due scenari per i Balcani Occidentali. Le ipotesi sono state elaborate in base ad una valutazione dei problemi strutturali dei singoli paesi, alla possibile durata dell’emergenza e delle misure economiche e sanitarie adottate dai governi.

Il report evidenzia sei punti deboli. Il primo, comune a tutti i paesi, riguarda il mercato del lavoro basato su contratti temporanei, bassi salari e ancora altamente informale. Il secondo problema è legato ai settori economici strategici. Montenegro, Albania e Kosovo risultano fortemente dipendenti dal settore turistico e dall’afflusso della diaspora, a fronte di una scarsissima capacità di esportazione di beni. La chiusura dei confini e le limitazioni ai viaggi rischiano di bloccare quasi del tutto i flussi turistici facendo così mancare entrate fondamentali per i bilanci statali. Dall’altro lato però, Macedonia del Nord, Serbia e Bosnia-Erzegovina, che possono contare su una maggiore esportazione di beni, rischiano di veder ridotta drasticamente la domanda proveniente dall’estero e soprattutto dall’Europa.

Gli altri punti deboli sono: lo scarso margine di manovra fiscale dovuto agli alti debiti pubblici e alle difficoltà di accesso al credito internazionale, ad eccezione di Kosovo e Bosnia sorretti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali; limitate opzioni di politica monetaria; sistemi bancari deboli ed infine l’alta dipendenza dagli Investimenti Diretti Esteri (IDE), attesi anche questi in forte ribasso.

Le misure adottate

Le azioni intraprese dai governi hanno avuto un carattere “emergenziale”, essendo rivolti a limitare gli effetti economici della pandemia nel breve periodo. Tra le misure adottate rientrano i sussidi alle aziende per il pagamento dei salari dei lavoratori, il differimento delle scadenze fiscali e forme di sostegno al reddito per le fasce più povere. L’elevata informalità del mercato del lavoro impedisce però un adeguato accesso alle reti di sicurezza sociale per molti cittadini che restano così esclusi dagli aiuti. Le risorse messe sul piatto dai governi riguardano circa il 2% del PIL, con la sola Serbia che ha impegnato il 6,7% (circa 3,2 miliardi di euro) del proprio prodotto interno.

I due scenari

Il migliore dei due scenari ipotizzati prevede l’allentamento delle misure restrittive per la fine di giugno e una piena ripartenza nella seconda parte dell’anno. Secondo questa ipotesi, il calo medio del PIL dovrebbe attestarsi al 3,1%. Montenegro, Albania e Kosovo dovrebbero far registrare i cali più sostenuti, rispettivamente pari al 5,6%, al 5% e al 4,5%. Questo è dovuto a una riduzione media del 30% dei flussi turistici durante la stagione estiva. Il Kosovo dovrebbe inoltre registrare un crollo del 21,5% degli investimenti, sia pubblici che esteri. Serbia (-2,5%), Macedonia del Nord (-1,4%) e Bosnia-Erzegovina (-3,2%) verranno invece travolte da una riduzione delle esportazioni compresa tra il 6,5% e l’11,5%.

Senza titolo
Andamento del PIL per i Balcani Occidentali
Fonte: World Bank, Western Balkans Regular Economic Report, No.17, Spring 2020
Lo scenario peggiore considera un allentamento delle misure solo a fine agosto e una lenta ripresa a partire dall’ultimo trimestre dell’anno. In tale contesto la diminuzione del PIL complessivo dell’area sarebbe intorno al 5,7%, con il Kosovo che farebbe registrare addirittura un -11,3%. A soffrire maggiormente sarebbero le esportazioni di tutti i paesi con un calo compreso tra il 2,9% della Macedonia del Nord e il 30% dell’Albania.

E per il futuro?

Nonostante i dati, la Banca Mondiale non sembra tenere in considerazione lo scenario più preoccupante: quello di un ritorno della pandemia. Questo scenario rischierebbe di mettere in discussione l’attuale sistema economico globale con conseguenze ancora inimmaginabili. Catastrofismo a parte, questa crisi, a differenza di quella globale del 2008, dovrebbe avere una durata circoscritta. Per il 2021 è prevista infatti una crescita in grado di garantire un recupero pressoché totale delle perdite di quest’anno. Questo dipenderà tanto da fattori interni, come la tenuta politico-economica dei governi – soprattutto quelli a scadenza elettorale come in Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord e alla capacità futura di adottare riforme strutturali – quanto da fattori esterni, come la ripresa economica dei partner europei e le misure adottate dall’Unione europea.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #392 il: Maggio 12, 2020, 00:06:19 am »
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Freedom-House-Serbia-e-Montenegro-non-sono-piu-democrazie

Citazione
Freedom House: Serbia e Montenegro non sono più democrazie

Continua il trend negativo per la democrazia nei Balcani occidentali: l'ultimo rapporto del think-tank americano Freedom House retrocede Serbia e Montenegro da democrazie a “regimi ibridi”, confermando un trend preoccupante. Francesco Martino (OBCT) per il GR di Radio Capodistria [9 maggio 2020]

Per la prima volta dal 2003, Serbia e Montenegro non possono più essere considerate democrazie in senso pieno, ma “regimi ibridi”, segnati da potere autoritario e riforme incomplete. Queste le conclusioni del rapporto annuale di Freedom House sull'Europa orientale, recentemente pubblicato, che conferma il preoccupante arretramento della democrazia nei Balcani occidentali.

Le critiche più dure del think-tank americano sono rivolte alla Serbia – governata ininterrottamente dal 2014 dal presidente Aleksandar Vučić e dal suo Partito progressista serbo. Secondo il rapporto, la maggioranza ha ristretto sempre di più lo spazio per l'opposizione – ridotta oggi ad un impotente boicottaggio delle istituzioni - e governa sempre più spesso attraverso procedure emergenziali, anche prima dello scoppio dell'emergenza coronavirus.

“Il Partito di Vučić abusa della sua maggioranza in parlamento, confondendo le attività del partito con quelle dello stato, facendo pressione sugli elettori e utilizzando misure sociali per comprare consenso”, recita il rapporto. In Serbia situazione sempre più problematica anche per libertà di stampa e restrizione dello spazio di manovra per i governi locali.

Dure critiche anche nei confronti del Montenegro, dove il presidente Milo Đukanović e il suo Partito democratico dei socialisti dominano la scena politica addirittura dal lontano 1991. Qui ad essere sotto accusa è soprattutto il sistema giudiziario, segnato da scandali a ripetizione, sia tra i giudici che nelle procure, ma anche restrizioni alla libertà dei media e il perdurare nel paese di una corruzione endemica.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #393 il: Maggio 19, 2020, 00:49:07 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Mafia-nei-Balcani-tra-omicidi-e-collusioni-col-potere-politico-201820

Citazione
Mafia nei Balcani, tra omicidi e collusioni col potere politico

Due clan montenegrini, quello di Škaljari e quello di Kavač, con forti influenze nel sottobosco criminale dei Balcani sono in guerra. Una corposa e dettagliata inchiesta, svolta da giornalisti di varie testate, ha messo a nudo la fitta rete di intrecci tra potere politico, polizia e criminalità

13/05/2020 -  Stevan Dojčinović,  Bojana Jovanović,  Dejan Milovac,  Svetlana Đokić
(Originariamente pubblicato dal portale KRIK  il 5 maggio 2020)

L’1 gennaio 2018, l’agente della polizia serba Marija Nikolić, in quel momento fuori servizio, stava passeggiando a Kopaonik insieme a due uomini: uno era membro di un’organizzazione criminale montenegrina nota come clan di Kavač e l’altro un hooligan vicino a questo gruppo criminale.

Lo stesso giorno, nove ore più tardi, quel membro del clan di Kavač, Dalibor Baltić, è stato ucciso a Belgrado, colpito da una scarica di proiettili mentre entrava con una Golf 7 nel garage del palazzo in cui viveva nel quartiere di Vračar. Accanto a lui stava seduta Marija Nikolić, questa volta con la divisa. Baltić è stato ucciso nella guerra tra il suo clan e la banda rivale, nota come clan di Škaljari.

Entrambi gli episodi – la passeggiata a Kopaonik e l’omicidio a Belgrado – sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza. Il video dell’omicidio e un’immagine ripresa a Kopaonik, pubblicati in esclusiva da KRIK, rivelano due cose importanti riguardanti la guerra tra due gruppi criminali che dura ormai da anni.

Il video dell’agguato avvenuto nel garage dimostra che gli omicidi spesso vengono eseguiti con una precisione da professionisti. Baltić è stato ucciso da due persone che erano entrate nel garage correndo dietro alla Golf. Prima hanno girato intorno alla macchina e poi hanno sparato: un killer aveva una pistola e l’altro un’arma semiautomatica. Sono stati talmente precisi da riuscire a uccidere Baltić senza sfiorare la poliziotta nemmeno con un proiettile.

La fotografia dell’incontro a Kopanik è una delle poche testimonianze che confermano l’esistenza di un legame tra polizia, criminalità organizzata e hooligan. Uroš Ljubojević, che aveva partecipato all’incontro con la poliziotta e Baltić, è membro del gruppo di ultras “Janjičari” che intrattiene stretti legami con alcuni politici al potere in Serbia.

Marija Nikolić è attualmente sotto processo perché dopo l’omicidio di Baltić aveva preso e nascosto la sua pistola. Nikolić ha raccontato in aula che era sotto shock e che non si era nemmeno resa conto di aver gettato la pistola di Baltić in un cassonetto dell’immondizia tre strade più in là dal luogo in cui era avvenuto l’agguato. Ha detto che quella sera doveva lavorare nel quartiere in cui viveva Baltić, e per questo che era in macchina con lui.

Né il procuratore né il giudice hanno chiesto a Marija Nikolić perché quel giorno fosse andata con Baltić a Kopaonik, situato a circa quattro ore di macchina da Belgrado, per poi tornare con lui nella capitale. Finora non è stato rivelato nulla nemmeno sui legami tra Nikolić e quel membro del gruppo di ultras “Janjičari”.

Baltić è solo uno dei tanti criminali uccisi nella guerra tra il clan di Kavač e quello di Škaljari, che prendono il nome da due frazioni del comune di Kotor, in Montenegro.

I due clan hanno operato insieme, contrabbandando stupefacenti dall’America Latina verso l’Europa, fino al 2014 quando si sono scontrati per la gestione del traffico di cocaina. Uno scontro che sta diventato sempre più acceso e vede coinvolti anche altri gruppi criminali che operano nei Balcani.

I giornalisti di KRIK, insieme ai loro colleghi della Rete per l'affermazione del settore non governativo (MANS) di Podgorica e dell’organizzazione internazionale Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), hanno indagato in modo dettagliato su questa guerra di mafia, in modo da poter ricostruire un quadro completo di questo scontro che ha infiammato i Balcani, per poi diffondersi anche in altri paesi europei.

Durante l’inchiesta, i giornalisti hanno raccolto numerosi documenti ottenuti dalla polizia, dalla procura, da alcuni tribunali e dalla BIA [servizi segreti serbi], e hanno parlato con alcune persone che conoscono bene il panorama della criminalità organizzata nei Balcani. Le informazioni raccolte suggeriscono che la guerra tra il clan di Škaljari e il clan di Kavač ha diviso il sottobosco criminale dei Balcani. Anche alcuni agenti della polizia serba e di quella montenegrina hanno preso posizione in questo scontro, ed entrambi i clan, soprattutto quello di Kavač, intrattengono stretti legami con il potere politico.

Come dimostra un'analisi realizzata dai giornalisti di KRIK e OCCRP sulla base di documenti ufficiali e di informazioni ottenute da varie fonti, dal 2015 ad oggi almeno 41 persone sono state uccise nella guerra tra i due gruppi criminali. Tra le vittime degli scontri, oltre ai criminali, ci sono anche i loro familiari e collaboratori, tra cui un avvocato ed ex deputato del parlamento montenegrino. Ci sono anche delle vittime casuali: un uomo ha perso la vita in una sparatoria avvenuta nel 2018 in un bar a Podgorica in cui è stato ucciso un membro del clan di Kavač. Due anni prima, nel 2016, in un bar a Bečići è stato ucciso un medico serbo che stava seduto vicino ad un criminale che era il vero obiettivo dell’agguato.

La guerra tra due clan si è diffusa anche al di fuori dei Balcani: alcuni omicidi sono stati commessi in Spagna, Germania, Austria, Paesi Bassi e, più recentemente, in Grecia.

L’inchiesta di KRIK ha inoltre rivelato che i criminali legati ai due clan a volte ingaggiano degli stranieri per compiere un omicidio, compresi alcuni mercenari che hanno combattuto in Iraq. Alcuni di questi killer sono stati reclutati tramite la Legione straniera francese.

Nulla illustra meglio il modo in cui due clan montenegrini operano, ingaggiano dei killer, scelgono le loro vittime e compiono omicidi delle testimonianze di alcuni criminali, tra cui un giovane uomo proveniente dal Sudafrica ingaggiato dal clan di Kavač per eseguire un omicidio, e un ex membro del clan di Škaljari, diventato testimone protetto, il quale ha raccontato che era stato pianificato anche l’omicidio – mai portato a termine – del procuratore generale del Montenegro. I giornalisti di KRIK e MANS sono venuti in possesso delle testimonianze che questi due criminali hanno reso alla procura. In questo articolo ne riportiamo alcune parti.

Ascesa e scissione del clan di Škaljari
Prima dello scoppio della guerra di mafia attualmente in corso, in Montenegro c’era solo un clan, quello di Škaljari.

L’ascesa del clan di Škaljari è legata alla caduta di un altro gruppo criminale, molto più noto, dedito al contrabbando di sostanze stupefacenti: il cartello guidato da Darko Šarić. In un rapporto della BIA, di cui i giornalisti di KRIK sono venuti in possesso, il gruppo di Šarić è descritto come “un tempo una delle più potenti organizzazioni criminali nella regione, che comprende diversi gruppi criminali [attivi] sul territorio dell’ex Jugoslavia, con oltre 100 membri, che, tramite cellule operative autonome, sparse in diversi paesi d’Europa e dell’America Latina, hanno operato su scala globale”.

Tuttavia, nel 2009 il cartello di Šarić subì un duro colpo. Un’operazione di polizia internazionale denominata “Balkanski ratnik” [Guerriero balcanico] mise praticamente in ginocchio il gruppo di Šarić, vennero arrestati molti membri del gruppo, e lo stesso Šarić finì in carcere in Serbia. Il processo nei suoi confronti è ancora in corso.

La caduta del clan di Šarić ha aperto ampio spazio per altri gruppi criminali e un clan fino ad allora poco noto, quello appunto di Škaljari, ha approfittato dell’occasione.

“Dopo l’azione ‘Balkanski ratnik’ […] alcuni gruppi criminali hanno preso le redini di una parte delle attività del ‘clan di Šarić’ legate al contrabbando di narcotici”, si legge nel rapporto della BIA.

Poco dopo l’operazione “Balkanski ratnik” è stato ucciso anche uno dei più stretti collaboratori di Šarić, Dragan Dudić, che gestiva gli affari del gruppo di Šarić a Kotor, dove era attivo anche il clan di Škaljari. Dudić è stato ucciso mentre stava seduto con un amico in un bar nella Città vecchia di Kotor. Il suo assassino, Ivan Vračar, è citato nel rapporto della BIA come membro del clan di Škaljari.

Come si legge nel rapporto della BIA, “dopo l’omicidio di Dragan Dudić, soprannominato Fric, membro di spicco del clan di Šarić, avvenuto nel 2010 a Kotor, il clan di Škaljari, guidato da Jovan Vukotić, ha assunto il controllo di gran parte delle attività di Dudić legate all’organizzazione del traffico di narcotici dall’America Latina verso l’Europa”.

Nel rapporto si afferma inoltre che Vukotić “nel 2016 ha organizzato un’azione in cui è stata data alle fiamme la discoteca ‘Maximus’ a Kotor, di proprietà, seppur non ufficialmente, dei fratelli Šarić”.

Mentre si moltiplicavano le accuse sollevate contro i membri del gruppo di Šarić – che per un certo tempo era latitante, per poi finire in carcere in Serbia – , i membri del clan di Škaljari pian piano stavano diventando i nuovi padroni del sottobosco criminale balcanico.

Ma l’ascesa non è durata a lungo.

Nonostante i suoi affari fiorissero, all’interno del clan hanno cominciato a sorgere dei dissidi.

“[Stavano diventando] sempre più frequenti gli scontri tra correnti contrapposte all’interno del clan di Škaljari sulla ripartizione delle risorse finanziarie ottenute illegalmente”, si afferma nel rapporto della BIA.

Secondo la BIA e alcune persone che conoscono bene le dinamiche criminali, la tensione tra gruppi contrapposti ha raggiunto l’apice nel 2014 a seguito di una lite sulla spartizione della cocaina, avvenuta a Valencia, in Spagna.

I vertici del clan di Škaljari hanno trovato, in un magazzino che avevano preso in affitto a Valencia, 200 chilogrammi di cocaina di cui non conoscevano la provenienza. A nascondere la droga nel magazzino – come emerso in seguito – erano stati alcuni dei loro collaboratori, e i leader del clan, per punirli, si sono impossessati della droga.

Dopo questo episodio la parte danneggiata, cioè il gruppo che è stato privato del bottino, si è separato dal clan di Škaljari.

“Così è nato il clan di Kavač, guidato da Slobodan Kašćelan e Radoje Zvicer”, si legge nel rapporto della BIA.

“Dopo questo episodio riguardante la cocaina, [i membri dei due clan] sono diventati paranoici, temendo di essere attaccati dal gruppo rivale”, ha raccontato ai giornalisti di KRIK una persona ben informata della vicenda. “Alcune persone non appartenenti a nessuno dei due gruppi hanno alimentato questa paranoia, tifando affinché i due clan si scontrassero tra loro”.

Poco dopo quell’episodio, all’inizio del 2015, a Belgrado è stato ucciso uno degli esponenti di spicco del clan di Škaljari, Goran Radoman. Il suo omicidio ha segnato l’inizio della guerra tra i due clan, conflitto che ha già portato via decine di vite e continua a infuriare.

Carneficina balcanica
Si sa con certezza che almeno 41 persone sono state uccise nella guerra tra due clan rivali, ma – come dimostra l’analisi condotta dai giornalisti di KRIK e OCCRP – il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

Dalla documentazione raccolta emerge che gran parte degli omicidi è stata eseguita con professionalità e precisione, come nel caso dell’omicidio di Baltić, avvenuto nel garage sotterraneo a Belgrado. Alcune delle vittime sono state uccise a colpi di pistola o un’altra arma automatica, mentre altre sono morte nell’esplosione di un’autobomba o di un ordigno nascosto lungo la strada. In almeno due casi, gli assassini hanno usato un fucile di precisione.

Il caso più incredibile è quello dell’omicidio di un criminale ucciso con un fucile di precisione mentre si trovava in carcere.

Nel settembre 2016, Dalibor Đurić, membro del clan di Škaljari, condannato per estorsione, stava passeggiando nel cortile del carcere di Spuž quando è stato colpito al petto da un proiettile sparato da un fucile di precisione. L’assassino lo aspettava nascosto sulla riva destra del fiume Zeta che serpeggia intorno al carcere di Spuž, situato a una quindicina di chilometri da Podgorica.

L’automobile usata dall’assassino per arrivare e fuggire dal luogo da cui aveva sparato è stata trovata bruciata, insieme all’arma utilizzata per compiere l’omicidio. Due uomini che hanno dato alle fiamme l’automobile e hanno aiutato l’assassino a fuggire sono stati condannati in primo grado. Durante il processo non hanno voluto rivelare l’identità dell’assassino.

Un’altra novità introdotta da questi gruppi criminali consiste nell’uso di maschere in silicone durante gli agguati. Queste maschere, che riproducono il volto umano e possono trarre in inganno gli agenti di polizia, sono state ritrovate in più occasioni dalla polizia montenegrina.

I membri dei due clan hanno più volte ingaggiato dei killer, professionisti o dilettanti, a seconda del tipo di vittima e della modalità di esecuzione dell’omicidio. Hanno reclutato in più occasioni anche cittadini stranieri, tra cui – come hanno scoperto i giornalisti di KRIK – c’erano anche alcuni militari professionisti, cioè i mercenari.

La testimonianza più dettagliata di questa prassi è quella di Gregory Michael Ferraris, un giovane uomo proveniente dal Sudafrica, reclutato nel 2015 dal clan di Kavač per compiere un omicidio. Ferraris all’epoca aveva 24 anni.

Gregory Ferraris è stato arrestato prima di compiere l’omicidio per il quale era stato ingaggiato. La testimonianza resa da Ferraris al procuratore montenegrino – di cui KRIK è venuto in possesso – ci consente di comprendere il modo in cui i due clan montenegrini reclutano i killer e con quanta precisione pianificano gli omicidi.

Ferraris aveva conosciuto Aleksandar Marković, membro del clan di Kavač e militare professionista, in Francia, dove entrambi avevano fatto domanda per entrare nella Legione straniera francese.

“Non ci hanno fatto entrare, io [non sono stato ammesso] a causa del mio passato non proprio limpido, perché consumavo cocaina”, ha raccontato Ferraris alla procura.

Mentre era in un centro di reclutamento della Legione straniera a Parigi Ferraris aveva conosciuto un mercenario americano appena rientrato dall’Iraq, che su un braccio aveva un tatuaggio che recitava: “ISIS Hunting Club” [Club di cacciatori di miliziani dell’Isis], mentre su una spalla aveva un tatuaggio raffigurante un cranio umano con i colori della bandiera francese, e sull’altra spalla un tatuaggio della bandiera americana. Ferraris ha raccontato che Marković gli aveva detto che i membri del clan di Kavač avevano ingaggiato quel mercenario americano per eseguire un omicidio piuttosto complicato.

“Io non ero adatto per compiere quell’omicidio, perché loro avevano bisogno di persone appositamente addestrate, cioè in grado di entrare silenziosamente in casa, compiere silenziosamente l’omicidio e lasciare nello stesso modo il luogo del delitto”, ha raccontato Ferraris, che prima di tentare di arruolarsi nella Legione straniera lavorava come istruttore di fitness.

Alla fine Ferraris era stato ingaggiato dal clan di Kavač per un incarico meno impegnativo.

Un mese dopo essersi conosciuti, Marković aveva offerto a Ferraris 50.000 euro per compiere un omicidio.

“Avevo accettato la proposta di Aleksandar di unirmi a loro e di eseguire un omicidio perché ero rimasto completamente senza soldi”, si legge nella dichiarazione che Ferraris ha reso alla procura.

Ferraris ha raccontato che i membri del clan di Kavač gli avevano comprato un biglietto aereo per Belgrado, dove si era incontrato con Marković. Da lì avevano preso un treno per raggiungere un piccolo paese situato vicino al confine tra Serbia e Montenegro.

“Prima della frontiera, io e Aleksandar siamo scesi dal treno, e poi ci siamo separati. Marković è salito su una macchina ed è andato in Montenegro”.

Ferraris invece è entrato in Montenegro illegalmente: ha attraversato il confine a piedi accompagnato da una guida. Una volta entrato nel territorio del Montenegro, alcuni membri del clan di Kavač sono venuti a prenderlo con quella stessa macchina su cui era salito Marković, ma prima di raggiungere la loro destinazione finale, Budva, hanno più volte cambiato auto.

Una volta arrivati a Budva i membri del clan di Kavač hanno sistemato Ferraris in un appartamento dicendogli di aspettare il via libera per uccidere il suo bersaglio, Goran Đuričković, membro del clan di Škaljari e proprietario del ristorante “The Old Fisherman’s Pub” situato sul lungomare di Budva.

“Aleksandar Marković mi ha detto che il proprietario di quel ristorante e alcuni uomini del suo entourage erano stati direttamente coinvolti nel furto di 200 kg di cocaina”, ha raccontato Ferraris riferendosi all’episodio accaduto a Valencia. “Mi ha detto di sparargli almeno cinque colpi per essere sicuro di averlo ucciso e per lanciare un avvertimento con il suo omicidio a tutti quelli che in Montenegro si occupano del traffico di droga”.

Marković gli ha inoltre detto che, una volta ucciso Đuričković, il clan di Kavač avrebbe “iniziato una guerra contro tutti quelli che in Montenegro sono coinvolti negli affari legati alla droga”.

Mentre stava aspettando di portare a termine quell’omicidio, Ferraris è stato ingaggiato dal clan di Kavač per compiere un altro lavoro, ovvero per acquistare due moto. “[Dopo l’omicidio] un uomo avrebbe dovuto portarmi su una moto in un nascondiglio nelle montagne […]. [La seconda moto] avrebbe dovuto essere usata nel successivo lavoro, al quale io non dovevo partecipare”, ha affermato Ferraris.

Dopo l’acquisto di una moto, Ferraris ha visto un uomo scendere da un’automobile color argento e salire su quella moto. Marković gli ha presentato quell’uomo come “capo della mafia montenegrina”.

“Marković mi ha detto che io e lui lavoriamo per quella persona e che quella persona aveva ordinato l’omicidio del proprietario del ristorante”, ha raccontato Ferraris aggiungendo: “In quell’occasione [Marković] mi ha detto che il capo della mafia montenegrina vive nella città vecchia di Kotor e che appartiene a una delle famiglie più ricche del Montenegro”.

In attesa del via libera per commettere l’omicidio, che stava diventando sempre più lunga, Ferraris ha iniziato ad avere dei ripensamenti.

“Ho pensato di mollare tutto. Ma non ne ho parlato con loro, perché mi è stato detto che una persona aveva deciso di non compiere un omicidio pianificato in precedenza, e poi loro hanno ucciso quella persona”, ha affermato Ferraris.

Ferraris non ha mai compiuto l’omicidio per il quale era stato ingaggiato. È stato fermato dalla polizia mentre guidava una BMW e gli agenti hanno notato un dettaglio strano, ovvero il fatto che Ferraris indossava guanti chirurgici. È stato arrestato perché non aveva con sé nessun documento d’identità, poi è anche emerso che la macchina che guidava aveva targhe false. A quel punto Ferraris ha deciso di raccontare tutto alla polizia.

Nel processo Ferraris è stato difeso Borivoje Borović, noto avvocato belgradese, che gli ha consigliato di revocare la dichiarazione resa alla procura. Durante il processo non ha rivelato l’identità di nessuno dei membri del clan di Kavač coinvolti nella vicenda. Ferraris è stato condannato a cinque anni di reclusione, mentre ad Aleksandar Marković, che lo aveva reclutato, è stata comminata una pena di sei anni di reclusione.

Goran Đuričković è sfuggito alla morte, grazie all’arresto di Ferraris, ma non per molto: è stato ucciso cinque mesi più tardi da un proiettile sparato da un fucile di precisione mentre si trovava nel suo ristorante. Dopo essere stato colpito dal proiettile, Đuričković è caduto in mare.

Secondo la procura montenegrina, l’omicidio di Đuričković è stato compiuto da un tiratore proveniente dalla Republika Srpska, Srđan Popović che è accusato di aver sparato a Đuričković dalle mura della città vecchia di Budva.

A giudicare dalla dichiarazione resa alla polizia dopo l’omicidio del suo padrino ed ex deputato del parlamento montenegrino Saša Marković, Đuričković sapeva di essere nel mirino del clan di Kavač. Ha detto alla polizia che era possibile che Marković fosse stato ucciso perché era legato a lui, aggiungendo di essere consapevole delle tensioni suscitate dall’episodio di Valencia e del fatto che il suo nome veniva citato in riferimento a quella vicenda.

Un’altra testimonianza, oltre a quella di Ferraris, ci ha aiutato a capire meglio come i clan montenegrini pianificano gli omicidi dei loro rivali. Si tratta della dichiarazione di un testimone di giustizia il cui nome in codice è Jadranko Jonski. Jonski, che era membro del gruppo di Ranko Radulović, vicino al clan di Škaljari, ha spiegato alla procura montenegrina come operano i due clan rivali. La sua testimonianza ha contribuito ad arrivare alle condanne di molti membri dei due gruppi criminali.

Jonski ha raccontato che i due clan avevano raggiunto un accordo per uno “scambio di alibi”, cioè – come si legge nei documenti del tribunale – “il collaboratore di giustizia [Jonski] avrebbe dovuto compiere un omicidio per conto del clan di Škaljari, mentre gli uomini del clan di Škaljari avrebbero dovuto compiere un omicidio per contro del gruppo di Radulović”.

Jonski ha raccontato che i bersagli di questi omicidi erano alcuni “nemici” del clan di Škaljari, cioè “persone che operavano contro il clan”. Inoltre, il gruppo di Radulović – come ha spiegato Jonski – raccoglieva informazioni, per conto del clan di Škaljari, sui movimenti di Slobodan Kašćelan, leader del clan rivale, quello di Kavač. Stando alle parole di Jonski, il clan di Škaljari aveva pianificato l’omicidio di Kašćelan, senza però portarlo a termine.

Man mano che lo scontro tra i due clan rivali si acuiva, i loro membri stavano diventando sempre più audaci nel compiere omicidi pianificati.

Jonski ha raccontato che avevano persino pianificato l’assassinio del procuratore speciale del Montenegro Milivoje Katnić.

“Ranko Radulović ha detto che, se non dovessero riuscire a uccidere Katnić, potrebbero uccidere suo figlio, che non bada ai propri movimenti, passa la maggior parte del tempo con la sua ragazza ed è un bersaglio facile”, ha affermato Jonski.

Jonski ha inoltre raccontato che un membro del gruppo di Radulović gli aveva confidato di aver partecipato all’omicidio di un calciatore montenegrino.

Nel settembre 2017, il calciatore Goran Lenac, vicino al clan di Kavač, stava facendo flessioni nello stadio di Kotor quando era stato avvicinato da Nikola Mršić che gli aveva sparato uccidendolo. Mršić era fuggito dal luogo del delitto e, dopo tre anni di latitanza, è stato arrestato nel marzo di quest'anno.

In cerca di alleati in Serbia
Con il passare del tempo la guerra tra due clan montenegrini si è diffusa, come c’era da aspettarsi, anche in Serbia, dove entrambi i gruppi erano alla ricerca di alleati.

“Gli interessi di entrambi i clan criminali di Kotor, in conflitto tra loro, gravitano intorno alla Serbia. Negli ultimi decenni la mafia montenegrina è stata molto attiva sul territorio della Serbia, dove esercita una forte influenza sulle dinamiche interne all’ambiente malavitoso”, si legge in un rapporto della BIA del 2018.

“Delle dimensioni raggiunte dallo scontro tra il clan di Škaljari e il clan di Kavač testimoniano anche alcune informazioni secondo cui [negli ultimi anni] all’interno dell’ambiente criminale montenegrino e quello serbo si sarebbero verificate scissioni di non poco conto.”, si afferma nel rapporto della BIA di cui i giornalisti di KRIK e OCCRP hanno preso visione.

“Quasi tutti i gruppi criminali di un certo rilievo – si legge ancora nel rapporto – si sono schierati dalla parte dell’una o dell’altra di queste due organizzazioni criminali contrapposte”.

Il più importante partner del clan di Škaljari in Serbia è il gruppo guidato da Filip Korać, definito dalla BIA come “uno dei più pericolosi gruppi criminali che opera a livello internazionale”. Korać ha assunto la guida del gruppo dopo l’arresto del suo capo, Luka Bojović, avvenuto in Spagna nel 2012.

Il clan di Kavač, dal canto suo, ha trovato un alleato nel gruppo di ultras “Janjičari” che ha stretti legami con il potere politico in Serbia.

La politicizzazione del tifo
Gli ultras giocano un ruolo importante nel panorama criminale dei Balcani.

Sono inclini alla violenza e, oltre ad appoggiare alcune squadre di calcio, sono dediti alla vendita di stupefacenti. Inoltre, sono disposti a fornire appoggio a diversi gruppi criminali nella loro lotta per il controllo del territorio. Come ha rivelato l’inchiesta condotta dai giornalisti di KRIK e OCCRP, i gruppi di hooligan serbi sono legati, oltre che ai clan criminali, anche ad alcuni politici serbi.

Qualche anno fa il clan di Kavač aveva reclutato un gruppo di ultras grazie al quale aveva instaurato uno stretto rapporto con alcuni rappresentanti del potere in Serbia. All’epoca dei fatti il leader di questo gruppo, noto col nome di “Janjičari”, era Aleksandar Stanković, soprannominato Sale Mutavi, ucciso nell’ottobre del 2016.

Una rappresentazione grafica della struttura del clan di Kavač realizzata dalla polizia serba – di cui i giornalisti di KRIK sono venuti in possesso – illustra meglio di qualsiasi altra cosa gli stretti legami esistenti tra questo clan montenegrino e gruppi di hooligan serbi. Nell’organigramma in questione Aleksandar Stanković e i suoi collaboratori sono definiti come membri del clan di Kavač.

Stanković intratteneva stretti rapporti anche con i vertici della polizia serba. Era molto vicino a Nenad Vučković Vučko, uno dei membri di spicco della Gendarmeria.

Stanković e Vučković sono stati più volte fotografati insieme tra i tifosi durante le partite di calcio.

Esistono anche alcune prove che attestano l’esistenza di legami tra “Janjičari” e alcuni politici di spicco.

Come già rivelato da KRIK, uno dei membri del gruppo di Stanković era stato ingaggiato per garantire la sicurezza durante la cerimonia di insediamento di Aleksandar Vučić come nuovo presidente della Repubblica nel 2017, quando alcuni cittadini e giornalisti erano stati allontanati con forza dall’evento.

Il figlio del presidente Vučić, Danilo Vučić, è un amico di Aleksandar Vidojević, meglio noto come Aca Rošavi, uno dei membri di spicco del gruppo “Janjičari”. Vidojević è inserito nella banca dati della polizia serba come membro del clan di Kavač.

La vicinanza tra Aleksandar Vidojević e Danilo Vučić è testimoniata anche da alcune foto che li ritraggono insieme, scattate in diverse occasioni e in diversi periodi. Così, ad esempio, ai Mondiali di calcio 2018 in Russia, Vidojević e Danilo Vučić hanno tifato insieme durante la partita tra Serbia e Costa Rica. Poi nel gennaio di quest'anno sono stati fotografati insieme a Banja Luka durante la celebrazione del Giorno della Republika Srpska. I giornalisti di KRIK e OCCRP sono venuti in possesso anche di una fotografia, mai pubblicata finora, che ritrae Danilo Vučić mentre abbraccia Vidojević in un locale notturno. Non siamo riusciti però a scoprire quando è stata scattata questa fotografia.

Il gruppo di Stanković e il presidente Aleksandar Vučić sono legati anche tramite Novak Nedić. Nedić era segretario generale del governo serbo all’epoca in cui Vučić era primo ministro. In quel periodo - stando ad una denuncia sporta dal sindacato dell’esercito serbo – Nedić e Stanković spesso si esercitavano insieme al tiro a segno in un poligono di tiro militare. Lo studio legale del padre di Novak Nedić, Vojislav Nedić, ha difeso alcuni membri del gruppo “Janjičari”.

L’entrata dello stato serbo nella guerra di mafia
Tenendo conto dei legami che Stanković aveva avuto con la polizia e con il potere politico, la reazione della leadership serba al suo omicidio diventa più comprensibile.

Stankovic è stato ucciso nell’ottobre 2016 a Belgrado, mentre saliva su un’Audi A6 dopo un allenamento in palestra. Nessuno è mai stato condannato per il suo omicidio, nonostante in un rapporto della BIA si affermi che dietro al delitto vi sarebbe il clan di Škaljari.

Il giorno dopo l’assassinio di Stanković il ministro dell’Interno serbo Nebojša Stefanović ha convocato una conferenza stampa in cui ha affermato: “Dichiariamo guerra alla mafia ed entriamo in questa guerra senza esitazioni né riserve”.

Invece di avviare una lotta non selettiva alla criminalità organizzata, lo stato ha dichiarato una guerra che sembra essere diretta solo contro una parte dell’ambiente criminale. In Serbia non è mai stato arrestato nessun membro di spicco del clan di Kavač. La polizia ha infatti focalizzato la sua attenzione sull’arresto dei membri del clan di Škaljari e dei loro collaboratori appartenenti al gruppo guidato da Filip Korać.

Negli ultimi anni la polizia serba ha arrestato diversi membri del clan di Škaljari, vantandosi dei propri successi sui media. Dieci membri del gruppo di Škaljari sono stati arrestati nel ristorante “Durmitor” a Belgrado, di cui due sono stati condannati per aver portato armi da fuoco senza licenza dell’autorità. Alcuni membri dello stesso clan sono stati condannati per estorsione nel cosiddetto "caso Havana". Recentemente è stato arrestato anche Marjan Vujačić, sospettato di aver compiuto alcuni omicidi per conto del clan di Škaljari. Qualche anno fa era stata aperta anche un'inchiesta contro Filip Korać, sospettato di essere coinvolto in un omicidio, ma il processo è stato sospeso.

Alla domanda dei giornalisti di KRIK sul perché vengano arrestati solo i criminali appartenenti ad un clan, il ministro Stefanović ha risposto che “in Serbia il clan di Škaljari è più attivo” del clan di Kavač.

“Se loro sono in cento, e quegli altri in cinque, è ovvio che arresteremmo quelli che sono più numerosi”, ha dichiarato il ministro.

Anche i media filogovernativi in Serbia hanno dato più spazio alle notizie riguardanti i membri del clan di Škaljari e del gruppo di Korać rispetto a quelle riguardanti i loro rivali. I criminali legati al clan di Škaljari compaiono spesso sulle prime pagine dei tabloid serbi, che hanno persino affermato che questo gruppo criminale starebbe organizzando l’omicidio del presidente Vučić. “Vogliono la testa di Vučić”, ha titolato recentemente il tabloid Srpski telegraf.

In Serbia è stato avviato anche un procedimento penale a carico del leader del clan di Škaljari Jovan Vukotić.

Vukotic è stato arrestato due anni fa in Turchia, per poi essere estradato in Serbia, dove è finito sotto processo per aver viaggiato con un falso passaporto macedone. Durante il processo ha raccontato di aver usato un passaporto falso perché la polizia montenegrina vendeva informazioni sui suoi movimenti ai suoi nemici.

“Ogni volta che mi reco sul territorio di un altro paese la polizia montenegrina, ovvero alcuni funzionari di polizia, ne vengono informati. Loro vendevano informazioni sui miei movimenti ai gruppi criminali, ed è per questo che una volta sono sfuggito alla morte per un pelo”, ha raccontato Vukotić in aula.

In Montenegro invece è in corso un processo penale nei confronti dell’ex vicecomandante della polizia municipale di Kotor Zlatko Samardžić, sospettato di aver rivelato informazioni riservate ai membri del clan di Kavač.

“Verrò a prendere lo sciroppo”, così recitava il messaggio che Samardžić inviava via Viber ai membri del clan di Kavač per avvertirli che la polizia stava per perquisire i loro appartamenti. Nell’atto di accusa contro Samardžić – di cui MANS è venuto in possesso – si legge inoltre che, dopo l’arresto di due criminali, Samardžić aveva aperto le finestre delle loro celle per consentire loro di parlare e di “mettersi d’accordo su come difendersi”.

Nel febbraio 2020 il leader del clan di Škaljari Jovan Vukotić è stato estradato dalla Serbia in Montenegro, dove è indagato per il tentato omicidio di alcuni membri del clan di Kavač e della moglie del leader di questo clan. Poco prima dell’estradizione, mentre si trovava in un carcere serbo, Vukotić è stato vittima di un tentato omicidio da parte di alcuni criminali, che hanno cercato di ucciderlo con cibo avvelenato. La prima a darne notizia è stata l’emittente televisiva N1.

Caduta del clan di Škaljari
Oltre alle pressioni a cui è sottoposto da parte della polizia, il clan di Škaljari sta subendo duri colpi anche da parte dei suoi rivali.

Di fronte a tali minacce, alcuni membri del clan hanno deciso di andarsene dai Balcani e cercare rifugio in altri paesi europei. Ma non tutti sono riusciti a fuggire.

Gli omicidi di esponenti del clan di Škaljari continuano a susseguirsi in Spagna, Germania, Austria, Olanda e, più recentemente, in Grecia.

Il clan ha subito un duro colpo nel gennaio di quest’anno, quando, in un ristorante ad Atene, sono stati uccisi due dei suoi esponenti di spicco, Stevan Stamatović, sospettato di aver ucciso Sale Mutavi, e Igor Dedović che guidava il clan, insieme a Vukotić.

Un necrologio dedicato a Dedović apparso sulla stampa montenegrina, probabilmente scritto da Vukotić, recitava: “Padrino, la tua morte ci dà ancora più forza per persistere”.

Sembra che la morte di Dedović e l’arresto di Vukotić abbiano fortemente indebolito il clan di Škaljari, creando un vuoto.

Un vuoto che potrebbe essere colmato da Filip Korać con il suo potente gruppo criminale. Al momento non si sa dove si trovi Korać, che negli ultimi anni era latitante perché oggetto di un mandato d’arresto emesso dalla Serbia. Un’indagine avviata nei confronti di Korać per sospetto coinvolgimento in un omicidio recentemente è stata archiviata, fatto che ha suscitato l’ira del presidente Vučić che nel gennaio di quest’anno aveva definito Korać come "uno degli uomini più pericolosi nel paese".

Anche i membri del clan di Kavač si scontrano con varie difficoltà.

Slobodan Kašćelan, uno dei leader del clan di Kavač, è stato arrestato nel dicembre 2018 in Repubblica Ceca sulla base di un mandato di cattura internazionale emesso dalle autorità montenegrine, per poi essere estradato in Montenegro. Kašćelan attualmente è sotto processo con l’accusa di aver organizzato un gruppo criminale. Alla fine del 2019 è stato rilasciato dal carcere su cauzione, depositando, a titolo di garanzia, un patrimonio pari a 500mila euro, ma il giudice gli ha vietato di allontanarsi da Kotor.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #394 il: Maggio 19, 2020, 00:51:58 am »
https://www.eastjournal.net/archives/105654

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BALCANI: Effetto COVID-19, economie in ginocchio
Marco Siragusa 6 giorni ago

Negli ultimi cinque anni, i Balcani Occidentali (Bosnia-Erzegovina, Serbia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania) hanno registrato una crescita annua del PIL di gran lunga superiore alla media europea. Lo scoppio della pandemia di Covid-19 rischia però di cancellare di colpo i progressi raggiunti aggravando ulteriormente i già fragili sistemi economici della regione.

Il rapporto della Banca Mondiale

Nel suo rapporto semestrale pubblicato ad inizio maggio, la Banca Mondiale ha ipotizzato due scenari per i Balcani Occidentali. Le ipotesi sono state elaborate in base ad una valutazione dei problemi strutturali dei singoli paesi, alla possibile durata dell’emergenza e delle misure economiche e sanitarie adottate dai governi.

Il report evidenzia sei punti deboli. Il primo, comune a tutti i paesi, riguarda il mercato del lavoro basato su contratti temporanei, bassi salari e ancora altamente informale. Il secondo problema è legato ai settori economici strategici. Montenegro, Albania e Kosovo risultano fortemente dipendenti dal settore turistico e dall’afflusso della diaspora, a fronte di una scarsissima capacità di esportazione di beni. La chiusura dei confini e le limitazioni ai viaggi rischiano di bloccare quasi del tutto i flussi turistici facendo così mancare entrate fondamentali per i bilanci statali. Dall’altro lato però, Macedonia del Nord, Serbia e Bosnia-Erzegovina, che possono contare su una maggiore esportazione di beni, rischiano di veder ridotta drasticamente la domanda proveniente dall’estero e soprattutto dall’Europa.

Gli altri punti deboli sono: lo scarso margine di manovra fiscale dovuto agli alti debiti pubblici e alle difficoltà di accesso al credito internazionale, ad eccezione di Kosovo e Bosnia sorretti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali; limitate opzioni di politica monetaria; sistemi bancari deboli ed infine l’alta dipendenza dagli Investimenti Diretti Esteri (IDE), attesi anche questi in forte ribasso.

Le misure adottate

Le azioni intraprese dai governi hanno avuto un carattere “emergenziale”, essendo rivolti a limitare gli effetti economici della pandemia nel breve periodo. Tra le misure adottate rientrano i sussidi alle aziende per il pagamento dei salari dei lavoratori, il differimento delle scadenze fiscali e forme di sostegno al reddito per le fasce più povere. L’elevata informalità del mercato del lavoro impedisce però un adeguato accesso alle reti di sicurezza sociale per molti cittadini che restano così esclusi dagli aiuti. Le risorse messe sul piatto dai governi riguardano circa il 2% del PIL, con la sola Serbia che ha impegnato il 6,7% (circa 3,2 miliardi di euro) del proprio prodotto interno.

I due scenari

Il migliore dei due scenari ipotizzati prevede l’allentamento delle misure restrittive per la fine di giugno e una piena ripartenza nella seconda parte dell’anno. Secondo questa ipotesi, il calo medio del PIL dovrebbe attestarsi al 3,1%. Montenegro, Albania e Kosovo dovrebbero far registrare i cali più sostenuti, rispettivamente pari al 5,6%, al 5% e al 4,5%. Questo è dovuto a una riduzione media del 30% dei flussi turistici durante la stagione estiva. Il Kosovo dovrebbe inoltre registrare un crollo del 21,5% degli investimenti, sia pubblici che esteri. Serbia (-2,5%), Macedonia del Nord (-1,4%) e Bosnia-Erzegovina (-3,2%) verranno invece travolte da una riduzione delle esportazioni compresa tra il 6,5% e l’11,5%.

Senza titolo
Andamento del PIL per i Balcani Occidentali
Fonte: World Bank, Western Balkans Regular Economic Report, No.17, Spring 2020
Lo scenario peggiore considera un allentamento delle misure solo a fine agosto e una lenta ripresa a partire dall’ultimo trimestre dell’anno. In tale contesto la diminuzione del PIL complessivo dell’area sarebbe intorno al 5,7%, con il Kosovo che farebbe registrare addirittura un -11,3%. A soffrire maggiormente sarebbero le esportazioni di tutti i paesi con un calo compreso tra il 2,9% della Macedonia del Nord e il 30% dell’Albania.

E per il futuro?

Nonostante i dati, la Banca Mondiale non sembra tenere in considerazione lo scenario più preoccupante: quello di un ritorno della pandemia. Questo scenario rischierebbe di mettere in discussione l’attuale sistema economico globale con conseguenze ancora inimmaginabili. Catastrofismo a parte, questa crisi, a differenza di quella globale del 2008, dovrebbe avere una durata circoscritta. Per il 2021 è prevista infatti una crescita in grado di garantire un recupero pressoché totale delle perdite di quest’anno. Questo dipenderà tanto da fattori interni, come la tenuta politico-economica dei governi – soprattutto quelli a scadenza elettorale come in Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord e alla capacità futura di adottare riforme strutturali – quanto da fattori esterni, come la ripresa economica dei partner europei e le misure adottate dall’Unione europea.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #395 il: Maggio 19, 2020, 00:53:36 am »
https://www.eastjournal.net/archives/105818

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BULGARIA: Un’altra democrazia sacrificata al Covid-19?
Raffaele Mastrorocco 2 giorni ago

L’emergenza covid-19 sembra aver accelerato la deriva autoritaria di alcuni Paesi offrendo ai governi la possibilità di prendere misure straordinarie volte ad aumentare il controllo sulle istituzioni. Esempio lampante sono i casi di Polonia e Ungheria, che rappresentano un campanello d’allarme per i sistemi democratici di altri Stati membri dell’UE ritenuti da sempre più fragili rispetto a quelli dei due Paesi Visegrad, come ad esempio la Bulgaria. Anche Sofia ha adottato una serie di misure di emergenza che potenzialmente minano il funzionamento della democrazia e ledono i diritti dei cittadini. E’ davvero l’ennesimo colpo fatale inferto alla democrazia, o si tratta di “semplici” misure transitorie dettate dalla straordinarietà del caso?

Il coronavirus e le misure bulgare

Attualmente, la Bulgaria è tra i Paesi dell’Ue meno colpiti dal coronavirus con 1955 casi registrati, ma che non ha ancora raggiunto il picco dei contagi secondo l’European center for disease control. Prima dei due casi di covid-19 registrati l’8 marzo, il governo bulgaro ha cercato di non farsi trovare impreparato adottando misure preventive quali il divieto di eventi culturali pubblici al chiuso. Inoltre, già a fine febbraio risale l’istituzione del Consiglio d’emergenza nazionale capitanato dal generale del servizio sanitario militare Ventsislav Mutafchiyski, incaricato di monitorare e dirigere le operazioni per il contenimento della diffusione del virus nei confini nazionali.

Probabilmente consapevole dell’incapacità del sistema sanitario bulgaro di far fronte alla pandemia, il primo ministro Borisov non ha atteso che i casi aumentassero ulteriormente per adottare misure più restrittive. Il 13 marzo il parlamento ha votato all’unanimità lo stato di emergenza: è stata imposta la quarantena obbligatoria a chi fa ritorno da Paesi che registravano casi di covid-19, la chiusura di bar, pub e ristoranti e quella di scuole e università. Sebbene la gestione della crisi abbia peccato di disorganizzazione – specialmente per quanto riguarda l’obbligo delle mascherine in pubblico, le difficoltà per la digitalizzazione dell’educazione scolastica e la carenza di strumenti adatti alla diagnosi del virus e protezione dal contagio del personale medico –  le preoccupazioni sulle misure applicate non riguardano tanto la loro efficacia quanto gli effetti collaterali sul sistema democratico del Paese. L’ufficio del Procuratore ha assunto un ruolo sempre più importante nella gestione della crisi, limitando anche la libertà di parola. È infatti singolare il caso dei due dottori di un ospedale di Plovdiv che, dopo aver scritto una lettera alle autorità locali lamentando la mancanza di attrezzature adatte contro il covid-19, sono stati indagati dalla procura per aver diffuso il panico.

Le critiche non sono mancate anche da parte del presidente bulgaro Radev. Il 22 marzo, questi ha imposto il veto su una proposta di legge sulle misure e azioni da adottare durante lo stato di emergenza a causa della definizione troppo vaga di ‘fake news’. Secondo il presidente, l’assenza di una definizione ben precisa del termine avrebbe lasciato spazio a un’ulteriore deterioramento della libertà di stampa nel Paese, che per il terzo anno consecutivo si piazza al 111° posto nell’Indice mondiale  di Reporter senza frontiere. Il giorno seguente, per accelerare la risposta alla crisi, il parlamento vota con una maggioranza schiacciante la proposta di legge del governo rivista. La legge, entrata in vigore retroattivamente al 13 marzo, apre però un vuoto legislativo non indifferente in quanto la costituzione bulgara non definisce chiaramente il concetto di stato di emergenza, lasciando quindi spazio a eventuali ritorsioni su questioni riguardanti diritti umani e stato di diritto. Inoltre, introduce la possibilità per le forze di polizia di richiedere e ottenere dagli operatori telefonici dati sensibili come posizione geografica, cronologia dei siti visitati e registri dei contatti chiamati dei cittadini in quarantena obbligatoria. Con una nuova norma, varata il 23 marzo, sono state affidate all’esercito funzioni di polizia per contribuire al monitoraggio degli spostamenti dei cittadini. La misura più grave viene promulgata il 26 marzo, quando il parlamento vota per entrare in modalità d’emergenza con il pretesto di proteggere anche i parlamentari dalla pandemia e potendosi quindi riunire esclusivamente per questioni riguardanti l’emergenza. Il partito socialista bulgaro (BSP), che ha espresso un voto sfavorevole alla proposta, ha poi accusato la maggioranza di voler instaurare una dittatura. Nonostante la legge preveda che una seduta parlamentare possa essere convocata da presidente, consiglio dei ministri, presidente dell’Assemblea nazionale o un quinto dei parlamentari (e quindi, anche dall’opposizione), il primo tentativo di BSP di richiesta di interrogazione di Borisov al parlamento è stato boicottato dal partito del premier, GERB.

La sera del 12 maggio, in una seduta straordinaria del parlamento, è stata approvata una nuova legge che permette al Consiglio dei ministri di dichiarare lo stato di situazione epidemica al termine dello stato d’emergenza. La fretta con cui è stata votata la legge è stata oggetto di critiche da parte di Radev, che ha accettato comunque il testo della proposta così com’era per evitare ritardi nelle misure a sostegno dell’economia. Il 13 maggio, terminato lo stato d’emergenza, il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato d’epidemia fino a metà giugno; la nuova condizione lascia le misure emergenziali sostanzialmente invariate, permettendone l’estensione ma senza suscitare le preoccupazioni legate alle lacune costituzionali dello stato d’emergenza. A ogni modo, Radev ha fatto ricorso alla Corte costituzionale bulgara contro la nuova legge, preoccupato per la mancanza di un limite della durata massima della situazione d’epidemia (che ne permetterebbe l’ulteriore estensione da parte del Consiglio dei ministri), di criteri definiti per valutarne la necessità e delle restrizioni esagerate utilizzate per tali circostanze.

L’importanza di essere leader

Sebbene lo stato d’emergenza abbia offerto l’occasione al governo per aumentare la stretta sul Paese a causa delle lacune costituzionali, l’opposizione è riuscita a porre un freno a una deriva autocratica della Bulgaria. Tuttavia, Borisov non ha intenzione di uscire penalizzato per una gestione sbagliata della crisi. Per questo motivo, ha cercato di mostrarsi in grado di assumere un ruolo di leader nella crisi in modo tale da accrescere il consenso politico intorno a lui. Quando è diventato chiaro che il generale maggiore Mutafchyiski stava riscuotendo più successo di lui nel coordinamento delle misure, Borisov è apparso di sorpresa in tv annunciando la fine dei briefing quotidiani del Consiglio d’emergenza e sottolineando che il generale era stato scelto dal premier stesso. Inoltre, con l’incertezza sulla ripartenza del settore turistico, la disoccupazione in crescita soprattutto tra i lavoratori stagionali e un calo del PIL pari al 7,2% secondo la Commissione europea, molti bulgari sono preoccupati per le conseguenze economiche del coronavirus. In questo contesto rientrano le misure populiste come il congelamento degli stipendi dei parlamentari, l’obbligo per i supermercati di vendere prodotti bulgari o anche l’acceleramento del processo di adesione all’euro. In questo modo, Borisov sta cercando di portare a casa qualsiasi tipo di risultato che possa mettere al sicuro il proprio futuro politico, sbarrando la strada a chiunque possa rubarli il ruolo di guida del Paese.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #396 il: Maggio 19, 2020, 13:10:49 pm »
Leggendo questi resoconti, mi vien da pensare che l'asse franco-tedesco ci voglia ridurre come un Paese balcanico.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline fritz

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #397 il: Maggio 20, 2020, 15:41:45 pm »
I paesi dell'Europa dell'Est hanno belle fighe, per carità. Ma sono profondamente poveri, a parte qualche piccola eccezione. Nemmeno la R. Ceca ne è esente, se escludiamo qualche città.

Le donne sono spesso troie, non a caso ne ritroviamo uno spropositato numero tra le attrici porno. Calcolatrici e fredde, ci sono anche le eccezioni, certo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #398 il: Maggio 22, 2020, 00:59:50 am »
https://www.eastjournal.net/archives/105907

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POLONIA: Nuova procedura d’infrazione UE per l’indipendenza della giustizia
redazione 11 ore ago

di Maria Savigni

Dopo la condanna di un mese fa in tema di richiedenti asilo, il conflitto tra Varsavia e Bruxelles non sembra destinato ad arrestarsi. Il 29 aprile, infatti, è stata aperta una procedura di infrazione nei confronti della Polonia per la nuova riforma della giustizia, accusata di minare l’indipendenza della magistratura e lo Stato di diritto.

La riforma

La riforma, promossa dal partito di governo, Diritto e Giustizia (PiS), è stata approvata dal parlamento lo scorso dicembre ed è entrata in vigore il 14 febbraio. La normativa introduce modifiche sostanziali in tema di responsabilità disciplinare della magistratura, ufficialmente allo scopo di prevenire “abusi di potere” da parte dei giudici.

Già in fase di discussione parlamentare l’iniziativa ha scatenato proteste sia da parte della società civile che dagli stessi giudici. Nel mirino, la malcelata volontà del PiS di voler introdurre una forma di controllo politico sull’operato della magistratura.

Le violazioni

La risposta di Bruxelles alla riforma del sistema giudiziario non si è fatta attendere. A fine aprile è stato comunicato al governo polacco l’avvio della procedura di infrazione per gravi violazioni dello Stato di diritto. Ciò poiché i giudici polacchi, nella propria veste giurisdizionale, sono anche responsabili dell’interpretazione e applicazione diretta del diritto europeo. La questione della giustizia polacca, in altre parole, è anche una questione europea.

Nello specifico, la Commissione denuncia l’ampliamento della nozione di illecito disciplinare, in grado di includere un numero elevato di decisioni giurisprudenziali e diventare una ‘spada di Damocle’ nei confronti del potere giudiziario. Tra i casi di illecito, infatti, è compresa la stessa contestazione delle riforme giudiziarie da parte della magistratura. Tra le sanzioni è prevista la sospensione e anche la decadenza dal ruolo di giudice.

In secondo luogo, la legge attribuisce in via esclusiva la competenza in tema di indipendenza della magistratura a una nuova Camera di controllo straordinario della Corte Suprema. La riforma finisce dunque per sottrarre alle Corti polacche la possibilità di applicare il diritto europeo, sia direttamente sia attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Questa previsione è incompatibile sia con i principi dello Stato di diritto sia con il primato del diritto europeo su quello nazionale.

Infine, la nuova disciplina impone ai giudici di trasmettere al governo alcune informazioni specifiche sulle proprie attività extra-professionali, una previsione inconciliabile con la disciplina europea in materia di privacy e rispetto della vita personale.

Gli scenari

Il governo polacco ha ora due mesi di tempo per inviare una risposta formale alla Commissione europea, dopodiché la Commissione potrà inoltrare un nuovo richiamo. Nel caso in cui gli avvertimenti comunitari non producano risultati, l’esecutivo comunitario potrà portare la questione alla Corte di Giustizia.

Le dichiarazioni di Věra Jourová, commissaria europea alla giustizia, preannunciano l’intenzione di proseguire con la procedura di infrazione nel caso in cui il governo di Varsavia non ritiri o modifichi in modo incisivo la riforma. La Corte di Giustizia si era già pronunciata su una modifica della composizione dei giudici della Corte Suprema, costringendo il PiS a ritirare la precedente riforma. L’attacco politico alla Corte Suprema nazionale è continuato negli anni e a fine aprile ha avuto il suo successo, con la resa della presidente Małgorzata Gersdorf, da tempo nel mirino delle invettive del PiS.

Le precedenti censure dell’Unione non hanno frenato il processo di smantellamento dello Stato di diritto avviato dal PiS, abile nel serrare i ranghi nel momento dello scontro. Il ministro della Giustizia ha sottolineato come l’Unione Europea voglia imporre a tutti i costi la propria visione, aggiungendo che “se apriamo la porta sulla riforma giudiziaria, ci imporranno il matrimonio omosessuale”.

Nel caso si arrivi a un punto di non ritorno, la Commissione europea potrebbe decidere di ricorrere alla procedura secondo l’articolo 7 dei trattati UE, prevista in caso di “violazione grave e persistente dei principi sui quali poggia l’Unione”. Tale procedura permetterebbe di arrivare fino alla sospensione dei diritti di voto della Polonia nelle istituzioni europee  tra cui vi è lo Stato di diritto. Tuttavia, è necessario il voto all’unanimità del Consiglio europeo, uno scenario difficile da ipotizzare che necessiterebbe dell’improbabile voto favorevole dell’Ungheria, solido alleato di Varsavia – ed essa stessa oggetto di una procedura secondo l’articolo 7 sin dal 2015.

In uno scenario ancora più estremo, la Commissione potrebbe chiedere una pronuncia del Consiglio europeo nei confronti di Polonia e Ungheria, congiuntamente. Si tratta, naturalmente, di un’ipotesi ben lontana, dato che la procedura di infrazione è ancora nella fase iniziale. Il tramonto di una democrazia, invece, può avvenire molto più rapidamente.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #399 il: Maggio 22, 2020, 01:02:33 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Ue-sempre-di-meno-sempre-piu-anziani-200096

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Ue: sempre di meno, sempre più anziani

Una raccolta di dati dell’EPRS delinea il futuro demografico dell’UE. Nel 2080, se si manterranno i trend attuali, scenderemo dai 513,5 milioni attuali a 504,5. E non si fermerà l'emorragia di popolazione dalla campagne. Uno sguardo che dalla situazione globale arriva al sud-est Europa

21/05/2020 -  Miriam Santoro
Uno studio  presentato dal servizio di ricerca del Parlamento europeo (EPRS) offre un’interessante panoramica sulle prospettive demografiche dell’UE e dei paesi di tutto il mondo. Il report analizza come la demografia influenzi i settori più disparati, dall’economia al mercato del lavoro, dalle pensioni alla sanità, dall’ambiente al cibo e nutrizione. Nel contesto dell’UE, è interessante vedere che spesso i dati relativi alla situazione nei paesi dei Balcani divergano e contrastino con quelli relativi agli stati membri Ue.

Crescita lenta ed invecchiamento della popolazione: queste sono le due maggiori tendenze in Europa che emergono nella prima sezione del report. Dal 1960 al 2019 infatti, la popolazione dell’Unione europea è cresciuta da 406,7 milioni a 513,5 ma si prevede un'inversione di tendenza nel prossimo futuro (da 524,7 milioni di persone nel 2040 a 504,5 milioni nel 2080). Il quadro europeo contrasta con la costante ed intensa crescita demografica a livello globale, protagonista degli ultimi decenni: da circa 3 miliardi di persone nel 1960, la popolazione ha raggiunto i 7.7 miliardi nel 2019 e si prospetta che crescerà ulteriormente fino a raggiungere i 10 miliardi nel 2057.

L’invecchiamento della popolazione dell’UE è una situazione comune a tutti i paesi membri: nel 2050, solamente due persone in età lavorativa provvederanno al sostentamento di una persona over 65, contro i dati del 2001 secondo cui per ogni anziano over 65 erano attive 4 persone in età lavorativa. Nel 2070, la Croazia raggiungerà l’età media più alta d’Europa, 52,6 anni, una differenza notevole rispetto all’età media nel 1970 in Svezia (35 anni) e nel 2019 in Italia e Germania, 46 anni. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione dipende da un diffuso incremento delle aspettative di vita e dal tasso di fecondità costantemente in discesa.

L’aumento della speranza di vita, conseguente ad un miglioramento della qualità della vita, è riscontrabile in tutti i paesi ‘’sviluppati’’. Negli anni resta comunque notevole la differenza tra uomini e donne: secondo i dati, in Europa l’aspettativa di vita è di 82.6 anni per le donne nel periodo 2015-2020 contro una media di 77.1 per gli uomini negli stessi anni (negli anni 1960-1965 era invece 72 per le donne  67.0 per gli uomini). Per quanto riguarda il tasso di fecondità, in tutta Europa si è verificato un declino: se fino al 1970 era del 2.1 per donna, nel 2017 è sceso a 1.59.

Migrazioni
Date queste premesse, il ruolo della migrazione diventa significativo: se è vero che i flussi migratori non possono modificare radicalmente in breve tempo la situazione demografica in Europa, essi sicuramente influiscono sul numero della popolazione e sul tasso di anzianità e a lungo termine avranno ripercussioni sul tasso di fecondità e sulla speranza di vita in tutta l’UE.

In generale, tutto il pianeta sta assistendo ad un invecchiamento: gli over 65 cresceranno da 612 milioni nel 2015 a più di 1.5 miliardi nel 2050. A questo proposito - secondo gli autori dello studio - può essere d’ispirazione osservare come il Giappone si prepara a fronteggiare questa situazione. Il paese infatti ha il tasso di anzianità più alto del mondo e affronterà un calo demografico in un futuro prossimo. Tra le misure adottate, l’introduzione di sistemi di automazione e il finanziamento della robotica in diversi settori ma per la prima volta si sta valutando anche l’idea di aprire le frontiere alla migrazione. Tuttavia, un intero continente fa eccezione: l‘Africa sarà il motore demografico del mondo con 2.5 miliardi di persone nel 2050. Secondo le statistiche, 1 persona su 4 in età lavorativa sarà di origine africana nel 2050: questa è un’opportunità per lo sviluppo dell’economia del continente anche se sarà necessario investire per una forza lavoro giovane ben istruita e competente e per garantire sufficienti offerte di lavoro.

Città e campagna
Spostandoci verso est, dalla Bulgaria, Croazia e Grecia emerge una situazione ben diversa: forti contrasti demografici possono essere osservati tra i centri urbani e le zone rurali - caratteristica in Europa soprattutto di questi paesi - e lo spopolamento di queste ultime è frutto della migrazione interna all’Unione europea. Le persone dai paesi del sud ed est Europa si spostano verso i centri urbani ed i paesi più sviluppati quali Germania e Regno Unito alla ricerca di lavoro, opportunità di carriera e prospettive economiche migliori.

Secondo un rapporto ESPON, entro il 2050 la popolazione delle aree urbane dovrebbe aumentare di 24,1 milioni di persone e questi centri ospiteranno circa la metà di tutta la popolazione dell'UE. La popolazione delle regioni prevalentemente rurali diminuirà invece di 7,9 milioni. Nei paesi sopracitati, il rischio di esclusione e povertà è il più alto d’Europa come lo è il pericolo della creazione di un circolo vizioso dovuto allo spopolamento che spingerà sempre più persone a lasciare questi territori. La percentuale più bassa di persone che usano internet su base giornaliera è stata registrata proprio nelle aree rurali di questi paesi. Tuttavia, le aree e le attività rurali rimangono un elemento fondamentale dell’economia e della società europea: il report presenta diversi vantaggi della vita rurale che spaziano dal vivere in un ambiente più pulito e una vita più sostenibile alle potenziali opportunità di lavoro in nuovi settori quali l’ecoturismo e l’economia circolare.

Cibo e demografia
Nell’ultima sezione del report, viene presentato un approfondimento sull’impatto del cibo e dell’alimentazione sulla demografia. A livello globale ed a livello europeo emergono due tendenze contrastanti. Nel primo caso infatti, la mancanza di quantità adeguata di cibo nutriente riduce le aspettative di vita. Secondo la FAO, nel 2050 il settore agroalimentare dovrà produrre il 50% in più di cibo per rispondere alla crescente domanda globale. Per arginare il problema, è necessario cambiare le abitudini alimentari (come abbandonare le proteine a base animale), migliorare la distribuzione del cibo, ridurre gli sprechi e finanziare progressi tecnologici nel settore agricolo. Inoltre, l’emancipazione femminile e l’educazione potrebbero rappresentare dei mezzi attraverso cui ridurre il tasso di fecondità.

A livello europeo, l’abbondanza di cibo malsano è la causa di malattie quali l’obesità, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. Tra le azioni necessarie per fronteggiare questa forma di malnutrizione viene proposta dal report l’educazione alimentare fin dalla prima infanzia, la promozione dell’attività fisica, il miglioramento della sicurezza alimentare migliorando i sistemi di etichettatura e la promozione della ricerca di sistemi alimentari nuovi e innovativi. Parallelamente all’aumento della diffusione dell’obesità, in Europa è evidente la crescita di carenze nutrizionali: secondo Eurostat, 36 milioni di persone in Europa non hanno accesso ad un pasto di qualità che includa carne, pollo, pesce o un equivalente vegetariano ogni due giorni. La Bulgaria registra la percentuale più alta di popolazione che soffre di questa grave deprivazione, 31,4%. L’accesso al cibo è difficoltoso per la metà delle famiglie a basso reddito dei nuovi stati membri dell'UE.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #400 il: Maggio 22, 2020, 02:22:12 am »
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Ue: sempre di meno, sempre più anziani
Questo dovrebbe essere un tema primario anche per i diritti maschili invece di tante *****te e invece è l'unico che viene accuratamente evitato.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #401 il: Maggio 25, 2020, 16:49:15 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/105538

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GEORGIA: Scontro di potere tra Stato e Chiesa
redazione 3 giorni ago

Osservando lo skyline di Tbilisi dalla cima della collina di Mtasminda, salta all’occhio la grandiosa residenza presidenziale, uno degli edifici voluti da Mikhail Saakashvili quando era alla guida della Georgia per annunciare la sua vena riformatrice. La struttura, però, è sovrastata da un altro complesso, ancora più imponente, che sorge a un paio di isolati di distanza. Si tratta della Cattedrale di Sameba, inaugurata nel 2004 col fine di celebrare i 1500 anni di autocefalia della Chiesa ortodossa georgiana. Questo confronto impari tra architettura civile e religiosa, come vedremo, ben esemplifica le dinamiche di potere nel paese.

Virus e spiritualità

Negli ultimi mesi anche la Georgia è stata colpita dall’epidemia di Covid-19. Fin dall’inizio dell’emergenza, il governo ha preso una serie di misure drastiche per contrastare il diffondersi del virus: chiusura di tutte le attività non essenziali, divieto di uscita salvo casi di necessità e perfino un coprifuoco giornaliero tra le nove di sera e le sei del mattino. Con l’approcciarsi della Pasqua ortodossa (19 aprile), i divieti si sono fatti più stringenti col fine di evitare i raduni famigliari. Il 17 aprile è stato bandito il traffico privato e, negli stessi giorni, veniva annunciata la chiusura dei cimiteri per scoraggiare il tradizionale pasto presso le tombe dei parenti del giorno di Pasquetta.

A fronte di alcune proteste per le difficili condizioni economiche a cui la popolazione è stata sottoposta, sembra che le misure abbiano sortito l’effetto di prevenire il propagarsi dell’epidemia. In questo quadro emergenziale, è scoppiato lo scontro tra il governo e la Chiesa ortodossa georgiana, uno degli attori più importanti nel contesto politico-sociale del paese.

Il primo segno di discrepanza è emerso il 22 marzo. In quella domenica in cui il numero di contagiati cresceva in tutto il mondo, nelle chiese georgiane i fedeli ricevevano la comunione alla maniera ortodossa, con il prelato che usa un cucchiaio comune per distribuire il pane intriso di vino, non proprio il modo ideale di rispettare le norme igienico-sanitarie. Lo scontro è proseguito nelle settimane successive, mentre il governo vietava gli assembramenti di più di tre persone (31 marzo), un modo indiretto di scoraggiare le funzioni religiose, il patriarcato annunciava che le chiese sarebbero rimaste aperte in vista della Pasqua, arrivando a dichiarare che vietare di andare a messa è peccato e il fedele non deve temere il contagio perché protetto da Dio.

Secondo quanto riportato dai media, il numero di persone che hanno presenziato le chiese nella Domenica delle Palme (12 aprile) e il giorno di Pasqua è stato molto più basso rispetto al solito. Nonostante diversi membri del clero si promurassero di mostrare di non temere la malattia con una serie di dichiarazioni – raccolte qui –  tra l’assurdo e il ridicolo, a chi entrava in chiesa veniva misurata la temperatura e veniva richiesto di mantenere una distanza di sicurezza di due metri dagli altri.

“La Georgia è prescelta dalla Madre di Dio. Questo è il volere di Dio. Non è una coincidenza se questa piaga, che si è diffusa in tutto il mondo, non ha colpito la Georgia” Ilia II, 11 febbraio 2020.

Il patriarcato è emerso come la forza dominante da questo braccio di ferro. Il governo non ha mai parlato di chiudere le chiese e la ministra della Salute, Ekaterine Tikaradze, si è messa in ridicolo dichiarando che servirebbe una prova scientifica per dimostrare che usare il cucchiaio comune durante la messa favorirebbe la diffusione del virus.

Rapporti tra Stato e Chiesa

Muoversi in aperto contrasto con il patriarcato è una mossa politicamente pericolosa per un qualsiasi governo georgiano, soprattutto in un anno di elezioni. I sondaggi annuali Caucasus Barometer rilevano che la grande maggioranza degli intervistati non è disposta a votare un partito che si opponga alle idee promosse dalla Chiesa e dal Patriarca, Ilia II, il personaggio pubblico con il più alto indice di gradimento nel paese.

L’importanza della religione ortodossa per i georgiani è legata al passato e, in particolare, al periodo sovietico. In un sistema che minacciava l’esistenza dell’identità nazionale, questa poteva essere riaffermata soprattutto attraverso la fede, unica istituzione prettamente georgiana. Dopo anni di campagne antireligiose, nel 1943 il Cremlino si spostò su posizioni più moderate col fine di usare l’arma ideologica della guerra santa per sconfiggere la Germania nazista. Per la Chiesa ortodossa georgiana, questo significò riacquistare l’indipendenza dal patriarcato di Mosca perduta durante l’epoca zarista e, quindi, ritagliarsi uno spazio di manovra nel sistema sovietico. Il risorgimento religioso del paese si accentuò negli anni del crollo dell’Unione Sovietica e dell’indipendenza ed è legato a doppio filo alla figura di Ilia II.

In carica fin dal 1977, per i georgiani il Patriarca è stato sinonimo di continuità in anni tumultuosi. Mentre gli Shevardnadze e i Saakashvili passavano dalla gloria alla pubblica infamia, Ilia II diventava una figura sempre più influente. Il capo della Chiesa si esprime sulle questioni più diverse, dalla gestione della pandemia alla trasformazione del paese in una monarchia costituzionale e le sue dichiarazioni, spesso di natura ultraconservatrice e omofoba, vengono sempre prese in considerazione dai governi in carica e dalla popolazione.

L’importanza della Chiesa ortodossa georgiana è riconosciuta, a livello costituzionale, da un Concordato siglato nel 2002. Esso, tra le altre cose, garantisce al patriarcato il possesso dei territori delle chiese, l’immunità legale per il Patriarca e l’esenzione dal servizio militare per il clero. L’articolo 8 della Costituzione, riconosce: “Il ruolo eccezionale della Chiesa nella storia della Georgia”, mettendola, di fatto in una posizione privilegiata rispetto alle altre congregazioni religiose – in un paese in cui esiste una consistente minoranza musulmana – e ponendo le basi legali per richieste di esenzioni fiscali.

L’influenza della Chiesa sullo stato e la necessità di presenziare la messa in un periodo come questo sono temi dibattuti anche in Italia, ma la Georgia si differenzia per la congiunzione tra fede e identità nazionale. Sarà interessante capire se, nel prossimo futuro, il successore dell’ormai ultranovantenne Ilia II manterrà un ruolo così rilevante nella vita del paese.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #402 il: Maggio 25, 2020, 18:21:57 pm »
Che male c'è? In Francia, di fronte all'inerzia dei vescovi, alcuno ordini tradizionali hanno adito il Consiglio di Stato per ripristinare le Messe pubbliche e hanno vinto.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #403 il: Maggio 30, 2020, 12:56:53 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-e-Bosnia-schiavi-per-il-progresso-202017

Citazione
Azerbaijan e Bosnia: schiavi per il progresso

Dietro alle luci sfavillanti di molti edifici di Baku, capitale dell'Azerbaijan, c'è il sudore e a volte letteralmente il sangue di migliaia di moderni schiavi. Con il coinvolgimento anche di criminali di guerra bosniaci. Un'inchiesta OCCRP

29/05/2020 -  Miranda Patrucic,  Ilya Lozovsky
(Pubblicato originariamente da OCCRP    il 28 aprile 2020)

"Ci trovavamo in una situazione veramente difficile", dice Seudin Zoletić. "Senza soldi. Senza cibo. Senza niente".

Sono passati anni, ma l’uomo, 46 anni, è ancora perseguitato dall’esperienza traumatica che ha vissuto come lavoratore forzato in Azerbaijan. "Quell’esperienza ha segnato la mia vita per sempre".

Zoletić adesso vive nella sua città natale di Živinice, una città operaia nel nord-est della Bosnia Erzegovina. L’uomo ha incontrato un giornalista di OCCRP più volte nel corso di diversi mesi per raccontare la sua storia.

Sigaretta dopo sigaretta, in un caffè locale con musica pop a tutto volume in sottofondo, Zoletić ha ricordato i suoi mesi in trappola in un cantiere in un paese lontano. Ha descritto la sua battaglia per la giustizia, persa contro il regime di quel paese. E ha espresso la speranza che quest’anno, nelle mani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, possa finalmente trovarla.

Zoletić parla ripetutamente della sua famiglia: due figli così promettenti, che chiama i suoi “ragazzi d’oro” e una moglie malata, alla quale è devoto. È stato per sostenere loro che nell’estate del 2009 ha accettato quella che sembrava un’offerta di lavoro promettente in un cantiere della capitale dell’Azerbaijan, Baku. Le persone che l’hanno assunto avevano promesso uno stipendio buono, condizioni eccellenti e un alloggio dignitoso.

Zoletić è uno dei 700 operai provenienti da Bosnia Erzegovina, Serbia e Macedonia del Nord che hanno accettato offerte simili in cerca di una vita migliore. Questi uomini hanno costruito tra il 2006 e il 2009 alcuni degli edifici più noti di Baku, tra i quali un grande spazio per eventi, il Buta Palace  , e un enorme centro espositivo  . Di questi progetti multimilionari, almeno tre sono stati finanziati dal governo.

Gran parte dei lavoratori erano in realtà trattati come moderni schiavi. Insieme ad altre centinaia di operai, Zoletić viveva in uno spazio sovraffollato con poco cibo per un lavoro massacrante di dodici ore al giorno. Il passaporto gli venne confiscato. Alcuni operai venivano picchiati. Uno di loro è morto tra le braccia di Zoletić. Gli stipendi promessi erano considerevolmente ridimensionati o non pagati affatto.

Zoletić non aveva idea di chi ci fosse dietro SerbAz, l'azienda che lo aveva assunto. Un’inchiesta di OCCRP rivela che ci sono forti ragioni per sospettare che l’azienda fosse nelle mani della moglie e di uno stretto collaboratore di Azad Rahimov, il ministro per la Gioventù e lo Sport. Il ministero aveva affidato a SerbAz diversi progetti di costruzione dal valore di 54 milioni di manat (65,8 milioni di dollari).

L'inchiesta
Zoletić è un testimone potente della difficile condizione dei suoi compagni di lavoro, ma questa storia non si basa solo sulla sua esperienza. I reporter hanno intervistato otto uomini bosniaci che erano bloccati in Azerbaijan, oltre ad aver esaminato centinaia di pagine di atti giudiziari, testimonianze, rapporti e altri materiali per provare e completare i loro racconti.

Se verranno confermate, le nuove prove presentate da OCCRP incastrerebbero Rahimov in uno dei più grandi casi di sfruttamento lavorativo dell’Europa di oggi. Si solleverebbero domande anche sulla famiglia presidenziale, che rimane saldamente al potere dal 2003. Rahimov è noto infatti per essere uno stretto collaboratore del Presidente, Ilham Aliyev; una delle strutture private per le quali gli operai hanno lavorato, un centro commerciale di lusso, appartiene ora alla famiglia Aliyev.

Azad Rahimov, sua moglie Zulfiya e il suo socio non hanno risposto alle richieste di commentare questa storia. L'azienda che oggi possiede il centro commerciale ha negato di aver ingaggiato SerbAz nel lavoro e non ha fornito ulteriori informazioni, dichiarando che si tratta di contratti commerciali confidenziali.

Gli sforzi di Zoletić per ottenere giustizia in Azerbaijan sono falliti. Un ricorso per il suo trattamento è stato più volte rigettato dalle corti nazionali, mentre un attivista che se n'è fatto carico è stato cacciato dal paese. La sua ultima speranza è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che dovrebbe pronunciarsi sul caso entro l’anno.

Mentre molti altri operai sono stati riluttanti a parlare dei loro giorni in Azerbaijan, Zoletić ha detto che per lui era importante parlare: "Se più persone sono a conoscenza di questa situazione, sarà difficile che accada di nuovo".

Per sperne di più
Per saperne di più su Rahimov e SerbAz, il secondo racconto di questa serie è disponibile qui

"Non avrei mai immaginato che la vita potesse essere così crudele, che potessero essere inflitte tante ingiustizie", ha detto. "Nel ventunesimo secolo".

“Mi fidavo di SerbAz”
Zoletić ricorda la sua infanzia nella Jugoslavia socialista felice e spensierata. Suo padre, un minatore, aveva un salario dignitoso che consentiva alla famiglia di vivere bene. Zoletić si ricorda di quando giocava a “indiani e cowboy” su una collina vicino casa, piuttosto lontana dal centro di Živinice. Lì i suoi vicini tenevano gli animali da fattoria nelle loro proprietà. Ancora oggi è molto affezionato al suo piccolo angolo di Bosnia.

"La vita è bella", dice. "Amo il mio paese. E Živinice. [Anche] in questi momenti difficili, la trovo bellissima".

Invecchiando, Zoletić ha subito numerose delusioni.

Da giovane, gli si prospettava una carriera nel basket, ma un infortunio lo costrinse a smettere. Il suo sogno di arruolarsi svanì quando l’Armata popolare jugoslava non lo ammise - per il fatto di essere musulmano, ritiene. Qualche anno dopo, quando la Jugoslavia si disintegrò, si unì all’esercito della Bosnia indipendente.

Dopo essere stato congedato nel 1997, Zoletić venne assunto in una grande fabbrica di scarpe di Tuzla, finendo per apprezzare quel lavoro ripetitivo e guadagnandosi una promozione alla posizione di supervisore.

Ma nel 2009 la sua fabbrica, così come molte altre in Bosnia, era in difficoltà. Gli operai, pagati pochissimo, scesero in piazza per chiedere l’aiuto del governo. Zoletić dovette trovare un modo migliore per sostenere la sua famiglia.

Fu allora che sentì parlare per la prima volta di SerbAz, un’azienda che stava assumendo personale in Bosnia per lavori di costruzione ben pagati in Azerbaijan.

"Ero interessato", dice. "Perché non avrei dovuto esserlo? … Soprattutto dopo aver visto persone che andavano e tornavano con i soldi".

Insieme ad altre persone, Zoletić si recò in un’altra città per incontrare il reclutatore di SerbAz. Gli venne offerto un lavoro di costruzione, per il quale doveva firmare una breve dichiarazione che elencava i termini del suo impiego e precisava le regole di condotta. Zoletić si rende conto solo ora che non si trattava di un contratto legale - e che quello avrebbe dovuto essere un segnale di avvertimento di quello che sarebbe avvenuto.

Ma in quel momento la promessa di uno stipendio dai cinque agli otto dollari all’ora era troppo invitante. "Ero ottimista, questo è sicuro", dice Zoletić. "Mi fidavo di SerbAz".

Attese settimane prima di sapere che era il momento per lui di andare, settimane durante le quali chiamò più volte i rappresentanti dell’azienda. Due mesi dopo la firma gli venne detto di fare i bagagli.

Insieme ad altri venti uomini di Živinice, Zoletić salì su un minibus per la capitale serba, Belgrado, dove furono raggiunti da un altro gruppo di uomini bosniaci. Molti erano più giovani e meno esperti di lui. Alcuni erano ancora adolescenti.

Ma tutti condividevano l’ottimismo di Zoletić. In Bosnia, anche quelli abbastanza fortunati da avere un lavoro non guadagnavano tanto più di 200 dollari al mese. Se le promesse di SerbAz fossero state vere, avrebbero guadagnato quella cifra in pochi giorni nella lontana Baku.

"Eravamo diretti verso un futuro più luminoso", afferma Zoletić. "Questo è quello che credevamo".

"La realtà ti colpisce"
Atterrato in Azerbaijan, Zoletić capì quasi subito che il suo destino non era più nelle sue mani.

Criminali
Saša Lipovac, uno dei due uomini che raggiunsero il gruppo all’aeroporto, era una delle persone più terrificanti che gli operai incontrarono in Azerbaijan. Lipovac figura spesso nei racconti di Zoletić come uno scagnozzo e un picchiatore che ricorreva alla violenza fisica alla più piccola infrazione. Zoletić ed altri operai lo descrivono come “malvagio” e “sadico”. Quando lo incontrarono all’aeroporto di Baku, Lipovac, serbo-bosniaco, era ricercato per i crimini commessi durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Venne in seguito riconosciuto colpevole da una corte bosniaca per aver ucciso civili, ferito due bambine e commesso molteplici stupri, tutto in una notte. Un avvocato che si è occupato del caso ha detto che è stato il crimine “più atroce” avvenuto durante la guerra nei pressi di Banja Luka. Lipovac è stato condannato a dieci anni di carcere.

Dopo aver passato i controlli immigrazione e aver ottenuto un visto turistico della durata di un mese, Zoletić racconta che il suo gruppo venne raggiunto da due uomini che descrive come “capi”. I nuovi arrivati avevano un atteggiamento da soldati e dissero di consegnare loro i passaporti per tenerli al sicuro.

Zoletić dubitava che qualcun altro potesse custodire il suo passaporto meglio di lui. Tuttavia, realizzando che non aveva altra scelta, fece quello che gli veniva detto.

Poi il gruppo è stato fatto salire su dei minibus. Zoletić si sedette e aspettò, preoccupato per il suo passaporto e ansioso di sapere dove sarebbe stato portato. Era seduto vicino ad altri tre uomini che venivano da Živinice. Le persone venivano fatte scendere in punti diversi, Zoletić pregò che lui e i suoi amici finissero nello stesso posto.

Alla fine, il minibus si fermò davanti a una casa enorme, circondata da mura alte quattro metri e con un grande cancello di ingresso. Zoletić ricorda di essere rimasto scioccato nel vedere che almeno cento persone vivevano già lì dentro. "Ci guardavamo l’un l’altro: ‘Cos’è questo posto? Oh mio Dio, dove sono?’".

"Non c’era altro spazio [per noi]," ricorda. "Non per sei persone, ma neanche per due". I loro supervisori improvvisarono una sistemazione, mettendo dei letti per lui e i suoi amici in un corridoio.

Al gruppo venne detto che era consentito lasciare la casa solo con un’autorizzazione da parte delle guardie. "Potremmo scappare, scavalcare la recinzione", pensò Zoletić. "Ma poi dove potremmo andare senza i nostri passaporti?"

Zoletić non era l’unico ad essere scioccato. Anche tutti gli altri operai stranieri erano collocati in case simili, eccetto i lavoratori specializzati. In ogni stanza erano disposti talmente tanti letti a castello che era difficile passare. In media, ventiquattro persone condividevano una stanza. I corridoi, una sauna e persino una piscina erano stati convertiti in camere da letto per poter ospitare più operai.

Il primo giorno, Zoletić venne confortato dalle persone che erano lì da più tempo, che lo incoraggiarono a pensare positivamente. Ma le cose cambiarono quella sera, quando i sorveglianti andarono a visitare la casa. Informarono gli operai che avrebbero trattenuto i loro stipendi come precauzione, per evitare che li spendessero tutti in una città straniera. I lavoratori non sarebbero stati pagati finché non fossero tornati a casa.

Fu così che Zoletić conobbe i “caschi bianchi”, come lui e gli altri lavoratori chiamavano i sorveglianti. Per i mesi successivi questi uomini, che non erano originari dell’Azerbaijan ma provenivano dalle sue parti, avrebbero stabilito come avrebbe passato ogni ora delle sue giornate.

Nel delirio
Le giornate lavorative da dodici ore erano massacranti. Ogni mattina, Zoletić e gli altri venivano svegliati da un sorvegliante della casa poco dopo le cinque e condotti ai loro rispettivi cantieri. Il suo incarico era di installare pannelli di drenaggio dove sarebbe sorto il futuro centro espositivo.

I pasti gli erano portati sul cantiere, ma il cibo era scarso. A volte il pasto consisteva solo di un po’ di salame, uova sode e pane raffermo. "Solo il tè era buono", dice Zoletić. "Si poteva bere insieme al pane".

Nelle interviste, molti operai hanno detto che nel periodo trascorso a Baku erano sempre affamati e avevano perso peso.

"Molti sembravano essere appena usciti da un campo di concentramento… Erano irriconoscibili in confronto a quando erano arrivati", dice Zoletić.

Per integrare il poco cibo che ricevevano sul cantiere, gli operai potevano comprare qualcosa in più in una mensa gestita da SerbAz nel loro complesso residenziale, sottraendo soldi ai loro futuri stipendi. Zoletić sostiene che il sistema era pensato appositamente per evitare che se ne andassero - descrivendola come "una prigione semi-aperta".

Gli uomini non rientravano a casa prima delle nove di sera. Dopo una giornata lavorativa di dodici ore, le caviglie di Zoletić erano gonfie e facevano male. "Iniziai a mettere a congelare una bottiglia d’acqua da mezzo litro prima di andare a lavoro la mattina. La utilizzavo per massaggiare i piedi quando tornavo".

In quell’edificio che ospitava decine di persone c’erano solo due docce e due bagni. Gli operai dovevano aspettare ore per utilizzare il bagno. "Quando arrivava il tuo turno di farti una doccia e lavarti i piedi si erano già fatte le 10:30 o le 11:00", dice Zoletić. Ricorda che dormiva solo cinque o sei ore a notte.

A volte non riusciva a dormire neanche quel poco. Ricorda che in alcune occasioni veniva svegliato dal sorvegliante che correva per i corridoi e bussava alle porte. Gli uomini si alzavano in biancheria, tremando dal freddo.

"Era un alcool test, pensa", dice Zoletić. "Ti dicevano di soffiare. Eravamo tutti allineati e loro ci controllavano. È inconcepibile. Ancora assonnato, provavi a capire cosa stava succedendo. Stavi sognando? Era un incubo".

Quelli che risultavano positivi ricevevano una multa di 500 dollari sul loro salario immaginario. La tecnica di “multare” i lavoratori per ridurre i loro guadagni e inculcare l’obbedienza era una minaccia costante.

"Il sorvegliante controllava come venivano rifatti i letti", racconta Zoletić. "Se non erano sistemati come voleva lui, venivamo multati". Anche fermarsi un attimo per riposare o andare troppe volte in bagno sul cantiere comportavano multe.

Un giorno, gli operai pensavano che il loro lavoro fosse finito e posarono i loro attrezzi. Uno dei sorveglianti è corso fuori e ha urlato di tornare a lavorare per un altro minuto. "Nel tempo che ci abbiamo messo a tornare indietro, quel minuto era passato. Stavano solo mostrando i muscoli".

"Quella situazione mi ferì molto", dice Zoletić, ricordando l’umiliazione. "Era inumano".

In una calda giornata estiva, un collega per una disattenzione fece cadere un tubo metallico colpendo Zoletić sulla testa, che iniziò a sanguinare abbondantemente. I capi fecero arrivare un medico che ricucì la ferita, ma non gli venne mai fatta una diagnosi o un esame dettagliato. "Mi trattarono come un cane", ha detto.

I suoi colleghi lo aiutarono con una colletta per comprare le medicine. Ma Zoletić era preoccupato che senza delle cure mediche appropriate, la ferita potesse infettarsi.

"Pensavo alla mia famiglia", dice. "Se solo avessi potuto volare e andarmene da lì. Era una battaglia per la sopravvivenza".

Tre giorni dopo, con la ferita ancora aperta e i punti in testa, venne rimandato a lavoro.

Morte nella struttura
Le condizioni difficili iniziarono a metterli a dura prova. Ad agosto, un operaio di Živinice, un uomo che Zoletić conosceva, morì di infarto nel suo dormitorio in un’altra città dell’Azerbaijan dove SerbAz stava realizzando un progetto di costruzione.

All’inizio di ottobre ci furono dei giorni in cui non c’era molto lavoro da svolgere. Zoletić e gli altri rimanevano in casa senza far niente - e senza avere nulla da mangiare. "Sembrava un periodo di crisi", ha detto. "Si poteva vedere facilmente nella mensa, dove erano rimasti pochi alimenti. E non ne venivano portati altri".

Un pomeriggio, un operaio si sentì molto male. Gli altri lo portarono in cortile e tentarono di rianimarlo, ma non ci riuscirono. L’uomo morì tra le braccia di Zoletić.

Ricorda di aver visto in passato quell’uomo, un ingegnere meccanico, bere caffè e fumare in giardino per conto suo. "È rimasto lì per poco tempo", ha detto Zoletić. "Era psicologicamente abbattuto, tutti lo eravamo, chi più chi meno. Lui purtroppo non è riuscito a sopportarlo".

"La vicenda ha scioccato tutti. In una situazione che sarebbe stata folle in ogni caso, stavamo guardando un uomo morto… Eravamo fuori di testa. Cosa avremmo dovuto fare? Cosa sarebbe successo? Arrivò la polizia".

Gli agenti interrogarono gli operai, ma sembrava non avessero alcun interesse alle loro condizioni, alle motivazioni che li avevano spinti ad andare lì o all’assenza di documenti validi per l’immigrazione. Continuavano ad essere in trappola.

Qualche giorno dopo vennero tagliati gas, elettricità e acqua. "Non avevamo più niente", dice Zoletić.

Nella disperazione, notò una cosa positiva: sebbene i lavoratori provenissero da paesi diversi di una regione che aveva attraversato una guerra da non molto tempo, il passato sembrava non contare. "Eravamo uniti", afferma Zoletić. "Come fratelli".

Gli uomini iniziarono ad aprirsi e Zoletić ascoltò storie dell’orrore. "Le persone venivano picchiate in stanze dove la musica veniva alzata a tutto volume", ha detto. "In questo modo gli altri non avrebbero sentito le urla".

La verità viene a galla
La disperazione degli operai riuscì alla fine a catturare un’attenzione più ampia.

Il primo a notare la loro condizione fu un uomo che vendeva cibo e sigarette in un chiosco situato vicino a un cantiere di SerbAz. Vide che i lavoratori avevano iniziato a non avere più soldi ed erano evidentemente affamati. Per giorni, consentì loro di comprare cibo e sigarette a credito.

Il negoziante contattò un’organizzazione no-profit locale che si occupava di assistere i lavoratori stranieri, l’Azerbaijan Migration Center, guidata da un ex poliziotto, Alovsat Aliyev. Uno degli impiegati di Aliyev lanciò attraverso la recinzione un opuscolo sull’organizzazione e presto un operaio si mise in contatto con loro.

Aliyev organizzò un incontro vicino alla struttura. L’operaio dovette uscire in segreto per evitare la vigilanza. Le sue descrizioni e le sue foto sulle condizioni in cui vivevano furono sufficienti a far entrare in azione l’attivista.

Il primo passo di Aliyev fu di entrare in contatto con la stampa. In un paese noto per la repressione dei media, si recò presso Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), fondata dal governo USA e uno dei pochi media che conducevano giornalismo indipendente nel paese (ora è stata chiusa).

Insieme ai reporter di RFE/RL, si precipitò nella struttura. Una ripresa effettuata dai giornalisti  mostra il momento in cui Aliyev incontrò per la prima volta gli uomini imprigionati. Sono magri e affamati e si accalcano intorno ai loro soccorritori. C’è anche Zoletić.

"Ho guardato il loro cibo", dice Aliyev. "C’era della zuppa in un pentola da cinquanta litri con qualcosa dentro. Ho aperto il frigo e non c’era niente. Niente acqua potabile. Non c’era acqua neanche per farsi la doccia".

"Era terrificante", ricorda. Aliyev ha immediatamente organizzato una conferenza stampa ed è entrato in contatto con le ambasciate dei lavoratori e con organizzazioni internazionali.

Le autorità si rifiutarono di intervenire, così l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e altre istituzioni finanziarono l’organizzazione di Aliyev per la fornitura di cibo e prodotti igienici per quegli uomini.

"Fu così che iniziò la nostra liberazione", dice Zoletić. "Facemmo le nostre dichiarazioni. Loro vennero a vedere le nostre condizioni di vita e ne rimasero sconvolti".

"Iniziarono a fornirci dei cestini per il pranzo, come durante la guerra in Bosnia".

La storia di quegli operai arrivò ai media e i loro capi e sorveglianti sparirono di fronte all’attenzione pubblica. I cancelli per entrare nella struttura si aprirono, ma gli operai ancora non avevano idea di cosa stesse succedendo, né gli erano stati dati i loro salari e i passaporti.

Vissuto comune
L’esperienza descritta in questa storia è stata comune alla maggioranza degli operai. Tuttavia alcuni, tra coloro che rivestivano posizioni di più alto livello, non ritengono di essere stati trattati male. Alcuni hanno persino firmato per rimanere per dei periodi aggiuntivi in Azerbaijan.

Dietro le quinte, Aliyev stava tenendo incontri con rappresentanti del governo. Cercava di arrivare alla qualificazione di quegli operai come vittime di tratta, di fargli ottenere i loro stipendi e di farli tornare a casa. Ma la procedura era lenta e incontrava rigide resistenze.

I lavoratori erano sempre più disperati. "Un uomo minacciò di buttarsi dal tetto se non veniva lasciato andare", ricorda Zoletić. Quando venne mandato a casa, gli altri cercarono di attuare diverse tattiche per costringere l’azienda a rimandarli al loro paese, tra le quali dormire in strada e organizzare proteste pubbliche.

Alla fine SerbAz iniziò a mandarli a casa un po’ alla volta. Ogni mattina, gli impiegati dell’azienda rilasciavano una lista di coloro che potevano andarsene quel giorno. Dato che il suo nome era l’ultimo in ordine alfabetico, Zoletić dovette aspettare più a lungo di tutti gli altri.

Per passare il tempo, girava per le strade di Baku. A volte saliva su un autobus a caso e arrivava fino al capolinea. Il poco russo che conosceva gli consentì di fare amicizia con alcuni ragazzi. Fece qualche partita di calcio con loro riuscendo, almeno per un po’, a dimenticare la sua situazione.

Dopo venti giorni di attesa, Zoletić vide finalmente il suo nome sulla lista. "È stata una gioia indescrivibile", dice. "Stavo tornando a casa. Non sono riuscito a dormire quella notte".

Per ottenere il loro misero stipendio, i lavoratori dovevano firmare una dichiarazione sostenendo che non gli si doveva alcun altro denaro per il loro lavoro in Azerbaijan.

Il processo bosniaco
Nel processo bosniaco la corte dichiarò che SerbAz era il datore di lavoro legale, sottolineando che l’intestazione dei contratti che erano stati firmati riportava “SerbAz”. Da parte loro, i lavoratori dichiararono di non aver mai sentito parlare di Accora Business, la società di Anguilla.

"Abbiamo ricevuto un foglio da firmare in cui si affermava che tutto si era svolto normalmente, che era andato tutto bene e che loro non mi dovevano niente. Dopo aver firmato, mi pagarono una cifra arbitraria, nessuno sa come erano stati fatti i calcoli", afferma Zoletić. La cifra finale era stabilita da SerbAz e nessun operaio intervistato da OCCRP ha detto di aver ricevuto quanto si aspettava di aver guadagnato.

Zoletić e gli altri vennero accompagnati all’aeroporto dalla polizia e finalmente ebbero indietro i loro passaporti. Neanche il misero stipendio poteva smorzare la loro felicità. Sull’aereo esplosero in canti, cantando all’equipaggio “Čarsija,” un canto nostalgico bosniaco sul ritorno a casa.

Zoletić ricorda l’emozione che provò quando si ritrovò unito alla sua famiglia dopo tre mesi vissuti da schiavo. "Felicità per essere tornato a casa. Felicità per aver rivisto i miei cari. Felicità perché loro rivedevano me".

Una battaglia per la giustizia
Da quando sono tornati, Zoletić e gli altri sono diventati figure chiave in diversi procedimenti legali avviati in risposta al loro trattamento.

Astra, un’organizzazione serba anti-traffico, ha passato alcune settimane a raccogliere le testimonianze degli operai e ad aiutarli a tornare alle loro vite. Sulla base del suo rapporto, i procuratori bosniaci hanno avviato un’indagine e hanno incriminato tredici rappresentanti locali di SerbAz - gli uomini che avevano reclutato i lavoratori e comandavano sulle loro vite a Baku - per tratta di esseri umani.

Zoletić è comparso in tribunale come testimone. Inizialmente, l’apparente squilibrio delle forze in campo faceva paura. "Da un lato c’eravamo io e il procuratore, dall’altro c’erano tredici avvocati", afferma.

Giustizia a Strasburgo?
Belma Skalonjić, una rappresentante del governo bosniaco alla Corte europea, ha spiegato cosa c’è in gioco nel caso. Il lato azerbaijano continua a negare che ci sia una responsabilità del governo per quanto accaduto ai lavoratori. L’avvocato dei lavoratori, da parte sua, argomenta che “una serie di mancanze da parte del governo,” incluso il rifiuto di indagare sulla loro condizione e il privare i lavoratori di un processo equo, ha avuto una responsabilità nel loro trattamento. Il caso rappresenta una “violazione grave e palese delle garanzie fondamentali che un essere umano ha nel ventunesimo secolo,” afferma.

Ma il disagio scomparve appena iniziò a rispondere alle domande. "Stavo dicendo la verità", dice. "Non avevo più paura di niente".

Adesso era libero e i suoi aguzzini erano accusati di crimini seri. "Loro sono a processo. E io sono nel mio paese. Sono libero".

Il verdetto, dopo numerosi ritardi, è stato una vittoria parziale. Quattro uomini vennero dichiarati colpevoli; uno è stato condannato a un anno e nove mesi di carcere, mentre agli altri tre è stata data la condizionale. Gli altri non sono stati dichiarati colpevoli.

Nel frattempo in Azerbaijan l’organizzazione di Aliyev faceva causa a SerbAz a nome degli operai per il ritardo nel pagamento degli stipendi e per danni morali. Ma ha perso la causa e due successivi ricorsi. La difesa di SerbAz, che convinse i giudici, era basata sul fatto che i lavoratori avevano firmato un contratto non con SerbAz ma con una società satellite, un'azienda di Anguilla, nei Caraibi. Di conseguenza, gli avvocati di SerbAz argomentarono che la legge nazionale non poteva essere applicata al caso.

"Non ci è stata data la possibilità di essere presenti al processo, né di dare la nostra testimonianza", afferma Zoletić. "Credo che non abbiano neanche provato a ricorrere a tutte le vie legali per raggiungere la verità nella corte nazionale".

La questione ha raggiunto la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, che dovrebbe emanare una sentenza quest’anno relativa al fatto se i lavoratori abbiano ricevuto o meno un processo equo presso la corte azerbaijana.

Zoletić è ora tornato a Živinice. La fabbrica di scarpe dove lavorava è in bancarotta e lavora part-time in una serra, dove può coltivare il suo amore per le piante.

È orgoglioso dei suoi due figli, ai quali ha potuto parlare pochissimo durante il suo periodo traumatico a Baku. Uno dei due, che ora ha più di vent’anni, si è appena sposato. Il più piccolo è ancora adolescente e vuole proseguire gli studi in tecnologia informatica.

Zoletić è stato chiaro, non sta combattendo per i soldi. "Non c’è somma abbastanza alta per la quale un uomo possa voler passare quello che ho passato", ha detto. "Nessuno può darti abbastanza denaro da riuscire a dimenticare tutto. Ma voglio andare avanti, dimostrare che siamo dalla parte giusta. Perché i responsabili vengano condannati e perché la giustizia possa vincere".

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #404 il: Maggio 30, 2020, 13:01:33 pm »
Dice l'italiano medio:
"Certe cose succedono solo in Italia!"
... ah no, cazzo, siamo in Croazia!

Citazione
Croazia: le pericolose allusioni di un ministro

Ancora una volta, e in un paese dell’Ue, i giornalisti si trovano sotto attacco. Il ministro dell’Ambiente croato Tomislav Ćorić scredita il giornalista Hrvoje Krešić citando conversazioni private di quest’ultimo. Sconcerto nelle associazioni di difesa dei giornalisti

28/05/2020 -  Giovanni Vale Zagabria
Eravamo abituati a vedere certe scene in paesi non democratici, dove i leader politici usano le conferenze stampa per insinuare, intimidire e screditare, sogghignando davanti ai giornalisti. Questa settimana, questa stessa tecnica è arrivata in Croazia, paese che attualmente presiede il Consiglio dell’Unione europea. Lunedì, durante una sessione di domande e risposte con la stampa, il ministro dell’Ambiente e dell’Energia Tomislav Ćorić ha attaccato il giornalista delle televisione N1 Hrvoje Krešić citando quello che il reporter avrebbe detto in una conversazione privata. "Per caso, so che…", ha detto a più riprese il ministro, prima di riferire il contenuto di uno scambio "tra giornalisti", del quale è "accidentalmente" al corrente. Una sbavatura? Un fraintendimento? Purtroppo, anche nel caso in cui si tratti di semplice incompetenza da parte del ministro (il contenuto della conversazione rivelata è davvero di scarso interesse), la tecnica usata è delle peggiori e certamente indegna di una repubblica democratica.

L’INA, la Croazia e l’Ungheria
Lunedì, il ministro era chiamato a rispondere su una questione di grande importanza per il paese. Si parlava infatti di INA, la compagnia petrolifera di stato croata, e in particolare di un memorandum d’intesa firmato nel 2018 da Ćorić e rivelato dal settimanale Nacional nel suo ultimo numero. Con il memorandum, il ministro ha autorizzato il trasferimento in Ungheria del petrolio prodotto sul territorio nazionale, per essere raffinato là piuttosto che in Croazia. Il fatto ha un importante risvolto politico, che può essere compreso solo se si conosce la recente storia di INA nei rapporti croato-ungheresi.

Brevissimo riepilogo dei fatti dunque: l’impresa croata INA non è più al 100% statale ma, privatizzata nei primi anni Duemila, è oggi per il 49% di proprietà dell’ungherese MOL. L’operazione di privatizzazione è stata facilitata dal Primo ministro Ivo Sanader (in carica dal 2003 al 2009) che a fine anno scorso è stato condannato a 6 anni di prigione per aver ricevuto una mazzetta da 10 milioni di euro da parte del CEO di MOL, Zsolt Hernadi. In cambio, Sanader ha fatto in modo che MOL ottenesse i diritti di amministrazione di INA. La giustizia croata ha ovviamente condannato per corruzione anche Hernadi, ma Budapest si è sempre rifiutata di estradarlo.

Ora, in Croazia INA controlla due raffinerie, a Sisak e Fiume (Rijeka). Negli ultimi anni, MOL ha fatto sapere a più riprese di voler chiudere l’impianto di Sisak e di considerare la stessa sorte per la struttura fiumana. Il governo Plenković, in carica dal 2016, giocando la carta dell’interesse nazionale ha promesso di ricomprare la quota di INA posseduta dagli ungheresi, ma a due mesi dalla fine del mandato (si vota il 5 luglio) non ha fatto nulla. Ecco che, in questo contesto, la rivelazione di un memorandum INA-JANAF (quest’ultima è l’impresa croata di distribuzione del greggio) che faciliterebbe il trasferimento del petrolio in Ungheria suona come un tradimento delle promesse fatte.

La conferenza stampa
Come ha risposto allora il ministro Ćorić su questo caso spinoso? Cercando di screditare pubblicamente chi lo interrogava. "Per caso, so che lei è insoddisfatto della mia scelta dei membri del CdA di INA - ha detto Tomislav Ćorić al giornalista Hrvoje Krešić - e per caso, so anche che lei conosce personalmente uno di quelli che non sono stati scelti". Ćorić ha poi definito il giornalista "una persona marginalmente coinvolta nel business del petrolio". Com’è arrivato a queste conclusioni? "Perché in uno dei gruppi che voi giornalisti usate per comunicare, lei ha espresso delle critiche", ha risposto il ministro a Krešić, aggiungendo "dia un’occhiata ai messaggi che ha mandato in quei gruppi".

"Non è la prima volta che mi succede una cosa del genere, ma forse questo è il caso più esplicito", commenta Hrvoje Krešić. In passato, ricorda il giornalista, si era sentito dire nell’arco di 24 ore di essere "pro-SDP" dal Primo ministro Andrej Plenković e "vicino all’HDZ" dal leader socialdemocratico Davor Bernardić. "Insomma, non è raro che i politici croati si comportino in questo modo. Ma non mi aspettavo che qualcuno insinuasse un giorno che io sarei stato pagato, corrotto", prosegue il giornalista. Krešić sa a quale gruppo fa riferimento il ministro? "Non so, c’è un gruppo moderato dal portavoce del governo in cui si annunciano dichiarazioni, conferenze stampa. Ci capita di commentare alcuni annunci, tra il serio e il faceto. Ma non sono nemmeno sicuro di aver commentato il caso di INA su quel gruppo", risponde il reporter di N1.

Le dichiarazioni del ministro hanno ovviamente atterrito i giornalisti presenti in sala e scatenato una serie a catena di commenti e condanne. Poco importa infatti che Ćorić abbia letto di persona quei messaggi e che sia stato qualcuno - magari anche un giornalista - a rivelargliene il contenuto, il ministro ha comunque deciso di renderli pubblici, lanciando un messaggio ai colleghi croati che dice: "Fate attenzione a quello che dite fra di voi, perché il governo può venirlo a sapere". Si tratta - inutile dirlo - di un comportamento che mina la libertà di stampa nel paese, preferendo la strada dell’intimidazione e dell’attacco diretto a quella della trasparenza e del dialogo.

Le reazioni
Dopo la conferenza stampa, il premier Andrej Plenković ha difeso il suo ministro, assicurando che il suo governo non sorveglia le comunicazioni tra giornalisti ma che qualcuno ha volontariamente dato quell’informazione a Tomislav Ćorić. Della serie, non c’è nessun sistema di sorveglianza dei giornalisti, ma se qualcuno ci riferisce le loro comunicazioni private, perché non usarle per discreditarli? Lo stesso ministro dell’Ambiente e dell’Energia è intervenuto per assicurare che "mai nella mia vita mi sono sognato di infrangere la privacy di una persona e tanto meno di un giornalista". "Semplicemente - ha aggiunto il ministro - ho ricevuto quelle informazioni da ambienti giornalistici".

"È una mossa incredibile e scandalosa", commenta Hrvoje Zovko, presidente dell’Associazione dei giornalisti croati (HND). "Cosa significa questo comportamento? Che chi fa domande legittime sarà attaccato?", si chiede Zovko, che denuncia "non siamo soddisfatti della comunicazione con questo governo: tanti colleghi non hanno mai ricevuto risposte alle loro domande, altri sono vittime di “guerre ibride”, mentre si alimenta nella società la convinzione che i giornalisti siano colpevoli di tutto". All’esecutivo, l’HND chiede ora di "spiegare come il ministro ha ottenuto quelle informazioni" e di "essere più trasparente sulla vicenda INA-MOL".

Dall’opposizione si levano intanto le voci di chi chiede le dimissioni del ministro. Lo fanno il deputato Bojan Glavašević (ex SDP, ora indipendente), così come la piattaforma Možemo!, mentre il leader dei socialdemocratici Davor Berdardić descrive l’azione del ministro "un trucchetto per distogliere l’attenzione dal vergognoso tradimento degli interessi nazionali da parte di Ćorić e Plenković".

Nel pomeriggio di ieri, è arrivato anche l’intervento di Reporters Sans Frontières: "Siamo inorriditi dal fatto che al ministro Ćorić “capiti di sapere” quello che Hrvoje Krešić ha scritto privatamente ai suoi colleghi e che lo usi per discreditare il giornalista".

"È un comportamento inaccettabile da parte di un governo di un paese membro dell’Ue che detiene la presidenza del Consiglio dell’Ue", ha chiosato RSF.


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