Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78116 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #195 il: Febbraio 10, 2019, 18:14:17 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Non-si-e-mai-stati-cosi-bene-in-Serbia-192577

Citazione
Non si è mai stati così bene in Serbia

Un commento sarcastico e tagliente, un ritratto della Serbia di oggi visto da chi ha vissuto le proteste degli anni ‘90 contro quello che pensava fosse il peggiore regime possibile

08/02/2019 -  Petra Tadić   Belgrado
In Serbia non si è mai vissuto meglio. Già da tre anni le casse pubbliche registrano un avanzo. L’élite al potere sta conseguendo un successo dopo l’altro. Non c’è stato alcun taglio alle pensioni. Le persone non lasciano il paese in massa. I rapporti con i paesi vicini sono ottimi, non sono mai stati migliori. Omicidi e crimini non avvengono quasi mai. E quelli avvenuti in passato sono stati ormai risolti. La polizia arresta e il tribunale emette subito la sentenza.

Siamo quasi diventati membri dell’Unione europea, ancora uno, due passi e ci siamo. Manteniamo ottimi rapporti con la Russia e nessuno ce lo rimprovera. Siamo un fattore di stabilità. Risolveremo presto anche la questione del Kosovo, perché il nostro presidente non dorme ed è costantemente impegnato nella ricerca di una soluzione pacifica, sostenibile e reciprocamente accettabile.

Le minoranze godono di tutti i diritti. Anche le ultime due edizioni del Gay Pride si sono svolte senza problemi. E i media? Non sono mai stati così liberi! Ognuno può dire quello che vuole e quando vuole, senza suscitare alcuna protesta. Le conferenze stampa straordinarie convocate d’urgenza appartengono ormai al passato.

Il parlamento funziona benissimo. I deputati della maggioranza, non quelli dell’opposizione, presentano diverse centinaia di emendamenti ad ogni singola legge. Svolgono il loro lavoro con coscienza. Leggono attentamente le proposte di legge, individuano le lacune e le correggono in tempo. Così i deputati dell’opposizione non devono fare nulla. Possono tranquillamente stare seduti e ricevere il loro stipendio parlamentare.

Il sistema sanitario e quello scolastico funzionano alla grande. Negli ultimi tre anni nessun medico è partito per la Germania, la Slovenia o qualche altro paese. Tutto funziona. In Serbia non si è mai stati meglio.

Proteste
Sabato, 2 febbraio. Una giornata sorprendentemente bella e calda per questo periodo dell’anno. Mio marito e io stiamo aspettando l’autobus. Vediamo alcuni conoscenti avvicinarsi. Ci scambiamo sguardi. Noi chiediamo: “Andate alla protesta?”. Loro rispondono: “Andiamo alla protesta”. Non ci siamo visti per anni. Ed eccoci di nuovo qui, spinti dagli stessi motivi, pronti ad andare alla manifestazione di protesta che da diverse settimane viene organizzata a Belgrado, in Piazza degli Studenti, dove negli anni Novanta protestavamo contro l’allora governo serbo, che pensavamo fosse il peggiore possibile.

Per quelli che non lo sanno – ed è del tutto normale che ci siano persone che non lo sanno, perché si tratta di fatti appartenenti al passato – , a Belgrado e in tutta la Serbia, per un intero decennio, dal 1991 al 2000, i cittadini hanno protestato contro un governo che li ha umiliati, ridotti in miseria, sotto le sanzioni e spinti in conflitto coi vicini; un governo che ha combattuto e perso guerre; un governo che ha ucciso i suoi oppositori politici.

Poi nel 2000 abbiamo finalmente vinto. Noi, cittadini “normali” di questo paese. E pensavamo che fosse finita, che fosse finalmente giunto il momento di tirare un sospiro di sollievo, che non saremmo mai stati costretti ad andarcene dal paese, che sarebbe bastato avere un po’ di pazienza finché la nuova élite politica non fosse riuscita a ricostruire il sistema, che non avremmo più dovuto scendere in piazza, che avremmo potuto dedicarci alle nostre vite, lavorare, costruire una famiglia, goderci la pensione.

Ho passato la mia giovinezza a quelle proteste. E non me ne pento. È stato difficile. È stato pericoloso. Ma è stato anche bello. Ed è stato necessario.

Pensavo che non avrei mai più dovuto protestare. Lo pensava la maggior parte dei miei coetanei. E di quelli un po’ più vecchi di me. E di quelli molto più vecchi di me che anche adesso, ogni sabato scendono in strada per protestare; alcuni sono ormai in età avanzata, altri camminano a malapena.

Déjà vu
Sabato, 2 febbraio. Siamo arrivati in piazza. Questa volta abbiamo portato anche i nostri figli. Ovunque mi girassi vedevo facce familiari. Vedevo le stesse persone che avevano partecipato alle proteste del 1996. Siamo un po’ invecchiati ma ci riconosciamo ancora. Siamo molti. Molti di più rispetto ai sabati precedenti, così dicono. Pian piano sempre più persone si aggiungono alla manifestazione, perché evidentemente non sanno ancora che in Serbia oggi si vive meglio che mai.

L’atmosfera è noiosa. Non c’è quell’energia degli anni Novanta. Il tutto è organizzato in modo amatoriale. I relatori sono in ritardo. Li conosciamo quasi tutti. Tenevano discorsi anche negli anni Novanta. Parlano troppo a lungo. Ci fanno male i piedi. Dopotutto, abbiamo vent’anni in più.

Non c’è alcun palco, ma un camion con altoparlanti. Anche se volessi ascoltarli, non riuscirei a sentire niente. Per capire quello che stanno dicendo dovrei raggiungere le prime fila. Non so molto sugli organizzatori delle proteste. Sono giovani. Non sono membri di alcun partito politico. Non mi sembrano molto creativi e non sono sicura che abbiano idee chiare su cosa fare. Eppure, eccomi qui, alla manifestazione di protesta. Che si fa sempre più grande. E, guarda caso, ci sarò anche il prossimo weekend con la mia famiglia e i miei amici. E non si protesterà solo a Belgrado. Pian piano le proteste si estendono, come piccoli incendi, a tutto il paese. Novi Sad, Niš, Kragujevac, Požega, Kula, e anche Kosovska Mitrovica.

Protestiamo perché in Serbia non si riesce più a respirare. È stato cancellato quel poco di democrazia che avevamo conquistato. Un uomo decide tutto. Gli esponenti del partito al governo assomigliano a clown. Ogni notizia pubblicata viene accompagnata da elogi ad Aleksandar Vučić. Siamo stufi di ascoltare che Vučić non dorme di notte perché si preoccupa di noi. Ci viene la nausea a sentirlo parlare a mezza voce di come si dimetterà quando glielo chiederà il popolo. O quando dice che non cederà alle richieste dei cittadini che protestano nemmeno se fossero in cinque milioni.

Siamo di nuovo diventati – come diceva anche la propaganda del regime di Milošević – mercenari al soldo degli stranieri e traditori della patria. Ci tornano in mente tutte le immagini degli anni Novanta, quando l’attuale presidente diceva quello che pensava veramente, cioè, giusto per ricordare, l’ideologia dell’odio nei confronti del diverso. Dall’odio non può nascere l’amore.

Perché protestare
Protestiamo per le pensioni tagliate e per gli stipendi che non ci permettono di vivere dignitosamente, e questo nonostante un surplus di bilancio. Protestiamo perché non abbiamo più né il parlamento, né il governo, né i tribunali, né le procure, né alcuna istituzione indipendente.

Abbiamo solo il presidente. E quelli che la pensano come lui e non temono nulla. I media non sono liberi, ad eccezione di poche emittenti che coprono solo Belgrado e la Vojvodina e alcuni giornali a bassa tiratura. La Radio televisione della Serbia ha quasi superato quello che faceva negli anni Novanta. Chi si informa attraverso il servizio pubblico forse non sa nemmeno che in Serbia sono in corso le proteste. Ogni notizia, su qualsiasi emittente televisiva inizia con queste parole “Il presidente Aleksandar Vučić…” e così per venti minuti.

Protestiamo contro la crescente povertà dei cittadini e contro l’arricchimento vergognoso delle persone vicine al governo. Protestiamo per le leggi abolite, per il progetto Belgrado sull’acqua e il caso Savamala, per i criminali con dei passamontagna in testa che di notte distruggono quello che vogliono, per i criminali che decidono delle nostre vite, per le luminarie natalizie a Belgrado che brillano da settembre ad aprile, mentre i soldi spesi per acquistarle potrebbero essere usati per risolvere problemi sempre più numerosi.

Siamo scesi in strada a causa dell’arroganza che non conosce limiti, a causa di politici incapaci, semianalfabeti e analfabeti che non fanno altro che accondiscendere al volere del leader.

Protestiamo anche in nome dell’opposizione penosa, disorganizzata e colpevole di molte cose.

Protestiamo perché non abbiamo altra scelta. Protestiamo per salvare la nostra vita e quel poco di dignità che ci è rimasta.

Dicono che in Serbia non si è mai vissuto meglio.

Mentono spudoratamente
.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #196 il: Febbraio 15, 2019, 17:50:36 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/96065

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Bucarest non vuole una romena a capo della Procura europea anti-corruzione
Francesco Magno  5 ore fa

Due settimane fa Bruxelles ha reso noti i nomi dei candidati selezionati per la carica di procuratore capo europeo anti-corruzione. In cima alla lista troneggiava il nome di Laura Codruta Kovesi, romena di Transilvania, ex capo della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA), rimossa dalla sua funzione per volere del governo social-democratico. La Kovesi, che ha già ricevuto il sostegno di Francia, Germania, Olanda e Austria, è la grande favorita per la nomina; le battaglie condotte in Romania hanno sicuramente arricchito il suo pedigree, rendendola gradita a buona parte dell’establishment europeo occidentale. Tuttavia, venuto a conoscenza della notizia, il governo romeno ha immediatamente fatto sapere che farà tutto quello che è in suo potere per impedirne la nomina. Non si tratta di minacce vacue. Nella giornata di mercoledì, “casualmente”, è stato reso noto che la Kovesi è indagata a Bucarest per abuso d’ufficio e per concussione. La diretta interessata ha commentato accusando il governo e la voglia di vendetta nei suoi confronti. Ma perché l’esecutivo vuole bloccare la nomina di un’illustre connazionale ad una prestigiosa carica europea?

Laura Codruta Kovesi, l’incubo dei politici romeni

Laura Codruta Kovesi, ex promessa del basket femminile romeno, sposata con un ungherese di Transilvania, venne nominata capo della DNA nel 2013 dall’ex presidente Traian Basescu. Da allora, si è distinta per le sue lotte senza quartiere alla corruzione annidata nei più alti ambienti della politica e dell’amministrazione nazionale; molti politici di spicco sono stati arrestati a seguito delle sue inchieste, sebbene molti le abbiano spesso imputato una condotta troppo dura e al limite delle regole consentite dalla legge. Nel 2018, su iniziativa del ministro della Giustizia, la Kovesi è stata rimossa dalla sua carica, lasciando la DNA priva di una guida. Il suo allontanamento è stato salutato come una vittoria dal leader del partito social-democratico, Liviu Dragnea, coinvolto anch’egli in numerose inchieste per reati di corruzione. In Romania, l’ex procuratrice capo è assurta a simbolo di quella parte di paese che vuole combattere il malaffare del passato, tanto da diventare una delle personalità con il più alto indice di gradimento tra la popolazione, più del presidente della Repubblica Klaus Iohannis.

Portare in Europa conflitti interni

Liviu Dragnea e il governo temono che da Bruxelles la Kovesi possa riprendere la battaglia interrotta a Bucarest qualche mese fa, minando quindi il microcosmo di potere che il PSD è riuscito a creare in patria. Molti esponenti della coalizione di governo, a partire dallo stesso Dragnea, hanno problemi con la giustizia. Contando su parti della magistratura fortemente politicizzate (compresa la Corte Costituzionale) essi riescono spesso a evitare processi e condanne in Romania, garantendosi l’impunità. Un’impunità che sarebbe molto più difficile da conservare in caso di un’azione forte e mirata condotta da Bruxelles e sostenuta dai più importanti paesi del continente. La notizia, uscita mercoledì, del coinvolgimento della Kovesi in loschi affari in cui lei stessa avrebbe ricevuto tangenti, assomiglia troppo ad una bomba ad orologeria, fatta esplodere nel momento più opportuno, a una settimana esatta dalla decisione finale sulla nomina di procuratore capo anti-corruzione.

Forse aveva ragione Juncker

L’ostilità governativa nei confronti della Kovesi è così forte da aver portato all’opposizione ad una connazionale in un grande concorso pubblico europeo. Il fatto diventa ancor più singolare se ricordiamo che la Romania regge attualmente la presidenza di turno dell’UE. Non meno di un mese e mezzo fa Juncker aveva dichiarato il paese impreparato ad assolvere tale funzione. Visti gli ultimi avvenimenti, forse il presidente della Commissione non aveva tutti i torti.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #197 il: Febbraio 15, 2019, 17:51:52 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/96063

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RUSSIA: Ucciso un attivista anticorruzione
Amedeo Amoretti  7 ore fa

Lunedì 11 febbraio, a Vinogradovo, l’attivista russo Dmitry Gribov è stato assalito da un gruppo di persone mascherate, armate di mazze da baseball. Gribov si stava dirigendo verso casa della madre, quando ha subito l’attacco. Un passante, rendendosi conto della situazione, ha messo in fuga gli assalitori, minacciando di chiamare la polizia. Nonostante i soccorsi, tuttavia, Gribov è morto in ospedale alcune ore più tardi.

Le indagini

Dmitry Gribov era il responsabile del centro per combattere la corruzione nel governo, un’ONG attiva nell’oblast di Mosca. Il centro si occupa di denunciare casi di corruzione e di dare supporto alle persone che vogliano accusare di tali atti sia dei privati che le autorità. Secondo quando affermato dal Presidente della ONG, Viktor Kostromin, l’attacco sarebbe “connesso alle attività pubbliche e di anticorruzione di Gribov”. Kostromin, però, ammette anche la possibilità di un collegamento a una vicenda avvenuta due anni fa. Tre uomini avevano avuto una discussione accesa con Gribov, la quale era terminata con l’incendio dell’auto dell’attivista. La questione è stata successivamente portata in giudizio e il tribunale si è espresso a riguardo proprio poche ore prima dell’attacco.

Un uomo di 57 anni, sospettato di aver fatto parte del gruppo che ha attaccato Gribov, ha confessato di aver picchiato l’attivista a causa di questioni private. Gli investigatori sono ora in cerca dei complici – come riportato da Olga Vrady, assistente del capo della direzione del Comitato Investigativo.

Un problema sociale

La vicenda che ha coinvolto Gribov non è un caso isolato. Già a ottobre 2018, il report “Apologia of protest” aveva presentato un’analisi relativa alla violenza politica in Russia. Il comunicato, redatto da Agora International, denunciava un aumento, rispetto al 2014, di minacce e di attacchi verbali e fisici contro attivisti, giornalisti e politici. Si erano infatti registrati 21 casi nel 2015, 35 nel 2016, 77 nel 2017 – mentre nell’ottobre 2018 il numero era salito a più di 80. Tra le città più pericolose, Mosca si occupava il primo posto con 52 casi, seguita da San Pietroburgo (23) e Krasnodar (15). L’analisi riportava i dati affermando che “la realtà di oggi è tale che se hai deciso di impegnarti in attivismo sociale, preparati a minacce e attacchi, oltre alla detenzione per proteste pacifiche”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #198 il: Febbraio 15, 2019, 17:56:19 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Da-Katmandu-a-Bucarest-per-un-futuro-migliore-192123

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Da Katmandu a Bucarest, per un futuro migliore

Negli ultimi trent'anni milioni di rumeni sono emigrati all'estero. Ma per far girare l'economia la Romania ha ora bisogno di manodopera, che sta drenando da paesi orientali. Un reportage

11/02/2019 -  Mircea Barbu,    David Muntean   Bucarest
(Pubblicato originariamente da Recorder  , selezionato e riadattato da Le Courrier des Balkans  )

Nel ristorante Pescăruș, a Bucarest, Sagar Chhetri sguscia tra i tavoli portando dei piatti. Poi si ferma e si rivolge ad alcuni clienti con un rumeno essenziale. Li serve e poi riparte verso la cucina. Sagar ha 30 anni. “Lavoro come cameriere per avere un futuro migliore, ed è per questo che ho scelto la Romania. Vado verso i clienti e dico loro bună ziua, bună dimineața, bună seara. Loro s'accorgono del mio accento e mi chiedono da dove vengo. Nepal, dico loro. Loro dicono frumos, io rispondo mulțumesc”.

“Sono venuto in Romania per un futuro migliore”. Parole che possono suonare strane in un paese che ha vissuto l'emigrazione recente di milioni dei suoi abitanti. Ma la dinamica della povertà nel mondo è una storia complicata. Mentre i rumeni emigrano massicciamente verso ovest, nel Sud-est asiatico la Romania è considerata come la terra promessa.

Crisi della manodopera
“Mi chiamo Ramesh Shrestha e lavoro in cucina. Guardo le trasmissioni di cucina alla tv, guardo come lavorano gli chef... Aiutavo mia madre da piccolo. Mi sono detto: andare in Romania è ok, è un paese europeo e c'è molto da imparare da altre culture culinarie. Quindi ho deciso di venire qui e sto facendo buona esperienza. La gente reagisce in modo variegato, alcuni bene altri male. In generale incontrano un nepalese per la prima volta. Alcuni ci accolgono calorosamente, altri in modo molto duro. E' normale, è nella natura umana, l'accetto. Anch'io penso farei la stessa cosa con persone che non conosco”.

Sagar e Ramesh fanno parte delle centinaia di nepalesi che lavorano in Romania. La mancanza di forza lavoro che caratterizza l'economia rumena spinge le aziende a rivolgersi all'estero e molti lavoratori provengono da paesi lontani come Filippine, Vietnam o Nepal. I nepalesi fanno parte del più recente flusso migratorio di lavoratori asiatici nel paese e trovano occupazione in ristoranti e hotel delle città più grandi, assunti da agenzie interinali.

“I cittadini rumeni non sono pronti a fare alcuni lavori, a volte per motivi psicologici altre fisici”, spiega Daniel Mischie, amministratore delegato di City Grill. “Mentre chi è originario di paesi non europei dimostrano la volontà di fare bene. E' questa la ragione per cui scegliamo cittadini stranieri. La sola differenza tra un nepalese e un rumeno è che i primi non parlano la nostra stessa lingua, ma col tempo si adattano. Alcuni lavorano anche a contatto con la clientela. Iniziano a parlare rumeno e lavorano altrettanto bene che un qualsiasi cittadino rumeno”.

“Inviano ogni mese circa 100 euro a casa loro, in Nepal, una somma con la quale la loro famiglia vive”, continua. “Per loro i soldi hanno un valore diverso rispetto ad un rumeno per il quale 100 euro non permettono di mantenere una famiglia o pensare di costruire una casa. All'inizio degli anni '90, quando un rumeno mandava a casa propria 100 marchi guadagnati in Germania, poteva si aiutare la sua famiglia. In breve il Nepal è come la Romania 30 anni fa, o l'Italia 80 anni fa. Queste persone sono venute qui per lavorare e per far vivere la loro famiglia, sono venuti per fare una buona cosa e non per fare del male a qualcuno”.

Il Nepal ha 30 milioni di abitanti, dieci milioni in più della Romania, ed un Pil di 13 volte inferiore. Quindi, un salario di 400-500 euro in un ristorante di Bucarest può essere un motivo sufficiente per lasciare Katmandu e trasferirsi a 5000 chilometri di distanza.

Sagar e Ramesh fanno le loro spese alla Lidl. E' un anno che sono in Romania. Le ragioni che li hanno spinti a lasciare il Nepal non sono diverse da quelle dei milioni di rumeni partiti per lavorare nell'Europa dell'ovest. I loro appartamenti a Militari, periferia ovest di Bucarest, assomigliano a quelli dei lavoratori rumeni a Madrid, Torino o Londra. A differenza che invece di sentire il timo, le stanze profumano di curry piccante, soprattutto durante i giorni liberi quando i nepalesi cucinano i loro piatti tradizionali.

Rientrando nel loro appartamento i nepalesi incrociano un anziano vicino che si lamenta. “Siete al nono piano? Non lasciate la porta dell'ascensore aperta il mattino. Mi sveglio alle 4 e la porta è aperta”. “E' qualcun altro, non noi”, risponde Sagar in rumeno. “Non lo so, la porta è aperta alle 4 e mezza del mattino”. “Non c'è nessuno di noi che esce alle 4 e 30 del mattino, non siamo noi”, ribadisce Sagar prima di entrare in ascensore con le borse della spesa.

Sagar e Ramesh vivono assieme ad altri tre nepalesi. L'appartamento è stato affittato loro dal datore di lavoro. E' quasi vuoto: una vecchia poltrona, letti a castello, valige, sembra più un dormitorio che un appartamento. Almeno la visuale dalle finestre è aperta e entra della luce. Gli amici lavorano tutti nello stesso ristorante di Bucarest. Alla fine del mese inviano la gran parte dello stipendio alle famiglie in Nepal. “Ne conservo un po' per me ma la maggior parte, il 70%, lo invio alla mia famiglia”, spiega Sagar. “Io spendo il 25% del totale, loro ne spendono il 25% per vivere e il 50% rimanente lo risparmiamo per il futuro”.

“In Nepal è impossibile trovare un buon lavoro e quando se ne trova uno il salario è a malapena sufficiente per pagare le bollette. E' per questo che molti giovani partono per l'estero. Se trovassi a casa mia un lavoro da funzionario, guadagnerei dai 175 ai 190 euro al mese. Lavorando in un ristorante invece non guadagnerei proprio niente, lavorerei solo in cambio di cibo”.

Famiglie divise
Nei giorni liberi gli uomini cucinano dei piatti nepalesi e parlano al telefono con famiglia ed amici. “Mi ha chiamato mia moglie dicendomi che le manco”, racconta Ramesh. “Ma cosa posso farci? Non ho altre possibilità. Mi manca trascorrere del tempo con lei. Mi chiama ogni volta che ho un po' di tempo e sono a casa. E' stata recentemente nel villaggio dove siamo cresciuti entrambi. A volte mi sento male a pensarla tutta sola là. Speriamo a breve di poter ritornare a stare assieme”.

“Mi manca mia figlia, la mia famiglia, i miei amici”, racconta Sagar. “Ho una figlia di un anno e mezzo. Quando vedo bambini al ristorante mi vien voglia di chiamare a casa. Sono partito in modo da dare a loro un futuro migliore. Voglio che mia figlia studi, che rimanga in Nepal. Non voglio che sia obbligata a partire all'estero e per questo che lavoro e che sono tutto solo qui”.

Sagar e Ramesh dicono di essersi abituati alla Romania. Si sono abituati ai loro colleghi, all'inverno e agli inquilini del loro stabile. Considerano questa stagione della loro vita come un sacrificio fatto in nome dei loro figli.

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #199 il: Febbraio 16, 2019, 01:18:47 am »
Forse aveva ragione Juncker

L’ostilità governativa nei confronti della Kovesi è così forte da aver portato all’opposizione ad una connazionale in un grande concorso pubblico europeo. Il fatto diventa ancor più singolare se ricordiamo che la Romania regge attualmente la presidenza di turno dell’UE. Non meno di un mese e mezzo fa Juncker aveva dichiarato il paese impreparato ad assolvere tale funzione. Visti gli ultimi avvenimenti, forse il presidente della Commissione non aveva tutti i torti.

Ambè, se lo dice lui, allora c'è da dargli retta  :D
https://it.wikipedia.org/wiki/Luxemburg_Leaks

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #200 il: Febbraio 16, 2019, 01:52:40 am »
Tralasciando per un momento le affermazioni di quell'ubriacone di Juncker, è comunque vero che il governo rumeno è totalmente impreparato a reggere la presidenza dell'UE.
Lo stesso presidente della Romania è di quel parere.

http://www.eastjournal.net/archives/95576

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La presidenza più bistrattata

Nessuno stato membro all’alba del suo turno di presidenza ha ricevuto più critiche e sberleffi della povera Romania; persino l’uomo che più di ogni altro dovrebbe difenderla, il presidente Klaus Iohannis, l’ha definita totalmente impreparata a guidare la combriccola europea: da queste parti, a quanto pare, ogni scarrafone non è bello a mamma sua.

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #201 il: Febbraio 16, 2019, 02:02:18 am »
Non mi riferivo tanto al cognac, quanto al fatto che un personaggio più "unfit" di lui per la carica che ricopre non credo esista (vedi link)
E sentir pontificare uno che ha fatto il presidente di un paradiso fiscale mi dà alquanto sui nervi
Per il resto ho la netta impressione che molti paesi dell'est vedano l'UE e tutto ciò che la riguarda più come una minaccia che un'opportunità (e hanno ragione), dunque tendano a tenersene fuori

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #202 il: Febbraio 16, 2019, 18:31:08 pm »
Non mi riferivo tanto al cognac, quanto al fatto che un personaggio più "unfit" di lui per la carica che ricopre non credo esista (vedi link)
E sentir pontificare uno che ha fatto il presidente di un paradiso fiscale mi dà alquanto sui nervi

Guarda che in merito a Juncker con me sfondi una porta aperta, eh...

Offline gluca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #203 il: Febbraio 16, 2019, 18:41:16 pm »
La mia osservazione non era sulla correttezza della predica, ma sul pulpito dal quale proveniva..
Sull'inadeguatezza altrui, costui dovrebbe, per pudore, soltanto tacere

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #204 il: Febbraio 16, 2019, 18:43:58 pm »
La mia osservazione non era sulla correttezza della predica, ma sul pulpito dal quale proveniva..
Sull'inadeguatezza altrui, costui dovrebbe, per pudore, soltanto tacere

Eh, appunto...

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #205 il: Febbraio 16, 2019, 19:27:38 pm »
A sentirlo, pare di sentire il classico bue che dà del cornuto all'asino
Non ha manco il senso del ridicolo
Un'affermazione di quel tipo lui era l'ultimo al mondo a potersela permettere

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #206 il: Febbraio 20, 2019, 00:33:31 am »
http://www.eastjournal.net/archives/96147

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ALBANIA: Opposizione all’assalto del governo
Marco Siragusa  12 ore fa

Sabato 16 febbraio le opposizioni albanesi, guidate dalla formazione di centrodestra del Partito Democratico, hanno convocato una grande manifestazione a Tirana per chiedere le dimissioni del premier socialista Edi Rama e la creazione di un governo tecnico che porti il paese ad elezioni anticipate. Alla protesta hanno preso parte migliaia di persone provenienti da tutto il paese, mentre a Valona il premier incontrava i suoi sostenitori in una sorta di sfida a distanza tra governo e opposizione. Nella capitale la contestazione ha assunto caratteri violenti con l’assalto di un gruppo di manifestanti alla sede del governo, respinto dall’interno dalla Guardia Repubblicana con l’utilizzo di idranti e gas lacrimogeni.

La situazione

Dalla fine del comunismo in poi, il paese è stato segnato dal perenne scontro tra il Partito Socialista (PS) e il Partito Democratico (PD). Le scelte economiche adottate dal primo governo post-comunista del PD provocarono, a metà degli anni ’90, una pesantissima crisi economica con il fallimento dello “schema piramidale” che portò l’Albania ad un passo dalla guerra civile con la perdita dei risparmi di migliaia di albanesi. A distanza di più di due decenni il paese, nonostante i buoni risultati raggiunti in termini di PIL, deve fare ancora i conti con un sistema corrotto e incapace di dare risposte concrete alle necessità della popolazione, costringendo ogni anno tanti giovani albanesi ad emigrare.

Nel 2011, durante l’ultimo governo del PD di Sali Berisha, l’opposizione socialista organizzò una serie di manifestazioni di piazza che si conclusero con l’assalto alle sedi governative e con un bilancio di quattro morti. Sabato si è assistito, a parti invertite, alla riproposizione di questo scontro. La campagna dell’opposizione contro Rama è stata rilanciata l’anno scorso dopo che il governo è stato travolto da due scandali legati ai presunti rapporti tra la criminalità organizzata, dedita allo spaccio di stupefacenti, e gli ultimi due ministri dell’Interno, Fatmir Xhafaj e il suo predecessore Saimir Tahiri.

Negli ultimi mesi il malcontento dei cittadini albanesi si è espresso in varie forme con numerose manifestazioni, come quella degli studenti universitari. Nonostante l’insofferenza sempre più evidente della popolazione per le proprie condizioni di vita, l’ultima tornata elettorale del 2017 ha riconosciuto a Rama la maggioranza assoluta dei seggi mentre il PD ha fatto registrare il risultato peggiore della sua storia, sintomo della poca credibilità di cui gode il partito. La manifestazione di sabato sembra quindi andare ben oltre la capacità di mobilitazione dell’opposizione e non può esser considerata automaticamente come sostegno alla sua leadership.

Le reazioni

Il premier Rama in un’intervista per il Corriere della Sera ha minimizzato quanto avvenuto sabato a Tirana affermando che “non sta succedendo nulla” e che non ha nessuna intenzione di accettare le richieste di dimissioni avanzate dalle opposizioni. Dal lato opposto, l’ex presidente e premier Berisha, ancora oggi figura forte alle spalle dell’attuale leader del PD, Lulzim Basha, ha parlato di lotta contro “il narcopartito e narco-Stato di Rama”. All’indomani della protesta, inoltre, Basha ha minacciato la rinuncia al mandato dei propri parlamentari, rischiando di provocare il blocco dell’attività del parlamento. Basha ha inoltre sostenuto che “gli atti violenti sono stati commessi come parte dello scenario di violenza di Rama” lasciando intuire un atteggiamento permissivo da parte della polizia per presentare l’opposizione come violenta e non affidabile.

Dure critiche verso i fatti violenti di sabato sono arrivate dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, preoccupati per un’eventuale escalation della tensione. La delegazione dell’UE a Tirana ha rilasciato un comunicato in cui si esortano le parti “a fare tutto il possibile per evitare ulteriori violenze e disagi”. Dello stesso tono il tweet pubblicato dall’ambasciata statunitense con la ferma condanna “delle violenze e delle distruzioni che hanno avuto luogo durante le proteste”.

I prossimi appuntamenti

Il silenzio dei due principali partner internazionali sui motivi della protesta e su una possibile soluzione della crisi mostrano uno scarso sostegno alle rivendicazioni dell’opposizione. Senza l’appoggio di UE e Stati Uniti sembra piuttosto complicato per il PD riuscire a spodestare il premier, che può contare ancora su una solida maggioranza parlamentare. A detta dei leader delle proteste, queste continueranno fino a quando non sarà raggiunto l’obiettivo delle dimissioni di Rama e della convocazione di nuove elezioni. La piazza è stata riconvocata per la mattinata di giovedì 21. Ci si aspetta una più bassa partecipazione rispetto a sabato ma non sono da escludere ulteriori momenti di tensione tra polizia e manifestanti.

L’abbandono della lotta parlamentare in favore del ricorso alla piazza da parte del PD rischia di alimentare le profonde tensioni presenti nella società albanese, con il pericolo che la situazione possa sfuggire al controllo del partito stesso. La primavera, in Albania, si prospetta come un periodo molto caldo per le sorti del paese nel prossimo futuro.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #207 il: Febbraio 24, 2019, 18:59:09 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-Europa-piu-lontana-con-l-opposizione-fuori-dal-parlamento-192913

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Albania: Europa più lontana con l’opposizione fuori dal parlamento

Alcune immagini della manifestazione di giovedì 21 febbraio pubblicate sulla pagina Facebook del leader del Partito democratico albanese Lulzim Basha

Dopo la tumultuosa manifestazione di sabato scorso a Tirana, l’opposizione di centrodestra ha lasciato il parlamento ed è tornata in piazza per chiedere un governo di transizione ed elezioni anticipate
 
22/02/2019 -  Tsai Mali  Tirana
Parlamento circondato di filo spinato, protetto da un folto cordone della polizia, migliaia di cittadini in piazza, giornalisti albanesi e stranieri in prima linea, muniti di maschere antigas. È iniziata così la seconda manifestazione dell’opposizione albanese, giovedì 21 febbraio, nel timore di nuovi scontri, con gli avvertimenti delle autorità di polizia che avevano denunciato possibili scenari di irruzione dei manifestanti nell’aula parlamentare e perentori appelli a rispettare le istituzioni e l’ordine pubblico da parte di tutte le organizzazioni internazionali accreditate nel paese. Temendo disordini, il presidente del parlamento, Gramoz Ruçi, aveva annullato a poche ore dall’inizio la plenaria prevista per il giorno della manifestazione, invitando l’opposizione a manifestare il dissenso dentro le istituzioni e l’assemblea nazionale.

In questo clima di tensione crescente, la mattina di giovedì, i manifestanti si sono riuniti alla piazza davanti parlamento con fasce bianche legate alle braccia in segno di pace, hanno ascoltato per qualche ora i discorsi dei deputati, hanno gridato in coro “Rama, vattene” e sono poi confluiti nella sede del Partito democratico, dove con il leader Basha hanno intonato l’inno nazionale. Tre ore dopo, la manifestazione si è conclusa, senza scontri e incidenti di nessun tipo. Ne seguiranno altre, a Tirana e in tutto il paese. “Il viaggio verso la speranza è appena iniziato”, sostiene Basha.

Via dal Parlamento
Con la faziosità di voler dettare le regole anche se in minoranza, e manovrando una folla di fedeli che ancora risponde ai comandi del partito, il Partito democratico di Lulzim Basha e il Movimento socialista per l’integrazione di Monika Kryemadhi chiedono le dimissioni del premier Rama e un governo di transizione che porti il paese alle urne con anticipo di due anni.

Come annunciato da qualche giorno, su proposta di Basha, tutti i deputati dell’opposizione hanno deciso all’unanimità di rimettere i propri mandati e uscire definitivamente da un parlamento che ritengono sia risultato della collusione dell’attuale governo con la criminalità organizzata.

Giovedì, con la manifestazione ancora in corso, i deputati dell’opposizione hanno depositato in parlamento le lettere di dimissioni, mentre nei prossimi giorni, tutti i candidati nelle liste elettorali del 2017, presenteranno una dichiarazione di rinuncia, per bloccare anche la normale procedura di sostituzione dei deputati dimissionari.

La vaga legislazione in merito a dimissioni di gruppo potrebbe rendere lunga e contorta l’iniziativa dell’opposizione, come è anche presumibile che la maggioranza proverà a prendere tempo, nella speranza di eventuali ripensamenti o negoziati ma, al netto degli adempimenti formali, il dato politico è chiaro: in questo modo, tutti i seggi del parlamento d’Albania appartengono alla maggioranza di Edi Rama. Per il paese, la situazione è senza precedenti.

Palla alla maggioranza
Sulla possibilità di dimettersi e andare ad elezioni anticipate, Edi Rama non ha mai avuto dubbi: sarebbe come chiedere alla Juventus di “arretrare in classifica, ricominciando da capo il campionato…senza Ronaldo”, aveva detto il premier al Messaggero il giorno prima della manifestazione. Ma, dopo la chiusura dei primi giorni e l’iniziale scetticismo verso il gesto di autoesclusione dell’opposizione, la prospettiva ormai sempre più vicina di un parlamento monocolore, ha evidentemente portato Rama a fare un passo indietro: niente dimissioni, ma un invito al dialogo, incentrato sul rafforzamento della democrazia e non sulla retorica della violenza e sull’imposizione dei rapporti politici. Una mano tesa e un segnale di riconoscimento della crisi istituzionale che sta investendo il paese, che l’opposizione ha subito respinto al mittente.

Percorso europeo sempre più a rischio
Il 29 giugno scorso, i leader dei 28 stati membri hanno approvato la decisione di indicare il giugno del 2019 come probabile data per l'apertura dei negoziati di adesione con l'Albania. Un “no” all’avvio immediato, ma comunque un’apertura affatto scontata, sostenuta dall’Italia ma fortemente contestata da diversi paesi, tra cui Francia e Olanda.

Nella giornata di giovedì, a manifestazione iniziata, l'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, e il Commissario alle politiche di vicinato e per i negoziati sull'allargamento, Johannes Hahn, hanno fermamente condannato ogni tipo di incitamento alla violenza, così come la decisione dell'opposizione di rimettere i mandati. Per l’Unione europea si tratta infatti di atti controproducenti, che minano i progressi compiuti dal paese nel percorso di integrazione.

In attesa di vedere a cosa porterà questo nuovo braccio di ferro tra governo e opposizione, sembra che la lotta per il potere tra partiti e il conseguente stallo del funzionamento delle istituzioni albanesi abbia già presentato il primo conto da pagare al paese: un “no” sempre più probabile all’appuntamento con il Consiglio europeo alla fine di giugno.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #208 il: Febbraio 24, 2019, 19:04:28 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Come-le-mafie-sono-arrivate-in-Slovacchia-192863

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Come le mafie sono arrivate in Slovacchia

Prima la mafia balcanica e poi la 'Ndrangheta. La Slovacchia dal 1993 è diventata un luogo ambito dalla criminalità internazionale. Di questo si occupava il giornalista Ján Kuciak assassinato un anno fa insieme alla fidanzata Martina Kušnírová

21/02/2019 -  Pavla Holcová,    Cecilia Anesi,    Luca Rinaldi,    Karatína Jánošíková
(Originariamente pubblicato dal portale di giornalismo investigativo OCCRP  per la serie "Unfinished Lives, Unfinished Justice")

Le mafie dei Balcani sono state le prime grandi organizzazioni criminali ad approdare in Slovacchia, a seguito di corregionali che erano stati invitati a lavorare e studiare lì durante il periodo comunista. Mentre i loro affari si diffondevano nella nuova patria, anche la loro influenza ha iniziato ad imporsi in quegli unici settori criminali possibili sotto il regime comunista: la prostituzione, il gioco d'azzardo e il riciclaggio di denaro sporco. Quando la Slovacchia ha conquistato l'indipendenza nel 1993, i gruppi di criminalità organizzata sono rimasti e hanno iniziato a prosperare. Molto presto, la mafia italiana ha raggiunto le sue controparti (ex)jugoslava e albanese.

Oggi - nonostante sia conosciuta per la sua transizione indolore dal regime comunista e per i suoi paesaggi pittoreschi - la Slovacchia pullula di gruppi di criminalità organizzata da tutto il continente. Non solo perché i corpi di polizia ed il sistema giudiziario sono mal preparati ad affrontare questa affluenza; in molti casi, i criminali sono coinvolti negli affari politici e hanno accordi con i potenti, tra cui l'ex Primo Ministro e un giudice della Corte Suprema. Il risultante legame tra crimine organizzato e corruzione politica è notoriamente difficile da eradicare. Ed è anche letale: diversi anni fa, il giornalista slovacco Ján Kuciak aveva iniziato un'inchiesta sul crimine organizzato nel suo paese, collaborando con i reporter internazionali dell'OCCRP; si era concentrato prevalentemente sulle operazioni della mafia italiana 'Ndrangheta  , uno dei gruppi più noti e temuti al mondo. Mentre i giornalisti si avvicinavano lentamente alla pubblicazione delle loro scoperte, il 21 febbraio 2018 Kuciak e la sua fidanzata Martina Kušnírová - entrambi di 27 anni - sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco nella loro nuova casa appena fuori Bratislava, la capitale slovacca.

Nelle settimane seguenti, migliaia di persone sono scese nelle strade della capitale per chiedere giustizia. Il Primo Ministro Robert Fico e tre dei suoi ministri hanno dato le dimissioni, a causa delle accuse pubbliche sul fatto che lo stato mostrasse negligenza o fosse complice negli omicidi. OCCRP ha così denunciato  che l'assistente di Robert Fico, Mária Trošková, era la socia d'affari di un uomo che era stato indagato per contatti con la 'Ndrangheta. L'ufficio delle pubbliche relazioni del partito di Fico (Smer) non ha risposto alle richieste di un commento. Quattro persone sono state accusate degli assassinii, ma i mandanti non sono ancora stati trovati. Rimangono alcune domande chiave: come ha fatto la mafia a diventare così potente in Slovacchia? Quanto in profondità è penetrata nella politica, nell'economia e nel futuro del paese? E più importante, ci sarà giustizia per Ján e Martina?

Una cattiva reputazione
Dopo la caduta del comunismo e la simultanea scissione della Slovacchia dalla Repubblica Ceca nel 1993, il paese si trovò impreparato ad affrontare il crimine organizzato. La maggior parte dei suoi ufficiali di polizia, procuratori e giudici non avevano esperienza nell'investigare, condannare o accusare questo tipo di criminali. Molti ufficiali non conoscevano neanche i capi delle operazioni criminali nelle loro comunità - o erano troppo corrotti per interessarsene. Un poliziotto italiano che ha parlato sotto anonimato ha riferito all'OCCRP che la polizia slovacca non godeva di una buona reputazione al tempo: le autorità italiane non ne avevano fiducia e non condividevano dati sensibili per paura che le controparti slovacche li avrebbero fatti trapelare. Più di due decenni dopo, i problemi non sono stati risolti.

Nel 2015, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America ha riconosciuto la giurisdizione slovacca come "di primaria importanza" nel suo International Narcotics Control Strategy Report (Rapporto strategico sul controllo internazionale degli stupefacenti). Il paese è stato indicato come avente "un alto livello di crimine organizzato interno e internazionale, originario soprattutto del Sud e dell'Est Europa". "La Slovacchia è un paese di transito e un paese destinatario per beni contraffatti e di contrabbando, automobili rubate, frodi in materia di imposta sul valore aggiunto e traffico di persone, armi e droghe illegali", recita il rapporto. "Molti dei gruppi criminali organizzati sono coinvolti nel riciclaggio di denaro sporco proveniente da queste attività illecite". "Know Your Country", un sito focalizzato sui flussi finanziari illeciti internazionali, ha etichettato la Slovacchia come un paese di medio rischio  , una denominazione che denota dubbi riguardo la sua abilità di indagare in modo indipendente i crimini finanziari e di assistere altri paesi nel congelamento dei beni di possibili criminali.

I ruggenti anni '90
Una nuova ondata di gruppi criminali, soprattutto dall'Albania, è giunta in Slovacchia dopo la caduta del comunismo. Ancora isolati sotto il loro paranoico leader comunista, Enver Hoxha, gli albanesi sono stati costretti a fare affidamento a legami familiari e sotterfugi nella vita privata e negli affari. Allora, durante la sua transizione confusionaria verso il capitalismo, l'economia del paese è collassata sotto il peso di schemi piramidali enormi. Nel 1997 il governo albanese venne deposto e più di 2000 persone furono uccise in una serie di azioni che degenerarono in una guerra civile. Dopo aver perso tutto, molti albanesi hanno puntato all'estero per ricominciare da capo. Alcuni gruppi criminali si sono diffusi nel resto del mondo e molti di questi hanno trovato un porto sicuro in Slovacchia. Così sicuro, infatti, che il boss (di origini albanesi) di un traffico di eroina era in buoni rapporti con il giudice della Corte Suprema slovacca Stefan Harabin, che in seguito è diventato il ministro della Difesa e, infine, presidente della Corte Suprema. Attualmente è candidato alla presidenza.

Nel 1994, una chiamata amichevole tra Harabin e il trafficante di eroina, Baki Sadiki, fu registrata tramite un'intercettazione. Quando il verbale della conversazione fu rilasciato alla stampa nel 2008, la rivelazione che i due si erano incontrati di persona e che erano in rapporti confidenziali causò uno scandalo.

Nonostante la registrazione, Harabin ha dichiarato che non conosceva Sadiki e che il loro unico collegamento era attraverso la moglie di Sadiki, che Harabin conosceva prima che questi si sposassero. Sadiki fu arrestato nel suo paese, il Kosovo, e nel 2012 fu estradato in Slovacchia, dove sta attualmente scontando una condanna di 22 anni per accuse di spaccio, che includono aver contrabbandato eroina dalla Turchia in Slovacchia. Dopo la sua conferma alla presidenza della Corte Suprema, Harabin ha fatto causa all'ufficio del Procuratore generale per aver confermato pubblicamente la veridicità della chiamata privata, danneggiando così la sua reputazione. A Harabin, vincendo la causa, è stata concessa un'indennità di 150.000 euro  di danni per quella che è stata giudicata come un'erronea procedura ufficiale; il caso è ancora in appello. Harabin ha anche minacciato di far causa agli organi di stampa che hanno riportato lo scandalo.

In base a cablogrammi diplomatici statunitensi trapelati su WikiLeaks, Harabin era altresì dietro il tentativo di chiudere la corte speciale creata per processare i casi di corruzione e di criminalità organizzata. Il cablo rileva inoltre che "ha proposto la revisione del codice penale, riducendo gli strumenti della pubblica accusa e diminuendo le sentenze per i delinquenti recidivi". Harabin ha perso la sua posizione come presidente della Corte Suprema nelle elezioni del 2015 ed è candidato attualmente per guidare il paese. Il primo round di elezioni è il 16 marzo (2019). Harabin non risponde a telefonate o email che chiedono commenti al riguardo.

Cittadinanza in vendita?
Un passaporto slovacco, che rilascia un accesso facile all'intera Unione Europea, è un oggetto di valore per qualsiasi aspirante trafficante di droga. Nonostante per acquisirne uno sia richiesta una fedina pulita, dei giornalisti hanno riportato che almeno due importanti criminali serbi sono riusciti nell'impresa.

Dragoslav Kosmajac, il presunto creatore di un'importante "via della droga" nei Balcani, ha ricevuto la cittadinanza slovacca nella capitale, Bratislava, nel 2004. Il suo ruolo non è stato reso pubblico fino al 2014, quando il Primo Ministro serbo Aleksandar Vučić ha denunciato come Kosmajac - descritto come il più importante narco-trafficante nei Balcani - sia riuscito a fuggire dalla giustizia serba con un passaporto slovacco. Successivamente è tornato nella sua patria natia, senza però essere posto di fronte all'accusa di spaccio. Il suo avvocato, Đorđe Simić, ha sottolineato come ogni causa contro il suo cliente sia stata ritirata. Il governo slovacco ha iniziato ad irrigidire le sue leggi sull'immigrazione dal 2005; solamente un anno dopo, tuttavia, Darko Šarić (un narco-trafficante di spicco nella scena illegale serba) è riuscito ad ottenere la cittadinanza slovacca. Otto anni dopo, sarebbe stato arrestato in Sud America, con accuse di contrabbando di cocaina e riciclaggio di denaro sporco, e portato in Serbia. Dopo un processo piuttosto lungo, Šarič è stato condannato a 20 anni di prigione; sentenza che è stata poi ribaltata dalla corte d'appello e un secondo processo gli ha infine comminato 15 anni di reclusione. L'avvocato di Šarič non ha ancora risposto a nessuna chiamata o email alla ricerca di un commento. "Qualcuno deve aver ricevuto molti soldi per aver venduto la cittadinanza slovacca a un boss della droga" ha affermato nel 2014 Miroslav Lajčák, ministro slovacco per gli Affari Esteri, dopo aver discusso dell'argomento con il Presidente.

"Compra! Compra! Compra!"
Non sono stati solo i criminali provenienti dall'ex Jugoslavia a trasferirsi in Slovacchia. "La caduta del muro di Berlino e il collasso dell'Unione Sovietica negli anni '90 sono risultati nell'apertura dei confini Est europei", ha detto il criminologo ceco Petr Kupka. "Questo ha portato alla creazione di nuove opportunità per i gruppi criminali organizzati". Tra questi, hanno avuto una certa importanza quelli italiani. Il giorno stesso in cui è caduto il muro di Berlino, un'intercettazione tedesca  ha rivelato che la 'Ndrangheta calabrese era pronta per muoversi più ad Est. Un membro del gruppo è stato sentito ordinare ad un suo collaboratore tedesco: "Kaufen! Kaufen! Kaufen" ("Compra! Compra! Compra!"). La 'Ndrangheta ha cercato di investire buona parte del denaro acquisito con riscatti e sequestri di ricchi imprenditori italiani provenienti dalle regioni settentrionali. I fatiscenti palazzi della Berlino Est erano un buon punto di partenza. Questo era solo l'inizio: le porte dell'Est Europa, tra cui la Slovacchia, stavano per aprirsi.

Fuori dalla Calabria
La 'Ndrangheta è l'unica mafia italiana che si basa su una ristretta struttura familiare, ed anche se il centro nevralgico è situato in Calabria, molti membri sono spesso mandati all'estero per espandere le operazioni del gruppo. In questi casi, il lavoro è ancora seguito, benché in maniera sempre più sporadica, dal Sud Italia. "La mente della 'Ndrangheta risiede in Calabria, dove si cerca di organizzare la conquista del mondo" dice Giuseppe Lombardo, un importante procuratore anti-mafia di Reggio Calabria. "Ha molte cellule, che si estendono internazionalmente, e ognuna di esse ha un compito: infiltrarsi, investigare, crescere in potenza... L'idea è di continuare ad essere operativi anche senza i continui controlli del direttorato della 'Ndrangheta". Inoltre, afferma il procuratore, "le cellule operative della 'Ndrangheta all'estero si comporteranno come investitori di capitale, sembreranno degli imprenditori e investiranno in diverse aree di profitto: dall'agricoltura ai ristoranti, dall'energia rinnovabile alla finanza, dall'educazione alla consulenza."

Alla fine degli anni '80 membri di una famiglia della 'Ndrangheta, i Gallicianò, si sono spostati vicino a Visp, una città nel sud della Svizzera. Un'altra famiglia, storicamente connessa a quella sopracitata, i Rodà, vi si sono trasferiti a loro volta. Il loro obbiettivo era scappare dalle faide sanguinose che avevano luogo a casa e costruire nuove opportunità in terre più ricche di quelle prettamente rurali della Calabria, che in ogni caso era già sotto il controllo di famiglie più abbienti. Un membro dei Rodà, un esperto allevatore chiamato Diego, si è trasferito a sua volta dalla Svizzera alla Slovacchia negli anni '90. Lì ha comprato una proprietà e ha continuato a fare l'allevatore, riuscendo finalmente a stabilire l'impresa di successo di allevamenti che lo ha reso ricco. (Diego Rodà non è mai stato condannato per nessuna accusa legata alla criminalità organizzata.) La famiglia Rodà è ora ben stabilita in Slovacchia e controlla ampie parti del settore agricolo nell'Est del paese. Un investigatore proveniente dal paese dei Rodà in Calabria, che ha richiesto di rimanere anonimo in quanto non autorizzato a parlare dell'argomento, ha detto all'OCCRP che la famiglia è localmente conosciuta per essere diventata ricca e potente in Slovacchia senza aver destato nessun sospetto di collegamento con il crimine organizzato.

"Mentre alcuni membri della famiglia Rodà in Calabria li abbiamo indagati in due diverse operazioni - Ramo Spezzato e El Dorado - i loro parenti che si sono trasferiti in Slovacchia sono usciti dai nostri radar," ha sottolineato Antonio De Bernardo, procuratore in Calabria per la lotta contro la mafia. "E questo perchè quando degli italiani si trasferiscono all’estero, è per noi complesso seguirne le tracce. In generale, come Procura Antimafia, abbiamo il problema di doverci confrontare con controparti che non riconoscono il tipo di reato, l’associazione mafiosa. Avremmo bisogno di istituire una procura internazionale antimafia, o ancora meglio un sistema di norme condiviso che permetta di inseguire gli stessi reati - per esempio quello di mafia - anche fuori dall’Italia." Ha ribadito De Bernardo, aggiungendo che l'accusa per crimini di tipo mafioso esiste in Italia e in pochi altri paesi.

Mentre Diego Rodà continuava a costruire il suo impero in Slovacchia, è riuscito anche ad attingere alle risorse e alle abilità di un'altra famiglia calabrese, i Vadalà. Antonino Vadalà, un allevatore calabrese, ha sposato la figlia dei Rodà, Elisabetta, e la coppia si è anch'essa trasferita in Slovacchia.

Antonino Vadalà è diventato un protagonista centrale nella storia di Ján Kuciak. Il giornalista slovacco ucciso stava investigando la famiglia calabrese e le sue connessioni con il Primo Ministro Fico quando fu assassinato. Appena dopo la morte, Vadalà fu accusato da procuratori italiani di traffico di stupefacenti per la 'Ndrangheta. Lui e Rodà sono stati entrambi detenuti in Slovacchia dopo gli omicidi, ma sono stati successivamente rilasciati senza accuse. Raggiunto dai giornalisti, l'avvocato di Rodà, Antonino Curatola, ha ribadito che il suo cliente non "è coinvolto in nessuno dei fatti di cui è stato sospettato" e che "le accuse del suo coinvolgimento o della sua famiglia nell'omicidio del povero giornalista sono del tutto infondate."

"Ancora più infondate sono le accuse di un presunto legame tra il signor Rodà e la mafia calabrese", ha specificato l'avvocato Curatola. Il legale del signor Vadalà invece non ha risposto alle email che chiedevano un commento.