Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76159 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #60 il: Aprile 09, 2018, 19:45:23 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-scuola-e-mazzette-139244

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Romania, scuola e mazzette

Il sistema scolastico romeno avrebbe bisogno di una seria riforma. Ad aggravare la situazione, come rilevano recenti inchieste della magistratura, concorre una diffusa corruzione tra gli insegnanti
17/07/2013 -  Mihaela Iordache   Bucarest

Soldi sottoforma di mazzette destinati, questa volta, agli insegnanti. Una pratica che si trascina da anni, come confermano gli stessi ex studenti che in cambio di una “piccola attenzione” si sono assicurati il diploma di maturità. Una “maturità” che parte da un semplice ragionamento: in Romania puoi fare benissimo carriera, riempirti di diplomi, master e dottorati non tanto perché sei meritevole ma perché paghi. Se accetti di far parte del sistema di corruzione il rischio è di diventare a tua volta un corrotto. E tutto questo ti viene insegnato sin dalla scuola.

Lo scorso 1 luglio, al primo giorno degli esami di maturità gli inquirenti con l’aiuto del Servizio Romeno di Informazione (SRI), la Direzione Generale Anticorruzione e la Polizia di Bucarest hanno eseguito alcune perquisizioni al Liceo “Dimitrie Bolintineanu”. Operazione  svolta in cerca delle tanto ambite mazzette, effettivamente poi rinvenute nelle aule e nelle tasche degli insegnanti. Decine di insegnanti sono stati ascoltati dalla polizia, mentre la direttrice del liceo, Costica Varzaru è stata messa in stato di fermo per 29 giorni.

Secondo il tribunale di Bucarest Costica Varzaru è indagata per traffico d’influenza, pretendendo  denaro in cambio di raccomandazioni. Secondo i magistrati si tratta di un pericolo sociale, dal momento che si crea un vantaggio a favore di chi promuove gli esami di maturità in questo modo, rispetto a chi si attiene alla procedura corretta. Sussiste, quindi, il rischio che lo studente che ha comprato l’influenza di qualcuno venga ammesso all'università a discapito del suo coetaneo promosso in modo legale.

Inoltre nella coscienza dei cittadini si forma l’opinione che il sistema può essere frodato proprio dai rappresentanti dello stato incaricati di sorvegliare il buon svolgimento degli esami.
Mazzette a scuola

Gli ufficiali del Servizio Romeno di Informazione hanno piazzato microfoni anche nei vasi da fiori del Liceo Bolintineanu. In questo modo hanno potuto intercettare i dialoghi tra gli insegnanti sullo svolgimento delle prove di maturità. Secondo i magistrati che si sono occupati del caso, i soldi raccolti dagli insegnanti arrivavano alla direttrice Costica Varzaru che poi doveva darli ai supervisori.

Secondo la stampa romena, Varzaru nel secondo semestre avrebbe iniziato a chiedere soldi agli studenti con la promessa di aiutarli a passare gli esami. Le somme sarebbero arrivate anche a 500 euro per studente. Secondo la tv DiGi 24 i magistrati avrebbero trovato in mano agli insegnanti circa 10.000 lei (oltre 2.000 euro). Una parte dei soldi erano nascosti persino nei reggiseni delle insegnanti incaricate di sorvegliare gli studenti durante le prove.

Quasi 40 gli insegnanti interrogati dalla polizia e circa un centinaio gli studenti, prelevati da scuola con degli autobus. La “disponibilità” della polizia (su istruzioni dei magistrati) di offrire questo tipo di “trasporto gratuito” agli studenti ha suscitato l’ira dei genitori che per difendere i propri figli sono arrivati alle mani con le forze dell’ordine. Il procuratore capo della Romania, Tiberiu Nitu, ha tenuto a sottolineare che le interrogazioni degli studenti sono state eseguite in accordo con la procedura.

Anche il primo ministro Victor Ponta (tra l’altro accusato di plagio per la sua tesi di dottorato...) è dovuto intervenire. Meravigliandosi, il premier romeno ha detto: “Non siamo più ai tempi dei comunisti per portar via la gente dalla strada”.

È vero che i tempi sono cambiati, purtroppo però la mentalità e le pratiche sembrano tuttora in vigore. E addirittura peggiorate in materia di mazzette, regali e attenzioni offerte agli insegnanti, proprio quelli che in teoria dovrebbero essere un esempio di moralità.
Parlano gli ex studenti

In una intervista alla radio Europa Fm, Andrei, un ex studente che nel 2006 si occupava della raccolta dei “fondi” destinati agli insegnanti, ha raccontato che già allora gli passavano le soluzioni delle prove. Sette anni fa uno studente ha offerto circa 200 euro per avere le soluzioni ed evitare di avere voti bassi, spiega Andrei.

La Federazione delle Associazioni dei Genitori sostiene che potenziali frodi sono state segnalate anche negli anni scorsi ma le autorità non hanno mai reagito. Per la Federazione si tratta di “pratiche messe in atto dagli adulti, le cui vittime sono però gli stessi adolescenti”. Secondo Mihaela Guna, presidente della Federazione, quest’anno è stato fatto un passo avanti con l’avvio delle inchieste.

Anche la Federazione dei Sindacati dell’Istruzione “Spiru Haret” scende in campo e in una lettera aperta indirizzata al premier Ponta chiede misure immediate per risolvere i problemi nel sistema pre-universitario. I sindacati chiedono l’aumento degli stipendi e aggiungono che non solo gli insegnanti devono rispondere ma anche i genitori che hanno considerato la corruzione una soluzione per coprire la superficialità e il disinteresse dei propri figli. “Un insegnante che ha uno stipendio di 250 euro sarà tentato di dare lezioni di ripetizione senza pagare le tasse oppure di accettare beni da parte di genitori e studenti”, considerano i rappresentanti dei sindacati.
Serve una riforma vera

Come nota anche l’agenzia tedesca Deutsche Welle (sezione romena) , a scuola i voti vengono sistematicamente “gonfiati”. Per l’ammissione al liceo si calcola una media aritmetica tra il voto ottenuto all'esame nazionale e la media generale ottenuta tra le classi V-VIII. “Quello che tutti sembrano ignorare e che nei quattro anni di studio è in vigore una stupida e colpevole competizione per i voti, che ammazza completamente la scuola”, rileva il portale tedesco.

Infatti, i giovani delle scuole meno performanti ma che hanno voti più alti, grazie al ben rodato meccanismo della corruzione, potrebbero entrare in licei di prestigio a scapito di altri che lo meriterebbero di più. Da qui anche la “competizione” degli insegnanti nel “gonfiare i voti” (spesso dietro una “piccola attenzione” per “salvare” i propri studenti).

Il sistema di istruzione romeno avrebbe bisogno di una vera riforma. Negli anni, vari ministri hanno cambiato le regole, eliminando alcuni esami una volta obbligatori. Oggi non sono pochi quelli che si richiamano alle vecchie regole, quando le prove scritte e orali facevano davvero la differenza. L’ex ministro dell’Istruzione, Ecaterina Andronescu sostiene ora che l’esame per l’ammissione alla facoltà deve essere reintrodotto per una corretta selezione dei candidati.

Intanto quest’anno i risultati finali dell’esame di maturità confermano ancora una volta che la scuola romena è in caduta libera, solo il 56,4% dei candidati ha superato le prove. Molti studenti hanno provato a copiare oppure a comprarsi i voti, il che dimostra la percezione che hanno i giovani romeni della scuola e in genere della vita in Romania.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #61 il: Aprile 09, 2018, 19:51:50 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-illiberale-per-opportunismo-186806

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Romania: illiberale per opportunismo

Diversamente dall'Ungheria, il partito al governo in Romania non ha alcuna agenda ideologica illiberale. Si aggrappa solo in modo disperato al potere e ai privilegi acquisiti
06/04/2018 -  Bogdan Nedea   

(Pubblicato originariamente da Balkan Insight il 19 marzo 2018)

Se a qualcuno capita di sfogliare la stampa rumena in questi giorni, in particolare commenti ed editoriali, vi troverà numerosi riferimenti alle tendenze e mosse illiberali del Partito socialdemocratico (PSD), attualmente al potere nel paese.

Questo potrebbe portare alla conclusione che la Romania è ben incamminata lungo la strada del divenire un altro paese illiberale nell'Europa centro-orientale.

Ma ci si sbaglierebbe di grosso. Le premesse potrebbero sembrare, ad un primo sguardo, corrette: confinando con paesi che hanno deragliato dal cammino liberale, la Romania sotto il PSD avrebbe scoperto i benefici del condurre una dottrina politica centralistica e conservatrice.

La ricetta è ben rodata: opporre resistenza ad alcune politiche UE adducendo di proteggere mal definiti interessi nazionali; aggiungere variegati attacchi alla libertà di stampa e rendere la gestione del settore pubblico sempre più irresponsabile ed opaca. E poi rimestare il tutto in un calderone di teorie cospirative citando figure quali il miliardario statunitense George Soros, affermando che intende destabilizzare il paese.

Se sembra tutto così familiare è perché lo si è già visto accadere nell'Ungheria di Viktor Orban. Quest'ultimo è colui il quale ha affermato che la democrazia liberale classica ha fallito e che è tempo di prendere in mano le redini del destino ed indirizzarlo verso la democrazia illiberale. Si può riconoscere un qualcosa di tutto questo anche in Polonia.

Ma per quanto induca in tentazione comparare Ungheria, Polonia e Romania, le tre sono molto diverse tra loro. L'Ungheria di Orban è uno stato che si autodefinisce illiberale; la Polonia è una democrazia con tendenze illiberali; la Romania, attualmente, è in gran parte uno stato illiberale per opportunismo. Per metterla diversamente, il suo governo, in questo momento, lo ritiene il guanto che calza meglio.
Essere illiberali conviene

Per meglio capire quest'affermazione si deve comprendere il passato del PSD; creato dopo la rivoluzione del 1989, che ha posto fine al regime comunista, il partito è stato legittimato da figure di secondo e terzo piano dell'ex Partito comunista ereditandone di fatto la discendenza e le pratiche.

Da allora in avanti, salvo per un periodo di quattro anni, è sempre, in un modo o nell'altro, stato al potere, che gli viene garantito da una base elettorale in gran parte rurale e nostalgica dei bei tempi andati.

Nel novembre del 2016 ha ottenuto la maggioranza in parlamento ed ha iniziato a perseguire la propria agenda. Il primo momento e probabilmente quello più significativo nel definire i successivi anni di governo è stato la preparazione di una proposta di legge che prevedeva la depenalizzazione dell'abuso d'ufficio, crimine per il quale il leader del partito Liviu Dragnea, era allora sotto inchiesta ed è successivamente stato condannato.

Quella decisione scatenò le più ampie proteste di strada degli ultimi 27 anni in Romania e il progetto di legge è stato, alla fine, ritirato.

Ma il governo non ha rinunciato all'obiettivo che si era posto dato che è ora in parlamento, largamente dominato dal PSD, che si sta tentando di modificare il codice penale e depenalizzare l'abuso d'ufficio.

Nonostante gli avvertimenti della Commissione di Venezia e di Bruxelles, si sta cercando anche di cambiare le leggi vigenti in modo da far dipendere maggiormente il sistema giudiziario dalla politica. Da sottolineare che negli ultimi 16 mesi in cui il PSD è stato al potere ha già cambiato, attraverso un voto di sfiducia, due governi che aveva in precedenza nominato (ora si è al terzo, ndr).

Ma la somma di questi elementi non porta alla conclusione che siamo di fronte ad uno stato illiberale e non porta al parallelo con l'Ungheria, un paese che apertamente rivendica quest'ideologia.

Orban ha costruito il suo discorso politico sul resistere e sfidare le politiche dell'Unione europea per ragioni elettorali appellandosi in continuazione alla fetta più debole dei suoi cittadini, i cosiddetti “sconfitti dalla transizione”.

Il PSD rumeno ha iniziato a fare questo (ma in modo molto più timido) solo dopo che Bruxelles ha contestato apertamente la riforma della giustizia. Inoltre la retorica dei politici rumeni non è anti-Ue. Vengono solamente rispedite al mittente le considerazioni di Bruxelles sul paese denunciando costantemente che sono frutto di “disinformazione”.

Per quanto riguarda la stampa il leader ungherese aveva bisogno di limitarla per evitare che la sua visione venisse contestata.

Ma in Romania la maggior parte della stampa ha da tempo e volontariamente fatto la sua scelta: la stampa rumena è infatti piena zeppa di giornalisti ed influencer desiderosi di sostenere il politico di turno per qualche soldo in più. Negli anni questo ha portato ad un pubblico sottosviluppato e uniformato, a disinformazione e ad un generale indebolimento della società civile.
Opportunisti

Dato che crede che la democrazia liberale e l'integrazione europea siano irreversibili, la società rumena si è rilassata e questo ha portato all'incontrollata ascesa della gerarchia di lacchè di partito: opportunisti, poco formati e con inclinazioni criminali. Personaggi che hanno accompagnato la loro ascesa con discorsi politici di scarso livello - e questo ha contribuito ad abbassare le stesse aspettative dei cittadini – ed hanno distratto l'attenzione pubblica dalle questioni cruciali attraverso fiammeggianti cicli di notizie.

Esempi se ne hanno anche in questi giorni. In Romania tre quarti del paese è colpito da pesanti inondazioni e il tasso di inflazione ha raggiunto il più alto livello degli ultimi cinque anni come conseguenze dell'innalzamento artificioso dei salari. Nel frattempo il leader del PSD parla di approvare una legge che prevederebbe la punizione dei funzionari pubblici – tra questi anche i parlamentari – che parlano male del loro paese all'estero.

Ma diversamente da quanto accaduto in Ungheria, questi sviluppi hanno prodotto, in Romania, un effetto opposto: si è avuta una veloce resurrezione del giornalismo d'inchiesta che, assieme ad una società civile sempre più attiva, ha svelato molti fatti di corruzione e malacondotta che coinvolgevano politici. E mentre tra la popolazione cresceva il sentimento di protesta, il governo veniva sempre più spesso contestato nelle strade.

Per ultimo è stato necessario, per il PSD, creare un nemico invisibile ed indefinibile (del tipo “Soros” o “Lo stato parallelo”), il “governo grigio della Romania dei servizi segreti e degli ambienti ad essi vicini” per giustificare le mosse antidemocratiche contro il sistema giudiziario e per giustificare i propri errori di governo.

Questa era una tattica già utilizzata dall'ex dittatore rumeno Ceausescu prima del 1989 ed è stata già vista in Russia ed in altri posti. Il fattore “paura” viene utilizzato per spingere determinati strati sociali a votare per il PSD. In questo caso la strategia viene aggiornata con la figura di Soros (che il PSD accusa di aver finanziato le massicce proteste di strada a Bucarest), importata dall'Ungheria dove Orban l'ha utilizzata con efficacia.

In conclusione, la classe politica della Romania è lontana da una ideologia illiberale, perché, in primo luogo, ciò implicherebbe che abbia un'ideologia. Tale ipotesi indicherebbe erroneamente un certo tipo di coerenza.

D'altra parte l'intera regione, in particolare la Romania, ha già vissuto il dramma del delirio illiberale. Dietro al mucchio delle illusioni ideologiche deluse, abbiamo trovato solo gli interessi diretti di pochi.

In questo caso la Romania è solo una conbricola di personaggi indagati o condannati penalmente che si trovano in una posizione di potere, dalla quale stanno semplicemente cercando di cambiare il sistema giudiziario in modo che risponda ai propri bisogni. Nel frattempo tentano di mantenere i propri privilegi e arricchire se stessi e chi è a loro vicino.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #62 il: Aprile 14, 2018, 14:43:52 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/89540

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UNGHERIA: Orbán, non chiamatelo populismo

Matteo Zola 3 giorni fa   

Viktor Orbán, ha vinto le elezioni parlamentari ottenendo il terzo mandato alla guida del paese. Il suo partito, Fidesz, ha ottenuto il 49,5% dei voti. Al secondo posto il partito di estrema destra Jobbik. L’affluenza è stata del 69%, molto alta per l’Ungheria. Alla luce di questi dati, la stampa nostrana non ha trovato di meglio che ripetere la solita solfa, ovvero che è “una vittoria del populismo”, di un “tiranno” da cui salvare genti ignare e innocenti, del peggiore “nazionalismo” e che – questa sono riusciti a dirla in una rete all-news nazionale – “Jobbik è un partito che sta più a destra di Orban, anche se non si sa come sia possibile”. Conformismo e fastidio.

Non se ne può più. Si assiste ormai a un fiorire dell’uso del termine “populista” per definire qualsiasi forma di governo o di pensiero non coerente con la dottrina liberale. Il termine, che ha un’accezione negativa, viene usato per delegittimare un vasto spettro di possibilità politiche: protezionismo economico, nazionalismo paternalista, corporativismo, euroscetticismo, conservatorismo, ma anche idee di democrazia diretta o forme di socialismo rivoluzionario: tutto (e il contrario di tutto) sembra potersi contenere in questa parola.

Un uso siffatto del termine non solo è sbagliato – lo si confonde con demagogia – ma realizza il più grave dei peccati intellettuali, quello che potremmo chiamare erbafascismo, ovvero la tendenza a mettere in unico fascio – totalizzante e totalitario – le erbe più disparate, talune propriamente erbacce, varia gramigna, ma anche qualche semplice da cui magari si potrebbe ricavare medicamento o balsamo per le cancrene dell’epoca nostra. Di più, si corre il rischio di sbagliare diserbante con l’effetto di veder la malerba resistere e ancor più proliferare.

Tacciare Viktor Orbán di populismo è fuorviante poiché non è al popolo che egli si rivolge, non è degli ungheresi che si fa campione, ma della nazione eterna, quella cattolica, quella sopravvissuta ai terrori del Novecento, quella repressa – ma non domata – del 1956, anno della Rivoluzione in cui l’Europa tutta volse altrove lo sguardo o, peggio, si dichiarò carrista. Sono elementi solo in apparenza secondari, lontani nel tempo. In Ungheria, come in larga parte dell’Europa centro-orientale, la storia è ora e qui. Non è un passato rinchiuso nei musei o nei sassi inerti delle civiltà sepolte, è corpo vivo che cammina nel presente. Il passato è attualità. E guardando al passato Orbán dice che la fedeltà all’Europa non è un dogma, visto che l’Europa tradì la nazione ungherese in quel 1956. E dice che essere partner va bene, ma che un partner dice anche dei “no”, altrimenti è un servo. Il paragone, fatto da Orban tempo addietro, tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea non è casuale – e nemmeno così peregrino, a dirla tutta.

L’Ungheria è uscita dalla cattività sovietica grazie alle forze sotterranee che hanno tenuto vivo lo “spirito” della “nazione” anche negli anni più bui. Sono termini che possono farci sorridere, qui in occidente, ma su cui nessuno – in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia – si sognerebbe di ridere. La libertà di oggi è, per quei paesi, il risultato di una tenacia spirituale che ha consentito alla “nazione” di sopravvivere alla barbarie nazista, all’occupazione sovietica, ai tentativi di annichilimento culturale o linguistico.

Nel caso ungherese, il bagno di sangue del 1956 ha prodotto sotterranei rivoli che, negli anni Ottanta, sono riemersi carsici dal sottosuolo dando vita a movimenti come il Magyar Demokrata Fórum o il Fiatal Demokraták Szövetsége (Fidesz), l’alleanza dei giovani democratici fondata dal venticinquenne Viktor Orbán nel 1988. Si tratta di movimenti che proponevano un’alternativa democratica per il proprio paese, lottando contro il regime comunista ma anche contro l’idea – quella della rivoluzione socialista – che essi incarnavano. Una lotta dalle profonde radici, di cui questi movimenti si sentivano – e ancora si sentono – gli eredi. Eredi di quella che, in Europa centro-orientale, chiamano controrivoluzione. Un termine che, da questa parte d’Europa, fa subito pensare alla reazione, alla Vandea, all’oltranzismo cattolico, ma erano dette “controrivoluzioni” la Primavera di Praga, la Rivoluzione ungherese del ’56, quella di Velluto, l’azione di Solidarność. Oggi, per i leader politici di molti di quei paesi, è controrivoluzione quello che noi chiamiamo “euroscetticismo“.

All’indomani della caduta del Muro di Berlino, l’Ungheria – come tutti i paesi della regione – ha dovuto costruire dal niente istituzioni moderne, tali da garantire ai cittadini diritti e libertà. Tuttavia, mentre da un lato procedeva nello state-building, ricostituendo la nazione ritrovata, dall’altro la sovranità appena acquisita veniva reclamata dal processo di integrazione europea. Si è trattato di un passaggio difficile e per certi versi penoso, unico nella storia. L’integrazione europea era però un obiettivo primario, sia per ragioni di ordine geopolitico, sia per poter accedere ai cospicui aiuti economici messi a disposizione per l’integrazione. Un processo voluto e cercato, quindi, in nome di quel “ritorno all’Europa” che fu parola d’ordine del periodo post-sovietico. Il corto circuito tra Budapest e Bruxelles – come anche tra Varsavia, Praga, Bucarest e Bruxelles – è il risultato di quel penoso passaggio di sovranità, ceduta non appena ritrovata.

Nelle more di quell’epocale passaggio, arriva Viktor Orbán che, citando Argentieri, “ha dato un senso all’essere ungheresi” restituendo al paese la sovranità perduta – sovranità, altra parolaccia ormai. Nel farlo ha scomodato la storia antica e recente, ha riabilitato la figura di Miklós Horthy (obliterandone il carattere fascista ed esaltandone il ruolo di difensore della patria) e ha calcato la mano sull’unicità etnica dei magiari. A tempo perso, ha usato la crisi dei migranti per ribadire come la nazione ungherese sia sempre, da sola, in prima linea contro l’invasore. In questo senso il suo nazionalismo è stato strumentale ma non si deve credere al mero opportunismo: Orbán, abbiamo visto, è dagli anni Ottanta che porta avanti una visione nazionalista venata di spiritualismo e senso mistico. Va letta in tal senso la recente riforma della Costituzione (da cui è stata cancellata la parola “repubblica”).

Il primo ministro magiaro sembra voler incarnare l’eredità del passato ergendosi ad antemurale contro i nemici di oggi: l’europeismo dogmatico, il colonialismo finanziario, ma anche la falsa utopia degli “stati uniti d’Europa”. Nemici veri, non solo fantasie di un piccolo premier col cappello da Napoleone. La stessa visione messianica del proprio compito, lo spinge però a forzare le regole della democrazia: il mancato rinnovo delle licenze ai media di opposizione non è illegale, ma è un evidente azione di censura; il sistema elettorale vigente, che ha ridisegnato i collegi al fine di rendere quasi impossibile il successo dell’opposizione (il famoso gerrymandering), non è illegale ma nemmeno dimostrazione di cristallino amore per la democrazia rappresentativa.

Una democrazia in crisi, secondo Orbán, colpita a morte dai modelli di “società aperta” che derivano dalle dottrine di Bergson e Popper e che oggi, piuttosto malaccortamente, si associano al pensiero liberale. Più che a Popper, il premier ungherese guarda a Soros la cui organizzazione, Open Society, è impegnata nel paese promuovendo e finanziando attività e gruppi che portano avanti idee politiche liberali. Un nemico interno da debellare, un fantoccio da agitare davanti all’opinione pubblica. Tanto più che il premier ungherese è un liberista sfegatato: quel che non ama è il liberalismo ma le aziende che delocalizzano in Ungheria gli piacciono parecchio.

Anche grazie a questa doppiezza, Orbán ha portato il suo paese fuori dalle secche della crisi economica. I dati macroeconomici sono confortanti. Ha rivendicato libertà di azione in ambito politico ed economico rispetto ai vincoli europei, nel bene e nel male. Ma ha forzato la mano alla democrazia, pur senza oltrepassare limiti che altrove – Italia compresa – non siano già stati superati da tempo. Ha strumentalizzato paure e ansie degli ungheresi. Ha voluto incarnare un certo spirito nazionale, a metà tra ipocrisia e fede. È un leader di destra (ma non estrema destra!) che non ama l’opposizione e che crede nella dittatura della maggioranza, patologia della democrazia. Ma nell’attuale contesto politico europeo, è un leader necessario al suo paese. Il suo successo è il risultato di un’epoca convulsa, fatta di incertezze e forze sempre meno controllabili dai cittadini, un’epoca in cui il potere è lontano anni luce, chiuso nelle stanze delle organizzazioni sovranazionali. Spaesata, la piccola Ungheria si è data un capo. E spaesati tutti, in molti ci hanno visto un modello: l’orbanismo, che non è derubricabile a semplice “populismo”, è diventato per molti una possibile risposta alla progressiva sottrazione di sovranità popolare. E sovranità, non è sovranismo. Come popolare, non è populismo. In tal senso viene da chiedersi se Orbán non sia l’uomo sbagliato per una giusta causa.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #63 il: Aprile 14, 2018, 14:46:20 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-le-presidenziali-farsa

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Azerbaijan, le presidenziali farsa
12 aprile 2018

L'11 aprile scorso si sono tenute in Azerbaijan le elezioni presidenziali anticipate. Ilham Aliyev, presidente uscente, si è guadagnato un quarto mandato con l'86% dei voti. La Commissione elettorale centrale ha reso noto che l'affluenza sarebbe stata del 74.5%.

I principali partiti d'opposizione non hanno preso parte al voto, boicottandolo perché ritenevano non sarebbe stato equo. Human Right Watch ha sottolineato che gli elettori di fatto non erano messi nelle condizioni di esprimere il proprio voto per un'alternativa a Aliyev.

Sul web girano molti video a testimonianza delle svariate irregolarità avvenute durante le votazioni. Il governo però ha rigettato le accuse di brogli definendole “bugie”.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #64 il: Aprile 14, 2018, 14:47:51 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Gallerie/Bayan-Yani-mensile-senza-testosterone

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Bayan Yanı, mensile “senza testosterone”
13 aprile 2018

Il sito di approfondimento culturale Kaleydoskop ha dato spazio a "Bayan Yanı", rivista umoristica al femminile che ha appena compiuto sette anni. Ne riportiamo alcune copertine

Bayan Yanı, costola del settimanale umoristico LeMan, è nata nel 2011 come numero speciale per l’8 marzo, con lo scopo di celebrare le donne e al tempo stesso denunciare l’allarmante crescita della violenza di genere in Turchia. Concepita inizialmente come pubblicazione una tantum, di fronte a un immediato successo si è presto trasformata in una testata mensile, che nei suoi attuali 74 numeri non ha mai smesso di farsi portavoce delle innumerevoli sfaccettature dell’universo femminile, da temi leggeri come la depilazione alla denuncia del femminicidio.

Autodefinita “prima e unica rivista umoristica femminile al mondo”, nonché “la vostra rivista senza testosterone”, Bayan Yanı vanta una redazione composta da un solo uomo e circa venti donne, tra le quali Ramize Erer, direttrice, e Meral Onat. Il nome, traducibile come “accanto alle donne”, fa riferimento al divieto per uomini e donne che viaggiano non accompagnati sui pullman interurbani di sedere gli uni accanto alle altre.

Proponiamo la copertina del primo numero e quelle che nel mese di marzo degli anni successivi hanno celebrato il coraggio delle donne e l’anniversario della rivista.

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #65 il: Aprile 14, 2018, 23:30:08 pm »
UNGHERIA: Orbán, non chiamatelo populismo
Io darei volentieri un rene per avercelo in Italia, uno così.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #66 il: Aprile 15, 2018, 00:41:47 am »
Io darei volentieri un rene per avercelo in Italia, uno così.

Io il rene me lo tengo e me lo terrei.
Nondimeno va evidenziato che uno come Orbán, così come uno come Putin, esiste e può esistere anche perché vive in un contesto sociale ben diverso da quello occidentale.
Per esser più chiaro: in Europa dell' Ovest la sua vita sarebbe molto più difficile, proprio perché quella occidentale è una società più smidollata, più femminea ed anche meno nazionalista.
Non parliamo poi dell' Italia, ovvero del Paese più esterofilo ed anti-nazionalista d' Europa, popolato da uomini e donne perennemente impegnati a darsi le martellate sui genitali e parimenti convinti(e) che il resto del mondo sia sempre e comunque migliore del Bel Paese.
Non a caso consiglio sempre a questa gente di fare le valigie e di andarsene, magari nella meravigliosa Africa o nella stupenda America Latina (ovvero il continente più violento al mondo).

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #67 il: Aprile 15, 2018, 10:22:38 am »
Conosco l' atteggiamento di cui parli, tipico di chi appartiene ad una certa parte politica, peraltro.
Va detto pure che, dal mio punto di vista, tale modo di pensare è stato ampiamente inculcato, nella mente dei nostri connazionali, dalla classe dirigente degli ultimi 30 anni (dovevano darci l' inculata dell' euro, per cui dovevano portare gli italiani a pensare che cedere la sovranità del proprio paese fosse meglio).

Offline Sardus_Pater

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #68 il: Aprile 15, 2018, 13:02:24 pm »
Craxi molto più patriottico della Meloni sicuramente :ohmy: .
Stranamente Tangentopoli è scoppiata quando Bettino ha cominciato a porre condizioni sull'entrata dell'Italia in Europa favorevoli al Belpaese (e anche a Greci e Spagnoli, altri stati all'epoca a guida socialista e simili sotto mille aspetti all'Italia). Non fu solo una vendetta per Sigonella.
Il femminismo è l'oppio delle donne.

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #69 il: Aprile 15, 2018, 13:50:21 pm »
Craxi molto più patriottico della Meloni sicuramente :ohmy: .
Stranamente Tangentopoli è scoppiata quando Bettino ha cominciato a porre condizioni sull'entrata dell'Italia in Europa favorevoli al Belpaese (e anche a Greci e Spagnoli, altri stati all'epoca a guida socialista e simili sotto mille aspetti all'Italia). Non fu solo una vendetta per Sigonella.
La storia parte da molto prima, almeno dal siluramento di Baffi a Bankitalia.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #70 il: Aprile 16, 2018, 23:42:58 pm »
L'esterofilia italiana ha varie cause, ed anche le sue origini son decisamente più lontane nel tempo.
Di certo c'è che quello italiano - o ciò che ne resterà - non sarà mai un popolo nazionalista.

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #71 il: Aprile 17, 2018, 01:11:30 am »
Io mi accontenterei di un popolo sovrano...

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #72 il: Aprile 17, 2018, 20:28:35 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Vojislav-Seselj-orgoglioso-dei-crimini-per-cui-e-stato-condannato-187303

Citazione
Vojislav Šešelj, orgoglioso dei crimini per cui è stato condannato

Condannato in appello presso il Tribunale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia, il leader del Partito radicale serbo si vanta dei crimini commessi e occupa un seggio in parlamento. Nonostante la legge non lo consenta
17/04/2018 -  Antonela Riha Belgrado

Con la sentenza emessa l’11 aprile scorso, la Corte d’appello del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI) all’Aja ha condannato il leader del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj a 10 anni di detenzione, riconoscendolo colpevole per capi d’accusa riguardanti crimini contro l’umanità. Con questa decisione la Corte d’appello ha parzialmente ribaltato la sentenza di primo grado emessa nel marzo 2016, con cui il Tribunale dell’Aja aveva assolto Šešelj per tutti i capi d’accusa che gli venivano contestati.

Così si è giunti al termine di un processo, avviato nel 2006, che verrà ricordato per le numerose stranezze e controversie che lo hanno caratterizzato.

Una di esse riguarda la durata del processo e del periodo trascorso dall’imputato in stato di detenzione. Vojislav Šešelj si era consegnato volontariamente al Tribunale dell’Aja nel 2003, trascorrendo in carcere più di tre anni in attesa del processo, iniziato solo alla fine del 2006, ed è stato rilasciato nel 2014 per motivi di salute. La Corte d’appello ha quindi condannato Šešelj a una pena detentiva che egli ha già scontato.

Appresa la notizia della condanna, Šešelj ha dichiarato di essere orgoglioso di tutti i crimini di guerra e contro l’umanità che gli venivano attribuiti e di essere pronto a ripeterli in futuro. Ha inoltre affermato che la sentenza d’appello è illegittima e che intende impugnarla.
“A Hrtkovci non c’è spazio per i croati”

Šešelj è stato dichiarato colpevole di “incitamento alla persecuzione (dislocamento forzato), deportazione e altri atti disumani (trasferimento forzato di popolazione), nonché di crimini contro l’umanità e persecuzioni (violazione del diritto alla sicurezza personale), e di crimini contro l’umanità commessi a Hrtkovci, in Vojvodina.

Il 6 maggio 1992, Šešelj tenne un discorso nel villaggio di Hrtkovci, a poca distanza dal confine che separa la Serbia dalla Croazia, durante il quale dichiarò che “a Hrtkovci non c’è spazio per i croati”, minacciando: “Se non se ne vanno da soli, li porteremo al confine della terra serba. Da lì dovranno proseguire a piedi”.

Rivolgendosi alla platea dei suoi sostenitori, concluse il discorso dicendo: “Sono convinto che voi serbi di Hrtkovci e di altri villaggi limitrofi saprete preservare la concordia e l’unità reciproca, e che molto presto vi libererete dei croati rimasti nei vostri villaggi e nei dintorni”.

Questo discorso è considerato il primo atto di una vasta campagna di espulsione dei croati da Hrtkovci e da altri villaggi e città della Vojvodina. La registrazione del comizio di Hrtkovci è stata una delle principali prove addotte dall’accusa nel processo a carico di Šešelj davanti al Tribunale dell’Aja.

La Corte d’appello ha confutato anche la conclusione paradossale contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui la procura del Tribunale dell’Aja non ha provato che, nel periodo compreso tra il 1991 e il 1993, “la popolazione civile non serba fosse esposta a un attacco diffuso e sistematico in gran parte della Croazia e della Bosnia Erzegovina”.

Nella motivazione della sentenza d'appello , letta dal giudice Theodor Meron, si precisa che “nessun giudice ragionevole avrebbe potuto concludere che non vi era stato un diffuso e sistematico attacco contro la popolazione civile non serba in Croazia e in Bosnia Erzegovina”.

Partendo da queste premesse, la Corte d’appello ha modificato quella parte della sentenza di primo grado emessa nei confronti di Šešelj nella quale il collegio giudicante, presieduto dal giudice Jean-Claude Antonetti, aveva contestato – con l’eccezione della giudice Flavia Lattanzi – l’esistenza di numerosi crimini già accertati in altre sentenze emesse dal Tribunale dell’Aja.

Si può supporre che la conclusione del processo a carico di Vojislav Šešelj e la pronuncia della sentenza definitiva abbiano portato sollievo alla maggior parte dei protagonisti di questo procedimento.

Nel corso del processo, Šešelj aveva trasformato l’aula del tribunale in un palcoscenico dove, difendendosi da solo, era riuscito a far modificare il collegio di primo grado, e per aver rivelato il nome di un testimone era stato condannato, in un processo separato, a oltre 4 anni di detenzione.

Aveva anche intrapreso uno sciopero della fame e, pur essendo gravemente malato, si era rifiutato di sottoporsi alla chemioterapia, mentre durante le udienze non aveva mai perso occasione per insultare, nel più volgare dei modi, chiunque ritenesse suo avversario – dai giudici e procuratori ai suoi oppositori politici.

È stato l’unico imputato del Tribunale dell’Aja a cui è stato permesso di non essere presente in aula durante la lettura della sentenza. Ha aspettato a Belgrado sia la sentenza di assoluzione di primo grado, emessa nel 2016, sia la recente sentenza d’appello.
Nessun commento da parte delle autorità di Belgrado

La sentenza di condanna di Šešelj non ha destato una particolare attenzione dell’opinione pubblica serba, se non il giorno in cui è stata pronunciata.

Il presidente serbo Aleksandar Vučić, che quotidianamente appare in pubblico, non ha commentato la sentenza di condanna a carico del suo “padre politico”. Durante gli anni Novanta, Vučić è stato uno dei più stretti collaboratori di Šešelj, fino a quando, nel 2008, non è passato al Partito progressista serbo, di cui è attualmente leader.

Due anni fa, quando Šešelj è stato assolto in primo grado, Vučić ha dichiarato che “fin dall’inizio era chiaro che si trattava di un processo politico”.

Anche una parte dell’opinione pubblica serba – compresi i sostenitori della giustizia transizionale – ritiene che certe sentenze del Tribunale dell’Aja siano frutto di decisioni politicamente motivate.

La sentenza d’appello con cui Šešelj è stato condannato a 10 anni di detenzione, che ha già scontato nel carcere di Scheveningen, è stata commentata da molti come un tentativo di “salvare l’onore” del Tribunale, compromesso dalla controversa sentenza di assoluzione ma anche come un’ulteriore prova delle posizioni antiserbe delle “grandi potenze”.

Gli esperti sono divisi tra quanti affermano che la condanna di Šešelj costituisce ora un importante precedente, in quanto un cittadino della Serbia è stato condannato per aver commesso crimini nel territorio non coinvolto dalle operazioni di guerra, e quanti invece ritengono che la giustizia sia solo parzialmente soddisfatta.

Finora non ci sono reazioni del governo alle richieste dell’opposizione e di alcune organizzazioni non governative che chiedono di ritirare il mandato parlamentare a Šešelj, perché in quanto criminale di guerra condannato secondo la Legge sull’elezione dei deputati non può più essere deputato al parlamento. Con la condanna per crimini di guerra, non può più ricoprire la carica di deputato né far parte del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza.

Nella sua prima dichiarazione in parlamento dopo la sentenza di condanna, Šešelj come è sua consuetudine ha usato parole minacciose: "Sono venuto a vedere se qualcuno mi dirà che sono un criminale di guerra, così che gli spacco subito la faccia".

In Serbia, a quanto pare, a Šešelj tutto è ancora permesso. Può vantarsi dei crimini commessi, occupare un seggio in parlamento, partecipare ai reality show, minacciare croati, albanesi e oppositori politici in Serbia e nel resto del mondo.


Tuttavia, essendo politicamente debole, Šešelj non rappresenta alcuna minaccia per il presidente Vučić. Ma continua a ricordargli gli anni Novanta, quando insieme disegnavano i confini della “Grande Serbia”, un ricordo che Vučić vorrebbe cancellare dalla memoria collettiva.

Seguendo le sue indicazioni, gran parte dei cittadini serbi è disposta, coscientemente o no, a dimenticare i crimini avvenuti durante gli Novanta in Serbia e in altre repubbliche ex-jugoslave, molti dei quali vedono per protagonista proprio Vojislav Šešelj.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #73 il: Aprile 17, 2018, 20:30:21 pm »
Io mi accontenterei di un popolo sovrano...

Io no.
Ma ormai me ne son fatto una ragione.
Gli italiani son questi, pertanto non c'è nulla da fare.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #74 il: Aprile 19, 2018, 20:08:48 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Benvenuti-all-inferno-i-cantieri-ferroviari-in-Georgia-186464

Citazione
Benvenuti all'inferno: i cantieri ferroviari in Georgia

La costruzione di una linea ferroviaria nella Georgia centrale fa parte degli ambiziosi programmi di aggiornamento infrastrutturale del paese. Ma chi vi lavora rischia la salute e la vita
06/03/2018 -  Luka Pertaia   

(Pubblicato originariamente da OC Media il 26 febbraio 2018)


In un nebbioso giorno di metà gennaio Tevdore Natsabidze, 58 anni, cammina lungo una stradina fangosa che porta al cantiere dove lavora come manovale. È originario del villaggio di Nebodziri, nella municipalità di Kharagauli, Georgia centrale, 160 chilometri ad ovest di Tbilisi. È attualmente impiegato nella costruzione del tunnel ferroviario di Bezhatubani, un villaggio vicino al suo.

“Qui passano raramente delle auto. A volte un camionista mi dà un passaggio, ma sono abituato a camminare. Mi tengo in forma”, racconta, salendo per una collina prima di attraversare un ponte del 19mo secolo.

“Occorre stare molto attenti qui. In molti sono stati investiti da treni perché non erano sufficientemente attenti”, ammonisce Tevdore, mentre percorre il tratto di ferrovia che arriva sino al cantiere.

Mentre si avvicina alla fermata ferroviaria di Bezhatubani, all'orizzonte si inizia ad intravedere un cantiere. L'unico modo per raggiungerlo è uno stretto sentiero che scende lungo la collina.

Mentre Tevdore raggiunge il cantiere si aggiunge a lui un'altra ventina di uomini, stanno attendendo impazienti un treno che li porti al quartier generale dell'azienda per cui lavorano, nella città vicina di Khashuri. Vanno a discutere, con l'amministrazione dell'azienda, le richieste poste da chi è in sciopero. Ben presto sono raggiunti da molti altri.
“Un progetto per il benessere dei cittadini”

Il cantiere dove lavora Tevdore fa parte di un programma per ammodernare il principale collegamento ferroviario est-ovest del paese, da Tbilisi a Batumi. I lavori più rilevanti vengono fatti sul settore Zestaponi–Kharagauli e su quello Moliti–Kvishkheti. Il costo del programma è di circa 278 milioni di dollari.

La nuova linea ferroviaria andrà a rimpiazzare quella esistente tra Zestaponi–Kharagauli, aggiungendo una traccia ulteriore per collegare i villaggi di Moliti e Kvishkheti. Il progetto prevede lungo la linea sei nuovi tunnel, dei quali 5 sono già stati realizzati, ha dichiarato a OC Media il portavoce dell'azienda statale delle Ferrovie georgiane.

Il primo ministro georgiano Giorgi Kvirikashvili ha dichiarato l'anno scorso che il progetto di modernizzazione delle ferrovie è parte “di un più ampio programma di riforma in quattro punti”. Quest'ultimo include “nuove infrastrutture rispondenti a standard moderni, con nuove stazioni ferroviarie, porti, aeroporti e infrastrutture turistiche”.

Il primo ministro ha sottolineato che “ogni investimento, ogni progetto, è finalizzato al benessere dei nostri cittadini”. Ciononostante i lavoratori impiegati nel cantiere della ferrovia da tempo lanciano l'allarme per la loro salute, messa a rischio da pessime condizioni di lavoro.
Un altro sciopero

È il 19 gennaio. Da cinque giorni circa cinquanta lavoratori hanno incrociato le braccia chiedendo migliori condizioni di lavoro. L'azienda datrice di lavoro è la China Railway 23rd Bureau, ramo locale dell'azienda statale cinese China Railway Construction Corp.

“Non è la prima volta che scioperiamo”, afferma Giorgi Kiknadze, sindacalista e leader de facto del gruppo. A suo avviso nonostante l'azienda abbia promesso “di migliorare le cose” e nonostante alcuni passi siano stati effettivamente intrapresi, le condizioni generali del cantiere restano “intollerabili”.

Dopo un viaggio di 30 minuti da Bezhatubani a Khashuri, i lavoratori in sciopero hanno incontrato Ilia Lezhava e Paata Ninua, vice-responsabili del sindacato NTU, che raccoglie i lavoratori del settore ferroviario, nato nel 2015.

Mentre circa 40 lavoratori attendono nel cortile del quartier generale dell'azienda, i sindacalisti raggiungono un accordo con i datori di lavoro. A tutti viene promesso il pagamento dei permessi di malattia e delle ferie. Lo sciopero è terminato.

Ma l'annuncio arriva con una pessima notizia. Circa 26 lavoratori “non sono più necessari” perché a breve il tunnel verrà terminato. Solo i pochi funzionali alla chiusura dei lavori manterranno i loro posti di lavoro.
Acqua inquinata e ambiente non igenico

Non tutti sono d'accordo con la sospensione dello sciopero. In molti dubitano che l'azienda si occuperà veramente della loro sicurezza. “Ce lo dice l'esperienza”, dice Kiknadze.

Secondo Arsen Latsabidze, lavoratore di 44 anni, i cavi elettrici vengono lasciati esposti nel tunnel, al buio, durante i lavori. “Spesso in pozzanghere”, aggiunge.

Oltre ad accusare l'azienda della pessima situazione della sicurezza sul lavoro e del non pagare malattie e ferie, i lavoratori sottolineano che sono stati disattesi anche numerosi accordi presi. Secondo Jaba Peradze, 40 anni, l'azienda spesso non fornisce nemmeno guanti a sufficienza, obbligandoli ad utilizzarne di consunti. “Forniscono solo due paia di stivali al mese, che, data l'intensità del nostro lavoro, non sono sufficienti. E le calzature sono senza punte in acciaio, per proteggerci i piedi”, protesta.

Inoltre i lavoratori affermano che, ogni volta che piove, l'acqua che bevono è contaminata. “Quando abbiamo chiesto all'amministrazione acqua potabile ci è stato detto di berla dai rubinetti, ma questi sono di fatto collegati direttamente con il fiume Tskhenistskali”, aggiunge Peradze.

I gabinetti e le docce nel cantiere non rispettano alcuno standard sanitario. Dei dieci rubinetti nelle docce comuni e indivise, solo tre funzionano. Lo spogliatoio è sporco e ci si aspetta che siano i lavoratori a pulirlo nel loro tempo libero.
Oltre Bezhatubani

“Lavorare qui è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo”, racconta Kiknadze che aggiunge che non ci sono quasi posti di lavoro nel comune e nelle città vicine, e nemmeno a Tbilisi. “Stiamo lavorando qui e almeno guadagniamo un reddito medio mensile di circa 240-320 dollari, ma a quale costo? Non sai mai cosa può capitarti”.

Appena tre giorni dopo l'accordo per la fine dello sciopero, tre operai sono rimasti feriti in un'esplosione nel tunnel. Era stata pianificata per procedere con il tunnel ma diversi operai vicino a dove sono stati collocati gli esplosivi non sono stati avvertiti della detonazione. Un'inchiesta penale è stata avviata per "violazione delle norme in materia di salute e sicurezza".

L'incidente del 22 gennaio non è stato il primo a ferire lavoratori nei cantieri gestiti dal China Railway 23rd Bureau Group. Nel luglio 2017, due operai sono rimasti feriti nello stesso cantiere di Bezhatubani dopo che un masso si è distaccato dal soffitto del tunnel in costruzione. L'azienda ha negato qualsiasi illecito affermando che "durante la costruzione, le norme sulla sicurezza del lavoro sono state rigorosamente rispettate" e aggiungendo che agli operai sono state fornite attrezzature adeguate. "Vi sono spesso infortuni sul lavoro, ma nessuno nell'amministrazione prende precauzioni", dice Kiknadze. China Railway 23 è stata anche in passato accusata di cattive condizioni di lavoro e mancata sicurezza sul lavoro.

Un monitoraggio da parte del sindacato NTU, realizzato nell'aprile del 2017, ha verificato condizioni simili nei cantieri dei villaggi limitrofi di Zvare e Dzirula. Nell'agosto 2016, l'Ufficio del difensore pubblico della Georgia ha rilasciato una dichiarazione in merito al cantiere di Zvare, affermando che i dipendenti si lamentavano della mancanza di "condizioni di lavoro adeguate, ambiente di lavoro sicuro e norme igieniche". Vi si menzionava anche che i lavoratori non avevano familiarità con i contenuti del loro stesso contratto di lavoro.
Ispezioni ignorate

Secondo il monitoraggio del sindacato NTU dell'aprile 2017 l'azienda aveva affrontato solo alcuni dei problemi emersi ad esempio fornendo ai lavoratori delle mascherine per respirare e attaccando alcuni cavi alle pareti. Ma si continuava, secondo il sindacato, a non adottare adeguate precauzioni nello stoccaggio degli esplosivi, che venivano tenuti nei veicoli utilizzati per il loro trasporto. Tra l'altro è stata sottolineata anche la mancanza di kit di pronto soccorso e di adeguato equipaggiamento.

Un successivo monitoraggio condotto sempre dal NTU nell'agosto del 2017 ha messo in rilievo che l'azienda non rispettava un decreto emesso nel 2014 dal governo georgiano perché non era stata adottata alcuna ventilazione nel tunnel, rendendo ai lavoratori la respirazione difficoltosa.

Le conclusioni di ogni monitoraggio sono state inviate all'azienda.

Secondo quando dichiarato a OC Media dal ministero del Lavoro sarebbe ancora in corso l'indagine condotta sull'incidente avvenuto lo scorso 22 gennaio. Il ministero sostiene che propri ispettori hanno visitato il cantiere due volte per determinare le cause dell'incidente.

Il ministero ha dichiarato che il Dipartimento sul lavoro ha controllato i cantieri sia a Zvare che Bezhatubani tre volte dal 2016, evidenziando almeno 30 violazioni di legge. “Sono poi state fornite per iscritto le raccomandazioni più rilevanti”, ha affermato sempre il ministero a OC Media.

Ma le raccomandazioni da parte degli ispettori del lavoro, così come i risultati dei monitoraggi sindacali, non sono vincolanti dal punto di vista giuridico. Per fare in modo che le cose cambino, chi si batte per i diritti dei lavoratori sta facendo pressioni affinché venga modificata la legislazione e venga allargato il mandato degli ispettori del lavoro.
Una legge sul lavoro più severa

Lina Ghvinianidze, a capo dell'Human Rights Education and Monitoring Centre (EMC), con sede a Tblisi, sostiene che l'attuale sistema di ispezioni sul lavoro, adottato nel 2015, "non può essere efficace" emettendo esclusivamente delle raccomandazioni, e dipende dalla "buona volontà dei datori di lavoro nell'ammettere gli ispettori sul luogo di lavoro".

Ghvinianidze aggiunge che i cantieri nei pressi di Kharagauli sono un esempio di quanto l'attuale legislazione sia fallimentare aggiungendo che, nonostante il numero di raccomandazioni emesse nei confronti delle aziende di costruzione, i "loro lavoratori hanno continuato a lavorare in condizioni pessime, rischiando la salute e la vita".

Secondo dati forniti a OC Media dal ministero degli Interni tra il 2010 e il 2017 in Georgia sono stati 359 i morti sul lavoro e 984 i feriti.

Chi si batte per i diritti dei lavoratori - tra cui anche EMC, sindacati ed altri - sta mettendo tutto il proprio impegno per arrivare ad una riforma non solo dell'Ispettorato del lavoro ma della legislazione sul lavoro in generale. si ritiene infatti possa essere un primo e significativo passo per ridurre gli incidenti sui luoghi di lavoro.

Le Ferrovie georgiane hanno dichiarato di non essere responsabili delle condizioni di lavoro nei cantieri di costruzione della ferrovia, aggiungendo che la loro preoccupazione è la qualità di quanto viene costruito. Archil Grishashvili, direttore di China Railway 23rd Bureau Group, non ha voluto commentare in merito alle accuse rivolte all'azienda per cui lavora.