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La realtà dei paesi dell'Europa dell'est

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Frank:
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--- Citazione ---La Russia di Putin è diventata una “dittatura della paura”

Incontro col politologo Daniel Treisman, autore di un libro sulla dittatura della paura, sul cambio di paradigma del regime di Putin e sul futuro della Russia

09/08/2023 -  Margarita Liutova
(Originariamente pubblicato da Meduza  il 24 luglio 2023, traduzione dal russo di Sasha Slobodov, con licenza CC BY 4.0 e pubblicato da Valigia Blu  )

Nell'aprile del 2022, l'economista Sergei Guriev e il politologo dell'Università della California Daniel Treisman hanno pubblicato un libro  intitolato Spin dictators. The changing face of tyranny in the 21st century  , incentrato sulle moderne autocrazie  e su quelle che chiamano "spin dictatorships" (dittature elettorali), che basano la loro autorità sulla manipolazione e sulla propaganda. Il libro è stato presentato per la pubblicazione prima dell'invasione su larga scala dell'Ucraina da parte della Russia. Mentre Guriev e Treisman hanno a lungo classificato Vladimir Putin tra questi, in questo libro avvertono che il presidente russo si è affidato sempre più alla forza, trasformandosi in un "dittatore della paura". L'inviata speciale di Meduza Margarita Liutova ha parlato con il professor Treisman per saperne di più su come è cambiato il regime di Putin negli ultimi anni e su cosa potrebbe riservare il futuro alla Russia.

Dittatura della paura
Nel corso dei suoi anni di mandato, lo stile autoritario di Vladimir Putin è cambiato radicalmente, spiega Daniel Treisman a Meduza. Durante i primi due mandati della presidenza Putin e soprattutto durante il mandato di Dmitry Medvedev, l'attenzione era rivolta a mantenere un'immagine di "modernità, raffinatezza e rispettabilità internazionale". Questo è in netto contrasto con la realtà politica della Russia di oggi, in cui il Cremlino cerca di spaventare tutti i potenziali oppositori e di perseguire chiunque accenni anche solo a sentimenti contrari alla guerra.

"Penso che sia ragionevole classificare questa situazione come una dittatura fondata sulla paura, anche se ci sono ancora alcuni elementi di tentativo di manipolazione [come avviene nelle dittature elettorali]", afferma Treisman.

Queste due tipologie di dittatura, tuttavia, non si escludono a vicenda. Anche se Putin non potrà tornare al regime di prima, continuerà a impiegare tattiche caratteristiche di entrambe, mescolando controllo dell’informazione, consenso elettorale e paura.

La gente vuole credere di vivere in una democrazia
Se Putin è impegnato in una "dittatura della paura", allora perché ha annunciato  che le elezioni presidenziali russe del 2024 saranno conformi "a tutti gli standard democratici"? In questo modo, spiega Treisman, il presidente può fare appello a un vasto pubblico, rivolgendosi a coloro che nel paese hanno ancora valori democratici ma che attualmente sono disposti ad accettare il regime militarista. A giudicare dai sondaggi disponibili  , la maggioranza dei russi crede ancora che il leader del Paese debba candidarsi a elezioni regolari, e Putin vuole conformarsi almeno formalmente a questi ideali.

La gente vuole ancora credere di vivere in un paese democratico, sostiene Treisman: "È difficile riconoscere che stanno accadendo cose terribili. Penso che ci sia una grande tendenza psicologica innata ad aggrapparsi alle illusioni, se sono più comode. E credo che il regime sfrutti questo aspetto. Quindi, in larga misura, la sua propaganda funziona quando c'è un destinatario disposto a fare la propria parte per assicurarsi che il messaggio rassicurante abbia successo."

La trasformazione in dittatura della paura
Quando Putin ha assunto la carica nel 2000, sembrava davvero propenso a collaborare con l'Occidente e ad accettare i vincoli democratici, pur accentrando il potere. Molti hanno sottovalutato quanto Putin fosse disposto a scendere in profondità, dice Treisman, spiegando che è facile che una "dittatura elettorale" si trasformi in una "dittatura della paura". Questo accade di solito quando un leader comincia a dubitare che le tattiche di manipolazione caratteristiche della prima siano ancora efficaci. "Credo che Putin sia arrivato a credere che le tecniche sofisticate che aveva usato all'inizio del suo mandato non fossero più efficaci", spiega Treisman. Invece di affidarsi a consiglieri politici ed economisti liberali, ha spostato l'attenzione sulla comunità dei servizi segreti. Dopo tutto, loro sanno esattamente come intimidire ed esercitare il controllo".

Per quanto riguarda la decisione di lanciare l'invasione su larga scala dell'Ucraina, Treisman ritiene che Putin si sia convinto che la Russia, "con le sue ambizioni di grande potenza", fosse messa in discussione dalla comunità internazionale. La sua frustrazione per il ruolo della Russia nel mondo, così come la sua stessa posizione, sono state fondamentali per la sua decisione di invadere. "Putin ha escluso dalla sua camera d'eco tutte le persone che avrebbero potuto convincerlo a fare qualcosa di diverso", afferma Treisman. Tutti quelli che sono rimasti intorno a Putin condividono la sua versione preferita della realtà.

Il nazionalismo nella società russa
La società russa sembrava essersi rapidamente modernizzata e aperta ai valori liberali, ma ora appare sempre più imperialista e sciovinista. Non è che la società russa sia improvvisamente cambiata, spiega Treisman. Piuttosto, molti hanno sottovalutato che questa "azione palesemente aggressiva ed estrema avrebbe comunque evocato una reazione altrettanto estrema, di natura patriottica e lealista".

Tuttavia, l'opinione pubblica russa ha registrato tendenze contraddittorie. Ad esempio, dopo l'annessione della Crimea nel 2014, per un periodo di quattro anni c'è stata un'incredibile euforia  che alla fine è svanita. I sondaggi  del Levada Center mostrano che dopo l'annessione sono aumentati gli atteggiamenti negativi nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2021, questo numero è sceso ai livelli precedenti al 2014, prima di aumentare nuovamente dopo l'inizio dell'invasione su larga scala.

È difficile dire con certezza quanto durerà questo "boom nazionalista", dice Treisman: "Non sappiamo quanto sia profondo [il sentimento nazionalista] perché, naturalmente, in questo clima di intimidazione c'è molto conformismo. C'è molta lealtà superficiale e c'è molta confusione, [...] e un conflitto nella psiche russa: da un lato, l'impulso a essere leali, a stare dalla parte del proprio popolo, e dall'altro, l'allarme e un senso di orrore per la direzione in cui la Russia sembra andare."

Il ruolo dell'opposizione russa
Sebbene vi siano stati conflitti interni all'opposizione russa, dal 2017 l'insoddisfazione nei confronti del regime di Putin si è diffusa ben oltre le sole Mosca e San Pietroburgo. Manifestazioni a sostegno di Navalny, ad esempio, hanno avuto luogo in tutto il paese. Ma l'opposizione russa si scontra con una "macchina oppressiva molto ben attrezzata, esperta e organizzata", afferma Treisman. In fin dei conti, l'opposizione non era pronta a rovesciare lo "Stato dell'FSB".

"Credo che nessuno prevedesse che avremmo assistito a una rivoluzione in Russia in cui i sostenitori di Navalny e di altri gruppi anti-Putin si sarebbero sollevati e avrebbero conquistato il Cremlino in tempi brevi", ricorda Treisman. C'è stato un progresso nella volontà della società russa di uscire e protestare, anche se questo è stato ampiamente messo da parte dall'invasione su larga scala.

La lotta di Putin per mantenere il potere
Putin è diventato sempre più dipendente dai servizi segreti e dalle forze armate, anche se è diventato sempre più difficile per lui tenerli sotto il suo controllo, come dimostra l'ammutinamento di Prigozhin. Il presidente russo ha ricevuto numerosi avvertimenti che il fondatore del Gruppo Wagner sarebbe diventato un problema. Con la ribellione, è diventato chiaro che Putin non era in grado di difendersi. Ora Putin sta cercando di capire chi, all'interno dei servizi di sicurezza, gli sia effettivamente fedele.

Secondo Treisman, è improbabile che ci sia un colpo di Stato in Russia. È più probabile una "graduale erosione del potere del Cremlino". Con la ribellione di Prigozhin, "abbiamo assistito a un'enorme incapacità di reagire e di prevenire, e forse sta diventando troppo per una sola persona al Cremlino gestire tutte le questioni legate alla guerra, così come preoccuparsi della lealtà nei diversi rami dello Stato di sicurezza, seguire e gestire l'opinione pubblica interna e tutte le questioni e i problemi che sorgono negli 11 fusi orari". E aggiunge: "Forse stiamo assistendo all'inizio di una sorta di crollo graduale".

È possibile anche un futuro in cui Putin si faccia da parte, riducendo o trasferendo i suoi poteri. Ciò avverrebbe probabilmente se iniziasse a permettere ad altri di prendere decisioni importanti. Se Putin decidesse di non essere più in grado di gestire efficacemente le situazioni in corso, potrebbe decidere che farsi da parte è l'opzione più sicura, anche se Treisman osserva che ciò rimane improbabile.

"L'atteggiamento conflittuale" dell'Occidente
Quando si ha a che fare con le "dittature elettorali", il modello migliore è l'"atteggiamento conflittuale", come lo definisce Treisman. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea devono lavorare attivamente per contrastare lo sfruttamento della corruzione e dei legami economici occidentali da parte delle dittature, chiudendo tutti i canali per il denaro corrotto e trovando il modo di limitare l'influenza dei dittatori sulle società occidentali. Ciò significa affrontare i lobbisti che lavorano nell'interesse delle dittature, rendere più difficile per i dittatori nascondere il loro denaro in Occidente e seguire da vicino il modo in cui gli Stati stranieri cercano di influenzare la politica interna: "Resta necessario esercitare la massima pressione sulla Russia in tutti i modi possibili, al di fuori di un coinvolgimento militare diretto della NATO, per assicurarsi che l'Ucraina possa difendersi da sola e che Putin non ne esca percepito come un vincitore, rafforzato a livello interno."

In futuro, se il successore di Putin diventerà meno pericoloso per il mondo esterno, l'Occidente dovrebbe essere pronto a reintegrare la Russia, sostiene Treisman, fornendole opportunità più moderne, meno aggressive e più aperte per prosperare e svilupparsi come parte dell'economia globale e della comunità internazionale. Attualmente, tuttavia, il compito più importante per l'Occidente è quello di aiutare l'Ucraina a difendersi dalla Russia e di essere pronto a sostenere lo sviluppo politico ed economico del paese non appena si presenterà tale opportunità.

Una "dittatura della paura" non durerà necessariamente per sempre, spiega Treisman a Meduza. "La repressione può essere molto efficace nel breve periodo, ma ti lascia con [...] problemi, con sfide economiche [...] e con le difficoltà interne, i vicoli ciechi della politica interna da cui si era partiti".
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Oluja-la-storia-di-Nikola-226581


--- Citazione ---Oluja, la storia di Nikola

Nikola aveva pochi mesi quando nell’agosto del 1995 la sua famiglia, insieme con le altre 200mila persone di nazionalità serba, lasciò in fretta e furia la Croazia. Dopo aver vissuto in Serbia per quindici anni è tornato in Croazia dove ha fatto gli studi superiori e dove tutt’ora vive e lavora. Lo abbiamo incontrato

08/08/2023 -  Giovanni Vale Zagabria
Ho incontrato per la prima volta Nikola Kožul al corso di Studi sulla pace organizzato dal Centar za Mirovne Studije (CMS) di Zagabria. Un giorno, durante il modulo sulle guerre degli anni Novanta, questo 28enne alto e magro ha preso la parola e ha raccontato la sua storia – quella di uno dei circa 200mila serbi di Croazia che nell’agosto del 1995 lasciarono in fretta e furia le proprie case, mentre l’esercito croato avanzava riconquistando la Krajina durante l’operazione Tempesta (Oluja). Tra il 1995 e il 2010, Nikola ha vissuto in Serbia, prima di tornare in Croazia, dove ha frequentato il liceo e si è laureato in legge. Il suo discorso mi aveva colpito non solo per la drammaticità degli eventi che raccontava, ma anche per la tenacia, l’impegno e persino l’ottimismo che trapelava dalle sue parole. Oggi Nikola lavora come giurista al Consiglio nazionale serbo (SNV, l’organo che rappresenta la minoranza serba in Croazia) e offre assistenza legale gratuita a chi ne ha bisogno. In occasione del 28° anniversario di Oluja, l’ho incontrato in un caffè della capitale croata per farmi raccontare nel dettaglio la sua storia.

Nikola, tu sei nato a Benkovac, nell’entroterra di Zara, quattro mesi prima dell’operazione Tempesta. Cosa ti hanno detto i tuoi famigliari di quell’agosto 1995?

La grande domanda, all’interno della comunità serba, è: “siamo partiti da soli o ci hanno cacciato?” La versione ufficiale croata sostiene che i serbi hanno deciso spontaneamente di partire. I miei dicono che avevano paura, che non si fidavano delle nuove autorità croate e che vedevano tutti fuggire. Hanno deciso all’ultimo momento. La mattina del 4 agosto 1995, quando mia mamma ha chiamato il nonno per dire “dobbiamo andare, stanno scappando tutti”, lui era tra i campi e stava costruendo una recinzione per le galline. Più tardi ho sentito altre storie, di persone che erano state avvicinate da agenti di sicurezza serbi che avevano consigliato loro di partire… È una vicenda di cui non saremo mai sicuri al 100%. Io penso che ci sia stato un accordo tra Croazia e Serbia, perché poi, durante il nostro viaggio, le autorità serbe ci dirottavano continuamente verso il Kosovo, per popolarlo di serbi. Ad ogni modo, per quanto riguarda i miei, l’effetto psicologico è stato sufficiente: tutti scappavano e quindi sono fuggiti anche loro. Siamo così partiti con due auto e a Knin ci siamo uniti alla grande colonna di auto e trattori che lasciava la Croazia.

L’immagine di quella colonna di migliaia di persone, perlopiù povere e provenienti dalla Croazia rurale, è diventata uno dei simboli più noti dell’operazione Oluja. La tua famiglia cosa faceva a Benkovac prima della guerra?

Mio nonno era figlio di partigiani e durante la Seconda guerra mondiale era finito, assieme a tutta la famiglia, in un campo di prigionia italiano sull’isola di Meleda (Molat) e poi a Napoli. Al suo ritorno, aveva iniziato la scuola e si era laureato in Economia a Belgrado, prima di tornare a Benkovac per lavorare come direttore della cooperativa agricola locale. La nonna – più giovane di 14 anni – aveva studiato anche lei all’università, laureandosi alla facoltà di Turismo a Zara. Entrambi, insomma, erano un esempio di successo della Jugoslavia socialista, provenienti da famiglie contadine e diventati parte della nuova élite. Mio nonno credeva molto nei valori della Jugoslavia ed era contrario al nazionalismo, così quando le nuove autorità serbe hanno preso il controllo della Krajina nel 1991, lui ha perso il lavoro ed è finito per un breve periodo in prigione, prima di ritrovare un impiego come direttore di banca fino al 1995.

Torniamo alla vostra fuga nel 1995. Dove siete andati una volta raggiunta la colonna a Knin?

Ci siamo fermati prima a Prijedor e poi a Banja Luka. Io avevo pochi mesi e faceva molto caldo, per cui le persone ci aiutavano molto ad ogni tappa. Arrivati in Serbia (dove non conoscevamo nessuno), la colonna di auto veniva indirizzata verso il Kosovo e tante strade erano chiuse. Ma i miei nonni sono riusciti ad ottenere un’autorizzazione per raggiungere la Vojvodina e io sono stato battezzato a Pančevo. Qualche mese dopo, nel 1996, i nonni hanno comprato casa a Temerin, un paesino poco a nord di Novi Sad, mentre io, mia sorella maggiore e i miei genitori siamo andati in Kosovo. Mio papà era giornalista e l’unico lavoro che gli hanno proposto era lì. Anche mia zia, che all’epoca studiava all’università, ci ha seguiti: tutta la facoltà di Knin era infatti stata spostata in Kosovo. L’esperienza però non è piaciuta ai miei (lì si preparava un’altra guerra…) e nel 1997 siamo tornati a Temerin, proprio quando i miei nonni hanno provato a rientrare a Benkovac.

I tuoi nonni sono rientrati in Croazia due anni dopo la fine della guerra… com’è andata?

Col senno di poi, sono tornati troppo presto, era ancora pericoloso all’epoca. Ma loro non potevano più aspettare. A Benkovac abbiamo della campagna: 150 olivi, due grandi vigneti, alberi da frutto… volevano occuparsene. Così sono entrati illegalmente in Croazia e hanno cominciato a prendersi cura dei terreni, ma un giorno, dopo che erano andati a trovare alcuni famigliari a Spalato, hanno trovato al ritorno la casa distrutta. Era stata fatta saltare in aria. Fu uno shock enorme per loro, ma anche il momento in cui decisero che non sarebbero mai più ripartiti. Hanno vissuto nella stalla, poi hanno preso in affitto un appartamento a Benkovac e ogni mattina lavoravano nei campi. Ancora oggi nella tenuta, si vede il buco di dove una volta c’era la casa di famiglia.

Nel frattempo voi eravate in Serbia…

Sì. Nel 1998 è nata mia sorella minore e nel 1999 ci siamo trasferiti a Nova Pazova, a metà strada tra Novi Sad e Belgrado, dove io ho frequentato la scuola elementare. Più che una città vera e propria, è un centro abitato che gravita attorno a Belgrado. Ho brutti ricordi di quel periodo, ma mi chiedo spesso se è perché ricordo solo il peggio o perché era davvero così difficile. Avevo degli amici, ma non sono mancati gli incidenti. Per insultarmi, i bambini mi chiamavano “rifugiato" o “croato". Ripensandoci ora, capisco che chi abitava lì aveva trascorso gli anni Novanta tra mille difficoltà e senza mai essere aiutato. Noi invece avevamo ricevuto un appartamento e dei mobili dal governo serbo. C’era molta invidia e rabbia. Ad ogni modo, non mi sono mai sentito a casa in Serbia. Anche se parlavamo la stessa lingua, il mio accento croato non passava inosservato. “Casa” è dove puoi parlare la lingua che parli in famiglia anche fuori dalle mura domestiche.

Nel 2000 sei tornato a Benkovac per la prima volta. Com’è andata?

Era inverno, durante le vacanze scolastiche. Mi ricordo l’arrivo di notte, la nonna che mi dice “qui è casa tua” e poi la vista dell’abitazione che era stata fatta saltare in aria, con ancora le pietre sparse nel prato. Quell’anno per la prima volta ho visto il mare, Zara con le mura, il centro storico… ne sono rimasto incantato. In confronto al fango di Nova Pazova, era un altro mondo. L’anno dopo siamo tornati per le vacanze estive e io ho incontrato i bambini croati. Giocavo con loro, ma ricordo che un giorno, quando sono arrivato, erano tutti in silenzio e non mi guardavano. Uno di loro mi ha detto “sappiamo cosa sei tu”. “Cosa?”, ho chiesto. “Un serbo”, mi ha risposto. Ho imparato a relazionarmi presto con quella domanda: “Chi sei e da dove vieni?”, sempre così importante. A Benkovac, tutti uscivano dal trauma della guerra. Con quei bambini ho finito comunque per fare amicizia, ci ritrovavamo ogni estate.

Quando hai finito la scuola elementare, hai deciso di fare il liceo a Zagabria, mentre i tuoi sono rimasti in Serbia. Com’è stato?

Ho seguito le orme di mia sorella, che già aveva preso quella strada. I miei genitori non vedevano un futuro per noi a Nova Pazova. L’educazione era molto importante per loro, uno strumento per migliorare la propria condizione. L’offerta formativa del liceo serbo ortodosso di Zagabria non era comparabile a quella degli istituti locali. È una sorta di scuola d’élite, ma aperta a tutti. Completamente finanziato dalla Chiesa ortodossa serba in Croazia, il liceo è laico e segue il programma nazionale croato, permettendo ai bambini provenienti da aree rurali e periferiche di studiare in centro a Zagabria, ricevendo una borsa di studio e vivendo alla casa dello studente. Quando ho annunciato ai miei compagni di classe che sarei andato in Croazia a fare il liceo, una ragazza mi ha detto che ero un “traditore”. Non è stato facile, tanto meno per i miei genitori che mandavano il loro secondo figlio a studiare in un paese che li considerava tutto sommato “nemici”. Ma avevano pochi soldi e non avrebbero mai potuto offrirci un’educazione come quella che abbiamo ricevuto a Zagabria. Quel liceo è davvero una buona cosa che la Chiesa ortodossa serba ha fatto.

Com’è stato studiare a Zagabria? Hai avuto nuovi problemi con i coetanei croati?

Finché eravamo in centro, no. Ma quando è stato costruito il nuovo liceo nel quartiere di Svedi Duh, ci siamo ritrovati a prendere ogni giorno l’autobus con gli alunni di una delle peggiori scuole tecniche della città. Ogni mattina ci insultavano, ci gettavano oggetti, a volte ci attaccavano. La polizia spesso ci scortava fino a scuola. Era un vero problema per il liceo. Se si fosse sparsa la voce nella comunità serba, i genitori avrebbero esitato a iscrivere i loro figli e sarebbe stato un vero peccato, perché la scuola era ottima.

Dopo il diploma, hai scelto di studiare Giurisprudenza a Fiume. Come mai?

In famiglia si parlava sempre di politica, di giustizia, di società… Erano temi che mi interessavano e Fiume è forse la città più liberale della Croazia. Quando ho saputo che mi avevano ammesso lì a Giurisprudenza, non ci ho pensato due volte. Sono rimasto quasi otto anni nel capoluogo quarnerino, anche se tornavo spesso a Zagabria. Avevo infatti iniziato con l’attivismo, con il partito politico “Za Grad” [poi confluito in Možemo, nda.] e co-fondando poi il Forum per lo sviluppo sostenibile “Zeleni Prozor”. In quegli anni ho partecipato a diversi incontri a Bruxelles, in Kosovo, ho fatto un Erasmus a Lubiana… ho potuto rileggere la mia esperienza attraverso lo studio e il confronto con giovani di altre nazionalità. Mi sono laureato a fine 2021 e nel 2022 ho iniziato a lavorare al Consiglio nazionale serbo (SNV) a Zagabria, non prima di aver fatto un lungo viaggio in bici attraverso l’Italia, che sognavo da tempo.

Questo fine settimana si è celebrato il 28° anniversario dell’operazione Tempesta, sempre con la solita retorica divisiva  . Come leggi tu i fatti dell’agosto 1995?

Io penso che ci siano elementi di verità da entrambe le parti. A Benkovac c’è sempre stato un forte nazionalismo croato, fino a qualche anno fa si festeggiava Oluja in pompa magna e solo dagli ultimi anni la situazione si sta calmando un po’. Per i nazionalisti croati, Oluja rimane una vittoria senza errori e senza macchia. In Serbia, invece, si opta per il vittimismo, di cui si nutre il nazionalismo serbo. Noi rifugiati veniamo usati e Oluja diventa come il bombardamento Nato. Tra queste due versioni estreme, ci siamo noi, la minoranza, la chiave per la pace. La guerra è sempre una guerra contro le minoranze. Io penso che la Krajina era una legittima parte della Croazia e che le autorità serbe hanno sbagliato nel 1991 a cacciare i croati, a distruggere le loro case e chiese. Nel 1995 è stato invece il nazionalismo croato a sbagliare. Avrei voluto che la Croazia di allora fosse più matura e che le autorità di Zagabria avessero davvero detto chiaramente “non dovete partire”, “nessun civile sarà maltrattato”. Ma non è andata così. La verità è che - e qui la si nega - 200mila serbi sono partiti, tra i 600 e i 1200 civili sono stati uccisi, 20mila case sono state distrutte… E per chi è tornato, come per i miei nonni, non è stato facile.

Cosa vedi nel futuro della minoranza serba in Croazia?

Purtroppo, non si può ricreare la situazione antecedente alla guerra. Quei territori non saranno mai così popolati come lo erano prima. Tuttavia, possiamo migliorare la situazione e negli ultimi anni si lavora in questa direzione. Nel 2020 il governo Plenković per la prima volta ha invitato i rappresentanti della minoranza serba alla commemorazione di Oluja a Knin. Per la prima volta ha menzionato le vittime, ha parlato di giustizia, si è detto dispiaciuto… La narrativa in Serbia, invece, non cambia, anzi si allontana.

Il bicchiere è mezzo pieno dunque?

Per me sì, i miei genitori direbbero di no. Ma forse la differenza sta nel punto di vista. Loro hanno visto il bicchiere completamente pieno prima del 1991, io sono partito con un bicchiere vuoto. Dall’altro lato, sono consapevole di essere un esempio positivo di integrazione dei serbi in Croazia, forse un’eccezione. Non tutti hanno fatto il liceo serbo a Zagabria. Tanti sono rimasti nelle aree rurali, magari si sono radicalizzati col nazionalismo. Altri sono partiti in Germania. Ma se è vero che i nostri villaggi sono sempre più vecchi e più vuoti dal punto di vista demografico, è vero anche che c’è chi torna dall’estero. Si farà una nuova società. Insomma, sono ottimista anche se con cautela.

Che progetti hai per la proprietà di famiglia di Benkovac?

Senza aiuti da parte dello stato sono passati più di trent’anni senza poter ricostruire quella casa. Ma sono certo che ricostruiremo la casa dei nonni e rilanceremo la produzione agricola con l’aiuto dei fondi europei. Ho già detto ai miei che mi occuperò ben volentieri di tutte le questioni amministrative.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-crisi-demografica-della-Bosnia-Erzegovina-227070


--- Citazione ---La crisi demografica della Bosnia Erzegovina

Stando ad alcuni dati e stime la Bosnia Erzegovina entro il 2060 potrebbe perdere persino il 75% della sua popolazione. Miodrag Pantović, studente presso la Facoltà di Geografia di Belgrado, ha svolto una tesi di master su questo fenomeno. Intervista

14/09/2023 -  Tatjana Čalić
(Originariamente pubblicato sul portale Buka  , il 12 settembre 2023)

Miodrag Pantović, studente presso la Facoltà di Geografia di Belgrado, attualmente è impegnato a portare a termine la sua tesi di master sulla demografia e la guerra del 1992-95 in Bosnia Erzegovina. Il portale Buka lo ha incontrato per parlare delle dinamiche e dell’attuale situazione demografica in BiH.

Descrivendo gli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto, lei tende a ricorrere ad una metafora…

A cavallo tra gli Ottanta e Novanta del XX secolo la Bosnia Erzegovina, dal punto di vista demografico, era come una pentola a pressione ed era solo questione di tempo prima che esplodesse. Oggi invece è come una pentola piena di acqua calda che si sta lentamente raffreddando.

Se osserviamo la struttura della popolazione della BiH tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, vediamo che nel paese c’erano tantissimi giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Proprio in quel periodo in BiH il numero di giovani, compresi quelli maggiormente istruiti, aveva raggiunto i suoi massimi storici. Questa tendenza positiva, legata allo sviluppo degli anni ’70 – contrassegnati dall’apertura di molte università e da un’urbanizzazione su larga scala – era però desinata a cambiare già dalla metà degli anni ’80, soprattutto dopo le Olimpiadi di Sarajevo, quando la BiH si era trovata a dover fare i conti con una stagnazione economica. Poi dal 1988 il tasso di disoccupazione aveva iniziato a crescere, soprattutto tra i giovani laureati.

Un altro aspetto problematico riguarda l’ordinamento sociale e politico della Bosnia Erzegovina. Dall’epoca dell’Impero austro-ungarico – con la formazione dei primi organismi dell’autogoverno locale e poi con la Costituzione del 1910 – fino ai giorni nostri, l’ordinamento della BiH è sempre stato imperniato su una logica etnica per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni e degli incarichi nel settore pubblico. Un paese in cui sono presenti tre grandi gruppi etnici, dove la ripartizione del potere si basa sempre su una logica etnica, tende a soffocare la creatività, e quindi stenta ad avanzare. La società bosniaco-erzegovese ha pagato caro le conseguenze di queste dinamiche. Credo che la miccia che fece esplodere la sanguinosa guerra in BiH sia da ricercare proprio nelle dinamiche demografiche e strutturali interne.

Torniamo un attimo indietro al periodo precedente alla guerra e all’emigrazione che aveva contrassegnato quell’epoca. Alla fine degli anni ’60 la Germania aveva sottoscritto un accordo con la Jugoslavia per il reclutamento di manodopera. In quegli anni molti cittadini jugoslavi erano andati a lavorare all’estero per non tornare mai più…

Esatto. Anche prima della guerra degli anni ’90 la Bosnia Erzegovina aveva il più alto tasso di emigrazione in Europa. Ed è un fatto poco noto.

Quando ho iniziato a scrivere la tesi, mi sono trovato costretto a reperire dati e documenti statistici sparsi negli archivi di tutta la ex Jugoslavia. Analizzando questi dati sono rimasto sorpreso nell’apprendere che stando al censimento del 1991 – l’ultimo censimento condotto in tutte le repubbliche jugoslave – nel periodo preso in considerazione 600mila persone si erano trasferite dalla BiH in Croazia, Serbia e Slovenia, mentre nello stesso periodo in BiH erano arrivate solo 150mila persone, quindi quattro volte di meno. Inoltre, stando allo stesso censimento, all’inizio degli anni Novanta 220mila cittadini bosniaco-erzegovesi si trovavano all’estero per “lavoro temporaneo”. Quindi, già a quel tempo si assisteva ad una sorta di esodo spontaneo.

Quali aree della Bosnia Erzegovina erano maggiormente colpite dall’emigrazione?

Una delle principali caratteristiche dell’emigrazione bosniaco-erzegovese è la disomogeneità territoriale. Prima della guerra si era registrato un grande esodo dei serbi e dei croati: quasi il 90% delle persone che avevano lasciato la BiH prima del 1991 era di nazionalità serba o croata. L’emigrazione dei bosgnacchi, che a quel tempo non era tanto massiccia, era iniziata verso la fine degli anni ’70, interessando innanzitutto la Bosnia occidentale, in particolare l’area di Cazin, segnata dall’estrema povertà, da dove si partiva soprattutto verso la Slovenia. Quindi, anche il fenomeno dell’emigrazione rispecchia quelle differenze etniche e strutturali di cui abbiamo parlato prima.

Va detto che gran parte della responsabilità, seppur implicita, grava anche sulla Croazia e sulla Serbia che attingevano massicciamente alla manodopera bosniaco-erzegovese. I serbi e i croati della Bosnia Erzegovina erano visti come una riserva demografica dai paesi vicini, soprattutto dalla Croazia che cercava di sopperire al calo demografico incoraggiando l’immigrazione dei croato-bosniaci.

Poi è arrivata la guerra e una nuova svolta demografica…

Esatto. La guerra, la pulizia etnica, i crimini… In quel periodo ad andarsene dalla Bosnia Erzegovina erano stati soprattutto i bosgnacchi, quindi quel gruppo etnico che prima della guerra emigrava meno.

Una delle conclusioni della sua tesi di master è sintetizzata in una mappa che dimostra il calo del numero di giovani sotto i 20 anni nel territorio della Bosnia Erzegovina dal 1991 ad oggi. Dalla mappa emerge chiaramente che stiamo perdendo i giovani e che questo fenomeno si acuisce ad una velocità spaventosa. La situazione è particolarmente preoccupante in alcune aree?

La mappa è stata realizzata mettendo a confronto i risultati del censimento del 1991 e i dati sul numero di nascite nel periodo compreso tra il 2003 e il 2022. Ne emerge un quando assai allarmante. Ad esempio, il comune di Bosansko Grahovo ha perso il 93% della sua popolazione rispetto al periodo precedente alla guerra, mentre la popolazione di Srebrenica è diminuita del 92% rispetto al censimento del 1991. Quindi, ad essere maggiormente colpite dal calo demografico solo la Bosnia orientale, la Posavina e la parte occidentale della Krajina.

Com’è invece la situazione nell’Erzegovina che spesso viene definita una regione in via di estinzione?

L’Erzegovina occidentale è costretta a fare i conti con un altro problema, ossia con un enorme divario tra il numero di bambini nati nel corso di un anno e il numero di bambini, appartenenti a quella generazione, iscritti a scuola. Questo fenomeno interessa soprattutto la città di Neum dove, stando alle statistiche, nel 2015 sono nati nove bambini, mentre i nuovi iscritti a scuola sono stati 25. Suppongo che si tratti di famiglie con doppia residenza e doppia cittadinanza: i bambini nascono in Croazia e poi vengono iscritti a scuola in BiH. Così si finisce per creare un caos demografico.

Invece nel cantone Una Sana la situazione è diametralmente opposta: in alcuni comuni la differenza tra il numero di nascite e il numero di nuovi iscritti a scuola è del 20-25%. La città di Brčko risulta maggiormente colpita da questo fenomeno. In Republika Srpska invece tale percentuale si attesta attorno al 2%.

E nell’Erzegovina orientale?

La situazione nell’Erzegovina orientale non era rosea nemmeno prima della guerra. Osservando i dati del censimento del 1991 vediamo che questa regione già allora aveva una popolazione molto anziana. Tutti i comuni, ad eccezione di Trebinje, si stavano spopolando. È curioso notare come nel corso del tempo si sia creato un particolare legame tra l’Erzegovina orientale e la Vojvodina. Nel periodo tra il 1945 e il 1948 tantissime famiglie serbe dell’Erzegovina emigrarono in Vojvodina, e poi durante la guerra degli anni Novanta molti erzegovesi fuggirono trovando rifugio dai loro parenti in Vojvodina.

Oltre al calo della popolazione giovanile, cos’altro è emerso dalla sua analisi? Qual è l’attuale struttura etnica delle città bosniaco-erzegovesi?

Ad eccezione di una parte della Bosnia centrale e delle città di Mostar, Srebrenica e Brčko, tutti i comuni della BiH sono diventati etnicamente omogenei.

Un dato interessante riguarda il numero di bambini serbi nati a Mostar e Sarajevo. Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2022 a Sarajevo sono nati 651 bambini serbi, mentre nello stesso periodo sono morte 4993 persone di nazionalità serba. A Mostar invece sono nati 275 bambini e morte 1558 persone di nazionalità serba.

Qual è invece la struttura etnica della popolazione di Banja Luka?

Nel 1991 a Banja Luka vivevano 8.099 persone di fede musulmana sotto i 20 anni, mentre negli ultimi vent’anni nella città sono nati solo 502 bambini musulmani. Quindi, oggi a Banja Luka ci sono 7.500 giovani musulmani in meno rispetto al periodo immediatamente precedente alla guerra.

Per quanto riguarda la popolazione croata, nel 1991 a Banja Luka c’erano oltre 8.000 croati sotto i 20 anni, e negli ultimi due decenni vi sono nati solo 347 bambini di nazionalità croata. Il numero di giovani croati è quindi diminuito del 95%.

La popolazione serba della città è invece aumentata rispetto al periodo precedente alla guerra. Oltre a Banja Luka, la popolazione serba è cresciuta anche a Bijeljina, Brčko e Pale. D’altra parte, la popolazione giovanile bosgnacca è aumentata in alcuni quartieri periferici di Sarajevo, nello specifico a Ilidža, Ilijaš e Vogošća. Non abbiamo invece registrato alcun aumento della popolazione giovanile di nazionalità croata.

Il quadro che emerge dalla sua ricerca è piuttosto allarmante. Eppure, le istituzioni e i politici tacciono, non offrono alcuna soluzione, talvolta addirittura negano la realtà. Quei pochi che decidono di commentare la situazione dicono invece che è tutta colpa del calo delle nascite…

I politici sia in Bosnia Erzegovina che in Serbia continuano a riempirsi la bocca parlando di famiglia e natalità, invece di impegnarsi nel garantire le condizioni di vita dignitose per quelli che scelgono di rimanere nel proprio paese. In BiH si registra un alto tasso di mortalità tra persone di mezza età. Oltre ad un cambio dello stile di vita, migliorando il sistema sanitario e la prevenzione, sicuramente si riuscirebbe ad arginare il crollo demografico. Ma nessuno ne parla. In Serbia, ad esempio, un cittadino su cinque muore prima della pensione.

Le nostre vite sono condizionate dai cicli politici. Tutto dipende dai partiti al governo che cercano solo di mantenere il potere fino alle prossime elezioni. Non vi è alcuna pianificazione a lungo termine, si offrono solo soluzioni veloci da sfruttare tra due tornate elettorali.

Intanto l’elettorato è costituito perlopiù da anziani. In BiH, come anche in Serbia, si assiste ad una stagnazione politica e il motivo è forse da ricercare proprio nel continuo invecchiamento della popolazione. Avendo perso l'ottimismo e la creatività, stiamo cadendo in una sorta di letargo.

Date queste premesse, quale futuro può aspettarsi la Bosnia Erzegovina?

Secondo tutti i parametri, la Bosnia Erzegovina è il paese più fragile del mondo dal punto di vista demografico. Su questo punto non vi è alcun dubbio. Cito solo un dato: secondo un rapporto pubblicato nel 2019 dal Centro per la popolazione e la migrazione (CEPAM) la BiH potrebbe perdere il 75% della sua popolazione entro il 2060. Forse però vi è anche un aspetto positivo. Da queste parti probabilmente non scoppierà mai più alcun conflitto armato: siamo troppo vecchi per combattere una nuova guerra.
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-polemiche-dopo-le-alluvioni


--- Citazione ---Grecia, polemiche dopo le alluvioni
11 settembre 2023

È salito a quindici il numero delle vittime accertate delle devastanti alluvioni che hanno sconvolto la Grecia centrale la settimana scorsa. Nella giornata di ieri, infatti, altri quattro corpi sono stati recuperati dalle acque. Al momento, almeno altre due persone risultano disperse.

Ad essere colpita, a partire da martedì scorso, è stata la piana di Tessaglia, trasformata da tre giorni ininterrotti di precipitazioni in un enorme lago pluviale. Buona parte della produzione agricola dell’area è andata distrutta, insieme ad abitazioni, attività economiche ed infrastrutture.

Particolarmente delicata la situazione nelle città di Larissa e di Volos, dove la rete idrica è rimasta danneggiata e i 200mila abitanti restano senza accesso all’acqua potabile.

Per la Grecia, colpita durante le scorse settimane dall’ennesima ondata di gravi incendi, l’estate termina quindi sotto il segno delle calamità naturali, questa volta sotto forma del ciclone “Daniel” che ha colpito anche la vicina Bulgaria, dove si sono registrate quattro vittime lungo le coste del mar Nero.

Ancora presto per fare un bilancio, anche economico, dei danni subiti dal paese. Secondo il governatore della Tessaglia, Kostas Agorastos – intervistato dall’emittente pubblica ellenica - le perdite si attestano ad almeno due miliardi di euro. Di certo serviranno anni per rimettere in sesto le capacità produttive della regione, tradizionalmente cuore delle attività agricole in Grecia.

La gestione lacunosa dell’emergenza ha generato una forte tensione politica. Il primo ministro conservatore Kyriakos Mitsotakis è stato fortemente contestato durante la sua visita a Larissa, nonostante le sue rassicurazioni su una futura compensazione dei danni. Si è arrivati allo scontro tra contestatori e polizia, che la lanciato lacrimogeni sui contestatori.

Anche i partiti di opposizione hanno accusato Mitsotakis. Per la sinistra di SYRIZA, il premier si sarebbe recato in Tessaglia “senza una traccia di autocritica per le sue enormi responsabilità”, limitandosi invece “a essere puro osservatore del disastro di bibliche dimensioni”
--- Termina citazione ---

Frank:
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-l-ennesima-sconfitta-dello-stato-227092


--- Citazione ---Montenegro: l’ennesima sconfitta dello stato

Nei giorni scorsi in Montenegro è stato scoperto un tunnel sotterraneo utilizzato per entrare nel deposito dell’Alta corte di Podgorica, luogo dove vengono archiviati oggetti e documenti usati nei processi come prove. Secondo gli esperti è l’ennesima sconfitta dello stato nella lotta alla criminalità organizzata

15/09/2023 -  Nikola Dragaš,  Jelena Jovanović
(Originariamente pubblicato dal quotidiano Vijesti  , il 14 settembre 2023)

Lunedì 11 settembre è stato scoperto un tunnel sotterraneo utilizzato per irrompere nel deposito dell’Alta corte di Podgorica dal quale, stando ai dati resi noti finora, sono stati portati via diversi oggetti, comprese alcune pistole addotte come prove nei procedimenti penali a carico dei capi di uno dei più potenti gruppi criminali montenegrini, noto come clan di Kavač.

Gli esperti interpellati dal quotidiano Vijesti interpretano l’irruzione nell’Alta corte come segno della sconfitta dello stato nella lotta alla criminalità organizzata, un segno che suggerisce che alcuni centri di potere credono di essere intoccabili e sono disposti a tutto pur di sfuggire alla giustizia.

Secondo Stevo Muk, giurista e membro del Consiglio della procura del Montenegro, l’irruzione nel deposito dell’Alta corte dimostra che alcuni gruppi criminali sono disposti a utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per influenzare l’esito dei procedimenti penali che li vedono coinvolti.

Episodi come questo – spiega Muk – evidenziano la necessità di agire tempestivamente per innalzare al massimo il livello di sicurezza delle istituzioni giudiziarie. “Tale impegno inevitabilmente implica la ristrutturazione dell’edificio esistente o, in alternativa, la costruzione di un nuovo edificio in grado di ospitare un deposito di oggetti di prova in linea con i più alti standard di sicurezza. La prontezza dei vertici dello stato nel prendere una decisione in tale direzione, stanziando risorse adeguate per la sua attuazione, sarebbe il segno della volontà politica di risolvere questo problema”, sottolinea il giurista.

Il tunnel, lungo almeno trenta metri, scavato per raggiungere il deposito dell’Alta corte, parte da un edificio sito in via Njegoševa che costeggia lateralmente la sede di uno dei più alti organismi giudiziari del paese. Alcune fonti interpellate da Vijesti ritengono che la costruzione del tunnel sia durata un mese e mezzo al massimo poiché l’appartamento da cui sono partiti i lavori è stato affittato a fine luglio. Evidentemente si è voluto approfittare del fatto che ad agosto la maggior parte dei dipendenti dell’Alta corte era in ferie.

L'ennesima sconfitta di uno stato debole
Per Sergej Sekulović, consigliere del premier Dritan Abazović ed ex ministro dell’Interno, l’incursione nel deposito dell’Alta corte rappresenta una sconfitta dello stato. Sekulović spiega che questo episodio, su cui va assolutamente fatta chiarezza, ha reso ancora più evidente la necessità di intraprendere profonde riforme del sistema.

“La custodia inadeguata degli oggetti di prova è un problema che si trascina da tempo, solo che veniva affrontato con grande nonchalance, ritenendo impossibile uno scenario come quello degli ultimi giorni. Lo stato deve ritrovare la propria forza e dimostrare chiaramente di essere più forte della criminalità organizzata. Spero che i danni siano minimi, quanto accaduto però dimostra che c’è chi non teme affatto lo stato. Il Montenegro deve riconquistare la stabilità politica perché solo così riusciremo a costruire un sistema giudiziario forte e resiliente”, sostiene Sekulović.

L’ex ministro sottolinea poi che è giunto il momento che tutti gli attori politici e della società civile raggiungano un consenso sulla lotta alla criminalità organizzata.

“Questa questione non può essere oggetto di polemiche. Ovviamente, a condizione che il sistema venga ripulito dall’interno. Siamo di fronte ad un’equazione semplice: un sistema politico instabile e conflittuale equivale ad un sistema di criminalità organizzata e di corruzione stabile e ad alto livello”, conclude Sekulović.

Secondo una fonte di Vijesti ben informata sulle indagini in corso, è stato uno dei dipendenti dell’Alta corte ad accorgersi per primo del disordine nel deposito in cui vengono custodite le prove processuali. Il tunnel invece è stato scoperto solo in un secondo momento, durante il sopralluogo e la stesura dell’elenco degli oggetti mancanti.

Nel corso di una conferenza stampa convocata martedì 12 settembre, Boris Savić, presidente dell’Alta corte, ha dichiarato che l’ingresso del tunnel è stato trovato in un luogo ben nascosto e che sicuramente ci è voluto molto tempo per portare a termine l’impresa, aggiungendo però che nel deposito “non manca quasi nulla”.

Reagendo alle dichiarazioni del presidente dell’Alta corte, Nikola Terzić, capo ad interim della polizia montenegrina, ha affermato di non credere che qualcuno abbia scavato un tunnel fino alla sede dell’Alta corte per puro svago.

“A differenza del presidente dell’Alta corte, il quale ha dichiarato che dal deposito non è stata portata via quasi alcuna prova, io non credo che qualcuno abbia intrapreso un’azione così impegnativa per puro svago. Anche se preferirei che lui avesse ragione e io torto, temo che la verità sia un’altra”, ha affermato Terzić.

Un caso insolito ma non inaspettato
L’avvocato Božo Prelević – noto anche per essere stato il primo ministro dell’Interno serbo dopo la caduta del regime di Slobodan Milošević – afferma di non aver mai sentito parlare di un caso analogo. “Non mi risulta che una cosa del genere sia mai accaduta in nessuna parte del mondo. Tale irruzione non è possibile senza l’aiuto di qualcuno dall’interno. Se un’istituzione [come l’Alta corte di Podgorica] si è rivelata così fragile in termini di sicurezza, significa che ci sono alcuni centri di potere che continuano a sfuggire al controllo dello stato, credendo di essere intoccabili”.

Tea Gorjanc Prelević, direttrice dell’ong Akcija za ljudska prava [Azione per i diritti umani] di Podgorica, ricorda invece alcuni episodi avvenuti negli ultimi anni che, a suo avviso, avrebbero dovuto spingere le autorità ad aumentare il livello di sicurezza delle istituzioni giudiziarie.

“La scomparsa del fascicolo sul caso riguardante le intercettazioni telefoniche di alcuni giudici dell’Alta corte di Podgorica, svelate nel 2011 dal giornalista Petar Komnenić, e poi quell’incendio scoppiato nel Tribunale di Podgorica nel 2016 in cui è andato distrutto l'ufficio amministrativo, dovevano essere interpretati come un avvertimento, un segnale della necessità di innalzare la sicurezza di tutti gli archivi giudiziari del paese ad un livello adeguato e di impegnarsi nell’accertare la responsabilità per gli errori commessi fino ad allora. A quanto pare però, era necessario che qualcuno scavasse un tunnel fino al deposito di un tribunale per rendersi conto di dover finalmente agire. A meno che anche questo buco non venga semplicemente tappato, procedendo come al solito”, commenta Tea Gorjanc Prelević.

Alla domanda se ritiene che quest’anno il Montenegro abbia compiuto qualche progresso nella lotta alla corruzione e la criminalità organizzata, anche nell’ottica del processo di adesione all’Unione europea, Stevo Muk risponde affermando di aspettarsi che la Commissione europea nella sua prossima relazione sul Montenegro riconosca alcuni risultati raggiunti dalla Procura speciale e dal Reparto speciale della polizia montenegrina.

“Mi auguro però che nella sua relazione la Commissione europea metta in luce anche diversi punti di debolezza e l’inefficacia di alcuni altri reparti di polizia, come anche il fatto che non si è mai cercato di sfruttare meccanismi esistenti, previsti dalla Legge sugli affari interni, per ‘ripulire’ la polizia dai quadri la cui integrità professionale risulta compromessa”, conclude il giurista.
--- Termina citazione ---

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