Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78317 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #510 il: Dicembre 26, 2020, 13:49:21 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-le-foreste-depredate-195540

E qui siamo in Azerbaijan.

Citazione
Azerbaijan: le foreste depredate

Ne avevamo scritto alcune settimana fa per la Croazia, ma accade anche in Azerbaijan. Le istituzioni non sempre sono in grado o vogliono difendere il proprio patrimonio boschivo. Con gravi conseguenze sul futuro del paese

25/07/2019 -  Aygun Rashidova,  Esmira Javadova
(Pubblicato originariamente da Chai Khana  il 25 giugno 2019)

La strada ci porta nel profondo della verdeggiante ed erbosa foresta che attornia la strada tra Gadik e Zargova, nel distretto azerbaijano nordorientale di Guba. La foresta sembra estendersi all'infinito, coprendo tutto attorno a noi. Ma anche qui, a distanza di chilometri dal villaggio più vicino, i segni del disboscamento illegale sono chiaramente visibili. La foresta è disseminata di tronchi di alberi e delle loro chiome tranciate. I ceppi morti sembrano corpi senza testa sparsi nella foresta.

Gadik, un villaggio nel distretto di Guba, dista 168 chilometri da Baku, capitale dell'Azerbaijan. Circa 150 famiglie vivono in questo villaggio pedemontano. Gli abitanti dipendono dalla foresta per il loro sostentamento. L'antico bosco protegge le riserve d'acqua, nutre i loro alberi da frutto e l'erba su cui il loro bestiame pascola. Oggi temono però per i loro boschi, e per la sopravvivenza e sicurezza della loro comunità.


Segni del passaggio di mezzi pesanti (Chai Khana)

Durante il periodo dell'Unione sovietica, foreste come quella di Gadik, erano protette dalle guardie forestali. Pattugliavano l'area e tenevano il disboscamento illegale a bada. Ora il sistema di controllo forestale è collassato e le comunità locali hanno iniziato a pattugliare loro stesse i boschi nel tentativo di proteggerli.

Rasul Mehraliyev, 54 anni, dal suo giardino vede bene il bosco. È tra chi effettua i controlli e conosce il paesaggio degli alberi e dei prati come casa sua. Ogni giorno percorre i sentieri del bosco cercando segni di disboscamento. Quando vede nuovi ceppi o tracce di pneumatico allerta le autorità. Mehraliyev ha notato negli ultimi tempi qualche miglioramento: prima c'era più deforestazione illegale per la costruzione di porte e mobili. "È diminuita un po' recentemente, forse perché i giornalisti ne hanno scritto molto. Inoltre dopo che abbiamo installato videocamere di sorveglianza la portata della deforestazione è calata", racconta.

Ma vi sono ancora parecchi segnali che portano a credere che il disboscamento persiste. Nel profondo della foresta, Merhaliyev fa notare - su un sentiero davanti a noi - i segni di ruote di grandi veicoli. "Guarda attentamente, queste tracce sono di automezzi pesanti. Guarda, questi rami sono stati tolti così che questi mezzi possano muoversi liberamente", dice.

Il governo ammette che il territorio coperto da foreste stia diminuendo. In particolare, il ministero dell'Ecologia ha evidenziato un peggioramento della situazione nei boschi dei distretti di Oghuz, Lerik e Guba. Secondo globalforestwatch.org  , organizzazione che utilizza le immagini satellitari per raccogliere i propri dati, l'Azerbaijan dal 2000 ad oggi ha perso 7000 ettari di alberi.

Tuttavia, gli ambientalisti segnalano che anche le immagini satellitari non illustrano pienamente il problema, in parte perché i sensori dei satelliti possono essere elusi da colori verde scuro, come paludi e laghi. "Le immagini satellitari inoltre segnano come foresta tutta la vegetazione più alta di cinque metri, ma potrebbero essere frutteti o parchi, non solo boschi", nota l'ambientalista Javid Gara.

Javid Gara, laureato in Politiche ambientali e gestione all'Università di Bristol, da quattro anni studia la situazione nelle foreste dell'Azerbaijan. A suo avviso le statistiche ufficiali non tengono conto della deforestazione illegale, quindi le cifre riguardo i boschi esistenti e la superficie boschiva sono artificialmente alte. In realtà, dice Javid Gara, i nostri boschi sono in uno stato decisamente peggiore. "Senza boschi vasti e sani, l'Azerbaijan soffre, e soffrirà molto di più, per alluvioni, desertificazione, siccità...", sottolinea Javid Gara. "Ho esplorato i boschi e le aree rurali per gli ultimi 4 anni e ho anche lavorato per dieci mesi nel Dipartimento per lo Sviluppo forestale come senior advisor sulla protezione ... La deforestazione è molto più grave di ogni analisi satellitare o cifra ufficiale".

Secondo Gara, i boschi dell'Azerbaijan si trovano ad affrontare tre sfide: il taglio raso, il taglio selettivo e gli incendi boschivi. "Il disboscamento è la più grande minaccia per le nostre foreste. [I taglialegna] scelgono gli alberi più in disparte e più grandi e questo è in realtà il tipo di disboscamento più facile da fermare. Se c'è la volontà politica, può essere fermato in pochi giorni", dice Gara.

Altre minacce, come il taglio selettivo per il legno da ardere e la produzione di carbone, sono risolvibili se il governo ha il volere di fare passi decisivi, dice. Per esempio, i villaggi dell'Azerbaijan come Gadik non hanno accesso al gas naturale quindi dipendono dal legno per scaldare le loro case in inverno. "Il taglio degli alberi per riscaldarsi è il più difficile da evitare, a meno che tutti questi villaggi e alcuni edifici statali come gli asili, le scuole, le caserme, etc. non vengano fornite di alternative possibili", dice Javid Gara.


Segni di disboscamento illegale (Chai Khana)

"Tuttavia esiste la possibilità di ridurre il suo impatto con una migliore gestione delle foreste e incentivando stufe a legna più efficienti. Idealmente, rendere l'elettricità e/o il gas molto economici nelle aree rurali, specialmente nei villaggi attorno e nelle foreste, diminuirebbe il consumo di legna combustibile".

Gli alberi vengono tagliati anche per fare spazio ai campi agricoli. "Per esempio, un compaesano ha dissodato alcuni ettari della foresta di Gadik per piantare patate. Sono rimasti i ceppi di alberi vecchi di 40-50 anni. Tutto perché qualcuno voleva fare dei soldi dal business delle patate", sospira Rasul Mehraliyev, un abitante del luogo.

Abbattendo parti della foresta, si stanno mettendo intere comunità a rischio, sottolinea l'ecologista Nizami Shafiyev. Gli alberi del bosco - spiega - in particolare i carpini, sono vitali per l'approvvigionamento di acqua delle comunità locali. I cittadini di Gadik si sono già lamentati dei problemi di approvvigionamento idrico e gli ambientalisti segnalano che la salute dei boschi e le riserve di acqua sono strettamente collegate.

Azad Guliyev, a capo Dipartimento dello Sviluppo forestale del ministero dell'Ecologia e delle Risorse naturali, dice che il ministero sta muovendo passi avanti per ridurre il disboscamento, incluse multe a persone colte ad abbattere illegalmente gli alberi. "Lo scorso anno il ministero ha firmato un memorandum col ministero degli Interni per effettuare dei blitz congiunti nelle foreste, rafforzando il controllo sul trasporto di legname con posti di blocco. L'obiettivo era di prevenire il trasporto illegale di materiali dalle foreste. Anche gli agenti di pattuglia del ministero degli Interni sono stati coinvolti", dice Guliyev.

Aggiungendo poi che videocamere di sorveglianza sono state installate nei boschi di numerosi distretti settentrionali nella catena del Caucaso: Zagatala, Sheki, Gakh, Oghuz e Gabala. Le videocamere tuttavia - secondo gli abitanti di Gadik - rappresentano una soluzione solo parziale. I singoli cittadini possono infatti essere dissuasi dalle multe, ma chi gestisce il business del taglio di legname illegale su ampia scala non lo è, nota l'ambientalista Shafiyev.

Se gli alberi tagliati vengono usati come legna da ardere, la multa ammonta a 5 manat [circa 2.6 euro] per metro cubo. Se l'albero è tagliato per ottenere del legno per ragioni commerciali, la penale può variare tra i 50 e i 150 manat [rispettivamente 26 e 79 euro circa] per metro cubo, in base al tipo di albero. L'ecologista Shafiyev aggiunge che queste multe non sono un deterrente per le grandi aziende. "Quelli che fanno queste cose hanno molti soldi e potere", dice.

Alla fine, sono le povere comunità locali che dipendono dalle foreste per il loro riscaldamento e per produrre il carbone che soffrono, sia per l'impatto ecologico del disboscamento illegale che per la debole risposta del governo per fermarlo, sottolinea Javid Gara. "Le persone povere lavorano in condizioni pericolose e malsane per guadagnarsi il pane e i ricchi uomini d'affari e gli agenti corrotti diventano sempre più ricchi. Il disboscamento illegale più intensivo ha luogo nelle regioni di Oghuz e Lerik, dove vi sono meno opportunità economiche che nelle regioni circostanti. In queste regioni, le foreste restano una fonte primaria di reddito per gli abitanti del luogo", chiosa.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #511 il: Giugno 19, 2021, 00:47:00 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-i-giovani-vittime-dimenticate-della-pandemia-211195

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Romania: i giovani, vittime dimenticate della pandemia

Cătălina e Vladi appartengono alla generazione che non ha finito la scuola superiore seguendo il modus operandi classico, e poi ha dovuto affrontare questo “anno strano”, come dice Vladi. “L’anno universitario non ha avuto una vera fine e, allo stesso tempo, non ha mai avuto un vero inizio”

18/06/2021 -  Nicoleta Coșoreanu
(Pubblicato originariamente da Voxeurop  il 10 giugno, traduzione di Anna Bissanti)

Nel gennaio di quest’anno, quasi quattro mesi dopo aver iniziato a studiare Comunicazione e relazioni pubbliche all’università “Babeș Bolyai” di Cluj-Napoca, Vladimir Ciobanu ha finalmente potuto conoscere i suoi compagni di corso. È accaduto dopo che la sua amica, Cătălina Perju è andata a casa sua per tingergli i capelli di biondo – un cambiamento d’immagine radicale – e ha postato alcune foto su una story di Instagram. Vladi ha continuato a conversare con chi aveva commentato il suo post ed ha scoperto che una ragazza del suo corso viveva non lontano dal suo quartiere.

Vladi e Cătălina si conoscono dalle superiori: erano compagni di classe a Bucarest, sono diventati grandi amici e l’anno scorso hanno deciso di iscriversi insieme all’università di Cluj-Napoca. Cătălina studia giornalismo a “Babeș”. Solo due settimane prima che avessero inizio i corsi, però, i due hanno scoperto che la didattica del primo semestre sarebbe stata online a causa della pandemia, così come poi per il secondo semestre. Vladi aveva già preso in affitto un appartamento a Cluj-Napoca e ha deciso di rimanere, mentre Cătălina – che in un primo tempo aveva pianificato di sistemarsi nel campus – è tornata a Bucarest. “Avevamo previsto di essere insieme a Cluj sin dall’inizio e ci sembrava strano essere separati”, dice.

In Romania ogni università è stata libera di decidere se tenere lezioni in presenza o a distanza. La maggior parte ha scelto la seconda opzione. Se non altro, c’è stata una certa continuità rispetto alla scuole che non hanno fatto altro che alternare la didattica in presenza a quella online a seconda dell’instabile andamento epidemiologico. Quello che è certo, invece, sono i problemi di fondo del sistema universitario, messi in luce dalla situazione. Un problema particolare è stato quello della disponibilità di camere nei campus studenteschi. Ogni anno sono quasi 100mila gli studenti  che scelgono questa soluzione, perché si tratta di un’alternativa più economica rispetto all’affitto di appartamenti e, allo stesso tempo, offre maggiori possibilità di socializzazione.

A causa del Covid-19, la disponibilità di camere è stata fortemente ridotta per rispettare le norme sul distanziamento. Al “Babeș Bolyai”, per esempio, soltanto 1.800 camere su 6.700  erano ancora disponibili, la maggior parte delle quali era destinata agli studenti stranieri o chi frequenta i master e i dottorati di ricerca.

Gli studenti che avevano preso in affitto un alloggio prima della decisione degli atenei di tenere le lezioni online hanno perso i due mesi di caparra versati in anticipo. E molti hanno scelto di tornare a casa dai genitori.

Cătălina è riuscita a trovare una camera al campus soltanto nel febbraio di quest’anno. Dapprima non aveva voglia di decorarla, appendendo poster o spostando i mobili: le sembrava più un luogo di passaggio, un posto dove pernottare prima di tornare a Bucarest, nella casa dei genitori, dopo un tragitto di 6 ore in macchina oppure, peggio, un viaggio in treno di 12 ore. “Non ero del tutto presente o assente”, dice Cătălina. Sola e spaesata non sentiva suo quello spazio. È dagli studenti più grandi che ha sentito raccontare la “vera vita studentesca”.

“Tutti ti raccontano che è il periodo più bello della vita, quello più pieno di avventure. Quando poi non si vive nulla del genere, si resta delusi, soprattutto perché non dipende da noi”, dice ancora Cătălina. Per Vladi, il primo anno di università ha voluto dire solitudine e uno schermo da fissare. “Mi è sembrato quasi di aver comprato un paio di corsi online e di averli lasciati andare in sottofondo, oppure di ascoltare un podcast. Per me il primo anno di università è stato questo”.

Da una parte, alcuni insegnanti non hanno adeguato i loro metodi alla didattica online. Vladi continua a sentir raccontare dagli studenti di come sia brava una professoressa che ha l’abitudine di portare dei dolcetti e di divertirli con lezioni interattive, ma tutto ciò che ha potuto vedere, per ora, sono delle slide lette a voce alta su Zoom. Il seminario, dice, dura appena venti minuti. Cătălina sperava di poter scrivere articoli veri, invece ha dovuto adeguarsi a scrivere pezzi basati sui video di YouTube o i tg. “L’unica cosa che potevo fare era intervistare la gente nel centro commerciale e scrivere pezzi sulle nostre camere che venivano allagate dopo i temporali”, dice. 

Uno studio  fatto all'inizio della pandemia racconta che il 59 per cento degli studenti considerava i corsi online “peggiori” o “molto peggiori” di quelli in presenza. Tra le cause c’era la mancata interazione con i compagni e il fatto che gli studenti non potevano accedere alle biblioteche e dovevano svolgere più compiti da soli. Il 49 per cento ha avuto difficoltà a contattare il personale universitario per questioni amministrative e il 46 per cento ha detto che è stato più difficile comunicare con i professori.

Gli abusi dei docenti
Le lezioni online, però, hanno anche portato alla luce gli abusi dei docenti, accendendo un dibattito pubblico sulle loro responsabilità in campo educativo in Romania. Una professoressa dell’Università di Bucarest è stata licenziata dopo che sono circolati filmati nei quali insultava, umiliava e vessava i suoi studenti. Alla Facoltà di Medicina e farmacia di Bucarest è stata avviata un’inchiesta in seguito al caso di un professore che strillava e umiliava online i suoi allievi. Gli ex studenti di entrambi i professori hanno iniziato a raccontare di abusi che andavano avanti da anni.

È stato così possibile parlare, e documentare, il fatto che in Romania gli studenti hanno poca voce in capitolo, sia all’università sia nelle scuole di grado inferiore. Un altro studio condotto dal ministero dello Sport e della Gioventù dal 2018 al 2020 ha evidenziato un calo della fiducia da parte dei giovani nelle istituzioni dello stato, ma anche verso il prossimo. “La metà degli studenti più giovani pensa che sia meglio non fidarsi di nessuno e crede che nessuno si preoccupi della gente che ha intorno”, si legge nello studio. Questo circolo vizioso implica che le persone hanno minori probabilità di impegnarsi a livello sociale o per cercare di provocare un cambiamento.

Cătălina racconta una grande frustrazione per tante cose su cui non ha il controllo e, anche, il fatto che non le è stato chiesto niente in merito dall’anno scorso. All’epoca, stava terminando il liceo, ma non ha potuto esprimersi in merito alle modalità di attuazione degli esami nazionali. Lei e Vladi appartengono alla generazione che non ha finito la scuola seguendo il modus operandi classico, e poi ha dovuto affrontare questo “anno strano”, come dice Vladi. “L’anno scolastico non ha avuto una vera fine e, allo stesso tempo, non abbiamo avuto un vero inizio”, dice.

Questa generazione ha sperimentato un senso di perdita come nessun’altra. “Prima di tutto, questa sensazione ti cambia la realtà e poi perdura, ricordandoti quello che ti sei perso”, dice la psicologa Diana Lupu. Per la generazione di Vladi e Cătălina, non c’è stata una transizione alla vita universitaria. “Dove sono i momenti di congedo formale che ti permettono di iniziare un capitolo nuovo della vita?”.

Vladi sperava di poter entrare davvero in aula, per ascoltare un antipatico professore alle otto di mattina, una delle molte cose di cui si lamentavano le generazioni prima della sua della sua. “Ci eravamo immaginati feste, di conoscere tante persone. Nulla di tutto questo si è avverato. Quest’anno è stato per noi una sorta di anno incompleto”.

 Testo realizzato in collaborazione con la Fondazione Heinrich Böll – Parigi

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #512 il: Giugno 19, 2021, 01:31:25 am »
L'abbiamo capito tutti che gli mancano le feste. Anche se parla del prof., solo per dire che è "antipatico".
Che belli gli studi all'estero, vacanze-premio a base di festicciole per i futuri quadri inetti del sistema. Ricordo una di queste seratine insulse. Una coppia di dottorande spagnole, di sinistra ovviamente, esibivano un selfie in cui giocavano con pistole ad acqua.
Due fesserie "europee" imparate a pappagallo e op! inutile posto in ONG femminista o multinazionale assicurato. L'importante è tenere occupate le donne con qualcosa, fino ai 40.

Quasi non ce ne rendiamo conto, ma siamo una specie divenuta rara. Forse un giorno ci chiuderanno in qualche riserva, chissà.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.


Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #514 il: Febbraio 06, 2023, 21:04:04 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Giornalismo-in-Grecia-la-sconcertante-eredita-di-George-Tragkas-223252

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Giornalismo in Grecia: la sconcertante eredità di George Tragkas
George Tragkas era un giornalista di spicco, scomparso nel dicembre 2021. La scoperta post mortem della rilevanza economica della sua eredità ha però scatenato forti polemiche sul ruolo e il potere dei giornalisti nel paese

02/02/2023 -  Mary Drosopoulos Salonicco
Rumoroso, euro-scettico, con opinioni ultra-patriottiche, George Tragkas era considerato una delle voci populiste più influenti in Grecia. L'esperto giornalista inveiva regolarmente contro potenti e istituzioni, che spesso accusava di cospirazioni volte a minare il futuro del paese e della sua gente.

Durante la famigerata "era dei memorandum sul prestito" e la crisi finanziaria che ha sconvolto la Grecia, Tragkas ha sostenuto fortemente il ritorno alla dracma. I suoi attacchi verbali all'allora cancelliera Angela Merkel sulle politiche finanziarie dell'Europa gli erano valsi una multa di 25mila euro, comminata dal Consiglio nazionale per la radio e la televisione della Grecia, ma anche una copertina sulla rivista tedesca Bild come il volto del "clima anti-tedesco in Grecia".

Durante la pandemia era poi diventato un convinto no-vax, sostenendo che il virus non esisteva. Tragkas è morto a dicembre 2021 a causa di complicazioni legate al Covid-19.

Un’eredità scomoda
Pochi mesi dopo la sua morte, i media locali hanno riferito dell'avventuroso recupero di un testamento manoscritto di quindici pagine che rivela beni strabilianti: depositi in varie banche per milioni di euro, lingotti d'oro e immobili del valore di molti milioni in Grecia, Europa e Stati uniti.

Le immagini delle lussuose proprietà di Tragkas a Monte Carlo, Nizza e Manhattan smentiscono la sua immagine pubblica di "Robin Hood" del giornalismo greco. L'annuncio del sequestro del patrimonio da parte delle autorità greche è stato il colpo di grazia.

Come emerso successivamente, tre mesi prima della morte di Tragkas era stata avviata un'indagine - in seguito ad una denuncia anonima - ma anche alla constatazione di una serie di operazioni incompatibili con i redditi dichiarati dal giornalista. Un rapporto di sessanta pagine pubblicato dall'Autorità Antiriciclaggio ha concluso che i beni del giornalista potrebbero essere il prodotto di attività illecite.

Alla luce di questi sviluppi, alcuni giornalisti locali hanno iniziato a ritrarre il giornalista - un tempo rispettato - come un ricattatore, temuto da molti a causa delle informazioni a cui aveva accesso.

Tra luci ed ombre
Sebbene avesse iniziato la sua carriera come editorialista sportivo ad Atene, Tragkas aveva acquisito notorietà nel 1988 seguendo le condizioni di salute dell'ex primo ministro Andreas Papandreou, ricoverato in ospedale a Londra.

I commenti sarcastici di Tragkas sulla nuova e molto giovane compagna di Papandreou, l'hostess Dimitra Liani, lo avevano portato ad essere attaccato e citato in giudizio da persone dell'entourage del premier. Negli anni successivi a questo episodio, Tragkas si era coltivato un'immagine di schietto eroe popolare, pronto a denunciare gli scandali e la corruzione di altre persone.

Tragkas aveva gradualmente acquisito un potere e un'influenza immensi. Dall'essere caporedattore di vari giornali era passato alla creazione di una propria stazione radio e sito Internet, pubblicando la propria rivista personale e persino fondando il partito politico di destra Popolo Libero.

Nel 2008, la pubblicazione di un elenco contenente gli importi di denaro spesi dal governo per scopi pubblicitari su diversi media ha mostrato che il giornale di Tragkas era stato il maggior destinatario di fondi pubblici, nonostante la modesta tiratura e scarso impatto. A questo segno di favoritismo erano seguiti altri episodi simili.

Il nome di Tragkas compariva nella famigerata lista Lagarde diffusa dal giornalista Kostas Vaxevanis nella sua rivista investigativa Hot Doc. L'elenco conteneva i nomi di oltre duemila potenziali trasgressori fiscali provenienti dalla Grecia con conti non dichiarati presso la filiale di Ginevra della banca svizzera HSBC.

Elenchi simili, presumibilmente forniti dall'ex ministro delle Finanze francese Christine Lagarde ad altri paesi europei per aiutarli a contrastare l'evasione fiscale, avevano innescato ovunque immediate indagini con risultati tangibili.

Non in Grecia: l'elenco era stato trattato come un dato rubato e tenuto segreto per due anni; l'ex ministro delle Finanze George Papakonstantinou era stato persino accusato di deliberata inazione. A pagare era stato invece Vaxevanis, in quello che è diventato uno dei casi più iconici di censura della stampa in Grecia.

Giornalismo e stereotipi
L'indagine in corso dovrà far luce non solo sull'ovvia questione di come il giornalista fosse arrivato a possedere milioni di euro, ma anche sulle circostanze che gli hanno conferito un potere così immenso, consentendogli di ricattare persone, manipolare le istituzioni e ingannare l'opinione pubblica.

Il caso di Tragkas incarna molti degli stereotipi negativi che la società greca associa ai giornalisti e ne consolida ulteriormente la sfiducia nei media. Un'indagine post mortem per corruzione significa che, indipendentemente dall'esito, rimarrà impunito.

Nonostante tutto, è indispensabile andare a fondo della questione se si vuole ricostruire la fiducia nell'istituzione e nella pratica del giornalismo.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #515 il: Febbraio 06, 2023, 21:09:19 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-nessun-progresso-nella-lotta-alla-corruzione-223316

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Montenegro, nessun progresso nella lotta alla corruzione

Nell’ultimo indice annuale di percezione della corruzione (CPI), pubblicato da Transparency International lo scorso 31 gennaio, il Montenegro ha perso una posizione rispetto al 2021, passando dal 64° al 65° posto. Nessuno stupore da parte della società civile locale, che incolpa l'attuale governo di non varare riforme

06/02/2023 -  Tina Popović
(Originariamente pubblicato sul quotidiano Vijesti  , 1 febbraio 2023)

Oggi in Montenegro la lotta alla corruzione è finalizzata alla promozione personale del premier ad interim Dritan Abazović, anziché alla realizzazione delle riforme a lungo termine che possano sopravvivere all’attuale legislatura.


Così Vanja Ćalović Marković, direttrice dell’ong MANS (Rete per l’affermazione del settore non governativo), ha commentato il fatto che nell’ultimo indice annuale di percezione della corruzione (CPI), pubblicato da Transparency International lo scorso 31 gennaio, il Montenegro ha perso una posizione rispetto al 2021, passando dal 64° al 65° posto su 180 paesi presi in considerazione.

Tra i paesi della regione, a segnare un aumento del livello di corruzione percepita sono anche la Serbia e la Bosnia Erzegovina, mentre in Croazia, Albania e Kosovo la situazione è leggermente migliorata.

“Questa situazione è conseguenza delle grandi aspettative riguardo alla possibilità che il cambio di potere [avvenuto in Montenegro a seguito delle elezioni politiche del 30 agosto 2020] potesse portare a risultati concreti e alla prontezza nel fare chiarezza sui casi di corruzione accaduti in passato. Ora è arrivata la conferma che non è stato raggiunto alcun risultato, o quanto meno alcun risultato concreto. Questo vale soprattutto per la nomina dei vertici delle istituzioni giudiziarie”, ha spiegato Ćalović Marković commentando il mancato progresso del Montenegro nella lotta alla corruzione.

Critiche simili sono state espresse anche nel rapporto di Transparency International che, nella sezione dedicata al Montenegro  , sottolinea il fatto che il paese non è riuscito a soddisfare le aspettative di un miglioramento del quadro istituzionale e giuridico relativo alla lotta alla corruzione, proseguendo nella tendenza a nascondere le informazioni al pubblico.

“Alcuni arresti per sospetto abuso d’ufficio e coinvolgimento in attività di criminalità organizzata, come quello dell’ex presidente della Corte suprema, fanno sperare che i peggiori criminali e i loro collaboratori non restino più impuniti. Tuttavia, la lotta per il potere politico, che ha paralizzato la Corte suprema, dimostra che la leadership al potere continua a compromettere l’indipendenza della magistratura, esercitando su di essa un controllo politico, e a minare gli sforzi compiuti nella lotta alla corruzione”, si legge nel rapporto di Transparency International.

Riforme in stallo
Vanja Ćalović Marković mette in guardia sul fatto che in Montenegro “la lotta alla corruzione, invece di mirare a realizzare riforme sostanziali, capaci di sottrarre le istituzioni [giudiziarie] all’ingerenza del potere politico, si sta trasformando in una tendenza populista, finalizzata alla promozione dei politici”.

“Credo che il punteggio [assegnato al Montenegro] nell’ultimo indice di Transparency International sia conseguenza anche delle prassi corruttive della nuova leadership al potere. Penso innanzitutto alla tendenza, ormai diventata molto diffusa, ad assumere persone sulla base della loro appartenenza a determinati partiti politici. Quello che l’opinione pubblica magari percepisce come un passo in avanti [nella lotta alla corruzione] nella maggior parte dei casi è funzionale al populismo e alla promozione politica dell’attuale premier ad interim. Anche quegli arresti non sono che la punta dell’iceberg. Si è limitati a scalfire la superficie, senza indagare a fondo sulle attività criminali compiute negli ultimi tre decenni”, sottolinea Ćalović Marković.

La direttrice di MANS è convinta che la maggior parte dei cittadini montenegrini aveva molto più alte rispetto a quanto fatto negli ultimi due anni. “Il primo rimedio a cui dovremmo ricorrere sono le nuove elezioni, in modo da poter avere un governo abbastanza stabile che dimostri la volontà politica di proporre vere riforme. Ovviamente, non bisogna dare per scontato che le nuove elezioni portino alla formazione di un governo stabile e disposto a compiere riforme. Quel che è certo però è che oggi un tale governo non c'è”, conclude Vanja Ćalović Marković.

Una classe politica irresponsabile
Mira Popović Trstenjak, coordinatrice del programma “Democratizzazione ed europeizzazione” presso il Centro per l’educazione civica di Podgorica, trova preoccupante il fatto che il Montenegro sia nuovamente sceso nella classifica della corruzione percepita, dopo che l’anno scorso aveva segnato un lieve miglioramento.

“Ovviamente, questo risultato non ci ha colti di sorpresa, perché da tempo ormai mettiamo in guardia su vari aspetti dell’arretramento [nella lotta alla corruzione], dalla tendenza [delle autorità] a limitare l’effettivo accesso alle informazioni – una tendenza con cui dobbiamo fare i conti nel nostro tentativo di vigilare sull’operato e sul processo decisionale dell’élite al potere – all’onnipresente propensione dei partiti politici a compiere manipolazioni nella gestione delle risorse pubbliche, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni, passando per la mancanza di qualsiasi forma di controllo istituzionale dei rischi di corruzione e i tentativi di cancellare il principio della separazione dei potere, sottoponendo alcuni segmenti della magistratura a ingerenze politiche”, spiega Popović Trstenjak.

Stando alle sue parole, si ha l’impressione che l’attuale leadership al potere, all’epoca in cui era all’opposizione, abbia criticato la tendenza del DPS e dei suoi partner politici ad abusare delle istituzioni e delle risorse pubbliche non perché vi vedeva una cattiva pratica da cui distanziarsi, bensì per motivi legati ai propri interessi politici.

“Per questo la fiducia riposta nel nuovo governo – le cui promesse ad un certo punto hanno portato ad un miglioramento della posizione [del Montenegro] in questo indice di corruzione – ben presto si è esaurita. È infatti emerso che le promesse riguardanti il contrasto alla corruzione erano mera retorica. Nel nostro paese continuano a vigere doppi standard, siamo ben lontani da una società guidata da decisori politici responsabili. La ricerca condotta da Transparency International è importante anche perché avvalora gli sforzi delle organizzazioni non governative che, proprio perché criticano il potere, continuano ad essere denigrate, subendo pressioni e attacchi”, sottolinea Mira Popović Trstenjak.

L’ascesa dell’autoritarismo
Nemanja Nenadić, direttore di Transparency Serbia, spiega che ogni anno alcuni paesi salgono, altri scendono nell’indice di percezione della corruzione.

“In generale, siamo ancora molto indietro rispetto al resto del continente. La situazione, ovviamente, non è omogenea, ma il problema è che tutti i paesi della regione, compresi quelli che poi nel frattempo sono entrati a far parte dell’Unione europea, erano partiti da una posizione di grande svantaggio. Inoltre, non si è mai completamente sviluppata la consapevolezza della necessità di creare un sistema capace di produrre effetti a lungo termine nella lotta alla corruzione. Anzi, nella nostra regione, e purtroppo anche altrove, si assiste ad un'ascesa del potere autoritario, e questo di certo non è un ambiente favorevole ad una lotta alla corruzione che possa dare risultati destinati a durare nel tempo”, spiega Nenadić.

Per quanto riguarda la posizione della Serbia nell'indice di percezione della corruzione, Nenadić parla di “un decennio di stallo”.

“La posizione della Serbia è cambiata lentamente di anno in anno, poi quest’anno il paese è sceso di due punti. Se osserviamo un periodo più lungo, è evidente che non c’è stato solo uno stallo, ma addirittura una regressione. Ad esempio, nell’ultimo indice la Serbia ha perso sei punti rispetto al 2013. Quindi, è chiaro che assistiamo ad una tendenza negativa, che peraltro emerge da quasi tutte le ricerche sulla base delle quali viene elaborato l’indice di percezione della corruzione. Sarebbe molto difficile sostenere l’ipotesi secondo cui si tratterebbe solo di percezione e opinioni personali. Credo sia del tutto chiaro che abbiamo un problema non solo per quanto riguarda la corruzione percepita, ma anche relativamente allo stato dell’arte della lotta alla corruzione in Serbia e al funzionamento delle istituzioni che dovrebbero dare un contributo rilevante a questa lotta”, conclude Nemanja Nenadić.

In cima all’indice di percezione della corruzione stilato da Transparency International ci sono Danimarca, Finlandia, Nuova Zelanda, Norvegia, Singapore, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi, Germania e Irlanda. Di questi paesi solo la Danimarca e l’Irlanda hanno migliorato la propria posizione rispetto al 2021. In fondo alla classifica invece troviamo Burundi, Corea del Nord, Haiti, Libia, Yemen, Venezuela e Somalia.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #516 il: Febbraio 18, 2023, 16:56:05 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Il-ghetto-del-Kosovo-223536

Citazione
Il ghetto del Kosovo

Il regime dei visti UE ha portato i kosovari ad un insopportabile isolamento. A quindici anni dalla dichiarazione di indipendenza sono costretti a code interminabili, procedure umilianti e costi notevoli per ottenere un visto per i paesi UE. E non sempre ci riescono

17/02/2023 -  Aulonë Kadriu,  Vjosa Musliu
(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0  )

"Perché non usa un megafono?", chiede una donna di 73 anni in attesa insieme a una cinquantina di altre persone davanti agli uffici di Pristina di TLScontact, un centro internazionale per la richiesta di visti. Dal fondo della fila riesce a malapena a sentire l’addetto alla sicurezza che legge dei nomi da un foglio di carta. Quindi la donna tiene gli occhi sulla sua bocca, come molti altri che aspettano nervosamente in fila, tentando di leggere il labiale.

Viene chiamato un altro nome. "Sono io", dice un uomo, interrompendo il rumore silenzioso dei candidati che sfogliano i loro documenti e le loro cartelle. Tutti fanno spazio mentre lui si sposta in testa alla fila.

Gli altri aspettano. Si fanno domande a vicenda. "È la prima volta?" "Dove andare?" Alcuni chiedono consigli a chi è già stato qui.

Nonostante la stanchezza, c'è un senso di solidarietà. Le persone si danno consigli a vicenda e offrono posti di attesa più comodi agli anziani. "Buona fortuna", si augurano, convinti come sono che tutto dipenda dalla fortuna.

L’addetto alla sicurezza grida un altro nome, ma nessuno risponde. Alza la voce e ci riprova. L'urgenza della sua voce inquieta la folla.

Le persone escono periodicamente dall'edificio portando con sé buste che contengono il loro destino. La loro domanda di visto è stata approvata o respinta? Potranno visitare la loro famiglia? Andare in vacanza? Ricevere cure mediche all'estero? Alcuni fanno finta di niente e se ne vanno con la busta sigillata in mano. Altri la aprono con ansia non appena escono. Alcuni festeggiano e chiamano immediatamente i loro cari con la buona notizia. Altri hanno un'aria sconsolata e se ne vanno arrabbiati o storditi.

Tutti, tranne il Kosovo
"Il popolo di un Kosovo multietnico e democratico avrà il suo posto in Europa", si legge in una dichiarazione dell'Unione europea (UE) di pochi giorni prima del vertice di Salonicco del 2003. "I Balcani saranno parte integrante di un'Europa unificata".

L'UE ha parzialmente mantenuto questa seconda promessa nel 2010, quando i cittadini di tutti i paesi balcanici sono stati liberati dall'obbligo di visto, costoso e burocratico, per entrare nei paesi Schengen per un breve periodo. Tutti tranne il Kosovo. 

Solo in quell’anno l'UE ha fornito al Kosovo una tabella di marcia per i visti, ovvero i requisiti che il paese avrebbe dovuto soddisfare per ottenere l'esenzione dall'obbligo del visto nell'area Schengen. I paesi limitrofi avevano ricevuto i passi da compiere nel 2008 con 40 requisiti ciascuno, quella del Kosovo ne aveva invece 93.

Nel 2016 il Kosovo aveva spuntato tutte le caselle della tabella di marcia. Poi l'UE ha introdotto due nuovi requisiti: la ratifica di un accordo di demarcazione dei confini con il Montenegro e il miglioramento della lotta alla corruzione.

Nel marzo 2018, contro una forte opposizione, il parlamento del Kosovo ha ratificato l'accordo per la demarcazione dei confini e pochi mesi dopo la Commissione europea ha confermato che il Kosovo aveva soddisfatto tutti i parametri di riferimento. Ora spetterebbe al Consiglio europeo e al Parlamento UE adottare la proposta di abolizione del regime dei visti per il Kosovo, un passo che è stato continuamente bloccato, in particolare da Francia e Paesi Bassi.

Cos'è il codice dei visti?
Il Codice dei visti dell'UE  è stato istituito nel 2009 come insieme di regolamenti che dettano le procedure e le condizioni per i visti a breve termine per gli Stati membri. Nell'applicare il Codice dei visti, gli Stati sono tenuti a rispettare tutte le leggi dell'UE, compresa la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Al codice sono collegati due documenti allegati, i manuali sui visti I e II. Il Manuale Visti I riguarda il trattamento delle domande di visto e la modifica dei visti rilasciati. Il Manuale sui visti II riguarda la gestione amministrativa del trattamento dei visti e la cooperazione locale Schengen.

Sebbene i manuali non siano obblighi giuridicamente vincolanti, i contenuti si basano e fanno riferimento ad atti giuridici che "producono effetti giuridicamente vincolanti e possono essere invocati davanti a una giurisdizione nazionale". 

Mentre i kosovari devono superare infiniti ostacoli per recarsi negli stati dell'UE, il Kosovo ha simbolicamente accolto l'UE con tutto il cuore. Quando il Kosovo ha dichiarato l'indipendenza nel 2008, l'inno nazionale de facto era l’"Inno alla gioia", l'inno dell'UE e del Consiglio dell'UE. L'attuale inno del Kosovo è una canzone senza testo intitolata "Europa" e la bandiera nazionale è stata progettata per assomigliare alla bandiera dell'UE, un segno della volontà di integrazione europea del paese.

Sebbene l'UE incoraggi questa identificazione simbolica con l'Europa e ripeta il mantra che "il futuro del Kosovo appartiene all'UE", il suo regime di visti suggerisce il contrario. Alla fine del 2022, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno annunciato che il Kosovo avrebbe ottenuto la liberalizzazione dei visti entro il 2024. Ma la risposta del Kosovo è stata tiepida, visti gli anni di promesse non mantenute da parte dell'UE. Per oltre un decennio, i kosovari sono stati tra gli ultimi europei a dover affrontare procedure di richiesta del visto costose, lunghe e a volte arbitrarie per poter viaggiare in Europa. Con la recente esternalizzazione della concessione dei visti a breve termine a società private, vi sono ulteriori preoccupazioni riguardo alla privacy dei dati, ai costi aggiuntivi e alle violazioni del Codice dei visti dell'UE.

L'Ambasciata croata in Kosovo ha dichiarato a K2.0 di aver esternalizzato le richieste di visto a VFS perché "ha consentito un'elaborazione più rapida delle richieste di visto [e] ha migliorato gli standard di servizio per i richiedenti il visto".

Dal settembre 2022, i servizi per i visti della Germania sono stati esternalizzati alla società VisaMetric, registrata in Kosovo nel 2021. Secondo il loro sito web, gestiscono più di 100 centri per la presentazione delle domande di visto in 11 paesi.

Sebbene l'esternalizzazione sia stata fatta in nome dell'efficienza, molti kosovari trovano che l'attuale processo sia quanto mai confuso e scoraggiante. "Negli ultimi anni l'attesa si è prolungata. Negli ultimi due anni è stata una catastrofe", sottolinea Fitore Gashi, uno sviluppatore web che attualmente vive in Germania.

Una delle principali difficoltà è ottenere un appuntamento per il visto. Sebbene il Codice dei visti preveda che gli appuntamenti per il visto siano disponibili entro due settimane, i kosovari devono spesso aspettare almeno un mese, a volte anche cinque.

Nell'agosto 2022, K2.0 ha contattato TLScontact per chiedere un appuntamento. Nessuno spazio sino ad ottobre.

In una dichiarazione rilasciata a K2.0, l'ambasciata tedesca ha affermato che, dopo aver esternalizzato l'elaborazione dei visti a VisaMetric, i tempi di attesa per gli appuntamenti sono stati ridotti da sei mesi a due, un tempo comunque quattro volte superiore a quello previsto dal Codice dei visti.

L 'attivista LGBTQ+ Blert Morina ha avuto problemi a causa di questi ritardi lo scorso autunno, quando doveva partecipare a un incontro di difensori dei diritti umani in Svezia. Ha raccontato che, sebbene gli organizzatori dell'evento avessero scritto all'ambasciata svedese un mese prima della data di partenza, l'unico appuntamento disponibile era cinque giorni prima dell'inizio dell'incontro, lasciando poco tempo per ricevere una risposta e pianificare il viaggio di conseguenza.   

Il Codice dei visti prevede che i richiedenti ricevano una decisione sulla loro domanda entro 15 giorni, anche se a volte ci vuole più tempo.

Alla fine Morina ha ricevuto il visto, ma gli è stato comunicato con circa due ore di anticipo che avrebbe dovuto recarsi immediatamente da Pristina a Skopje, per ritirarlo presso l'ambasciata svedese nella Macedonia del Nord.

L'ambasciata svedese incolpa la pandemia da Covid per i ritardi nella concessione dei visti e afferma che "la maggior parte dei richiedenti riceve un appuntamento al VFS entro poche settimane". VFS non ha risposto alle domande di K2.0.

Eroll Bilibani, produttore e responsabile di DokuLab, il programma educativo del festival cinematografico Dokufest, ha dovuto affrontare numerose difficoltà per aiutare i suoi studenti ad accedere a eventi artistici e culturali nell'UE, proprio a causa dei ritardi nell'ottenimento del visto. Gli studenti di DokuLab, "non possono prendere decisioni spontanee per andare da qualche parte, per vedere qualcosa. Devono pianificare la partecipazione a una mostra con tre o cinque mesi di anticipo. Questa è davvero una grande discriminazione".

Ottenere un appuntamento per il visto è più facile per chi può permettersi di pagare per i servizi premium. VFS dichiara che, pagando un supplemento di 30 euro, i richiedenti possono presentare la domanda nel giorno di loro scelta, ricevere l'assistenza di un membro del team dedicato e presentare tutti i documenti mancanti nello stesso giorno. Un costo aggiuntivo di 12 euro consente ai richiedenti di presentare la domanda al di fuori del normale orario di lavoro. TLScontact e VisaMetric offrono servizi simili denominati "valore aggiunto" e "VIP".

Liri Hashani, 23 anni, ha scoperto a novembre che alcune di queste opzioni a valore aggiunto sono in realtà obbligatorie. Quando alla fine dell'anno scorso ha richiesto un visto tedesco a VisaMetric, è rimasta sorpresa dal fatto che, oltre ai normali 30 euro di costo del servizio, le è stato richiesto di pagare un ulteriore "servizio VIP" di 30 euro per farsi consegnare il passaporto a casa tramite corriere, nonostante volesse ritirarlo personalmente in ufficio.

Il Codice dei visti stabilisce che la tassa di servizio pagata a chi gestisce la domanda di visto non deve superare i 40 euro. Non è chiaro se l'obbligo di pagare 60 euro per il servizio e il corriere sia in contrasto con il Codice dei visti o meno. In ogni caso, i kosovari sono irritati dalla tassa aggiuntiva.

In uno scambio di battute su Twitter a proposito della struttura tariffaria di VisaMetric, Kaltrina Hoxha ha osservato sarcasticamente: "Vivo nello stesso edificio di VisaMetric, posso andarci in pantofole. Sempre 30 euro" [per il servizio di corriere].

In una dichiarazione rilasciata a K2.0, l'ambasciata tedesca ha affermato di aver approvato la decisione di VisaMetric di rendere obbligatoria la tassa per il corriere "al fine di massimizzare il numero di domande accettate ed elaborate evitando il sovraffollamento dei locali del centro visti".

Inoltre, il sito web di VisaMetric afferma che: "Per le domande di famiglia (coniuge e figli), la tassa di 30 euro deve essere pagata una sola volta. Quando si prenota un appuntamento, la tassa di 30 euro a persona sarà rimborsata per i restanti membri della famiglia il giorno della domanda". Un dipendente di VisaMetric ha parlato con K2.0 e ha detto che l'azienda incoraggia i dipendenti a non onorare questa promessa e a trattenere il rimborso.

K2.0 ha inviato a VisaMetric un elenco dettagliato di domande sulla questione, ma non ha ricevuto risposta.

600.000 domande di visto, 99 milioni di euro
Ottenere un appuntamento è solo il primo passo per richiedere un visto, un processo che comporta lunghe file e viaggi in diversi uffici per raccogliere i documenti richiesti.

Una volta arrivati al centro di richiesta, molti si lamentano di dover aspettare a lungo dopo l'appuntamento fissato per presentare i documenti. Morina e altri descrivono anche il personale del centro per la richiesta del visto come aggressivo e scortese. Per alcuni, le code interminabili e la generale mancanza di rispetto sottolineano la sensazione che l'UE voglia tenere fuori i kosovari.

TLScontact ha risposto alle nostre sollecitazioni dichiarando che cercano di accogliere i richiedenti in condizioni piacevoli e che le lunghe code sono dovute al fatto che i richiedenti "arrivano troppo presto agli appuntamenti". Secondo un dipendente di VisaMetric, i richiedenti sono spesso obbligati ad aspettare tre ore oltre gli appuntamenti previsti.

Richiedere un visto non costa solo tempo, ma anche denaro. Il costo stimato per una domanda è di 165 euro. Secondo gli ultimi dati dell'Agenzia statistica del Kosovo, il reddito medio mensile del settore pubblico in Kosovo è di 542 euro. Lo stipendio medio del settore privato è di 376 euro.

Tra il 2014 e il 2021, i kosovari hanno presentato circa 600.000 domande di visto Schengen. Al costo di 165 euro per domanda, in questi otto anni i kosovari avranno speso quasi 99 milioni di euro per richiedere visti a breve termine. In questo periodo di tempo, circa il 20% di queste domande è stato respinto.

I costi possono essere molto più elevati in casi come quello di Enduena Klajiqi. Sommando le spese per il visto per la Bulgaria, le spese di viaggio per Sofia e le spese per il visto per il Belgio, è arrivata a più di 500 euro.

Sebbene il Codice dei visti preveda l'esenzione dalle tasse per un'ampia gamma di visite culturali ed educative (in particolare per i minori di 25 anni), molti kosovari che ne hanno diritto finiscono per pagare comunque.

Esenzioni
Il Codice dei visti prevede l'esenzione dal pagamento dei visti per: bambini di età inferiore ai sei anni; studenti; studenti post-laurea e insegnanti accompagnatori che effettuano soggiorni per motivi di studio o di formazione; ricercatori che viaggiano per svolgere ricerche scientifiche o partecipare a seminari o conferenze scientifiche; rappresentanti di organizzazioni no-profit di età non superiore ai 25 anni che partecipano a seminari, conferenze, eventi sportivi, culturali o educativi organizzati da organizzazioni no-profit.

L'ambasciata svizzera ha dichiarato a K2.0 che TLScontact è responsabile della verifica dell'ammissibilità all'esenzione dai diritti di visto. L'azienda però sul proprio sito web non ha alcuna informazione sull'esenzione dai diritti di visto. L'ambasciata svizzera ha fatto notare che il Codice dei visti è disponibile al pubblico, nonostante non sia disponibile in albanese.

TLScontact ha dichiarato di non includere informazioni sull'esenzione dalle tasse sul proprio sito web perché si tratta di "decisioni prese dal nostro cliente governativo, non da TLScontact. Informazioni sono disponibili sul sito web del governo".

L'ambasciata svedese, per la quale è l’azienda VFS a elaborare i visti, ha dichiarato che "l'ambasciata si assicura che vengano pagate le tasse previste e che vengano applicate le esenzioni dalle tasse. L'ambasciata assiste il VFS in caso di richieste specifiche e si assicura che le tasse vengano rimborsate in caso di errore".   

Il sito web di VisaMetric contiene informazioni solo sull'esenzione dalle tasse per età.

Ciononostante, K2.0 ha parlato con diverse persone che avevano diritto all'esenzione dalla tassa, ma che hanno finito per pagarla. Dafina Fondaj, farmacista, ha pagato la tassa per il suo visto per recarsi all'Università di Lublino, in Polonia, per condurre una ricerca per la sua tesi di master, ricerca scientifica che il Kosovo non ha le strutture per sostenere. All'epoca aveva anche meno di 25 anni.

Flaka Rrustemi, che si è recata in Italia a 22 anni per partecipare a un festival attraverso una ONG, ha dovuto pagare il visto, insieme ad altri colleghi di età inferiore ai 25 anni. “Purtroppo, il nostro accesso alle informazioni è piuttosto limitato e gli impiegati dell'ambasciata non ci informano su queste cose", ha detto, riferendosi al fatto che il gruppo non sapeva di avere diritto all'esenzione dalle tasse.

Eroll Bilibani ha anche fatto notare che Dokufest invia kosovari di età compresa tra i 17 e i 20 anni in viaggi d'istruzione e scambi culturali nell'UE e ha dovuto pagare i visti per gli studenti coinvolti.

Visti di quattro giorni
Anche quando i kosovari ottengono un visto, a volte ne vengono rilasciati di durata inferiore a quella prevista dal Codice dei visti.

Il Codice dei visti stabilisce che "il periodo di validità di un visto per un ingresso comprende un 'periodo di grazia' di 15 giorni di calendario" e riporta un esempio di calcolo del periodo di grazia: "data di arrivo + durata del soggiorno + 15 giorni di 'periodo di grazia'".

K2.0 ha visionato visti concessi a kosovari da stati membri dell'UE con periodi di validità di sette giorni e durate di soggiorno fino a quattro giorni. Validità e durata del soggiorno troppo brevi possono essere fonte di ansia perché un volo cancellato o ritardato, o un altro evento imprevisto, può far sì che il titolare del visto superi il periodo di validità del visto Schengen, impedendogli di ricevere un visto in futuro.

Dardan Konjufca, un giovane del Kosovo, si è trovato di fronte a una situazione del genere quando il suo volo per Pristina dalla Germania è stato cancellato solo 10 minuti prima dell'apertura del gate. Konjufca non era preoccupato per i normali grattacapi associati ai voli cancellati, ma piuttosto per il fatto che il suo visto sarebbe scaduto il giorno successivo e che la compagnia aerea gli aveva offerto un volo alternativo solo due giorni dopo.

Mentre altri si preparavano a rimanere in Germania un po' più a lungo del previsto, Konjufca ha dovuto trovare un altro volo che partisse lo stesso giorno per non violare il suo visto, soprattutto dopo che un funzionario della dogana tedesca gli aveva ingiunto di lasciare immediatamente la Germania. Nonostante Konjufca abbia chiesto alla compagnia aerea di metterlo su un volo per lo stesso giorno, racconta che gli hanno risposto che non potevano farci nulla. È stato costretto a pagare un altro volo in partenza quel giorno. La compagnia aerea iniziale si è rifiutata di rimborsargli il volo cancellato perché gli aveva offerto un volo alternativo.

Blert Morina ha vissuto un'esperienza simile con un volo in ritardo. "Eravamo a un workshop di quattro giorni e la durata di permanenza nel visto era di quattro giorni. Il volo era in ritardo ed è stato molto stressante non sapere se saremmo riusciti a partire in tempo o meno", ha raccontato.

Altri subiscono la frustrazione di ottenere visti a breve termine, nonostante abbiano chiesto quelli a lungo termine. Donika Qerimi ha richiesto un visto nel 2018 per recarsi in Belgio per difendere il suo dottorato di ricerca. La difesa si svolgeva a dicembre e a gennaio, quindi ha richiesto un visto di più settimane che avrebbe coperto l'intero periodo. Ha ricevuto invece un visto per quattro giorni. Ha dovuto presentare un reclamo per ricevere un visto che coprisse l'intero viaggio.

Il sistema a cascata, che regola la durata dei visti, dovrebbe evitare che accadano cose del genere.

Quando i viaggiatori con un visto di breve durata hanno già dimostrato, in passato, di rispettare i termini dei precedenti visti Schengen, dovrebbero aver diritto a ricevere soggiorni con visti multi-ingresso sempre più lunghi.

Un visto per più ingressi, valido fino a cinque anni, può essere rilasciato ai richiedenti che dimostrino la necessità di viaggiare frequentemente o regolarmente, a condizione che dimostrino l'uso legittimo dei visti precedenti, la loro situazione economica nel paese d'origine e la loro reale intenzione di lasciare l'area Schengen prima della scadenza del visto.

K2.0 ha visto diversi passaporti kosovari con visti che non seguono il sistema a cascata. Ad esempio, sebbene Selmani, Bilibani, Qerimi e Morina abbiano dichiarato di recarsi regolarmente nell'UE da oltre un decennio, nessuno ha mai ricevuto un visto di cinque anni e ad alcuni sono stati concessi visti di breve durata, a volte anche di pochi giorni, dopo essere stati precedentemente in possesso di visti plurimi di lunga durata. 

Il sistema a cascata
Secondo “il sistema a cascata”, se un richiedente ha ottenuto e utilizzato legalmente tre visti nei due anni precedenti, ha diritto a un visto con un periodo di validità di un anno.

I richiedenti che negli ultimi due anni sono stati in possesso di un visto a ingresso multiplo con validità di un anno hanno diritto a un visto di due anni. Dopo aver utilizzato un visto a ingresso multiplo di due anni, i richiedenti hanno diritto a un visto di cinque anni.   

Bilibani ha dichiarato che, nonostante non abbia mai violato le regole sui visti e viaggiato spesso, gli è stato recentemente concesso solo un visto di sei mesi dopo averne posseduto uno di tre anni, un'apparente violazione del sistema a cascata.

Le ambasciate di Svizzera, Germania, Svezia e Croazia hanno dichiarato di applicare rigorosamente il sistema.

Anche ricevere un visto di breve durata viene vissuto come una vittoria, perché è comune che le domande vengano respinte su una base che sembra arbitraria.   

Morina è stato respinto cinque volte e dubita che riproverà a fare domanda.

Anche Bilibani è stato respinto una volta. Nel 2018 è stato invitato a parlare al Festival internazionale del cinema di Berlino - Berlinale, ma l'ambasciata tedesca gli ha negato il visto con la motivazione che mancava un documento.

I documenti mancanti sono una particolare piaga per i richiedenti il visto, perché l'obbligo di fornire "documenti relativi all'alloggio o la prova di mezzi sufficienti per coprire l'alloggio" può essere interpretato in modo soggettivo.

Il Codice dei visti stabilisce che quando gli esaminatori della domanda stabiliscono che non sono stati forniti documenti sufficienti, la domanda è irricevibile e l'organo di controllo deve immediatamente "restituire il modulo di domanda e tutti i documenti presentati dal richiedente, distruggere i dati biometrici raccolti, rimborsare i diritti per il visto e non esaminare la domanda".

Bilibani ha affermato che nel suo caso la procedura sopra descritta non è stata applicata e che il suo visto è stato esaminato e poi respinto.

Alcune persone hanno raccontato a K2.0 di esperienze in cui gli addetti al trattamento dei visti li hanno informati che alle loro domande mancavano di documenti, compresi documenti che non erano elencati da nessuna parte come documenti necessari per la domanda. È stata quindi offerta loro la possibilità di presentare il documento mancante pagando un costo aggiuntivo.

TLSContact e l’ambasciata svizzera negano che vi sia una tassa obbligatoria per presentare un documento mancante. VFS e VisaMetric non hanno risposto alle domande sulla questione.

I richiedenti la cui domanda viene respinta hanno il diritto di fare ricorso. Può essere un processo oneroso o costoso e ogni paese ha le proprie procedure. Mentre il ricorso contro il rifiuto di un visto da parte dell'ambasciata svizzera costa circa 200 euro, più del costo della domanda di visto, un ricorso in Svezia o Norvegia non richiede alcuna tassa. Un ricorso all'ambasciata croata costa 43 euro.

Protezione dei dati, trasparenza e privacy
Nel 2018 l'UE ha emanato il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), che offre ai cittadini e ai residenti dell'UE un maggiore controllo sulle modalità di raccolta, utilizzo e protezione dei loro dati. Regole rigorose richiedono ora alle organizzazioni di proteggere i dati personali che raccolgono attraverso misure di salvaguardia. Il GDPR dà inoltre ai cittadini e ai residenti dell'UE il diritto di recuperare i propri dati personali dalle istituzioni pubbliche e private.

K2.0 ha parlato con studiosi e attivisti specializzati nella governance pubblica e nelle questioni relative al GDPR, che hanno sollevato domande e preoccupazioni sull'accumulo e l'elaborazione dei dati di cittadini extracomunitari da parte di TLScontact. Chi possiede i dati medici, legali e finanziari delle decine di migliaia di kosovari che ogni anno fanno domanda di visto per l'UE attraverso TLScontact?

Prima dell'esternalizzazione dei servizi per i visti, i consolati o le ambasciate gestivano ogni parte del processo di rilascio dei visti. Ora sono aziende private ad avere il compito di gestire e proteggere i documenti e le informazioni sensibili necessarie per ottenere un visto, che, a seconda del paese, possono includere dettagli sullo stato di salute, risparmi bancari e numeri di conto, condizioni di salute mentale, orientamento sessuale e altro ancora.   

La Svizzera, che gestisce le domande per molti paesi dell'area Schengen, non è membro dell'UE e non è tenuta a rispettare il GDPR. Tuttavia, TLScontact, che gestisce l'elaborazione dei visti in Svizzera è una società dell'UE ed è quindi tenuta a rispettarle anche quando tratta con cittadini non UE come i kosovari. L'ambasciata svizzera ha dichiarato a K2.0 di rispettare il GDPR in tutte le fasi del processo di richiesta del visto e TLScontact ha affermato che tutti i dati raccolti dai richiedenti il visto "sono completamente criptati e inviati a server governativi sicuri, prima di essere eliminati dai nostri sistemi".

Una componente chiave delle salvaguardie del GDPR è che i cittadini e i residenti dell'UE devono essere pienamente informati su come verranno utilizzati i loro dati. K2.0 ha posto delle domande alle ambasciate degli stati membri dell'UE in Kosovo che sono rappresentate da TLScontact, VFS o VisaMetric su come utilizzano esattamente i dati dei richiedenti. I pochi che hanno risposto hanno dichiarato in generale di prendere sul serio la sicurezza dei dati e di aderire al GDPR durante l'intero processo di richiesta del visto.

Tuttavia, un dipendente degli uffici di VisaMetric a Pristina ha dichiarato a K2.0 che c'è poca attenzione alla protezione dei documenti fisici e dei dati dei richiedenti nel processo di trasporto delle domande da e verso l'ambasciata tedesca e poi ai richiedenti attraverso il servizio di corriere. Secondo questo dipendente, le procedure poco rigorose hanno portato alla perdita di documenti o passaporti dei richiedenti. VisaMetric non ha risposto a una richiesta di commento.

Le preoccupazioni sulla privacy e sulla protezione dei dati sono state al centro delle proteste di alcuni politici e attivisti in Germania quando il paese ha annunciato nel 2017 l'intenzione di iniziare a trasferire l'elaborazione delle domande di visto a società private.

K2.0 ha parlato con Thomas Tombal, un ricercatore dell'Università di Tilburg nei Paesi Bassi che si occupa di questioni relative alla protezione e alla governance dei dati, delle informazioni fornite a K2.0 da TLScontact. Ha espresso preoccupazione per il fatto che non indicano che tipo di dati utilizzano i governi dell'UE o per quale scopo.

"In queste risposte [di TLScontact], molte cose si perdono nella traduzione: non si capisce quali siano le responsabilità del garante pubblico - dell'ambasciata - dell'azienda privata, e la legislazione in vigore dove si opera", ha detto Tombal.

Sebbene TLScontact abbia dichiarato a K2.0 di "non vendere i dati personali raccolti dai richiedenti il visto", sul suo sito web si legge che trasferisce "alcuni dati personali a paesi, territori o organizzazioni che si trovano al di fuori dello Spazio economico europeo". Non è chiaro di chi siano i dati trasferiti, su quale base legale e a chi.   

Le preoccupazioni per la privacy vanno oltre le leggi arcinote sulla protezione dei dati, ma i tentativi di opporsi possono influire negativamente sulle possibilità dei richiedenti di ottenere un visto. Quando Eroll Bilibani si è visto rifiutare il visto per partecipare alla Berlinale nel 2017, il suo visto è stato respinto perché si è rifiutato di consegnare gli estratti conto bancari, mostrando invece i rendiconti finanziari dell'organizzazione culturale che copriva il suo viaggio. "Ho presentato gli estratti conto della nostra organizzazione perché le nostre spese sono coperte dall'organizzazione", ha detto, "quindi non c'è motivo per cui l'ambasciata dovrebbe voler sbirciare i miei risparmi personali. È una violazione della privacy ed è degradante".

Alcuni kosovari si lamentano anche delle violazioni della privacy nella parte personale del processo di candidatura. Quando Fitore Gashi ha fatto domanda per un visto di ricongiungimento familiare per andare in Germania, ha dovuto presentare la prova dell'impiego e dello stipendio del marito come parte della documentazione. L'impiegato che stava esaminando la sua pratica ha detto: "Wow, che bello stipendio ha tuo marito. Dove lavora?".

"È una domanda che non avrebbero mai dovuto farmi. Non sono affari loro", sottolinea Gashi, che nonostante si sentisse offesa per la violazione della sua privacy, era consapevole di non essere libera di non consegnare questi documenti sensibili né di contraddire l'addetto ai visti.

Dopo aver richiesto un visto per la Grecia, anche Driton Selmani ha vissuto un'esperienza strana che ha sollevato questioni di privacy. Come tutti i richiedenti, ha dovuto fornire la prova dell'alloggio, in questo caso prenotando un hotel per il suo soggiorno. Ma a un certo punto, poiché il suo visto aveva un periodo di validità di tre mesi, ha scelto di posticipare il suo viaggio di una settimana e di prenotare nuovamente un altro hotel. Poco dopo, ha ricevuto una telefonata scioccante dall'Ufficio di collegamento della Grecia a Pristina che gli chiedeva perché avesse cancellato la prenotazione dell'albergo. "È stato come se qualcuno fosse entrato nel mio letto proprio tra me e mia moglie", ha raccontato.

K2.0 ha contattato l'Ufficio di collegamento greco a Pristina in merito all'incidente, ma non ha ricevuto alcuna risposta.

"La privacy è un diritto umano, sancito da importanti leggi europee e internazionali. Se alcuni governi dell'UE negano questo diritto ai cittadini extracomunitari, stanno dicendo che i cittadini extracomunitari non sono esseri umani e quindi non meritano questo diritto", ha dichiarato Aral Balkan, un attivista informatico che vive in Irlanda.

Guardando al futuro
Il 14 dicembre 2022, lo stesso giorno in cui i leader del Kosovo hanno firmato la domanda di adesione all'UE, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno raggiunto un accordo per "concedere al Kosovo la libertà di visto a breve termine". L'accordo prevede che l'esenzione dal visto venga applicata al più tardi entro il 2024, dopo l'implementazione del Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi (ETIAS), un sistema di controllo delle frontiere dell'UE.

Dopo anni di disinteresse e di eterni ritardi nella tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti, dopo anni di rifiuti arbitrari delle domande di visto, di violazioni del Codice dei visti e di decine di milioni spesi in tasse, i kosovari sono per lo più esausti del processo. A parte l'attesa di uno o due anni, ora sembra che ben poco si opponga all'accesso all'esenzione dal visto per i viaggi nell'UE e nella zona Schengen. Ma le speranze dei kosovari sono già state deluse in passato, e l'accoglienza alla notizia recente è stata tenue. In molti ritengono che si sia effettivamente ormai vicini, ma per loro è troppo tardi.

Nel frattempo, i kosovari continueranno a sforzarsi di capire cosa dice l’addetto alla sicurezza fuori dai centri privati di gestione dei visti a Pristina. Almeno per il resto di quest'anno, continueranno a organizzare cene di festeggiamento quando riceveranno visti a breve termine e le cartomanti specializzate in questioni di visti - che lanciano incantesimi di buona fortuna sui passaporti - continueranno a fare affari.

"Dov'è il tuo invito? Dove andrete? Quanto tempo vi fermerete? Quanto denaro ha con sé?". Blert Morina ricorda che gli agenti di polizia gli pongono queste domande ogni volta che entra nell'UE. Ha deciso che se dovrà recarsi nell'UE a breve, lo farà solo se un'organizzazione che lo ha invitato si occuperà della procedura di richiesta: è troppo frustrato per affrontare di nuovo questa procedura da solo, per poi essere trattato come un criminale alla frontiera.

Fino al giorno in cui il regime dei visti non sarà abolito, persone come Eroll Bilibani rimarranno stordite dai loro viaggi. Durante il suo ultimo viaggio in Germania, all'arrivo in aeroporto è stato fermato da un agente di polizia e gli è stato detto di tirare fuori i contanti per dimostrare che poteva coprire le spese. Questo è accaduto nonostante avesse un visto e fosse stato invitato da un'organizzazione che copriva la maggior parte delle sue spese. "Devi avere un bagaglio di documenti per convincerli che sei abbastanza bravo per loro", ha detto. Anche se la liberalizzazione dei visti sembra essere in arrivo, l'UE ha abbandonato i kosovari a vivere in, come ha detto Bilibani, "un ghetto, un vero ghetto".

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #517 il: Febbraio 18, 2023, 17:06:09 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Ucraina/Ucraina-la-lotta-femminista-non-si-ferma-con-la-guerra-219387

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Ucraina, la lotta femminista non si ferma con la guerra

Come sta cambiando il quadro delle rivendicazioni sociali e politiche femministe, ma anche il ruolo delle donne nella società dell'Ucraina in guerra? Ne abbiamo parlato con l'attivista Viktoriia Pihul del collettivo anticapitalista "Sotsialnyi Rukh"

19/07/2022 -  Francesco Brusa,  Piero Maestri,  Elisabetta Michielin
Se la guerra in Ucraina inizia a prendere sempre meno spazio sulle pagine dei giornali e nei servizi televisivi, non per questo le condizioni di chi si trova “sul campo” migliorano. Anzi, mano a mano che il conflitto militare si configura sempre di più come una guerra d’attrito sulla linea del Donbass, per la popolazione (non solo ucraina) si aggiungono nuove e pressanti crisi da affrontare: la scarsità di cibo e medicinali, nuove tensioni sociali, battaglie per i diritti dei lavoratori, l’assistenza alle numerose persone dislocate e ferite, ecc.

Oltre a contrastare l’invasione, insomma, c’è un grosso “lavoro di cura” che deve essere portato avanti e che vede una forte mobilitazione civile all’interno del paese, in particolare da parte di gruppi e collettivi femministi. Ce lo spiega Viktoriia Pihul, attivista femminista che in questo momento si trova a Kyiv, membro del collettivo anticapitalista Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”) e impegnata nella difesa dei diritti delle donne e sindacali. È fra le redattrici del manifesto “The Right to Resist”, di recente pubblicazione. Le abbiamo chiesto di raccontarci la “stratificazione” del conflitto nel contesto ucraino e di provare a immaginare quali prospettive possano darsi per il futuro.

Cosa significa vivere in guerra ed essere femminista e donna? In che modo la guerra e la cultura militarista e patriarcale agiscono sulla condizione femminile?

Da più di quattro mesi sto vivendo l'esperienza della guerra su me stessa, osservando i miei parenti, i miei conoscenti e anche quelli che non conosco. Definirei la nostra vita in questo periodo come un processo di lotta per la vita stessa. Veniamo infatti derubati di un bisogno umano fondamentale: la sicurezza. Ogni giorno andiamo a dormire senza sapere se domani noi e i nostri cari avremo una casa, del cibo, un tetto sopra la testa e, soprattutto, una vita. E poi riprendiamo a fare le solite cose al suono delle sirene antiaeree, dei razzi che volano sopra le nostre teste e delle bombe che esplodono. Anche una delle canzoni più popolari nelle classifiche musicali ucraine di YouTube si chiama "У мене немає дому", che significa "Non ho casa".

Ma la guerra non è solamente il conflitto manifesto. La guerra è l'aggravarsi di tutti i problemi aperti presenti anche in precedenza nella vita pubblica, politica e sociale. È dentro un tale processo che vorrei parlare del ruolo delle donne, perché anch'esso ha assunto nuove forme. I ruoli di genere stanno cambiando in Ucraina. Con la disoccupazione di molte persone e l'arruolamento soprattutto degli uomini nelle Forze armate ucraine, le donne riferiscono di aver assunto nuovi ruoli e molteplici lavori per compensare la perdita di reddito familiare.

Allo stesso tempo le donne trascorrono sempre più tempo con i loro figli perché questi si dedicano all'apprendimento a distanza. Decidono anche di rimanere nei territori occupati per prendersi cura dei genitori anziani o di altri. Oppure hanno paura di perdere le loro fonti di reddito. Così, sono sempre più a rischio di violenza, sia da parte dei russi che nei contesti domestici, di abusi psicologici. Ci sono infatti già notizie (non statistiche, purtroppo, perché è quasi impossibile fare ricerca sociologica durante la guerra) di un aumento del livello di violenza domestica. Quando le donne si rivolgono alla polizia per sporgere denuncia, gli agenti alzano le mani e dicono che "non è il momento" di occuparsene.

Probabilmente la ratifica della Convenzione di Istanbul  potrebbe influenzare la soluzione di questo problema. Ma è importante ricordare che l'Ucraina l'ha adottata con emendamenti e restrizioni per garantire il consenso con i conservatori e la Chiesa. In altre parole l'Ucraina si è riservata il diritto di non modificare la Costituzione, il Codice di famiglia e altre leggi adottate in precedenza. Pertanto, tutto dipenderà dall'effettiva applicazione della Convenzione nella realtà.

Quali altri settori sociali stanno subendo le conseguenze del conflitto?

Il governo ucraino ha approvato leggi che limitano i diritti di lavoratrici e lavoratori: in primo luogo prevede la possibilità di rifiutare gli accordi collettivi con i sindacati (e questo viene già messo in pratica nelle imprese); in secondo luogo i datori di lavoro possono costringere a lavorare di più senza un accordo sindacale; ancora, viene previsto un sistema di licenziamento semplificato. Gli scioperi e le manifestazioni sono vietati. Dato che le donne sono ora costrette a lavorare di più, questa legge le riguarda direttamente. Questa legge era stata preparata prima della guerra ma ora è un momento molto opportuno per approvarla, mentre l'attenzione dell'opinione pubblica è completamente spostata sul conflitto.

In generale c'è un'opinione diffusa per cui questo non è il momento di criticare le politiche interne del governo, di affrontare le questioni di genere, comprese le quote di genere in politica, di affrontare il problema della violenza domestica, della disuguaglianza nel pagamento dei salari. Ma sappiamo che è impossibile rimandare tali questioni. Altrimenti questo nodo si stringerà ancora di più.

Il ruolo delle femministe rimane importante, come lo era prima della guerra. Ma io penso che il nostro compito sia quello di lavorare con le donne, ascoltando e prestando attenzione ai loro pensieri e alle loro esigenze. Nella società ucraina c'è un certo stereotipo secondo cui le femministe sono “giovani ragazze pazze” che non hanno sviluppato una vita personale e odiano gli uomini. Questa è una debolezza, ma ci si può lavorare. Per me il nostro ruolo di femministe è quello di stare con le donne, aiutarle a superare i momenti più difficili, capire le loro esigenze, aiutare e dimostrare che ci battiamo davvero per i nostri diritti.

È importante aiutarle a comprendere l'enorme contributo che le donne hanno dato alla sopravvivenza dell'Ucraina: il loro lavoro sul fronte domestico, la fornitura di aiuti umanitari, il volontariato, la cura dei bambini e degli anziani, la fornitura di servizi medici e di altro tipo. Fanno tutto questo e spesso lo danno per scontato. La visibilità delle donne è molto importante ma sono le donne stesse che devono rendersene conto per prime.

Com'è cambiato il vostro impegno e cosa nelle vostre pratiche? Quali conquiste o livelli di dibattito rischiano di retrocedere e quali spazi potenziali si possono aprire?

Prima della guerra le femministe e coloro che hanno lottato con noi per i diritti e la visibilità delle donne hanno in gran parte svolto un lavoro di sensibilizzazione: corsi, programmi ed eventi educativi; organizzazione di azioni, marce, ecc. Ora questo lavoro si sta trasformando e gli aiuti si concentrano principalmente sulla sopravvivenza e sul sostegno umanitario: cibo, vestiti, alloggi, medicine.

Questo porta a una sorta di contraddizione: da un lato, il movimento femminista si sta avvicinando alle donne, ascoltando le loro voci. L'aspetto positivo per i diritti è che le donne sono in prima fila e più impegnate negli sforzi umanitari della comunità, offrendo agli attori umanitari l'opportunità di cercare la partecipazione e la guida al  femminile. Credo sia molto importante concentrarsi su questo aspetto: le donne sono coinvolte in processi molto importanti che permettono agli ucraini di vivere e sopravvivere nelle retrovie.

D'altra parte molti problemi vengono considerati, come ho già detto, come posti nel “momento sbagliato” e questo rende possibile perdere le conquiste del passato. E ciò che le donne stanno facendo ora per vincere può essere trascurato nel discorso pubblico, anche perché in questo momento tutta l'attenzione è concentrata sulle operazioni militari e sul ruolo degli uomini. In questo senso, anche il contributo femminile al fronte sarà meno evidente. In altre parole la disuguaglianza nella rappresentazione dei ruoli femminili e maschili non scompare durante la guerra, ma anzi aumenta.

A ogni modo, vedo uno spazio potenziale per il lavoro femminista attraverso l'attivismo di base e il lavoro con le donne per costruire coesione, consapevolezza della nostra visibilità e ulteriore lotta per la partecipazione politica. Per esempio le quote di genere, la promozione e l'attuazione della Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata il mese scorso in Ucraina, il lavoro sul problema della violenza domestica, la creazione di case di accoglienza per le donne con il sostegno diretto di psicoterapeuti.

Tutto questo potrà essere realizzato quando le donne porteranno avanti i loro interessi e supereranno lo stereotipo secondo cui tutto viene fatto da alcuni grandi personaggi della politica e loro non decidono nulla.

Quali forme e relazioni di resistenza state portando avanti dopo quattro mesi di guerra? Come pensate che sarà il dopoguerra e come vi state preparando, anche rispetto ai rischi di crisi sociale interna (pericolo di crescita dei nazionalismi, indebitamento)?

Sono volontaria presso l'organizzazione sociale "Sotsialny Rukh  ". Fin dal primo giorno di guerra abbiamo iniziato a lavorare per i diritti sociali in modo molto capillare. Siamo consapevoli che la ricostruzione postbellica dell'Ucraina sarà un percorso molto lungo e complesso. Solo ora le perdite ammontano a diversi miliardi di dollari, la guerra è ancora in fase attiva e la distruzione continua ogni giorno. Attualmente il debito estero dell'Ucraina ammonta a 125 miliardi di dollari, la spesa per il servizio del debito per il 2022 dovrebbe essere di circa 6,2 miliardi di dollari. Si tratta di circa il 12% di tutte le spese del bilancio statale. La componente del FMI di questa somma è di 2,7 miliardi di dollari. Ciò equivale a 16,5 milioni di pagamenti medi di pensioni in Ucraina.

Una delle nostre campagne principali è quella per la cancellazione del debito estero dell'Ucraina per ridurre l'onere sul sistema finanziario. Oltretutto questo debito è ingiusto: l'indebitamento caotico e la condizionalità antisociale del debito sono stati il risultato di una completa oligarchizzazione, per cui non volendo combattere i ricchi, i governanti dello Stato hanno continuato a indebitarsi sempre di più. I prestiti sono stati emessi con la condizione del taglio alla spesa sociale e il loro rimborso ha costretto i governi a risparmiare sulle necessità vitali e ad applicare l'austerità ai settori economici fondamentali. Per saperne di più sul debito estero, sul perché è importante cancellarlo e per firmare la petizione, è possibile visitare il sito web  creato dai nostri attivisti.

Ci battiamo anche per i diritti di lavoratrici e lavoratori. In questo momento siamo attiv* con il progetto chiamato "Трудоборона  "/"Difesa del lavoro". Tutt* possono raccontare il proprio caso di violazione dei diritti, come licenziamenti (ci sono casi in cui si viene licenziati anche via messenger) e altro. Il nostro avvocato consiglia e aiuta, attraverso gli aspetti legali, a tutelare i diritti di lavoratrici e lavoratori. Ci sono anche casi di cause vinte in tribunale. Tra questi racconti ci sono le storie di donne che sono state licenziate illegalmente e che hanno lottato fino all'ultimo in quanto hanno la responsabilità di provvedere ai loro figli ed essere disoccupate è una tragedia in condizioni di guerra.

Abbiamo lanciato una campagna per impedire la liberalizzazione del diritto del lavoro prevista nel disegno di legge 5371, che distrugge essenzialmente i diritti di lavoratrici e lavoratori delle piccole e medie imprese (che sono il 73% delle imprese private). La legge contrasta con le norme dell'UE e dell'OIL ed era stata stata rinviata grazie alla protesta dell'opinione pubblica, almeno fino allo scoppio della guerra. Stiamo anche lottando per le dimissioni di Galina Tretiakova - capo del Comitato della Verkhovna Rada dell'Ucraina per la politica sociale e la protezione dei diritti dei veterani - che ha promosso questa legge prima della guerra e ora ha approfittato della legge marziale e del cambiamento di orientamento per approvare questa stessa legge. Gran parte del lavoro consiste anche nella collaborazione con i sindacati, tra cui il sindacato "Будь як Ніна"/"Difesa del lavoro", che tutela i diritti delle lavoratrici del settore sanitario perché le infermiere stanno perdendo il posto di lavoro, i loro stipendi sono stati tagliati e così via.

Per noi è importante che la guerra non diventi una scusa per imporre restrizioni sociali alle persone, perché saranno loro a ricostruire l'Ucraina.

Quali rapporti avete con altre associazioni? Quali risposte hanno dato le donne e le minoranze alla difesa armata e/o civile e quali differenze intercorrono tra le due?

Tutte le rappresentanze delle organizzazioni femminili e delle minoranze sono favorevoli alla difesa armata, perché il pacifismo astratto non funziona di fronte all'invasione russa. Inoltre sono attivamente coinvolte nella lotta: trovano aiuti umanitari, medicine (anche per le persone trans), creano rifugi e aiutano le donne con bambini a trovare o lavorare come babysitter. In più, donne e minoranze fanno parte delle forze armate e combattono in prima linea.

Vorrei anche ricordare che la Russia e la sua propaganda ritengono che tutti i movimenti sociali, compresi quelli delle donne, siano una sorta di "agenti dell'Occidente". Per questo motivo noi (attiviste) non abbiamo motivo o intenzione di rinunciare alla lotta. Non possiamo semplicemente deporre le armi, perché questo porterebbe a una catastrofe su scala globale. Il punto è che abbiamo il diritto di difenderci e lottiamo per la nostra libertà.

Avete rapporti con altre femministe nei Paesi dell'Europa orientale o occidentale? Cosa pensi della posizione di chi nel contesto della situazione ucraina si pronuncia a favore della “diserzione di tutte le guerre”?

Sono attiva nell'ENSU  (European Network of Solidarity with Ukraine) che ha costituito un gruppo di lavoro di femministe provenienti da diversi Paesi europei. Siamo anche in contatto con le femministe di Defensorías de género in Argentina e lavoriamo attivamente anche con il partito polacco Razem. Per esempio, nel nostro gruppo di lavoro abbiamo creato insieme una petizione per chiedere la legalizzazione dell'aborto in Polonia  , perché molte donne ucraine che hanno subito violenza dall'esercito russo e sono rimaste incinte sono fuggite dalla guerra in Polonia e in quel paese non hanno il permesso legale di abortire. Per questo motivo è un tema importante non solo per l'Ucraina, ma anche per l'agenda femminista globale.

Abbiamo letto e ascoltato molte dichiarazioni pacifiste delle femministe occidentali, compreso il loro manifesto. Di fronte alla guerra e alla morte quotidiana delle nostre donne e dei nostri bambini, siamo critiche nei confronti di questa posizione. In questo contesto faccio parte di un gruppo di lavoro di femministe ucraine che ha scritto il Manifesto delle femministe ucraine. Chiediamo di sostenere le donne ucraine, compreso il nostro diritto alla resistenza armata. Questa guerra ci mette di fronte alla consapevolezza che il femminismo è un movimento che deve rispondere alle situazioni che cambiano, essere flessibile e sviluppare i principi in base alle nuove condizioni.

Cosa chiedete alla sinistra europea antiliberista e antiautoritaria, ai movimenti sociali, alle femministe? Cosa possiamo fare per sostenere i vostri sforzi e il vostro impegno nella resistenza civile?

Il nostro obiettivo principale ora è vincere questa guerra. Dobbiamo essere consapevoli che potrebbe essere un processo lungo e non rapido come speriamo. In questo senso sosteniamo la politica estera in termini di fornitura di armi, sanzioni e confisca dei beni russi. Ciò che è fondamentale per la vittoria è non lasciare che la guerra e tutti i terribili eventi in Ucraina scompaiano dall'agenda mondiale. Se al contrario tutti si abituano - sarà più difficile per noi sopravvivere e il problema diventerà solo nostro. E questo è un rischio anche per il mondo.

In questo momento il nostro lavoro è legato alle campagne che ho descritto sopra. Abbiamo molto bisogno di sostegno per promuovere la campagna per l'annullamento del debito estero perché questo per anni ha avvantaggiato sia le organizzazioni finanziarie internazionali sia le élite ucraine, ma non il popolo ucraino, ed è servito come mezzo per limitare lo sviluppo dell'Ucraina, un modo per confinarla alla periferia dell'Europa. Questo processo deve cambiare perché l'Ucraina sta ora combattendo per la sicurezza di tutta l'Europa e sta dimostrando il suo diritto di essere parte di questa unione. Perciò abbiamo bisogno di dare visibilità a livello europeo alla questione della liberalizzazione della legislazione sul lavoro perché l'Ucraina ha intrapreso un percorso di integrazione europea e la violazione di lavoratrici e lavoratori è inaccettabile anche da questo punto di vista.

Noi vogliamo l'integrazione europea, ma quella con i sindacati europei, i movimenti dei lavoratori e le iniziative di base. Dobbiamo dimostrare che la disuguaglianza e i conflitti di classe irrisolti sono pericolosi per la sicurezza mondiale quanto la tirannia. Non si tratta di una questione interna ai singoli Paesi. La disuguaglianza e le relative violazioni dei diritti sociali delle persone dovrebbero essere causa di vari tipi di restrizioni internazionali tanto quanto la tirannia e le violazioni dei diritti umani.

Sappiamo che hai partecipato da poco a una conferenza femminista. Di cosa si trattava e quali sono le tue considerazioni e aspettative? Siamo molto interessat* a sapere come si è svolto il dibattito e se ci sono campagne o azioni comuni…

Sì, di recente ho partecipato al Forum femminista di Lviv, organizzato dal Fondo ucraino per le donne. Tra le mie aspettative c'era lo sviluppo di iniziative comuni e, forse, accordi per collaborare a diverse iniziative femministe. In effetti al forum erano presenti rappresentanti di diverse posizioni. È stato interessante conoscere il pensiero di altre donne riguardo la direzione che sta prendendo il nostro lavoro, quali sono i problemi che vedono e le loro soluzioni.

Ad esempio, insieme abbiamo identificato le principali tendenze che vivono le donne: l'influenza della religione sull'identificazione dei movimenti femministi, lo sviluppo del movimento solo a livello di base, l'insufficiente influenza sul processo decisionale, il lavoro non ben consolidato con i governi locali, la mancanza di uguaglianza nelle forze armate ucraine, la violenza di genere e la violenza domestica che rimangono elevate (compreso il fatto che le donne sono economicamente dipendenti e non sanno o hanno paura di cercare aiuto nelle iniziative femministe a causa degli stereotipi).

In generale le partecipanti hanno condiviso le loro esperienze e osservazioni sul fatto che il femminismo come movimento in Ucraina si trova chiaramente in una posizione migliore oggi rispetto a 10 anni fa. Ad esempio la ratifica della Convenzione di Istanbul è un grande passo in avanti e rappresenta il risultato della lotta delle donne negli ultimi 10 anni, anche se quando la questione è stata sollevata nessuno nel governo ha detto che si trattava di una decisione dovuta alla lotta delle donne e che semplicemente era piuttosto di un passo verso le richieste informali delle istituzioni europee per ottenere lo status di candidato all'UE.

Penso dunque che dobbiamo continuare a lavorare per passare dall'attivismo di base all’essere un vero e proprio movimento politico. Tuttavia per me questa due giorni è stata più che altro una riunione teorica, che è anche importante, ma non sono sicura che possiamo trasformare le basi comuni in un'azione coordinata in mezzo alla guerra. In ogni caso ognuna ha preso per sé alcuni pensieri e idee che può sviluppare nella propria organizzazione di riferimento o iniziativa di base in cui è attiva.


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Lorenzo Casesa
6 mesi fa
Se non ci fossero gli uomini Ukraini che muoiono ogni giorno come mosche per proteggere e difendere le loro donne e la lorò terra, voi donne femministe sareste già state uccise e stuprate dal nemico.
Rispettate i vs uomini che vi difendono e smettete di spargete misandria. Fate pena. Ma perché non andate voi a combattere invece di mandare sempre e solo gli uomini?

Online Massimo

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #518 il: Febbraio 18, 2023, 18:58:45 pm »
Da notare, caro Frank: sono per la resistenza al nemico, ai russi ma si guardano bene dal rivendicare il diritto per le donne di imbracciare le armi e andare a combattere. Vogliono fare i lavori di cura nei quali la pelle non si rischia. Gli stessi lavori di cura che criticano quando c'è la pace appunto perchè nei lavori di cura non si guadagnano stipendi e non si fa carriera (a meno che una non vada a lavorare in qualità di infermiera negli ospedalo o nelle case di cura per anziani). Allora bisogna protestare e protestano quando c'è la pace e le donne sono confinate a quei ruoli. Ma se c'è  la guerra, dove si rischia di morire al fronte o di essere feriti in modo grave e tale da diventare per sempre disabili,  i lavori di cura invece vanno benissimo. Già!

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #519 il: Febbraio 24, 2023, 01:16:53 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Margo-Rejmer-Bucarest-polvere-e-sangue-223506

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Margo Rejmer: Bucarest, polvere e sangue

Un libro sul passato e presente di Bucarest, dove si intrecciano destini e vissuti dolorosi di una società che ancora non è riuscita a fare i conti con il trascorso comunista. Un’intervista

23/02/2023 -  Gentiola Madhi
“Bucarest, polvere e sangue” della scrittrice polacca Margo Rejmer – edito da Keller Editore  - è un viaggio nella capitale delle contraddizioni, dove si vaga costantemente tra il caos urbano, l’anarchia delle auto in movimento e l’incontrollabile energia di chi la abita. Le cronache che compongono questo lungo reportage offrono al lettore una città in continua transizione, passando attraverso luoghi fisici, ideologia politica e destini incrociati. La fluida narrazione di Rejmer permette di comprendere le circostanze storiche, le conseguenze dei dettati assurdi del regime di Ceaușescu, i traumi inflitti sulla popolazione e la lenta lacerazione del tessuto sociale.

Cosa rappresenta Bucarest agli occhi di una scrittrice polacca?


Ho l'impressione che le persone che vivono a Varsavia, una città che è stata spazzata via durante la seconda guerra mondiale, idealizzino l'immagine della città perduta, la città che le è stata sottratta. Questa nuova, ricostruita Varsavia è una ragazza poco attraente, ordinata, con un grembiule pulito, che si sforza molto: lucida le poche risorse che ha, pensa in modo pragmatico solo per avere una vita decente senza grandi aspirazioni. Bucarest è per certi versi l'opposto di Varsavia: è anziana ma al tempo bellissima, amara ma ancora piena di fantasia. Varsavia mi sembra a volte noiosa e razionale, Bucarest è sgargiante e imprevedibile. Un brio e un coraggio architettonico, un eccesso di stili: Bisanzio e Gaudì orientale, postmodernismo totalitario e Oriente. A prima vista, nulla vi si adatta, e la bellezza è nascosta dietro le pareti. Rispetto a quella polacca, l'architettura comunista romena è ridimensionata, sproporzionata, travolgente nelle sue aspirazioni, persino brutale. Ma per capire Bucarest, bisogna vedere tutti i suoi strati. A "Bucarest" la complicata storia della Romania si riflette nella straordinaria diversità architettonica della città.

Il libro è ricco di cronache di vita sotto l'era di Ceaușescu, lei ha dato voce ad esperienze che non avevano voce. È stato difficile ottenere la fiducia dei suoi interlocutori e raccoglierne i ricordi?

La ricerca in Romania è stata molto più facile rispetto al mio successivo lavoro in Albania. Nonostante i romeni abbiano una storia traumatica e la frase "per favore non citi il mio nome" era il ritornello di molte conversazioni, ho avuto l'impressione che mi abbiano accolto con benevolenza. Come se fossero pronti a raccontare le loro storie e aspettassero solo che qualcuno li ascoltasse. Ho trovato facilmente personaggi interessanti e ho creato nuove cerchie di amici. Quando sono arrivata in Romania, mi è sembrato di capire la realtà in modo intuitivo. Nel caso dell'Albania, il primo anno ho girato a vuoto, rimbalzando su muri. Nessuno voleva parlarmi del passato. Dovevo imparare a pensare come gli albanesi per capire la portata della loro sfiducia nella società.

Rompere il legame tra i cittadini istigando dubbi e paure era una pratica ricorrente durante il comunismo nei paesi dell'Europa orientale. Quali conseguenze hanno lasciato queste cicatrici sull'evoluzione della società romena di oggi?

La Romania non ha mai fatto i conti con il proprio passato. Dal 1989, le istituzioni  sono state controllate da gruppi eredi dei comunisti o associati al sistema precedente, quindi non c'è alcuna pressione da parte delle élite per fare i conti con il passato. La Securitate, la polizia segreta, aveva una grande influenza sulla vita delle persone, eppure non è mai stata chiamata a rispondere delle sue attività. La mancanza di conoscenze storiche e di discussioni istituzionali sul passato favoriscono la mitizzazione del comunismo e la profonda disillusione nei confronti dei politici porta all'inaspettata popolarità del mito di Nicolae Ceaușescu. Oggi, più del 60 percento dei romeni ritiene che Ceaușescu sia stato il miglior presidente della storia della Romania. "Avrà anche commesso degli errori, ma almeno dava lavoro e dignità alla gente. E adesso? Anche se siamo parte dell'Unione Europea cinque milioni di persone hanno lasciato il paese: è questa la vita migliore?". Il 52 percento dei romeni concorda con l'affermazione che la Romania ha bisogno di un uomo forte che non guardi al parlamento quando governa il paese.

Nel libro c'è un passaggio in cui si dice che “la libertà è come l'aria: quando ce l'hai non senti di averne bisogno, ma quando ti manca cominci a soffocare”. Cosa significa la libertà per le nuove generazioni di romeni?

Oggi la libertà ha aspetti pragmatici, è associata ad un senso di autorealizzazione, al diritto di decidere per sé stessi e all'influenza della società civile sulla vita politica. Fino a che punto una persona comune è in grado di fermare o limitare le patologie del potere scendendo in piazza? Dal 2013, enormi proteste di piazza, con centinaia di migliaia di persone, hanno attraversato la Romania, contro la corruzione, la degenerazione dei politici e contro chi depredava il paese. La società civile è riuscita a salvare la regione di Rosia Montana dallo sfruttamento e dalla distruzione e, dopo l'incendio del club Colectiv, le proteste di massa hanno dato il via a una grande discussione sulla corruzione e sulle patologie del servizio sanitario. Ma ora l'opinione pubblica è profondamente stanca. I nuovi politici entrati nel governo sull'onda delle proteste sociali non si sono rivelati efficaci come ci si aspettava, e anche intorno a loro ci sono state accuse di corruzione. I romeni non si fidano né del presidente, né del parlamento, né del governo. Per molti, libertà significa il diritto di lasciare il proprio paese per trovare un posto migliore in cui vivere.

Quali sono i suoi prossimi progetti per i lettori italiani? Qualche nuova pubblicazione a breve?

Keller Editore è prossimo a pubblicare il mio libro di saggistica sull'Albania comunista, “Fango più dolce del miele”. Al momento sto lavorando a una raccolta di brevi racconti sui Balcani e, una volta terminata, tornerò a scrivere un altro reportage sull'Albania contemporanea, “Ditë të bukura na presin” (Belle giornate ci aspettando, n.d.)

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #520 il: Febbraio 24, 2023, 01:22:48 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Aladin-Hodzic-ritornare-a-camminare-222567

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Aladin Hodžić, ritornare a camminare

Aladin Hodžić, oggi 32enne, nel 1994 venne colpito da una granata e subì l’amputazione di una gamba. Grazie a un video-reportage realizzato nel 1995 da un giornalista italiano, si mosse una rete solidale: venne accolto in Italia per essere curato e qui rimase a vivere. Lo abbiamo incontrato

22/02/2023 -  Nicole Corritore
Nell'agosto del 2022 il fotoreporter Robert Belošević, dopo averci già provato per anni attraverso una testata croata ricominciò a cercare informazioni su un bimbo che aveva fotografato in Bosnia Erzegovina durante la guerra. Aladin, quel bambino, oggi adulto, grazie ai social ha visto l'articolo. I due si sono incontrati tre mesi dopo, proprio nel luogo dove è stata scattata la foto [qui il video-reportage dell'incontro  , realizzato da 24Sata, ndr]. Ma è grazie al reportage di un altro giornalista, italiano, che nel 1995 Aladin Hodžić venne accolto e curato in Italia.

L'estate scorsa il fotoreporter Robert Belošević ha cercato informazioni sul bimbo senza una gamba che aveva fotografato durante la guerra, per incontrarlo e conoscerlo. Quel bambino sei tu. Dove ti trovavi, quando ti ha fotografato?


Screenshot video 24Sata  , settembre 2022

Era l’agosto del 1995 e lui era un fotografo croato che stava seguendo gli avvenimenti di guerra legati all’Operazione Tempesta nella confinante Croazia ma che hanno interessato anche il territorio bosniaco. Bihać è la mia città, dove sono nato nel novembre del 1990 e ho vissuto, eccetto un breve periodo nel ‘94 in cui i miei genitori mi avevano mandato a stare da parenti, per sicurezza.

È proprio lì che ho perso la gamba nel luglio 1994, mentre ero a Ostrožac, un villaggio a nord di Bihać nel territorio del comune di Cazin. Mio padre aveva deciso di portarmi, assieme a mia madre, a stare dai miei nonni materni dove la situazione era più tranquilla, perché si prospettava un periodo bellico abbastanza caotico nella città di Bihać.

Siamo rimasti lì alcune settimane, finché non sono stato ferito. Tutto è accaduto nel giardino, mentre giocavo con una decina di bambini del posto. Dalle postazioni circostanti ci hanno visto e hanno lanciato una granata che è caduta un po’ lontano da noi, ma una scheggia mi ha colpito alla gamba destra, mentre gli altri bambini sono rimasti illesi.

Mi hanno portato immediatamente all’ambulatorio di Ostrožac per le prime cure d’emergenza e poi mi hanno subito portato in ambulanza all’ospedale di Cazin, ma essendo grave sono stato trasferito a Bihać dove mi hanno amputato la gamba. E poi, sono rimasto in questa città fino alla partenza per l’Italia.

È grazie a un reportage di un giornalista italiano che sei arrivato in Italia... Cosa ricordi?

Sì, sono arrivato in Italia il 5 settembre del 1995. Avevo 4 anni e mezzo e non ho molti ricordi, ma sicuramente la persona che è stata più presente e che ci ha aiutato fin dall’inizio è stato Marco Beci che durante la guerra in Bosnia lavorava per cooperazione italiana, morto purtroppo nel 2003 in Iraq  nell’attentato avvenuto a Nassirya [a Marco Beci è dedicato il libro “Morire a Nassirya  ”, uscito nel 2014, ndr].

Mi ricordo solo qualche immagine del viaggio in auto fino all’Italia, da Bihać a Zagabria e poi da lì a Budrio, in provincia di Bologna.

Sono venuto a sapere i dettagli, solo una volta cresciuto. Oltre a quella foto, la mia storia è stata conosciuta pubblicamente grazie a riprese realizzate da un giornalista italiano, Luciano Masi della Rai  che aveva seguito tutta la guerra in Bosnia Erzegovina. Marco Beci, che lavorava per la cooperazione governativa italiana, ha visto quelle immagini in televisione e un giorno si è presentato a casa nostra a Bihać per dirci che senza di me non sarebbe tornato in Italia. E così è stato!

Sono partito accompagnato da mio padre, con Sanja, un’altra bambina di 7 anni figlia di conoscenti di mio papà, che aveva anche lei subito un’amputazione – alla gamba sinistra – a causa della scheggia di una granata.

Siamo stati ospitati in una prima fase nel Comune di Budrio, dove ci hanno fatto i primi controlli e analisi mediche, e definire il percorso per la realizzazione della protesi. Io e Sanja abbiamo fatto lo stesso percorso, stessi medici, stesso ospedale e seguente periodo di riabilitazione. Il Centro protesi di Budrio ha proseguito poi a monitorare la situazione, anche per “aggiornare” le protesi che cambiano man mano durante la crescita in altezza e poi anche con l’aumento di peso.

Il resto della tua famiglia era in Bosnia? Sei poi rimasto a vivere a Budrio?

Mia madre, con mia sorellina che aveva pochi mesi, ci ha raggiunto dopo poco una volta ottenuti i documenti assieme ai genitori di Sanja. Appena io e Sanja ci siamo stabilizzati, mio padre ha deciso che non voleva più vivere di aiuti umanitari. E quindi la questione era trovarsi un lavoro, per rimanere a vivere in Italia, oppure tornare in Bosnia.

A quel punto dal Comune di Bondeno (provincia di Ferrara), gemellato dal 1982 con Bihać  , è arrivata l’offerta di un lavoro e di un alloggio e così ci siamo trasferiti lì. Oggi vivo vicino a Bondeno, con mia moglie e mia figlia e il resto della mia famiglia. Mentre Sanja si è poi trasferita con la famiglia in Germania.

Come ti sei trovato in Italia? Com’è oggi la tua vita?


Sul sentiero in Bosnia Erzegovina
© foto Aladin Hodžić

Essere arrivato in Italia da piccolo ha reso ovviamente più facile l’inizio di questa nuova vita, dall’imparare la lingua fino al fare nuove amicizie. I bambini imparano subito, mi basta guardare mia figlia che è ancora alla materna e parla già italiano, bosniaco e inglese!

Certo, non è stata una passeggiata per i miei genitori, che hanno dovuto lasciare casa e parenti in Bosnia e ripartire da zero, sebbene non me lo abbiano mai fatto pesare. Ovvio che sul piano affettivo sarebbe stato più facile per tutti rimanere in Bosnia, dove avevamo parenti e amici. Ma per il mio futuro, e considerata la situazione nel paese ancora oggi, è stata una vera fortuna essere stati accolti in Italia.

Oggi ho un lavoro, una casa e vivo sereno. Faccio sport, da ragazzino mi piaceva molto il calcio mentre ora mi piace fare escursioni in montagna e sono attirato da sport “estremi” come il paracadutismo e il bungee jumping (salto con corda o fune elastica).

Andate a trovare parenti e amici in Bosnia? Come vedi il tuo paese, da cittadino bosniaco e italiano?

Certo, appena riusciamo ci torniamo volentieri. Vivo la Bosnia da italiano e bosniaco, cioè sento forti entrambe le appartenenze. Quindi la vedo con gli occhi di bosniaco, che si sente parte integrante del paese e della sua città, ne conosce la lingua e tradizioni, ma anche con gli occhi di cittadino italiano, diciamo “straniero”.

Per cui, mi piace molto tornarci, ma allo stesso tempo provo amarezza, rabbia e tristezza nel vedere la situazione. Una piccola fetta della popolazione vive benissimo e si è arricchita, mentre molte altre persone vivono ai margini. Quindi differenze sociali molto elevate. E mi colpisce soprattutto come vengano lasciate senza l’assistenza di cui avrebbero diritto persone come me, vittime della guerra.

Mettendo a confronto l’aiuto che ho avuto io e che mi ha reso possibile costruirmi la vita che ho oggi, e la loro in cui non hanno ricevuto il dovuto sostegno materiale e psicologico, mi prende l’angoscia. Con tutto quello che è accaduto durante la guerra, le migliaia di vittime civili dovrebbero essere al primo posto tra le priorità del paese. Invece rimangono ancora, per livello di assistenza, ultime in Europa.

E poi, vorrei aggiungere, quando sono in Bosnia provo molto dolore nel vedere quanto ancora oggi ci siano persone che istigano all’odio. Capisco che per chi ha subito duramente quella guerra sia difficile dimenticare o perdonare, ma si dovrebbe almeno salvaguardare le nuove generazioni da quello che abbiamo vissuto noi e farle vivere in pace.

Se poi contiamo la crisi economica, l’assistenza sanitaria che non funziona, la corruzione e la mancanza di lavoro che spinge tantissimi ad andarsene, mi viene da dire con tristezza che non sembra nemmeno un paese che fa parte del cuore d’Europa.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #521 il: Febbraio 24, 2023, 01:28:39 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Balcani-il-trionfo-dell-abusivismo-edilizio-223430

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Balcani: il trionfo dell’abusivismo edilizio

Costruzioni abusive proliferano in tutti i paesi balcanici. Le autorità locali si oppongono, ma con scarso successo o con scarsa volontà. Una panoramica su Bosnia Erzegovina, Croazia, Montenegro e Serbia

16/02/2023 -  Marija Mirjačić,  Edin Barimac,  Juraj Filipović,  Gojko Vlaović
(Pubblicato originariamente da Vijesti  , selezionato e tradotto da LcB  e OBCT)

Legislazione carente, mancanza di volontà politica, burocrazia obsoleta, avidità individuale, tangenti, mancanza di alloggi... Il fenomeno dell'abusivismo edilizio nei Balcani ha molte cause, talvolta inestricabili, ed è sostenuto da pratiche sociali radicate da decenni, che ne complicano la risoluzione. A scapito dell'ambiente, dello sviluppo sostenibile e dei cittadini.

Croazia senza un piano di sviluppo turistico sostenibile
Il problema dell'abusivismo edilizio in Croazia è stato oggetto di dibattito pubblico fin dall'inizio della crescita del turismo negli anni Settanta. Sebbene proprietà illegali esistano in tutto il paese, il problema si concentra sulla costa dalmata. Dall'indipendenza, la Croazia non è stata in grado di trovare un modo efficace per ridurre questo fenomeno, che accelera la drammatica cementificazione della costa.

Un problema che si riscontra anche altrove, in Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e in alcune regioni della Francia. È il risultato di un turismo di massa "festaiolo" senza una strategia a lungo termine.

La costa croata è stata svenduta e devastata perché l'apparato istituzionale e il quadro legislativo sono inefficaci. Lo stato croato non cerca di incoraggiare i proprietari di immobili a partecipare all'economia locale, al turismo, all'agricoltura o alla creazione di valore aggiunto, ma si limita a facilitare le vendite degli immobili - il che non sarebbe un male di per sé se gli acquirenti stranieri rispettassero la legge. Ma, come i croati, approfittano delle scappatoie legali, delle anomalie sociali e dell'avidità di alcuni. In questo, non c'è alcuna differenza antropologica tra un tedesco e un croato.

L'abusivismo edilizio continua quindi a diffondersi senza troppa resistenza da parte delle autorità. Nella maggior parte dei casi, l'Ispettorato di Stato ha solo il potere di sospendere il cantiere e di imporre una multa che l'investitore dovrà pagare prima di continuare a costruire indisturbato e prima di legalizzare la sua costruzione.

Le principali vittime sono la natura, il patrimonio culturale e la demografia locale. Gli abitanti stanno abbandonando le isole e le piccole città della Dalmazia e dell'Istria, minacciando la Croazia di uno scenario pericoloso in cui gran parte della costa si trasformerà in una meta di turisti festaioli, in proprietà immobiliari di cemento, proprietà di stranieri che assumono lavoratori stranieri.

Bosnia Erzegovina, insediamenti informali privi di adeguate infrastrutture pubbliche
In Bosnia Erzegovina l'edilizia incontrollata non è un problema solo sulla costa, come nell’area costiera di Neum: da anni lo è anche a Sarajevo. Interi quartieri vengono costruiti senza permessi e senza infrastrutture pubbliche adeguate. Nei condomini, ogni proprietario costruisce piani aggiuntivi con l'approvazione del "capo del quartiere".

"Sono state apportate più di 1.000 modifiche al piano urbanistico della città di Sarajevo. Oggi cammini per strada e sai cosa è stato progettato per quel determinato posto, ma domani passi e vedi che stanno costruendo qualcos'altro", spiega Hasan Ćemalović, un importante architetto bosniaco.

A Mostar è quasi impossibile conoscere il numero esatto di costruzioni illegali, ma sono molte, dagli edifici commerciali a quelli che spuntano nei cortili di altre case. Ma è a Banja Luka che troviamo uno degli esempi più eloquenti di edilizia illegale. Si tratta del famoso Palazzo Bianco, in costruzione a pochi metri dal municipio della capitale dell'entità della Republika Srpska. L'ispettorato comunale ha stabilito che l'investitore non aveva i permessi necessari per costruire, ordinando la demolizione, ma a tutt'oggi l'edificio è ancora lì.

100 milioni di euro di mancate entrate per i comuni del Montenegro
Nel 2022 sono state presentate ai comuni montenegrini decine di migliaia di domande di sanatoria di edifici costruiti illegalmente. Secondo il ministero dell'Ecologia, della Pianificazione e dello Sviluppo urbano, ci sono state più di 56.000 domande di sanatoria ma solo 2.722 sono state evase. Se tutte queste domande fossero state prese in carico le amministrazioni comunali avrebbero potuto guadagnare circa 100 milioni di euro.

Una sanatoria per gli abusi edilizi è stata approvata nel 2018, ma la procedura non è ancora conclusa. Il motivo principale è di natura burocratica, se non di mancanza di volontà politica: non è ancora stato approvato il Piano Regolatore Generale (PRG), che avrebbe dovuto essere ultimato nell'ottobre 2022. Anticipando questo ritardo, nel luglio 2022 il Parlamento ha emendato la Legge sulla pianificazione territoriale e l'edilizia, posticipando il termine per la legalizzazione delle costruzioni illegali al 2023. Questa nuova scadenza sarà rispettata?

Nulla è certo. Migliaia di domande sono in attesa di essere esaminate, mentre i comuni non hanno dipendenti qualificati per questo compito. Nel frattempo continuano ad arrivare nuove domande, soprattutto da parte di cittadini stranieri (da Russia, Ucraina, Israele, Emirati Arabi Uniti...). Inoltre, molti proprietari di edifici abusivi non hanno mai risolto il problema legale della proprietà del terreno su cui è stato costruito l'edificio, complicando ulteriormente le pratiche per un’amministrazione catastale già sovraccarica di lavoro.

Gli edifici abusivi possono ancora generare reddito per i comuni sotto forma di una tassa annuale per l'uso dello spazio da parte di un edificio abusivo. La tassa varia dallo 0,5 al 2% del prezzo medio di costruzione per metro quadro di un edificio residenziale di nuova costruzione in Montenegro. Tuttavia, le città costiere di Budva, Bar e Tivat non hanno ancora definito l'importo di questa tassa. Il ministero dell'Ecologia, della Pianificazione Territoriale e dello Sviluppo Urbano dichiara di non sapere quanto ogni comune abbia raccolto sulla base di questa tassa.

In Serbia, cosa fare con i due milioni di edifici residenziali illegali?
In Serbia ci sono circa due milioni di edifici residenziali abusivi, a dimostrazione del fallimento dei passati tentativi di sanatoria e della necessità di una nuova strategia per sradicare il problema.

Secondo le autorità, circa il 90% di questi due milioni di edifici in attesa di legalizzazione appartengono a persone che li hanno costruiti illegalmente per risolvere il problema degli alloggi, non per trarre un rapido profitto violando la legge.

Per motivare i cittadini a legalizzare le case che hanno costruito abusivamente, alcuni emendamenti alla legge sulla legalizzazione, entrati in vigore nel 2018, stabiliscono che gli edifici non legalizzati entro il 6 novembre 2023 dovranno essere demoliti. Tuttavia, il 3 novembre 2022, la Corte costituzionale li ha dichiarati incostituzionali.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #522 il: Marzo 03, 2023, 17:32:01 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Giovani-e-lavoro-i-paradossi-della-Romania-223725

Citazione
Giovani e lavoro: i paradossi della Romania

Nel panorama europeo la Romania ha tra i più bassi tassi di disoccupazione generale e tra i più alti di quella giovanile. Ed è una tendenza che non migliora

03/03/2023 -  Mihaela Iordache
La Romania non è un paese per i giovani. Lo dicono le statistiche secondo le quali centinaia di migliaia di giovani (tra 15 e 24 anni) non hanno un lavoro. L’indice della disoccupazione giovanile è infatti tra i più alti dell’UE, attestandosi al 22,9%. Paradossalmente, come segnala l’Istituto Nazionale di Statistica, il tasso di disoccupazione generale è stato del 5,4% a novembre, uno dei più bassi a livello europeo.

Tra le cause della disoccupazione giovanile gli stipendi bassi. Secondo un sondaggio (realizzato a gennaio) dalla più grande piattaforma di reclutamento online, eJobs, i giovani tra 18 e 25 anni considerano che lo stipendio corretto per loro dovrebbe essere tra i 3000 e i 7000 lei (600-1400 euro). Per la stragrande maggioranza dei partecipanti al sondaggio (86,2%) il più importante criterio per accettare un posto di lavoro riguarda infatti proprio lo stipendio.

Rispetto ad altre categorie di età, la generazione “Z” è poi interessata a svolgere il lavoro da casa (34,6%) mentre il 51,8% vorrebbe lavorare in modalità ibrida con la possibilità di decidere su quanti giorni presentarsi in ufficio. “I giovani non risultano, invece, molto legati al profilo delle aziende e non danno molta importanza se il datore di lavoro è una start up oppure è una multinazionale”, spiega alla la stampa di Bucarest Raluca Dumitra, a capo del marketing di eJobs.

Nell’Ue sono alcuni paesi dell’est a raggiungere la più elevata integrazione dei giovani nel mercato del lavoro. I più bassi indici di disoccupazione giovanile si registrano infatti in tre regioni della Repubblica Ceca e in tre dell’Ungheria (sotto il 4%). Le dinamiche in Romania sono molto diverse: ad eccezione del suo nord-ovest, con circa il 7% di disoccupazione giovanile, la situazione dei giovani rispetto al lavoro resta preoccupante. Inoltre lo sviluppo economico disomogeneo implica che la disoccupazione giovanile vari notevolmente da una regione ad altra. La situazione più preoccupante si verifica nella regione dell’Oltenia, sud-ovest del paese, dove l’indice medio di disoccupazione giovanile è del 21,6%, il più alto a livello nazionale.

Tra i primi posti nell’UE per abbandono scolastico
Secondo Eurostat in Romania l’abbandono scolastico è aumentato nel 2021 di tre punti percentuali rispetto all’anno precedente.

Dal 2011, quando la Romania ha varato l’attuale legge sull’educazione, si stima che circa 450.000 bambini abbiano abbandonato lo studio prima di finire la scuola media. Le autorità romene non sono mai riuscite ad abbassare la soglia del 10% dell’abbandono scolastico  (nonostante si fossero impegnate a farlo entro il 2020).

Più del 15% dei giovani della Romania di età tra i 18 e 24 anni non ha completato la terza media. In altre parole, su una classe di 25 bambini, 4 di loro hanno abbandonato molto precocemente la scuola.

È in questo contesto da inserire il dato anche sui Neet, i giovani tra i 15 e 19 anni che non studiano e non lavorano. Secondo i più recenti dati Eurostat la media UE dei giovani che non studiano e non lavorano è del 6,8% tra i 15 e i 19 anni: in Italia è del 13,2% - la peggiore a livello europeo - segue a stretto giro proprio la Romania con il 12,1% e al terzo posto vi è Malta con il 10,0%.

L'abbandono scolastico ha implicazioni significative sulla vita dei giovani e sul futuro del paese e si traduce in una ridotta capacità di trovare lavoro e salari più bassi. Inoltre i giovani che abbandonano la scuola spesso hanno una maggiore probabilità di vivere in povertà, di avere problemi di salute mentale e di avere una minore partecipazione civica. La Romania si trova tra i primi tre paesi dell’UE che perdono popolazione in età attiva: tra le cause vi sono il basso indice di natalità, l’invecchiamento della popolazione e non per l’ultima la migrazione all’estero dove il lavoro viene meglio pagato.

Le politiche europee
Nella nuova programmazione per le politiche di coesione UE 2021-2027 ben €7.3 miliardi di euro dell’European Social Fund Plus  (ESF+) saranno dedicati a progetti che migliorino l’accesso al lavoro, in particolare per i giovani, l’educazione di qualità ed inclusiva, e la formazione professionale. Risorse ingenti che fanno seguito ad iniziative anche degli anni precedenti come ad esempio, tra le molte, la Youth Employment Initiative, lanciata per fornire sostegno ai giovani che vivono nelle regioni in cui il tasso di disoccupazione era superiore al 25%.

A fronte di risorse europee ingenti la Romania - come del resto molti altri paesi europei - è stata in grado di utilizzare una parte ridotta. Nel 2019 il paese occupava l’ultimo posto per l’utilizzo dei fondi europei destinati a ridurre la disoccupazione giovanile, secondo quanto sottolineato anche di recente dall’ex europarlamentare romena, nonché ex commissaria europea Corina Crețu.

Inoltre in Romania vi è grande eterogeneità regionale per quanto riguarda la capacità di spendere i fondi messi a disposizione. Alcune regioni sono riuscite a investire almeno la metà dei fondi a disposizione, altre non sono riuscite a spendere nemmeno il 10% del totale.

Riduzione della disoccupazione
Secondo un’analisi del sito www.cursdeguvernare.ro  nell’ultimo decennio la Romania è riuscita a ridurre la disoccupazione giovanile di 2,3 punti percentuali, tra le peggiori performance nell'UE. Hanno fatto “peggio” Paesi Bassi (-2 punti percentuali), Germania (-1,4 punti percentuali) e Lussemburgo (-1 punti percentuali) ma partendo da una disoccupazione giovanile molto inferiore: di fatto sono dati che dimostrano politiche più efficaci.

Due paesi hanno registrato aumenti: Svezia (+0,1 punti percentuali) e Austria (+0,8 punti percentuali). A livello europeo, il tasso di disoccupazione giovanile è diminuito di 6 punti percentuali nell'ultimo decennio. Un'altra particolarità del mercato del lavoro in Romania è l'altissimo rapporto tra il tasso di disoccupazione giovanile e il tasso di disoccupazione generale, pari a 2,3, il secondo livello più alto dell'UE, dopo quello del Portogallo, pari a 2,4.

Crescita economica, ma non per tutti
La Romania è tra i paesi europei con la più alta crescita economica dell’UE. La Commissione europea stima una crescita intorno al 3% per l’anno in corso e anche per il prossimo, il che significa posizionarsi al terzo posto nella classifica dei 27 membri UE. Ma la crescita economica della Romania - in questa situazione - rischia di incidere poco sulle prospettive dei giovani romeni: un quarto di loro rischia anche nei prossimi anni di rimanere disoccupato.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #523 il: Marzo 04, 2023, 02:51:41 am »
Per forza crescono, con i salari bassi... ma anche in Italia i giovani sono disoccupati
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.