Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76612 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #90 il: Aprile 26, 2018, 00:41:28 am »
All'africano medio del morale basso degli italiani non gliene frega niente.
la maggior parte di loro si lamenta solo del fatto che vorrebbe parassitare ancora di più il popolo italiano.
Che poi bisogna andarci in alcuni paesi dell'Africa a vedere che non è che i loro cuori siano poi così traboccanti di gioia e speranza.


Ecco, appunto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #91 il: Aprile 26, 2018, 00:48:02 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-lo-stato-e-la-criminalita-organizzata-183442

Citazione
Albania: lo stato e la criminalità organizzata

Un'organizzazione criminale italo-albanese dedita al narcotraffico dall'Albania smantellata nei giorni scorsi a Catania ha finito per scuotere, pesantemente, anche la politica albanese
23/10/2017 -  Tsai Mali   


Una contorta vicenda di traffici internazionali, collaborazione tra autorità e gruppi criminali e parentele scomode sta facendo tremare in questi giorni il governo del Premier socialista Edi Rama, insediatosi per il secondo mandato nel mese di settembre. Quattro anni di indagini delle autorità italiane sono state finalizzate il 17 ottobre scorso con un mandato di cattura nei confronti di undici persone, tra cui anche i fratelli Moisi e Florian Habilaj, noti alla cronaca albanese dal 2015, cioè da quando un ex agente dell'antidroga di Fier, Dritan Zagani, ha denunciato il legame – di sangue e di affari – con l'allora ministro degli Interni, Saimir Tahiri.

Secondo l'ex ufficiale di polizia, i fratelli Habilaj erano coinvolti da tempo in un giro di traffico di narcotici con l'Italia e si muovevano a bordo di un'auto di proprietà del ministro, che in Albania gli garantiva l'intoccabilità. Tahiri aveva ammesso in quell'occasione di aver venduto il veicolo ai cugini, senza mai fare il passaggio di proprietà, nonché di averlo utilizzato anche successivamente per un viaggio privato all'estero.

L'agente Zagani, all'epoca già sotto inchiesta per abuso d'ufficio, ha chiesto e ottenuto asilo politico in Svizzera. Mentre Saimir Tahiri, oggi deputato e coordinatore del Partito Socialista, è rimasto a capo del ministero degli Interni fino al marzo 2017, prima di essere improvvisamente destituito con un maldestro rimpasto di governo in cui a farne le spese finirono anche altri tre ministri socialisti. Alla luce delle recenti rivelazioni ottenute dalle autorità italiane, la procura albanese ne chiede ora l'arresto con l'accusa di traffico di narcotici e corruzione.
Il coinvolgimento di Tahiri

Nell'ambito delle indagini della Guardia di Finanza su un'organizzazione internazionale che negli anni è riuscita a trasportare oltre 3.500 kg di marijuana dall'Albania all'Italia, con un giro d'affari che supera i 20 milioni di euro, la procura albanese ha ottenuto anche un voluminoso fascicolo con le intercettazioni di incontri e conversazioni telefoniche tra i membri della banda, da cui è emersa l'ombra del coinvolgimento di Saimir Tahiri, nel periodo delle intercettazioni a capo del ministero degli Interni.

In una conversazione del dicembre 2013, qualche mese dopo le elezioni politiche albanesi, gli indagati Moisi Habilaj e Sabaudin Çelaj si chiedono cosa abbia più di loro il neo nominato ministro. Per Çelaj ci sarebbe stato “giusto il nome”, intendendo la reputazione e l'incarico governativo, non certo il denaro, condizione evidentemente ritenuta imprescindibile per la carriera politica. Secondo Habilaj però, il cugino di Tirana "ha fatto almeno 5 milioni di euro in un mese", ma il compagno ridimensiona l'importanza della cifra per le tasche del ministro sottolineando che per una campagna elettorale all'albanese "non sono sufficienti neanche 20 milioni".

In un'altra occasione, gli indagati parlano di una somma di 30 mila euro, parte del ricavato di una delle tratte di narcotici, che spetterebbe a Saimir, e successivamente di due bracciali, dal valore di qualche migliaio di euro, per la moglie e la madre di Saimir.

In alcuni casi il riferimento è evidente mentre in altre occasioni si fa solo il nome, ma secondo gli inquirenti italiani il Saimir citato dagli indagati sarebbe proprio l'ex ministro.
Le conseguenze politiche

"Due criminali, miei cugini di decimo grado, non hanno esitato a fare il mio nome. Di criminali che fanno il nome di un politico per vantarsi, e comunque per i propri interessi, ce ne sono tanti. Ma intendo chiedere alla procura di indagare, senza avvalermi dell'immunità di deputato", ha dichiarato Tahiri in conferenza stampa a poche ore dalla pubblicazione delle intercettazioni. "Finirò nella cella più remota del carcere e ci rimarrò finché sarà fatta chiarezza", affermava accorato la sera stessa in televisione, certo che il giorno dopo la procura avrebbe avuto il via libera per l'arresto.

Nel generale e imbarazzato silenzio dei socialisti l'unico a prendere la parola è stato il Primo Ministro Edi Rama che ha subito preso le distanze e definito "rivoltanti e scioccanti" le conversazioni degli indagati. "Vogliamo la verità, quanto prima", ha brevemente commentato il Premier sui social, mentre l'uomo di punta del suo precedente governo era improvvisamente diventato un "ramoscello storto" all'interno della grande famiglia socialista.

In meno di ventiquattro ore però il vento è cambiato. Sotto casa e davanti al Parlamento Tahiri non ha trovato gli agenti di polizia ma una schiera di sostenitori accorsi ad incoraggiarlo a fare giustizia e ad insultare e zittire la giornalista "cretina" che osava fargli una domanda sul suo coinvolgimento nella vicenda . Nel frattempo nel dibattito sul concedere o meno l'immunità parlamentare i deputati socialisti si sono stretti intorno al collega, hanno preso un giorno di tempo per valutare la documentazione e poi preteso dai magistrati – simulando una improbabile seduta giudiziaria - prove incontestabili della colpevolezza del collega. Il giorno dopo, il Consiglio dei mandati - ente preposto all'analisi della concessione dell'immunità -  se ne è uscito con due rapporti: uno dell'opposizione che convalidava l'arresto e uno della maggioranza che consentiva solo indagini, ma con il deputato a piede libero. Facile prevedere quale otterrà la maggioranza in aula nei prossimi giorni.

I guai giudiziari di Tahiri hanno riunito intorno allo stesso tavolo tutti i partiti di opposizione che, aderendo all'appello del Partito Democratico di Lulzim Basha, principale formazione del centrodestra albanese, hanno accettato di coordinare i propri interventi e di trovarsi uniti nella lotta al potere criminale rappresentato in primis dal premier Edi Rama. Questo nuovo fronte comune dell'opposizione ha subito chiesto le dimissioni di Rama in quanto "principale responsabile dei legami della criminalità con la cupola governativa e rappresentante degli interessi di un sistema oligarchico e corrotto".

Che l'opposizione avrebbe trasformato la vicenda in una battaglia politica era prevedibile, ma tutti i presenti a quel tavolo, da Basha a Mediu, da Kryemadhi a Kokedhima, così come i grandi assenti, Berisha e Meta, i propri problemi con la giustizia li hanno sempre schivati o archiviati grazie alle protezioni politiche, a cavilli burocratici e termini di prescrizione. Sono anche loro, al pari di Tahiri e Rama che oggi denunciano, emblema del fallimento di un sistema giudiziario e politico che non ha mai rotto il suo "codice del silenzio", quella inscalfibile complicità tra chi sale e scende dal potere.

Nell'assoluta impunità che ha accompagnato per oltre 25 anni tanto l'Albania degli sbarchi, della crisi e dei conflitti di ieri, quanto quella del miracolo, del boom e delle opportunità della narrazione di oggi, Saimir Tahiri ha solo rischiato, anche se per sole ventiquattro ore, di essere la prima eccezione.
La capitolazione di uno stato

Oltre al “capitolo" politico, nelle intercettazioni delle autorità italiane, pubblicate integralmente in questi giorni sulla stampa , c'è la quotidianità delle vite dei membri di un'organizzazione criminale, per la parte albanese capitanata dai fratelli Habilaj. C'è il denaro facilmente guadagnato e subito sperperato, lo scoramento per i carichi intercettati dalle autorità italiane e il sollievo di scampare ogni volta all'arresto, il disappunto per i calzini Hugo Boss pagati 320 euro e la soddisfazione per i bracciali tempestati di diamanti da regalare alla mamma, con tanto di garanzia in caso di furto.

Da quelle carte emergono però anche due paesi agli antipodi dello stesso mare dove, a Porto Palermo, luogo prediletto per la partenza degli scafi carichi di cannabis, gli 80 km che li separano diventano improvvisamente un abisso. Da un lato del mare - quello italiano - c'è l'ossessione di essere sotto osservazione, la povertà, c'è la polizia che i suoi indagati li segue, li controlla, ne registra le conversazioni e intercetta le spedizioni. Dall'altro c'è la libertà, il lusso, la polizia che “guarda e passa”, innocua e inoffensiva.

In Albania, la banda degli Habilaj ha dalla sua la polizia dell'intera area di Valona, "hai visto il furgone che è passato, sono tutti dei nostri, ma qualche traditore può capitare, vai a sapere chi viene e chi va"; ha un "grande capo" a Tirana con cui avvengono incontri a tu per tu, e che non è escluso sia lo stesso cugino socialista; ma anche un “uccellino” nella sala radar di Durazzo, "da lì vedono tutto, anche i pesci", che dà loro indicazioni sulla rotta e li riprende se, come capitato una volta, l'imbarcazione entra per errore nelle acque territoriali greche dove invece la protezione viene a mancare.

Nelle intercettazioni delle autorità italiane potrebbero non esserci elementi sufficienti a dimostrare l'effettivo coinvolgimento di Saimir Tahiri nella vicenda, anche se certamente basterebbero per troncarne la corsa politica, ma c'è la parabola dell'attività di un'organizzazione criminale attiva dal 1998 e legata evidentemente a tutti i governi di Tirana che da allora si sono susseguiti. C'è, soprattutto, la parabola di un paese in cui ancora oggi regnano l'illegalità, la corruzione e la collusione della politica con la criminalità organizzata. In quelle 400 pagine di intercettazioni c'è, tra le righe, la capitolazione dello stato albanese.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #92 il: Aprile 26, 2018, 13:14:20 pm »
Francamente, bisogna anche vedere in quale parte d'Italia si abita. Io abito in una cittadina della Val Padana che, a parte il clima orribile (ma a cui sono abituato da sempre), e' un gioiello in quanto a qualita' della vita e dei servizi della pubblica amministrazione.
Qui perfino quando vai all'Ufficio Immigrazione in Questura, che frequento per via della mia compagna, l'impiegato o il poliziotto che trovi e' gentile e fa di tutto per risolverti i problemi.

Certo poi, visto che siamo su un forum QM-ista, le donne sono quello che sono, femministe e pretenziose come dappertutto in Italia, ma io con la mia compagna frequentiamo solo altre coppie con donne straniere, e quindi non ho neanche questo problema, di dover sopportare le insopportabili donne italiane :cool:
"Le donne occidentali sono più buone e tolleranti con gli immigrati islamici che le stuprano che con i loro mariti."
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #93 il: Aprile 26, 2018, 15:55:56 pm »
E la Thailandia?
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #94 il: Aprile 26, 2018, 17:35:38 pm »
E la Thailandia?
Ci vado tutte le volte che posso, ma innegabilmente abbiamo piu' diritti e servizi qui in Italia.
In particolare, la mia compagna da straniera ha piu' diritti e servizi qui in Italia di quanto io da straniero possa mai averne in Thailandia, che essendo uno stato fuori dall'orbita dell'occidente politicamente-corretto, ha normative sugli stranieri a dir poco discriminatorie e xenofobe.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #95 il: Aprile 26, 2018, 22:00:49 pm »
Non è che i 90enni siano immuni dall'influenza del presente. Comunque ho visto io stesso le cose cambiare.
Guarda,parlando con i miei nonni e molti anziani,sento spessissimo storie del passato di meschinità ed avidità:famiglie che guerreggiavano per l'eredità,parenti che si disprezzano l'un l'altro,grande interesse per la posizione sociale delle persone frequentate,matrimoni d'interesse,amicizie di interesse e, rispetto ad oggi, una maggiore 'subordinazione" e un maggiore servilismo nei confronti di chi era più ricco e benestante.
Secondo me, dal punto di vista dei miei personali valori,i cosiddetti bei tempi non sono mai esistiti.
Poi,per carità, i miei valori possono non coincidere con quelli tuoi o di altri utenti del forum.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #96 il: Aprile 28, 2018, 14:19:41 pm »
Red, l' esterofilia italiana, mista a disfattismo cronico, ha origini ben più lontane, ed esisteva(no) molto prima dell' avvento di quello che tu definisci "neofemminismo".


....Etcetera
Se si vuol vedere chiaramente la differenza tra 40 anni fa ed oggi, non che sia così difficile, basta vedere qualche documentario su Rai Storia, leggere qualcosa di quegli anni, oppure vedere qualche film (italiani, mi riferisco all'Italia, le altre realtà le conosco poco) di quegli anni.
Bisogna vedere come si comportavano i giovani di quegli anni e come si comportano oggi. Le differenze sono evidenti.
Ci fu un periodo in cui i giovani non avevano paura ad uscire e protestare, a salire sul palco su cui parlava un capo sindacalista per dire la loro, oppure dove cantava un cantautore per contestarlo pubblicamente, in diretta nazionale; e non erano nessuno, solo giovani. Oggi è impensabile. Hanno paura. E' un fatto.
Siamo molto meno liberi di un tempo, siamo liberi di fare quello che ci dicono di fare.
Il massimo della protesta, oggi, è votare 5 stelle. (i quali poi o rientreranno nei ranghi o saranno cancellati). Non si fa di più, la paura fa 90.
E' chiaro che, in un clima simile, ogni cosa può essere agevolmente diretta dall'alto.
La paura crea un popolo spento, apatico, demoralizzato, che non cerca più nulla. Il neofemminismo, (l'essenza femminile, lo Yin), per ora ha vinto. Questa, per me, in sintesi, è la realtà odierna.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #97 il: Aprile 28, 2018, 14:58:59 pm »
Ci vado tutte le volte che posso, ma innegabilmente abbiamo piu' diritti e servizi qui in Italia.
In particolare, la mia compagna da straniera ha piu' diritti e servizi qui in Italia di quanto io da straniero possa mai averne in Thailandia, che essendo uno stato fuori dall'orbita dell'occidente politicamente-corretto, ha normative sugli stranieri a dir poco discriminatorie e xenofobe.
L'ho sentito anche di altri Stati asiatici.
Guarda,parlando con i miei nonni e molti anziani,sento spessissimo storie del passato di meschinità ed avidità:famiglie che guerreggiavano per l'eredità,parenti che si disprezzano l'un l'altro,grande interesse per la posizione sociale delle persone frequentate,matrimoni d'interesse,amicizie di interesse e, rispetto ad oggi, una maggiore 'subordinazione" e un maggiore servilismo nei confronti di chi era più ricco e benestante.
Secondo me, dal punto di vista dei miei personali valori,i cosiddetti bei tempi non sono mai esistiti.
Poi,per carità, i miei valori possono non coincidere con quelli tuoi o di altri utenti del forum.
Ho sentito anch'io questi racconti ma credo dipenda molto dalla storia familiare, poi le buone notizie non fanno notizia.
Ho parenti di quattro regioni diverse e a parte qualche caso sporadico non ho sentito di fatti del genere.
In compenso, amicizie e matrimoni d'interesse oggi ne vedo a iosa, a leggere queste pagine poi si direbbe che sono la norma.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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« Risposta #98 il: Aprile 28, 2018, 15:35:16 pm »
Se si vuol vedere chiaramente la differenza tra 40 anni fa ed oggi, non che sia così difficile, basta vedere qualche documentario su Rai Storia, leggere qualcosa di quegli anni, oppure vedere qualche film (italiani, mi riferisco all'Italia, le altre realtà le conosco poco) di quegli anni.
Bisogna vedere come si comportavano i giovani di quegli anni e come si comportano oggi. Le differenze sono evidenti.
Ci fu un periodo in cui i giovani non avevano paura ad uscire e protestare, a salire sul palco su cui parlava un capo sindacalista per dire la loro, oppure dove cantava un cantautore per contestarlo pubblicamente, in diretta nazionale; e non erano nessuno, solo giovani. Oggi è impensabile. Hanno paura. E' un fatto.
Siamo molto meno liberi di un tempo, siamo liberi di fare quello che ci dicono di fare.

Sì, ma l' esterofilia italiana era presente allora come oggi.
Come ho già avuto modo di scrivere in questo forum, il primo esterofilo che ebbi modo di conoscere già da bambino, fu (ed è)... mio padre.*
E come lui ne ricordo tanti, sia suoi coetanei che non.
Le origini dei complessi di inferiorità italiani son decisamente più lontane nel tempo.

@@

* Trattasi di un uomo nato nel 1941.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #99 il: Aprile 28, 2018, 20:30:43 pm »
Ho sentito anch'io questi racconti ma credo dipenda molto dalla storia familiare, poi le buone notizie non fanno notizia.
Ho parenti di quattro regioni diverse e a parte qualche caso sporadico non ho sentito di fatti del genere.
In compenso, amicizie e matrimoni d'interesse oggi ne vedo a iosa, a leggere queste pagine poi si direbbe che sono la norma.
Vicus io ho parenti in 2 regioni(Sardegna,Lazio), vivo in Veneto e di questi fatti invece ne ho sentito parecchi(sia da familiari che non).

poi le buone notizie non fanno notizia.
Vicus questo è un discorso valido nel giornalismo non quando i vecchi parlano del loro passato.
Anzi è vero il contrario,gl anzianii tendono a magnificare il passato(la loro giovinezza):tutto era meglio,la gente era meglio eccetera...solo dopo un po' incominciano a raccontare tutto il negativo che c'era ai loro tempi.
ma poi basta averci a che fare con i vecchi,io tutta questa superiorità morale non la vedo,troppo comodo affermare che sono influenzati dai tempi di oggi,se i valori sono autentici non cambiano.






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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #100 il: Aprile 28, 2018, 20:46:51 pm »
Se si vuol vedere chiaramente la differenza tra 40 anni fa ed oggi, non che sia così difficile, basta vedere qualche documentario su Rai Storia, leggere qualcosa di quegli anni, oppure vedere qualche film (italiani, mi riferisco all'Italia, le altre realtà le conosco poco) di quegli anni.
Bisogna vedere come si comportavano i giovani di quegli anni e come si comportano oggi. Le differenze sono evidenti.
Ci fu un periodo in cui i giovani non avevano paura ad uscire e protestare, a salire sul palco su cui parlava un capo sindacalista per dire la loro, oppure dove cantava un cantautore per contestarlo pubblicamente, in diretta nazionale; e non erano nessuno, solo giovani. Oggi è impensabile. Hanno paura. E' un fatto.
Siamo molto meno liberi di un tempo, siamo liberi di fare quello che ci dicono di fare.
Il massimo della protesta, oggi, è votare 5 stelle. (i quali poi o rientreranno nei ranghi o saranno cancellati). Non si fa di più, la paura fa 90.
E' chiaro che, in un clima simile, ogni cosa può essere agevolmente diretta dall'alto.
La paura crea un popolo spento, apatico, demoralizzato, che non cerca più nulla. Il neofemminismo, (l'essenza femminile, lo Yin), per ora ha vinto. Questa, per me, in sintesi, è la realtà odierna.
Guarda Red in Italia si ha così tanta paura di protestare oggigiorno che  hanno devastato un città( Genova) ed è stato fatto eroe un drogato con un estintore in mano come arma contro le forze dell'ordine.
In Val Di Susa si ha talmente paura di protestare che ogni 2-3 settimane la polizia deve usare gli idranti contro i giovani che gli bersagliano con sassi e fuochi d'artificio.
Parli poi di vittoria del femminismo...sono d'accordo...peccato che è proprio negli anni che stai magnificando che il femminismo è esploso,non a caso i peggiori ometti,zerbini e femministi che abbiamo in italia sono proprio sessantottini.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #101 il: Aprile 28, 2018, 21:07:25 pm »
Guarda Red in Italia si ha così tanta paura di protestare oggigiorno che  hanno devastato un città( Genova) ed è stato fatto eroe un drogato con un estintore in mano come arma contro le forze dell'ordine.
In Val Di Susa si ha talmente paura di protestare che ogni 2-3 settimane la polizia deve usare gli idranti contro i giovani che gli bersagliano con sassi e fuochi d'artificio.
Parli poi di vittoria del femminismo...sono d'accordo...peccato che è proprio negli anni che stai magnificando che il femminismo è esploso,non a caso i peggiori ometti,zerbini e femministi che abbiamo in italia sono proprio sessantottini.
Si ok, ma non ci confondiamo, chi protestava a Genova erano organizzazioni internazionali, profemministe, etc, organizzate, appunto. (tipo le femen. Spero nn si dica che è un moto spontaneo, quello  :P )
In Val di Susa la cosa è un pò più complessa, ma chi protesta lì probabilmente sono gli stessi, (cioè gruppi "antagonisti". ma chi sono? da dove vengono? che vogliono?)  tranne una minoranza locale.
Altra cosa sarebbe protestare per il lavoro, per relazioni di coppia normali (succede, ma solo in silenzio, vedasi "le sentinelle in piedi"), ed altre cose simili decisamente importanti.
La conosco bene la questione secondo cui ognuno tesse le lodi dei propri tempi, in cui era giovane. Ma, ripeto, se si parla di muoversi per far cambiare le cose in meglio, da noi l'impressione è che i giovani abbiano una paura folle. Chi si muove lo fa solo perchè evidentemente è guidato da qualcuno, non perchè ci siano moti spontanei, come accadeva un tempo.
L'ultimo esempio di moto spontaneo, a mia memoria, è stato "la pantera", ma hanno beccato tutti i capi e gli hanno fatto passare dei guai, e loro si sono dileguati. a quel punto anche lì i gruppi organizzati (centri sociali) presero il soppravvento, e tutto finì.  :P
Strana 'sta cosa dei centri sociali, gli unici autorizzati a far casino. Per cosa, poi!? ..Per niente.  :D

Ripeto, ci sono in ijnternet, specie su youtube, diversi doc sugli anni '70, io li ho trovati interessantissimi per vedere la grande differenza tra quella generazione e quella attuale.
Poi si potrebbe discutere su quale sia meglio, ma è altro discorso. Io però, obiettivamente, trovo che sia stata meglio quella; si sono divertiti di più, hanno fatto più cose, etcetera.
Preciso che on appartengo nè a quella nè alla generazione attuale, io mi ritengo degli anni 80-90 nel senso che sono gli anni che mi hanno visto "giovane".
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« Risposta #102 il: Aprile 28, 2018, 21:24:52 pm »
Si ok, ma non ci confondiamo, chi protestava a Genova erano organizzazioni internazionali, profemministe, etc, organizzate, appunto. (tipo le femen. Spero nn si dica che è un moto spontaneo, quello  :P )
In Val di Susa la cosa è un pò più complessa, ma chi protesta lì probabilmente sono gli stessi, (cioè gruppi "antagonisti". ma chi sono? da dove vengono? che vogliono?)  tranne una minoranza locale.
Altra cosa sarebbe protestare per il lavoro, per relazioni di coppia normali (succede, ma solo in silenzio, vedasi "le sentinelle in piedi"), ed altre cose simili decisamente importanti.
La conosco bene la questione secondo cui ognuno tesse le lodi dei propri tempi, in cui era giovane. Ma, ripeto, se si parla di muoversi per far cambiare le cose in meglio, da noi l'impressione è che i giovani abbiano una paura folle. Chi si muove lo fa solo perchè evidentemente è guidato da qualcuno, non perchè ci siano moti spontanei, come accadeva un tempo.
L'ultimo esempio di moto spontaneo, a mia memoria, è stato "la pantera", ma hanno beccato tutti i capi e gli hanno fatto passare dei guai, e loro si sono dileguati. a quel punto anche lì i gruppi organizzati (centri sociali) presero il soppravvento, e tutto finì.  :P
Strana 'sta cosa dei centri sociali, gli unici autorizzati a far casino. Per cosa, poi!? ..Per niente.  :D
Red  ritengo quanto hai esposto poco convincente,mi sembra una forzatura il tuo discorso.
Rimango della mia.
Comunque,a parte il confronto tra legittime differenze di vedute,ci tenevo a specificare che non appoggio minimamente CERTI modi di protestare distruttivi e vandalici mentre apprezzo le proteste serie dove chi non c'entra niente non viene coinvolto.

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« Risposta #103 il: Aprile 28, 2018, 21:37:44 pm »


Ripeto, ci sono in ijnternet, specie su youtube, diversi doc sugli anni '70, io li ho trovati interessantissimi per vedere la grande differenza tra quella generazione e quella attuale.
Poi si potrebbe discutere su quale sia meglio, ma è altro discorso. Io però, obiettivamente, trovo che sia stata meglio quella; si sono divertiti di più, hanno fatto più cose, etcetera.
Preciso che on appartengo nè a quella nè alla generazione attuale, io mi ritengo degli anni 80-90 nel senso che sono gli anni che mi hanno visto "giovane".
Legittimo,qua siamo nel campo delle opinioni,tuttavia faccio notare, come affermano molti sindacalisti del tempo,che durante il 68 non è che tutti erano ribelli rivoluzionari,per uno che protestava mille stavano a casa e andavano a letto presto.
Stesso discorso per Martin Luter King(personaggio che per molti versi apprezzo) e i suoi sostenitori:per ogni negro che si faceva pestare in nome dei suoi diritti mille negri stavano a casa.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #104 il: Aprile 29, 2018, 19:05:44 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/89715

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BOSNIA: Il grande gelo dei veterani
Alfredo Sasso 3 giorni fa   

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa

Quelle tra fine febbraio e inizio marzo sono state le notti più gelide dell’inverno bosniaco, con temperature tra i -15 e i -20 nelle regioni di Sarajevo e Tuzla. In quelle stesse notti il termometro sociale ha iniziato a salire, quando i veterani di guerra hanno occupato diversi luoghi nevralgici della rete stradale del paese, tra cui lo snodo di Sički Brod vicino a Tuzla, vari punti lungo la Brod-Sarajevo (principale via di comunicazione del paese) e diversi passi di frontiera con la Croazia. Iniziati il 28 febbraio, i blocchi sono durati diversi giorni, causando pesanti disagi alla viabilità e qualche scontro con le forze di polizia.

Dopo alcune settimane di tregua e mobilitazioni a singhiozzo, la protesta è riemersa tra il 9 e il 10 aprile con nuovi blocchi stradali, e con ancora più forza il 17 aprile, quando un corteo di qualche centinaio di veterani si è radunato davanti al Parlamento della Federazione di BiH e ha anche cercato di farvi ingresso, prima di essere caricato dalla polizia antisommossa. “Abbiamo difeso questo paese, ma oggi non abbiamo niente”, ha commentato un manifestante. Un altro, più bellicoso: “La prossima volta veniamo con le bombe”. L’escalation di blocchi stradali e presidi è insolita anche per la categoria sociale probabilmente più protestataria del paese come quella dei veterani, già protagonisti di importanti mobilitazioni nel 2012, nel 2014, nel 2016 e infine nel giugno dell’anno scorso, quando decine di reduci di guerra costruirono un’occupazione permanente autonominatasi “Kamp Heroja” (“Campo degli Eroi”) davanti alla sede del governo della Federazione di BiH, una delle due entità che compongono il paese.

Dieci mesi dopo le tende del “Kamp Heroja” sono ancora lì, ormai una parte stabile del paesaggio urbano sarajevese. E identiche restano le richieste al governo della Federazione da parte dei veterani che nel 1992-95 hanno combattuto sia nelle file dell’Armija, l’esercito della Repubblica di Bosnia Erzegovina, che in quelle dell’HVO, la compagine militare croato-bosniaca (non è coinvolto in questa protesta il terzo attore militare del conflitto, la VRS, quella serbo-bosniaca i cui veterani ricevono sussidi dalla Republika Srpska, l’altra entità del paese). Sono tre le rivendicazioni base della protesta: la creazione di un registro unico e pubblico degli ex-combattenti, un sussidio minimo di 167 euro al mese e uno stop ai fondi alle associazioni di categoria che, secondo le ragioni della protesta, sottraggono risorse pubbliche alle reali necessità dei veterani.

Ognuno di questi punti illustra bene i paradossi e gli squilibri del sistema pubblico bosniaco nell’ultimo dopoguerra. A ventidue anni dalla fine del conflitto non esiste un registro centrale e affidabile dei veterani, che indichi chiaramente chi ha combattuto per quale unità e per quanto tempo. Questo vuoto amministrativo avrebbe permesso nel corso degli anni, secondo le accuse dei veterani, migliaia di iscrizioni abusive e certificazioni di invalidità false o esagerate. Secondo i dati in possesso del governo della Federazione, sarebbero circa 577.000 i combattenti registrati (per la certificazione è sufficiente avere prestato servizio in guerra un giorno solo), dei quali circa 92.000 hanno ottenuto una prestazione di invalidità nel 2017. È però una cifra fortemente contestata dai veterani che protestano, secondo cui i combattenti congedati alla fine del conflitto non erano più di 280.000 e dunque, come ha detto ironicamente uno di loro, in 22 anni “non solo nessuno è morto, ma anzi ne sono nati di nuovi”.

Solo negli ultimi mesi, pressato dalle proteste, il governo della Federazione ha iniziato a aggiornare e sistematizzare i dati. Il ministro dei Veterani Salko Bukvarević ha annunciato di avere depennato circa 6.000 utenti e ridotto le prestazioni di invalidità per circa 7.000. Ma il completamento del registro durerà a lungo e richiederà una paziente e non scontata collaborazione degli enti locali. E soprattutto, non soddisfa i veterani in protesta, che fin da subito richiedevano un registro accessibile al pubblico per indagare sugli abusi del passato ed evitare nuove manipolazioni. Il governo della Federazione, invece, prevede di riservare l’accesso alle sole istituzioni e di evitare misure retroattive per ragioni di privacy e operatività.

L’altra richiesta degli ex-combattenti appare, a prima vista, paradossale: il taglio ai fondi e, nei fatti, una drastica diminuzione delle associazioni di categoria a cui loro stessi appartenevano o appartengono tuttora. Si tratta di circa 1.600 enti, ovvero 20 per ogni municipalità della Federazione, che sono accusati di malagestione e spreco di risorse. Le organizzazioni di veterani percepiscono gran parte dei fondi a livello locale. Secondo dati ufficiali, dei circa 6.15 milioni di euro che ottengono, solo 185.000 arrivano dalla Federazione. Il grosso è dunque stanziato dai dieci cantoni che compongono la Federazione, e una parte minore proviene dalle municipalità. La proliferazione di associazioni è dunque, almeno in parte, conseguenza della frammentazione istituzionale e della confusione tra competenze imposte dal sistema di Dayton.

Va riconosciuto che molte organizzazioni fungono da welfare sostitutivo, garantendo un sostegno primario per voci quali borse di studio, servizi medici e spese funerarie. Ci sono però abusi sistemici e una diffusa corruzione che coinvolge funzionari e partiti politici, soprattutto a livello locale. Molte associazioni hanno operato da “macchine elettorali”, con una base socialmente vulnerabile e dunque ancora più ostaggio delle promesse economiche dei partiti e della demagogia dei leader in cambio di voti.

Un caso eclatante è emerso proprio la scorsa settimana, quando  un’inchiesta del magazine sarajevese Klix ha indagato la vicenda di Pravednost (Correttezza), un’organizzazione creata da un noto politico sarajevese, l’ex-generale dell’esercito Sefer Halilović. Secondo l’inchiesta, Pravednost ha beneficiato di oltre 600.000 euro di fondi pubblici, concessi dal ministero dei Veterani del Cantone di Sarajevo (da molti anni sotto il controllo del partito di Halilović, il BPS) e invece di programmi sociali li avrebbe destinati, in buona parte, alle spese legali e di sostentamento di alcuni ex-ufficiali che sono attualmente imputati per crimini di guerra dalla giustizia bosniaca. Curiosamente lo stesso Halilović, personaggio molto popolare tra i reduci di guerra, aveva personalmente visitato le proteste di fine febbraio e ne aveva più volte appoggiato le richieste.

I veterani e la politica

Poiché in Bosnia Erzegovina vi è già fibrillazione per le elezioni di ottobre, alcuni hanno insinuato che la mobilitazione degli ex-combattenti sarebbe stata montata ad arte per poi essere addomesticata con promesse simboliche e qualche piccola concessione economica. Eppure, anche ora che la tensione torna ad aumentare, il tema dei veterani è nuovamente sparito dall’agenda del Parlamento della Federazione, cosa che ha propiziato il corteo e gli incidenti di ieri. I partiti continuano a mostrare un certo distacco sulla questione. Un motivo cruciale è che negli ultimi anni si sono fatte sempre più intense le pressioni degli organi internazionali (su tutti l’FMI) sulle istituzioni bosniache per contenere i sussidi ai veterani nell’ambito dei tagli alla spesa pubblica. È soprattutto per queste pressioni che il governo della Federazione, pur avendo già fatto passi concreti sul registro e sui limiti alle associazioni, si è mostrato finora inflessibile sull’aumento delle risorse finanziarie per i veterani, che ammontano a 290 milioni di euro (una parte consistente del budget totale).

Poi vi è una questione più prettamente politica. L’SDA, il principale partito della Federazione e dei musulmani nazionalisti, sta vivendo una profonda crisi di leadership interna, che di fatto priva i veterani del loro tradizionale interlocutore e getta incertezza sui rapporti di potere futuri. L’instabilità si manifesta anche nei media del paese che hanno effettuato una copertura totalmente dissimile delle proteste dei veterani. Come spiega un’analisi di Balkan Insight, i due canali TV pubblici di Sarajevo, BHTV e FTV, hanno ignorato di fatto le manifestazioni anche quando hanno creato caos nelle comunicazioni del paese, mentre le emittenti transnazionali Al Jazeera Balkans e N1 (affiliato della CNN) hanno seguito gli eventi con grande attenzione ed edizioni speciali.

Per ora, il resto della popolazione non pare avere mostrato né appoggi tangibili, né ostilità verso la causa dei veterani. In Bosnia Erzegovina vi è indubbiamente un diffuso riconoscimento per lo status sociale di combattente (anche se per lo più diviso secondo le appartenenze etno-nazionali) e un rispetto per le enormi sofferenze materiali che i reduci di guerra patiscono. Vi è sicuramente una certa popolarità per la rivendicazione di giustizia sociale e la narrazione anti-elitaria di cui i veterani si presentano portatori, visti come “difensori veri” di patrie e comunità che si mantengono sulla soglia di sopravvivenza al contrario di un ceto politico superpagato e ampiamente disprezzato. C’è simpatia per la trasversalità di appartenenze che ormai da tempo caratterizza le mobilitazioni dei veterani, togliendo la linea di frattura dal fattore “etnico” e riposizionandola tra il “basso” di chi reclama insieme i diritti negati e l’”alto” di chi sfrutta le differenze per proprio privilegio.

Ma si avvertono anche segnali di insofferenza per la continua mobilitazione dei veterani, a volte considerata una lobby che difende unicamente gli interessi corporativi grazie a un rapporto subdolo con la classe politica e con una retorica revanscista e assistenzialista che ostacolerebbe una transizione verso il futuro. Talvolta, più semplicemente, i veterani sono percepiti come “privilegiati” che accedono a certi benefici, come l’accesso preferenziale o esclusivo ad alcuni impieghi e servizi pubblici (educazione, sanità) nonché a prestazioni sociali e sussidi d’invalidità maggiori di almeno il 30% rispetto ai cittadini comuni, per quanto bassi in termini assoluti.

A queste disparità di trattamento alcuni hanno autonomamente reagito con stratagemmi che hanno causato, però, nuovi squilibri e fratture sociali. La politologa Jessie Hronesova, in un suo articolo, ha illustrato come molte vittime civili della guerra, per aggirare la loro esclusione dalle politiche riparatorie riservate ai veterani, abbiano fatto certificare se stessi o alcuni familiari morti come soldati. Dunque è stata anche questa pratica a contribuire al fenomeno dei “falsi certificati” che ha alimentato un’ondata di sfiducia verso le istituzioni e tra le stesse categorie sociali. Secondo la sociologa Oliwia Berdak, la centralità dell’uomo-cittadino-combattente nel sistema sociale bosniaco avrebbe inoltre contribuito alla ri-tradizionalizzazione di genere, relegando la donna a un ruolo dipendente e subordinato.

Proteste e movimenti

Risulta ancora più delicato indagare la relazione tra proteste dei veterani e le proteste sociali più ampie, come quelle per il lavoro e per le politiche urbane, o espressioni trasversali come i Plenum del 2014. Un’attivista dei movimenti di Sarajevo che preferisce restare anonima spiega a OBCT: “Un appoggio organizzato ai veterani di fatto non esiste. C’è chi aderisce alla protesta, chi supporta moralmente, ma non c’è nulla di politicamente strutturato. È una questione molto delicata. In un momento in cui le politiche sociali sono oggetto di riforma è opinione diffusa, soprattutto a sinistra, che sia problematico basare le prestazioni sociali su un certo status particolare invece di una solidarietà sociale ampia”.

Secondo l’attivista, è cruciale l’assenza di ogni riferimento al lavoro: “Quasi non si parla dei diritti di questo gruppo di persone in quanto lavoratori. Loro sono stati combattenti durante la guerra, ma prima e dopo di questa erano, e sono, lavoratori a cui è stato sottratto di fatto il diritto al lavoro, con la svendita e la distruzione del patrimonio produttivo in Bosnia Erzegovina. Ma i loro problemi sono immediati e richiedono una soluzione istantanea perché molti da anni vivono appena sulla soglia di sopravvivenza. E quindi ampliare le basi della protesta, dando ad essa un senso più ‘politico’, diventa quasi impossibile”.

Dunque non ci possono essere rapporti tra le proteste dei veterani e gli altri movimenti sociali? “I collegamenti tra le proteste sono deboli e rari”, risponde. “L’intersezione è un’eccezione. Una protesta non riesce a essere una scintilla per qualcosa di più grande. Ma non solo: una protesta perde forza da sola perché insiste sull’importanza del gruppo e non cerca legami con il contesto sociale più ampio. E in un contesto in cui dominano le narrazioni, sia locali che straniere, sull’eccesso di politiche sociali, sulla spesa degli aiuti e sulla pigrizia di chi li riceve, tutto ciò è ancora più difficile”.